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Domenico34 - La Fede - IX. La fede di Giacobbe

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    Domenico34
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    00 14/12/2010 13:48

    Capitolo 9



    LA fede di GIACOBBE



    Per fede Giacobbe, morente, benedisse ciascuno dei figli di Giuseppe e adorò, appoggiato alla sommità del suo bastone (Ebrei 11:21)

    Il particolare riferimento che lo scrittore agli Ebrei fa degli ultimi atti della vita di Giacobbe, non riguarda tanto la benedizione impartita ai suoi dodici figli quanto la benedizione che venne data ai due figli di Giuseppe: Manasse ed Efraim. A prima vista potrebbe sembrare strano come tralasciando una lunga descrizione della benedizione che avesse dato ai suoi dodici figli, lo scrittore agli Ebrei si occupi solo della benedizione data ai due figli di Giuseppe.

    Ma valutando giustamente questa benedizione, non tanto per la vita stessa dei figli di Giuseppe, quanto per quella di Giuseppe stesso, c’è da apprezzare l’inserimento di questo richiamo, per quanto riguarda lo scopo che lo scrittore agli Ebrei si prefiggeva, nell’inserire Giacobbe nel numero della lista degli uomini di fede. Non c’è niente di particolare in questa benedizione impartita dal vecchio Giacobbe ai due figli di Giuseppe, se non il modo in cui venne data: quando incrociando le sue braccia, pose la sua mano destra sul capo di Efraim e la sua sinistra su Manasse, invertendo così l’ordine: Manasse il primogenito prese il posto di Efraim il secondogenito ed Efraim il secondo figlio la posizione di Manasse il primo figlio.

    Questa inversione che Giacobbe operò nell’impartire la benedizione ai due figli di Giuseppe, oltre a non essere di gradimento allo stesso padre Giuseppe, rimase tuttavia invariata, nella maniera come la fissò il vecchio Giacobbe.

    Quest’ atto di inversione, non era certo secondo l’ordine di una logica umana; ma nonostante ciò venne fatto; e questo dimostrava la fede di Giacobbe, secondo la valutazione che ne fece lo scrittore Sacro.

    In altre parole, lo scrittore agli Ebrei vorrebbe dire questo: Se Giacobbe non avesse avuto fede, nell’intravedere il futuro dei suoi due nipoti, in quello che egli fece, non avrebbe benedetto i due figli di Giuseppe nella maniera come li benedisse; mettendo la sua mano destra su Efraim - secondogenito - e la sua sinistra su Manasse - primogenito -.

    Per conoscere tutta la storia di questa particolare benedizione, dobbiamo ovviamente rivolgerci al libro della Genesi. Non si può parlare dei due figli di Giuseppe, senza parlare di lui stesso; non solo perché senza il padre non si potrebbe giustificare l’esistenza dei figli, ma soprattutto perché nel significato etimologico dei nomi dei figli, c’è la narrazione di tutta la storia, dall’A alla Z, della vita di questo splendido Giuseppe.

    Infatti, il nome Manasse significa: Che fa dimenticare, ed Efraim: Doppiamente fecondo. Vale quindi la pena esaminare la sua storia, non solo per conoscerla nei suoi minimi particolari, ma soprattutto per saperne cogliere l’importanza e la ricchezza spirituale, di tutte quelle lezioni che ci vengono impartite.

    Dal matrimonio che Giacobbe contrasse con le due figlie di Labano, Lea e Rachele, - anche se la prima la prese contro la sua volontà, in seguito, dall’unione che ebbe con le due serve di Rachele e Lea, dietro il loro esplicito consenso, Giacobbe ebbe dodici figli e una figlia. I nomi dei maschi si trovano elencati in Genesi 35:23-26 e quello della femmina in Genesi 30:21.

    1. GIUSEPPE, IL PREDILETTO DI GIACOBBE

    Giuseppe, il penultimo dei figli nati a Giacobbe, era diventato il prediletto del padre.

    Or Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era il ragazzo della sua vecchiaia; e gli fece una veste lunga fino ai piedi.
    Ma i suoi fratelli, vedendo che il loro padre lo amava più di tutti gli altri fratelli, presero ad odiarlo e non gli potevano parlare in modo amichevole
    (Genesi 37:3,4).

    La storia di questo particolare amore che aveva per Giuseppe, sfociato nel dono della “lunga veste”, ha spinto qualcuno a pensare, che indicava “visivamente una superiorità di Giuseppe sui fratelli sancita dal padre”. (N. Marconi, in RB, Luglio-Settembre 1991).

    A noi sembra che questa interpretazione si spinga troppo e forzi, in maniera esagerata, il testo biblico, soprattutto se si tiene in debito conto che ancora non c’erano stati i “sogni di Giuseppe”, che stabilivano, - non secondo un piano umano e neanche un preciso desiderio di Giacobbe, ma secondo un piano divino, - la superiorità di Giuseppe sopra i suoi fratelli. Se poi questa considerazione si mette a confronto con la stessa reazione di Giacobbe, allorquando Giuseppe raccontò il suo secondo sogno:

    Egli lo raccontò a suo padre e ai suoi fratelli e suo padre lo sgridò e gli disse: Cosa significa questo sogno che hai fatto? Dunque proprio io, tua madre e i tuoi fratelli dobbiamo venire a inchinarci fino a terra davanti a te? (Genesi 37:10);

    diventa più difficile sostenere una simile interpretazione, per l’evidente contrasto che si nota. Quella “veste lunga fino ai piedi”, che poi “era una giubba, e non la sopravveste tipo mantello che l’uomo portava fuori casa, era comunemente usata perché lunga e con maniche pure lunghe; insomma una veste di lusso che poteva andar bene solo a persone che non dovevano lavorare” (Gunkel). È nominata specificatamente solo in un altro passo, come abito delle principesse reali (2 Samuele13:18).

    Anche se la “tunica con le maniche lunghe”, per uno come Giuseppe che “pasturava il gregge coi suoi fratelli”, non si addiceva tanto, sicuramente, Giacobbe, nel dare a suo figlio quella veste particolare, non era animato dal desiderio di vedere suo figlio primeggiare sugli altri figli, anche se Giuseppe, nel piano di Dio, doveva diventare il “signore dei suoi fratelli”.

    Non era certo tale la finalità di quella donazione nella mente e nell’intenzione di Giacobbe; voleva solamente dimostrare un amore particolare, per il prediletto figlio Giuseppe.

    Anche se la Scrittura dice chiaramente che l’amore particolare di Giacobbe nei confronti di Giuseppe era per il fatto che Giuseppe era il “figlio della vecchiaia”, con ogni probabilità ci saranno stati altri motivi - che noi non conosciamo, perché il Sacro testo non ce lo rivela -, che avranno indotto il vecchio padre ad agire in quel modo. D’altra parte, non possiamo minimamente pensare a Rachele, la madre di Giuseppe, dato che lei aveva solo Giuseppe come figlio, e quindi è assurdo pensare che anche lei agiva nella stessa maniera di suo marito.

    Pensiamo piuttosto a Giacobbe, il padre di tutti gli altri figli, perché mai manifestava un amore diverso per Giuseppe, non solo nella “qualità”, ma anche nella “quantità”. Sarà stato forse il carattere mite ed arrendevole di Giuseppe, che avrà attirato particolarmente l’attenzione del vecchio padre?
    Possiamo fare mille supposizioni, elaborare tante ipotesi, pensando ora ad una cosa e ora ad un’altra, senza peraltro arrivare ad una definitiva conclusione, per stabilire i “veri motivi che hanno indotto Giacobbe ad “amare Giuseppe più di tutti gli altri figli”.

    Che poi questo particolare amore di Giacobbe per Giuseppe, venne notato dagli altri figli, soprattutto per la “veste lunga” che gli era stata donata dal padre, suscitando così l’odio da parte dei fratelli, semmai rafforza il convincimento quanto sia pericoloso e catastrofico nello stesso tempo, quando i genitori fanno particolarità coi loro figli.

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    Domenico34
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    00 15/12/2010 13:02
    Nel giro di poco tempo non solo il cuore dei fratelli di Giuseppe, si riempì di tanto odio e finì anche per rompere le relazioni amichevoli. Ciò è detto chiaramente dal testo quando precisa che i fratelli non gli potevano parlare in modo amichevole (Genesi37:4).

    Questa nuova situazione venne a creare un certo distacco e una certa freddezza, tra Giuseppe e i suoi fratelli, non tanto dal primo quanto dai secondi, perché furono quest’ultimi, che non ebbero scrupoli a macchinargli perfino la morte e in un secondo tempo a procurargli tanti affanni. Non possiamo a questo punto parlare solamente del “torto” dei fratelli di Giuseppe, per l’odio che gli portavano, senza dover rilevare che la causa principale di questo loro atteggiamento ostile, risedeva nella stessa vita di Giacobbe, per il trattamento particolare che faceva a Giuseppe.

    I genitori devono fare molta attenzione a non fare “parzialità” con i loro figli, e non devono permettere che il loro amore sia diverso l’uno dall’altro se non vogliano dissensi e litigi nell’ambito della famiglia. I trattamenti particolari, da un figlio all’altro, anche se vengono spesso motivati dal fatto che uno è il primogenito e l’altro è l’ultimo dei nati, hanno sempre causato scompigli e malumori nella vita dei figli.

    Quando una piaga si apre nella vita di una famiglia - e i genitori la aprano quando fanno parzialità - difficilmente si chiude, nel senso che guarisca. Ancora giovanissimo, Giuseppe, all’età di

    diciassette anni pascolava il gregge con i suoi fratelli... Or Giuseppe riferì al loro padre la mala fama che circolava sul loro conto (Genesi 37:2).

    Generalmente si indicano due cose alla base dell’ostilità dei fratelli di Giuseppe: Il dono della “veste lunga” e il rapporto (a scopo spionistico?) che Giuseppe faceva a suo padre di tutta la “mala fama che circolava”, intorno ai suoi fratelli. Sicuramente questi due elementi avranno creato i presupposti perché i fratelli di Giuseppe non guardassero di buon occhio il loro congiunto.

    È improbabile però che Giuseppe nel rapportare al padre intorno ai suoi fratelli, si volesse già ergere sopra di loro, come qualcuno ha cercato di insinuare, definendolo “impertinente fratello minore coccolato dal padre e sfrontatamente insuperbito dai suoi sogni di grandezza”.

    L’indole di Giuseppe non era tale da alimentare un minimo sospetto di pretesa a volere essere un’”ispettore” e tanto meno “signore” sopra i suoi fratelli. Tutto quello che diremo in seguito, attraverso l’esame del testo sacro, metterà in evidenza questa nostra affermazione.

    2. I SOGNI DI GIUSEPPE

    Or Giuseppe fece un sogno e lo raccontò ai suoi fratelli; e quelli lo odiarono ancora di più.
    Egli disse loro: Udite, vi prego il sogno che ho fatto.
    Noi stavamo legando dei covoni in mezzo al campo, quand’ecco fascio si drizzò e rimase diritto, mentre i vostri covoni si raccolsero e si inchinarono davanti al mio covone
    (Genesi 37:5-7).

    L’interpretazione che venne data a quel sogno non fu da parte di Giuseppe - anche se lo stesso più tardi interpreterà, prima i sogni del “coppiere” e del “panettiere” e poi quelli del Faraone - ma i suoi fratelli, che non erano dotati di particolare virtù per interpretare i sogni. Sappiamo però che l’interpretazione che venne data a quel sogno era vera, nel senso che Dio, attraverso quel sogno, faceva arrivare un preciso messaggio alla famiglia di Giacobbe: si trattava di predire quello che sarebbe diventato Giuseppe, non per volontà e desiderio del padre, ma per volontà di Dio.

    Infatti, siccome quel sogno era una divina rivelazione di Dio, anche se passarono diversi anni, si avverò come era stato predetto. Sorgono qui spontanee alcune domande: Quale fu il vero motivo che spinse Giuseppe a raccontare il suo sogno ai suoi fratelli? Aveva egli la percezione di quello che veramente diceva il sogno? Capiva Giuseppe che quel sogno parlava della sua grandezza e della sottomissione dei suoi fratelli? Se tutto questo era chiaro nella sua mente, per quale motivo lo disse ai suoi fratelli? Era veramente Giuseppe “sfrontatamente insuperbito dai suoi sogni di grandezza?”

    Non sapeva forse egli che già i suoi fratelli l’odiavano a motivo della “veste lunga” e non gli “potevano parlare in modo amichevole” e che il sogno avrebbe aumentato lo sdegno e l’odio nei suoi confronti? Agì Giuseppe da vero “presuntuoso” e “superbo” o piuttosto da un “ingenuo”?

    Soppesando tutta la storia di Giuseppe, così come ci viene narrata dal libro della Genesi, nonché il suo carattere mite e sottomesso, siamo portati a pensare alla sua “ingenuità” piuttosto che alla sua “presuntuosità” e “superbia”. Quello che maggiormente rafforza questo nostro convincimento è il fatto che, pur sentendo dalla bocca dei suoi fratelli l’interpretazione che avevano dato al suo sogno, ne raccontò un’altro che includeva anche “suo padre e sua madre”.

    Accettava Giuseppe per vero, l’interpretazione del sogno che avevano dato i suoi fratelli? A noi sembra che Giuseppe in se stesso dicesse: I miei fratelli hanno interpretato il mio sogno nel senso che io dovrò “dominare sopra loro”; ma è vera la loro interpretazione? Io non ho mai pensato a questo e non ho nel mio cuore una simile ambizione.

    A questo punto vale la pena esaminare l’esperienza di Gedeone, l’uomo che Dio scelse per salvare il popolo d’Israele dalle mani dei Madianiti. Nonostante fosse pronto per assalire i Madianiti, gli uomini selezionati secondo un preciso criterio che Dio aveva detto, c’era un po’ di paura nella vita di Gedeone. Dio che conosce lo stato di Gedeone, gli dice:

    Levati e piomba sull’accampamento, perché io te l’ho dato nelle mani.
    Ma se hai paura di farlo, scendi all’accampamento con Purah, tuo servo,
    e udrai quello che dicono, dopo ciò, le tue mani saranno fortificate per piombare nell’accampamento.
    Quando Gedeone arrivò, ecco un uomo raccontava un sogno al suo compagno e gli diceva: Ho appena fatto un sogno; mi pareva di vedere un pane d’orzo rotolare nell’accampamento di Madian, giungere alla tenda e colpirla, così da farla cadere, rovesciarla e farla crollare.
    Allora il suo compagno gli rispose: Questo non è altro che la spada di Gedeone, figlio di Joash, uomo d’Israele; nelle sue mani DIO ha dato Madian e l’intero accampamento.
    All’udire il racconto del sogno e la sua interpretazione, Gedeone si prostrò in adorazione; poi tornò all’accampamento d’Israele e disse: Levatevi, perché l’Eterno ha dato nelle vostre mani l’accampamento di Madian
    (Giudici 7:9-11,13-15).

    Ecco un uomo che credendo ed accettando per vero l’interpretazione di un sogno, agisce in merito. Lo stesso dicasi per Faraone quando Giuseppe gli interpretò i suoi sogni. Ammesso che accettasse per vero l’interpretazione del suo sogno data dai suoi fratelli, non crediamo che sia quella ventilata superbia, della quale si è parlato.

    Il fatto stesso che nel secondo sogno si parlava: Del sole, della luna e di indici stelle che si inchinavano davanti a lui, e che lo stesso Giuseppe lo raccontò a suo padre e ai suoi fratelli, prova a nostro avviso, quanto di “ingenuo” c’era nell’animo di quest’uomo. L’interpretazione che Giacobbe dà, anche se viene espressa in forma interrogativa:

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    Domenico34
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    00 16/12/2010 14:25
    Dovremo proprio io, tua madre e i tuoi fratelli venire a inchinarci fino a terra davanti a te? (GenesiI:10)

    e il rimprovero dato dallo stesso padre, parlano chiaramente che non c’era niente di vero che Giacobbe avesse “sancito”, con il dono della “veste lunga”, la “superiorità di Giuseppe sui fratelli”.

    Davanti al racconto del secondo sogno e la relativa interpretazione che viene data dal padre loro, i fratelli di Giuseppe sono più che convinti che il loro congiunto dovrà primeggiare su loro. Ecco perché, a differenza del primo sogno, che lo odiarono ancor di più (Genesi 37:8), col secondo gli portavano invidia (Genesi 37:11).
    Anche il fatto che Giacobbe, nonostante il sonoro rimprovero dato al figlio, serbava la cosa dentro di sé, deponeva in favore, non di una sua premeditata volontà di vedere suo figlio “dominare su gli altri figli”, ma di una precisa volontà divina che tutto preparava e predisponeva perché ciò si avverasse.

    3. COMINCIANO GLI AFFANNI PER GIUSEPPE

    Or i fratelli di Giuseppe erano andati a pascolare il gregge del padre a Sichem.
    E Israele disse a Giuseppe: I tuoi fratelli non stanno forse pascolando il gregge a Sichem? Vieni, che ti manderò da loro. Egli rispose: Eccomi.
    Israele gli disse: Va’ a vedere se i tuoi fratelli stanno bene e se il gregge va bene, e poi torna a riferirmelo..
    (Genesi 37:12-14).

    La sezione narrativa di: Genesi 37:12-17, qualcuno l’ha definita “scena preparatoria”, per quello che il testo Sacro ci dirà sul futuro di Giuseppe. Gli elementi che vengono messi in chiaro in questa sezione, ci permettono di vedere il vero carattere di Giuseppe, per meglio valutare la sua vita e le sue azioni. Giuseppe sa che i suoi fratelli lo odiano e lo invidiano e che hanno già rotto quel rapporto di relazione con lui.

    Non sappiamo esattamente se Giacobbe sa che il suo figlio prediletto Giuseppe, è odiato ed invidiato dagli altri ragazzi.

    Il fatto stesso che il padre si rivolge al figlio, con la precisa intenzione di volerlo mandare dai suoi fratelli che si trovano a Sichem a pascolare il gregge, già è un indizio che ci porta a pensare almeno due cose: 1) O che Giacobbe non conosceva l’odio e l’ostilità dei figli nei confronti di Giuseppe, 2) oppure che Giacobbe, non dava troppo peso, quindi non considerava una seria minaccia per la vita del suo prediletto.

    Dovendo valutare obiettivamente le due cose, siamo propensi a pensare la prima cosa, cioè che Giacobbe non era a conoscenza del come i suoi figli stavano trattando Giuseppe. È infatti, illogico ed impensabile che, un padre mandi il proprio prediletto lontano dalla sua protezione e metterlo nelle mani di coloro che l’odiano e lo invidiano, senza nessuna preoccupazione.

    Dall’altra parte, un Giuseppe che, pur sapendo che i suoi fratelli l’odiano e lo invidiano e non possono parlargli in modo amichevole, non fa nessuna obbiezione al padre che lo vuole mandare a trovare i suoi fratelli, e tanto meno gli prospetta la probabilità di un pericolo per la sua vita. La prontezza con la quale risponde: “Eccomi”, non solo ci fa vedere che non c’è niente di ostile nella vita di questo giovane nei confronti dei suoi fratelli, ma ci dice anche che il carattere di Giuseppe era “mite e sottomesso”.

    La missione che il padre affida a Giuseppe è chiara e precisa: Va’ a vedere se i tuoi fratelli stanno bene e se il gregge va bene, e poi torna a riferirmelo. Non è certo una missione “spionistica” quella che viene affidata! E poi perché si trattava di andare a vedere i “suoi fratelli”, non i suoi nemici e neanche persone sospette.

    Vedere nell’uomo ignoto, che incontra Giuseppe, mentre vagava per la campagna, in cerca dei suoi fratelli, “un angelo mandato da Dio”, anche se si precisa: “La tradizione sia rabbinica che patristica ha percepito questo suggerimento del testo identificando nel personaggio un angelo.

    Questa identificazione, di un “angelo mandato da Dio”, è un certo correre dietro a spiritualizzazioni fantasiose, sia dei rabbini e sia della patristica, divenuti maestri in questo tipo di interpretazione a sfruttare quelle Scritture che non si prestano chiaramente.

    Un complotto preparato

    Quando Giuseppe arrivò a Dothan, dietro il suggerimento dell’uomo ignoto, il testo precisa:

    Essi lo scorsero da lontano e, prima che fosse loro vicino, complottarono contro di lui per ucciderlo.
    E dissero uno all’altro: Ecco che arriva il sognatore!
    Ora dunque venite, uccidiamolo e gettiamolo in un pozzo; diremo poi che una bestia feroce lo ha divorato; così vedremo che ne sarà dei suoi sogni
    (Genesi 37:18-20).

    La prima cosa che va notata è questa: Giuseppe va in cerca dei suoi fratelli, ma quando questi lo vedono da lontano, non pensano di chiamarlo “fratello”, ma lo definiscono “il sognatore”. L’odio e l’invidia che c’era nella mente e nel cuore di questi uomini, li porta a dimenticare che Giuseppe è un loro fratello. L’odio e l’invidia li acceca a tal punto, che prima che Giuseppe arrivasse da loro, avevano già complottato di ucciderlo e gettarlo in un pozzo.

    Questi uomini non prepararono un piano di castigo, duro e pesante, per correggere le velleità di Giuseppe, ma di ucciderlo. L’odio non è solamente crudele, è anche omicida, e chiunque si lascia trasportare, è dal maligno (1 Giovanni 3:12,15).

    La cosa che maggiormente venne messa in risalto, non era soltanto l’eliminazione della persona di Giuseppe, riguardava essenzialmente i suoi “sogni: Così vedremo che ne sarà dei suoi sogni. Una volta ucciso questo “sognatore”, saranno uccisi anche i suoi sogni. È una vera follia quando l’uomo pensa di eliminare qualcosa che non gli appartiene.
    I sogni che Giuseppe aveva avuto, non rappresentavano il frutto della sua fantasia, superbia e sete di grandezza; erano piuttosto una chiara rivelazione di una precisa volontà divina. Quegli uomini avrebbero potuto distruggerlo come uomo, ma non come uomo che Dio aveva scelto per una precisa missione.

    Tutto quello che rientra nel piano e nella volontà di Dio, nessuno lo può annullare o distruggere. L’ultima cosa di questo complotto consisteva nel mandare a dire al padre che una bestia feroce lo ha divorato. L’inganno e l’imbroglio accuratamente preparati, mirava essenzialmente a scagionare dalla responsabilità quegli uomini, davanti al loro padre. Quando Giacobbe ricevette la “veste insanguinata”, riconoscendola disse:

    È la veste di mio figlio, lo ha divorato una bestia feroce; certamente Giuseppe è stato sbranato (Genesi 37:33).

    Come Giacobbe ingannò e imbrogliò suo padre Isacco, così ora i suoi figli ingannano e imbrogliano lui. Si dice che i figli, di solito, fanno le stesse cose dei loro padri, anche se quest’ultimi non gliele hanno insegnate.

    L’intervento di Ruben

    Ruben udì questo e decise di liberarlo dalle loro mani e disse: Non gli togliamo la vita.
    Poi Rubenon aggiunse: Non spargete sangue, ma gettatelo in questo pozzo e non colpitelo di vostra mano. Diceva così, per liberarlo dalle loro mani e riportarlo a suo padre
    (Genesi 37:21,22).

    Nonostante avesse dato il consiglio di gettarlo nel pozzo, aveva anche aggiunto: “Non spargete sangue”. Questo lo disse con la precisa intenzione di volerlo liberare, per condurlo a suo padre sano e salvo. Più tardi, quando tutti i fratelli, tranne Beniamino, si troveranno davanti a Giuseppe nel paese di Egitto, Ruben ripeterà le parole, e nello stesso tempo il testo rivelerà un segreto in quel tempo sconosciuto:

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    Domenico34
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    00 17/12/2010 13:18
    Allora dicevano uno all’altro: Noi siamo veramente colpevoli nei confronti di nostro fratello, perché vedemmo l’angoscia dell’anima sua quando egli ci supplicava, ma non gli demmo ascolto! perciò ci è venuta addosso questa sventura.
    Ruben rispose loro dicendo: Non ve lo dicevo io: Non commettete questo peccato contro il fanciullo? Ma non mi deste ascolto. Perciò ecco, ora ci si chiede conto del suo sangue
    (Genesi 42:21,22).

    Da questo testo e da Genesi 37:21,22, possiamo dire con estrema certezza che Ruben, il primogenito dei figli di Giacobbe, non fu d’accordo con i suoi fratelli, quando progettarono di uccidere Giuseppe. Che lo stesso Ruben non si trovava presente quando Giuseppe venne tratto dal pozzo e venduto agli Ismaeliti, è provato da Genesi 37:29,30 che dice:

    Or Ruben tornò al pozzo, ed ecco, Giuseppe nella cisternaiù nel pozzo. Allora egli stracciò le vesti. Poi tornò dai suoi fratelli e disse: Il fanciullo non c’è più; e io, dove andrò io?

    Anche se il testo non ci dice dove se ne andò Ruben e in quale condizione si allontanò dai suoi fratelli, è facile supporlo. Dal momento che Ruben non era d’accordo col piano omicida dei suoi fratelli, e che la sua iniziativa era quella di voler salvare la vita di Giuseppe, sicuramente si sarà allontanato dai suoi fratelli, per non dare loro il minimo sospetto di quello che si proponeva di fare.

    Indubbiamente l’animo di Ruben era amareggiato, e forse anche arrabbiato verso i suoi fratelli, per il male che volevano fare. Comunque siano andate le cose e quale sia stata la condizione di Ruben al momento del suo allontanamento dai fratelli, è certo che rimase lontano per parecchio tempo, durante il quale, essi conclusero un affare commerciale con gli Ismaeliti, vendendo il loro fratello. Genesi 42:21 dice che Giuseppe “supplicò” i suoi fratelli con l’anima “angosciata”. A che cosa si riferiva quella supplica? Anche se il testo sacro non ce lo specifica, non è difficile supporlo.
    Quando Giuseppe arrivò da suoi fratelli,

    lo spogliarono della sua veste, della lunga veste fino ai piedi che indossava. Poi lo presero e lo gettarono nel pozzo (Genesi 37:23,24).

    Sicuramente la “supplica” non venne fatta per non togliergli la “veste lunga”, ma per non essere gettato nel pozzo. Giuseppe non sapeva che il pozzo era vuoto, senz’acqua dentro; lo sapevano i suoi fratelli.

    Davanti a quella precisa e ferma volontà, era più che giustificata la “supplica” di Giuseppe in vista del suo inevitabile annegamento. Nonostante che quella supplica venne fatta, probabilmente con lagrime, i fratelli di Giuseppe, erano talmente induriti nei loro cuori, che non seppero manifestare un tantino di compassione nei suoi confronti. L’odio e l’invidia, non solo porta a compiere azioni tragiche; ma toglie anche quella necessaria sensibilità di compassione.

    L’intervento di Giuda

    Dopo che Giuseppe venne spogliato della lunga veste e gettato nel pozzo, ecco, si presenta un’occasione d’oro, davanti a loro. È Giuda che a questo punto si fa avanti e dice loro: ecco una carovana di Ismaeliti che si sta avvicinando con i loro preziosi carichi di spezie, di balsamo, e di mirra, in viaggio per portarli in Egitto.

    Che guadagno avremo a uccidere nostro fratello e a nascondere il suo sangue?
    Venite, vendiamolo agli Ismaeliti e non lo colpisca la nostra mano, perché è nostro fratello, no: tra carne
    (Genesi 37:25-27).

    Così Giuseppe, per il valore di venti sicli d’argento, fu venduto agli Ismaeliti, i quali lo condussero in Egitto. C’è una certa somiglianza tra la storia di Gesù, per quanto riguarda il prezzo di vendita. Giuseppe fu venduto per venti sicli d’argento, su proposta di Giuda; Gesù Cristo fu venduto per trenta sicli d’argento, per la mediazione di Giuda Iscariot.

    Quello che accomuna i due personaggi è il denaro. Sia l’uno che l’altro, pensarono al denaro, come ad un buon affare commerciale da non lasciarsi sfuggire. Il denaro ha sempre avuto una certa presa nella vita dell’uomo, e spesso lo ha indotto a compiere certe azioni, tendenti a sottovalutare la realtà.

    Aveva perfettamente ragione Paolo quando affermò: L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali (1 Timoteo 6:10). Più tardi lo stesso Apostolo, dirà: Or sappi questo; che negli ultimi giorni verranno tempi difficili, perché gli uomini saranno amanti di se stessi, avidi di denaro... (2 Timoteo 3:1).

    Ormai tutto è stato sistemato nel miglior dei modi: Ruben che propone di gettare Giuseppe nel pozzo, Giuda consiglia che non c’è nessun guadagno nello spargimento del sangue, e si finisce con accettare l’offerta commerciale degli Ismaeliti, così almeno questi fratelli possono licenziarsi da Giuseppe, con la consapevolezza di non avere versato il sangue del loro fratello.

    La cosa più importante, avranno detto quegli uomini, era di togliere la “veste lunga” d’addosso e questo l’abbiamo fatto. Ora lui se ne va in Egitto, sarà considerato e trattato come uno schiavo, e noi restiamo in Canan.

    4. GIUSEPPE IN EGITTO

    Nel giro di poco tempo Giuseppe arriva in Egitto e venduto come uno schiavo a Potifar, ufficiale del Faraone (Genesi 39:1). Da ora in poi, le quattro volte della frase che leggiamo: L’Eterno fu con Giuseppe (Genesi 39:2,21) e L’Eterno era con lui (Genesi 39:3,23), hanno un significato particolare, nella storia di Giuseppe, se non altro per dirci chiaramente che quest’uomo era gradito all’Eterno che manifestava tutta la Sua approvazione in tutto quello che Giuseppe faceva.

    Qual età aveva Giuseppe quando arrivò nella casa di Potifar? non possiamo dirlo con precisione. Sappiamo solamente che all’età di diciassette anni, ci viene presentato come il prediletto di Giacobbe, il figlio che riceve dal padre il dono della “veste lunga” (Genesi 37:3).

    Il tempo che trascorse fino al giorno in cui venne venduto all’Ufficiale del Faraone, non possiamo precisarlo. Sappiamo solo che quando si presentò a Faraone per interpretargli i sogni, aveva trenta anni (Genesi 41:46).

    Due anni rimase in prigione (Genesi 41:1), dopo che uscì dalla casa di Potifar. Senza correre il rischio di stabilire una data precisa, per quanto riguarda gli anni di Giuseppe, possiamo dire con certezza che questo figlio di Giacobbe, era nel pieno della sua giovinezza, quando varcò la soglia della casa di Potifar.

    Quando il testo sacro precisa che Giuseppe era bello di forma e di bell’aspetto (Genesi 39:6), vuole aggiungere un tocco al fascino di questo giovane. Da quando Giuseppe assunse la direzione di tutte le cose della casa di Potifar, si legge che

    L’Eterno faceva prosperare nelle sue mani tutto ciò che faceva (Genesi 39:3), e che a motivo di Giuseppe, L’Eterno benedisse la casa dell’Egiziano (Genesi 39:5).

    Da questo resoconto succinto e significativo, troviamo tutti gli elementi, non solo per ammirare la rettitudine nell’amministrazione di Giuseppe, la sua imparzialità, ma anche e soprattutto la sua “onestà”, allorquando la moglie di Potifar, mise gli occhi su Giuseppe e gli disse: Coricati con me (Genesi 39:7).

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    00 18/12/2010 13:18
    Nonostante che “tutti i giorni”, quella donna cercasse di sedurlo ad ogni costo, Giuseppe, però, non acconsentì mai; neanche quel giorno quando si trovò “solo” in casa con quella donna. Piuttosto che peccare contro Dio (Genesi 39:9), Giuseppe preferì lasciare in mano a quella donna la sua veste e uscire fuori di casa, gesto che gli costò un’ingiusta diffamazione e la prigione per due anni interi.

    Questa azione di purezza di Giuseppe, può essere additata ad ogni giovane, d’ambo i sessi, come una di quelle “coraggiose”, che sfidando la tentazione, si attira maggiormente l’approvazione di Dio, ed è anche ben vista da coloro cui preme la dignità personale e la purezza del corpo e dello spirito.

    Con queste precise parole, tocchiamo un tema, riguardante i rapporti sessuali, che la società moderna, non è disposta ad accettare, giudicando un “tabù”, rispetto all’evoluzione dei tempi, e un chiaro segno di regresso morale. Il detto della Scrittura:

    Sia il matrimonio tenuto in onore da tutti e il letto coniugale sia incontaminato, poiché Dio giudicherà i fornicatori e gli adulteri (Ebrei 13:4),

    non è certamente ben accetto, da una buona parte della società contemporanea.

    Anche se l’uomo moderno, con le sue ampie libertà in materia di rapporti sessuali, e soprattutto con l’opera degli educatori sessuali, che convincono gli uomini e le donne nel dire che non c’è niente di peccaminoso in un rapporto sessuale extra matrimoniale, noi continuiamo a ripetere quello che dice la Bibbia: Dio giudicherà i fornicatori e gli adulteri, e che ogni rapporto sessuale al di fuori del matrimonio, è peccato. Come Giuseppe considerava un peccare contro Dio (Genesi 37:9), l’unirsi sessualmente con la moglie di Potifar, e più tardi Paolo dirà:

    Fuggite la fornicazione. Qualunque altro peccato che l’uomo commetta è fuori del corpo, ma chi commette fornicazione pecca contro il suo proprio corpo (1 Corinzi 6:18),

    ne consegue:1) Dato che i nostri corpi sono membra di Cristo (1 Corinzi 6:15; 2); visto che il nostro corpo è il tempio dello Spirito Santo (1 Corinzi 6:19); 3); tenuto conto che siamo stati comprati a caro prezzo (1 Corinzi 6:20); 4) e che non apparteniamo a noi stessi (1 Corinzi 6:19), veniamo esortati a glorificate dunque Dio nel vostro corpo e nel vostro spirito, che appartengono a Dio (1 Corinzi 6:20).

    Siccome il “peccato” è violazione della legge (1 Giovanni 3:4), ne consegue che quando le norme di Dio registrate nella Bibbia, vengono infrante, l’uomo commette peccato.

    5. I PREPARATIVI PER LA GRANDEZZA DI GIUSEPPE

    Per aver rifiutato rapporti sessuali con la moglie di Potifar, Giuseppe andò a finire in carcere, e vi rimase due anni; non perché fosse stato condannato a due anni di reclusione, ma perché l’Eterno che era con lui, e tutto quello che Egli aveva detto, - quando Giuseppe fece i sogni, si doveva avverare -, fece sì che le cose andassero in suo favore, abbreviandogli la permanenza in carcere.

    Tutto cominciò quando due detenuti, il capocoppiere e il capopanettiere di Faraone fecero ambedue un sogno, e, secondo l’interpretazione che Giuseppe ne diede loro, il capocoppiere ritornò al suo vecchio posto di prima, cioè a porgere nuovamente la coppa a Faraone e il capopanettiere venne fatto impiccare.
    Anche se Giuseppe non sapeva che Dio lo aveva dotato di una particolare sapienza per interpretare i sogni, attraverso quei due sogni, appariva chiaro quello che Dio aveva dato a quest’uomo.

    Fu l’occasione opportuna per Giuseppe, per fare una viva raccomandazione al capocoppiere, perché questi parlasse in suo favore a Faraone, quando sarebbe ritornato a porgere la coppa al monarca. Però, nonostante ciò, il testo sacro precisa:

    Il capocoppiere però non si ricordò di Giuseppe, ma lo dimenticò (Genesi 40:23).

    Se Giuseppe avesse dovuto uscire dal carcere, per la mediazione del capocoppiere, non sarebbe arrivato mai quel momento, data la dimenticanza di quell’uomo. Al disopra del capocoppiere, c’era però Dio, che vigilava sulla vita di Giuseppe.

    È bello pensare che anche quando l’uomo si dimentica di noi, Dio non fa lo stesso. Se Giuseppe era andato a finire in carcere, non fu per aver commesso qualche crimine - anche se agli occhi dei prigionieri egli appariva come un uomo che avrebbe voluto violentare la moglie di Potifar -, no, ma per aver rifiutato di andare a letto con quella donna. Siccome tutto doveva “cooperare al bene”, secondo il principio di Dio, scritto in Romani 8:28, Dio permette che Giuseppe vada in carcere.

    D’altra parte, se Giuseppe non si fosse trovato in carcere, non avrebbe avuto l’occasione di sentire il racconto dei sogni del capocoppiere e del capopanettiere, e quindi, non avrebbe dato loro l’interpretazione. Secondo l’uomo, non c’erano tante speranze perché Giuseppe uscisse dal carcere. Dio però, prepara le cose in modo tale e Giuseppe, esca fuori, onorevolmente, per non ritornarci mai più. Faraone fa dei sogni,

    e al mattino il suo spirito era turbato, e mandò a chiamare tutti i maghi e tutti i savi d’Egitto; quindi il Faraone raccontò loro i suoi sogni, ma non ci fu alcuno che li potesse interpretare al Faraone (Genesi 41:8).

    È siccome il capocoppiere aveva dimenticato quello che gli aveva detto Giuseppe; ma ora lui è davanti a Faraone, che gli porge la coppa e sente i sogni che Faraone racconta ai maghi e savi d’Egitto.

    Poiché nessuno di questi è capace di interpretarli, in un momento, Dio sveglia la memoria del capocoppiere, e, nel giro di poco tempo, Giuseppe si trova davanti a Faraone, non in tenuta carceraria, ma raso e con i vestiti cambiati (Genesi 41:14). Alla parola di Faraone:

    Ho fatto un sogno e non vi è alcuno che lo possa interpretare; ma ho sentito dire di te che, quando hai udito un sogno tu lo puoi interpretare. Giuseppe risponde: Non sono io; ma sarà DIO a dare una risposta per il bene del Faraone (Genesi 41:15).

    Faraone raccontò i sogni a Giuseppe e seduta stante ne ricevette la loro interpretazione. In quella stessa giornata, Giuseppe venne proclamato la seconda persona del regno. Ecco qui di seguito il testo del decreto di quella nomina:

    Allora il Faraone disse a Giuseppe: Poiché DIO ti ha fatto conoscere tutto questo, non vi è alcuno che sia intelligente e savio come te.
    Tu sarai sopra la mia casa e tutto il mio popolo obbedirà ai tuoi ordini; per il trono soltanto io sarò più grande di te.
    Il Faraone disse a Giuseppe: Vedi, io ti stabilisco su tutto il paese d’Egitto.
    Poi il Faraone si tolse l’anello dalla sua mano e lo mise alla mano di Giuseppe; lo fece vestire di abiti di lino fino e gli mise al collo una collana d’oro.
    Lo fece quindi montare sul suo secondo carro, e davanti a lui si gridava: In ginocchio! Così il Faraone lo costituì su tutto il paese d’Egitto.
    Inoltre il Faraone disse a Giuseppe: Il Faraone sono io ma, senza di te, nessuno alzerà la mano o il piede in tutto il paese d’Egitto
    (Genesi 41:39-44).

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    Domenico34
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    00 19/12/2010 13:50
    Dopo che Giuseppe venne stabilito quale seconda persona del regno d’Egitto, Faraone lo chiamò Tsofnath-Paneah, egiz. significa: Abbondanza di vita, o abbondanza di cibo per il vivente (Genesi 41:45). Gli ebrei, basandosi sulla pronuncia del nome, dichiararono che significa “rivelatore di segreti”.

    Da quando Giuseppe, all’età di diciassette anni ricevette in dono la “veste lunga” e poi fece i sogni che parlavano della sua grandezza, passarono esattamente tredici anni, dato che ora ne aveva trenta anni, allorché venne dichiarato seconda persona del regno. Se Giuseppe arrivò a questa grandezza, non lo fu certamente perché il padre, con il dono della “veste lunga”, sanciva questa meta.

    Né si può fare riferimento all’”impertinente fratello minore coccolato dal padre e sfrontatamente insuperbito dai suoi sogni di grandezza”, perché quanto abbiamo detto fin qui, non ha niente che possa autorizzare a pensarla in questa maniera.

    Sì, Giuseppe è diventato grande, pieno di gloria e di magnificenza, perché Dio lo ha voluto. I principi di Dio sono validi anche per i nostri tempi:

    Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, affinché egli v’innalzi al tempo opportuno. Perché Dio resiste ai superbi e dà grazia gli umili (1 Pietro 5:5,6).

    6. I DUE FIGLI DI GIUSEPPE E IL LORO SIGNIFICATO

    Oltre alla grandezza e alla gloria, Giuseppe ebbe come moglie, Asenath, figlia di Poteferah, dalla quale ebbe due figli. Se al primo venne dato il nome di Manasse, che significa: “Che fa dimenticare”, fu perché Giuseppe disse: DIO mi ha fatto dimenticare ogni mio affanno e tutta la casa di mio padre; e se il secondo fu chiamato Efraim, che significa: “Doppiamente fecondo”,

    fu perché disse: DIO mi ha reso fruttifero nel paese della mia afflizione (Genesi 41:51,52).

    Se all’inizio di questo capitolo, abbiamo affermato che nei significati dei due nomi dei figli di Giuseppe, c’è la descrizione di tutta la sua storia, davanti alla specificazione che appena abbiamo letto, non possiamo che ripetere la stessa cosa. La storia di Giuseppe, così come la presenta il libro della Genesi, è piena di affanni.

    Si comincia con l’odio dei suoi fratelli, la loro invidia, il fatto che non gli possono parlare in modo amichevole, lo spogliano della sua veste lunga, lo gettano nel pozzo, lo vendono agli Ismaeliti per venti sicli d’argento, finisce in casa di Potifar come uno schiavo, viene accusato come uno che vuole violentare sua moglie, viene messo in prigione, e finisce col rimanere lì per due anni.

    Più piena di affanni di così, la vita di una persona non può essere, specie quando si considera che Giuseppe non meritava tutto quello che subì a causa dei suoi fratelli.

    Come avrebbe fatto quell’uomo a dimenticare i suoi affanni, se non fosse stato per l’intervento di Dio nella sua vita? Non è la sua abilità che viene messa in mostra, né la sua spiritualità, come si direbbe oggi; è DIO che gli ha fatto dimenticare ogni suo fanno e tutta la casa di suo padre.
    Quest’ultima frase non bisogna intenderla come se Giuseppe avesse rinnegato la sua casa e si vergogni di aver fatto parte della discendenza di Giacobbe.

    Giuseppe non ha voluto affermare che Dio gli aveva fatto dimenticare i suoi fratelli e suo padre, ma gli affanni della sua vita. I suoi sono sempre vivi e presenti nella sua mente e nel suo cuore. I fratelli e suo padre, anche se quest’ultimo, col dono della “veste lunga”, gli ha procurato l’odio e l’invidia, nondimeno sono nel suo cuore.

    Da quando è intervenuto nella sua vita, Dio gli ha fatto passare via quei brutti ricordi, che sicuramente hanno tenuto per tanti anni in una morsa di dolore, la vita di questo splendido Giuseppe.

    A questo punto credo che non si possa ignorare una delle grandi lezioni che ci viene offerta e che dobbiamo imparare. A parte che Dio è sempre lo stesso, anche se cambiano gli uomini, le situazioni, come Egli ha saputo intervenire nella vita di Giuseppe per fargli dimenticare i suoi affanni, così interverrà anche nella nostra per compiere un’opera che Lui solo sa compiere e può compiere.

    Non si tratta qui di pensare agli affanni degli altri; si tratta invece di tenere presente ai nostri affanni. Ognuno di noi, nel corso nella propria vita, incontra immancabilmente tanti affanni: chi per una cosa e chi per un’altra. In questa maniera la vita si snoda facilmente in mezzo a tante avversità. Non sempre le avversità che incontriamo sono dovute alla nostra infedeltà.

    Spesso la nostra indolenza; invece, è il risultato del risentimento e dell’invidia, da parte di persone che pur vivendo vicini a noi, si comportano come se vivessero lontani, come se non ci avessero mai conosciute, non ci fosse nessuna amicizia e come se non ci fosse il legame della fratellanza.
    Dimenticare un’offesa ingiusta da un amico, un torto immeritato da un congiunto, un oltraggio e un danno, - sia materiale che morale -, da un fratello, - non tanto di quelli della stessa famiglia carnale quanto di quelli della stessa fede -, non è certo una cosa facile.

    Quando però, Dio, compie una azione miracolosa nella vita dell’uomo, allora e soltanto allora, si ha tanta forza, tanto coraggio, e soprattutto tanto amore, per dimenticare tutto ciò che è stato causa di affanno e di dispiacere.

    7. LA PROVA CHE GIUSEPPE AVEVA DIMENTICATO OGNI SUO AFFANNO

    Giuseppe è ormai la seconda persona del regno di Egitto, ha tutto sotto di sé, nel senso che controlla ogni situazione della vita dell’intera nazione, è pieno di gloria e di grandezza, sa esattamente tutto quello che dovrà accadere nei primi sette anni, da quando è stato costituito viceré d’Egitto e sa anche che dopo i sette anni di straordinaria abbondanza, seguiranno sette anni di orribile carestia.

    Ha inoltre una bella moglie dalla quale ha avuto due bei figli, e soprattutto ha un passato pieno di affanni, che per grazia di Dio, ha dimenticato.

    Giuseppe non perde tempo, da quando è stato elevato alla massima dignità di seconda persona del regno, si mette subito al lavoro; predispone tutto in maniera che nei primi sette anni di abbondanza, si immagazzini tutto, per servire i sette anni di grande carestia.

    In termini moderni si direbbe che ci fu in quel tempo, un vero e proprio boom edilizio, per i tanti lavori di costruzione, sia per ingrandire i granai esistenti come anche per edificarne altri.
    Sicuramente non saranno mancate quelle persone che avranno detto: Da quando Faraone ha nominato Giuseppe come viceré di Egitto, non si sono mai visti tanti lavori come ora. Veramente Giuseppe è la persona che ci voleva, l’uomo ideale per tutta economia dell’Egitto. Col decreto che venne emanato,

    di prelevare il quinto dei prodotti del paese di Egitto (Genesi 41:34), si ammassò tanto grano durante i sette anni di abbondanza, come la sabbia del mare, in così gran quantità, che si smise di tenere i conti perché era incalcolabile (Genesi 41:49).

    Quando i sette anni di abbondanza che vi furono nel paese di Egitto, finirono,
    e cominciarono a venire i sette anni di carestia, come Giuseppe aveva detto, ci fu carestia in tutti i paesi, ma in Egitto vi era del pane
    (Genesi 41:53,54).

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    Domenico34
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    00 20/12/2010 12:46
    Prima che i sette anni di carestia terminassero, tutto il denaro di Egitto, andò a finire nelle casse di Faraone. Dopo che gli egiziani non avevano più denaro per comprarsi da mangiare, vendettero alla casa di Faraone, le loro terre, il loro bestiame e la loro stessa vita, per sopravvivere. Dato che la carestia non risparmiò il paese di Egitto, ma si estese anche in Canaan, paese dove abitava la famiglia di Giacobbe. Fu a causa della pesante carestia che c’era in Canaan, che i dieci figli di Giacobbe andarono in Egitto per comprare il grano.

    I figli di Israele giunsero dunque per comprare del grano, in mezzo agli altri arrivati, perché nel paese di Canaan vi era la carestia.
    Or Giuseppe era il governatore del paese; era lui che vendeva il grano a tutta la gente del paese; e i fratelli di Giuseppe vennero e si prostrarono davanti a lui con la faccia a terra.
    Giuseppe vide i suoi fratelli e li riconobbe, ma si comportò come un forestiero con loro e usò parole dure con loro, e disse loro: Da dove venite? Essi risposero: Dal paese di Canaan per comprare viveri.
    Così Giuseppe riconobbe i suoi fratelli, ma essi non riconobbero lui
    (Genesi 42:5-8).

    Sembrerebbe strano che nel giro di più di venti anni, - tanti erano trascorsi a partire da quando Giuseppe aveva avuto in dono da suo padre, la “veste lunga” - che i fratelli di Giuseppe non lo riconoscessero più. Eppure questi uomini erano davanti a lui, senza che avessero la minima percezione che quel personaggio illustre ed importante, era proprio il loro fratello Giuseppe.

    Se Giuseppe aveva avuto una veste lunga fino ai piedi, prima che fosse stato venduto agli Ismaeliti; la veste che attualmente indossa, non ha niente da paragonarla a quella, non tanto per la sua lunghezza quanto per la sua qualità. Pensando e credendo che questa persona che vende il grano, è un alto Ufficiale egiziano, i figli di Giacobbe non hanno nessuna esitazione a prostrarsi davanti a lui con la faccia a terra. Avrebbero fatto lo stesso, se avessero riconosciuto Giuseppe?

    Lasciando da parte la risposta a questa domanda, pensiamo piuttosto a quello che il testo dice in seguito: Giuseppe allora si ricordò dei sogni (Genesi 42:9). Sicuramente fu in quel preciso momento che i suoi fratelli si prostrarono con la faccia a terra davanti a lui, come intravide nei sogni.
    Sembra che non sia affatto vero che Giuseppe abbia dimenticato i suoi affanni, soprattutto nel modo di agire, quando classifica i suoi fratelli come spie, venuti appositamente per vedere i punti indifesi del paese (Genesi 42:12), e li tiene in prigione per tre giorni.

    Tutto il rimanente del racconto, smentirà questa supposizione e rivelerà chiaramente perché Giuseppe agì in quel modo. Quando al terzo giorno i figli di Giacobbe vengono liberati dalla prigione, e viene trattenuto uno di loro, - (Simeone) - in attesa che venga condotto in Egitto il loro fratello minore - (Beniamino) -, il testo sacro precisa:

    Allora si dicevano l’un l’altro: Noi siamo veramente colpevoli nei confronti di nostro fratello, perché vedemmo l’angoscia dell’anima sua quando egli ci supplicava, ma non gli demmo ascolto! Ecco perché ci è venuta addosso questa sventura.
    Ruben rispose loro: Non ve lo dicevo io: Non commettete questo peccato contro il fanciullo? Ma voi non mi deste ascolto. Perciò ecco, ora ci si chiede conto del suo sangue.
    Essi non sapevano che Giuseppe li capiva, perché fra lui e loro vi era un interprete. Allora egli si allontanò da: loro e pianse
    (Genesi 42:21-24).

    Quando Giuseppe si face conoscere dai suoi fratelli, leggiamo queste frasi:

    * Si prostrarono davanti a lui con la accia a terra (Genesi 42:6);
    * e si inchinarono fino a terra davanti a lui (Genesi 43:26);
    * E si inchinarono per rendergli riverenza (Genesi 43:28);
    * e si gettarono a terra: davanti a lui (Genesi 44:14).

    Per ben dieci volte chiamarono Giuseppe “ signore “, e quando ritornarono con le “vesti stracciate” a seguito del ritrovamento della coppa d’argento nel sacco di Beniamino, Giuda, che si presenta per intercedere per la vita di suo fratello Beniamino, pronuncia le più terrificante parole che Giuseppe avesse mai potuto immaginare:

    Giuda rispose: Che diremo al mio signore? Quali parole useremo, o come ci potremo giustificare? DIO ha ritrovato l’iniquità dei tuoi servi. Ecco, siamo schiavi del mio signore, tanto noi quanto colui in mano del quale è stata trovata la coppa (Genesi 44:16).

    Quando poi Giuda finisce la sua lunga supplica a Giuseppe, perché lui resti in carcere e Beniamino se ne ritorni da suo padre Giacobbe, Giuseppe, non potendo più contenersi (Genesi 45:1), grida a voce forte: Fate uscire tutti dalla mia presenza! Non sapremmo che cosa avranno pensato e provato in quell’istante i figli di Giacobbe, ora che si trovano soli con Giuseppe.

    Probabilmente sono con gli occhi rossi pieni di lagrime, e aspettano da un momento all’altro, la terrificante parola di condanna che Giuseppe pronunzierà. Forse sono col capo chino, con le mani in testa; non hanno il coraggio di guardare in faccia Giuseppe, perché consapevoli del loro reato, e perché soprattutto si rendono conto

    che DIO ha ritrovato il loro peccato. Io sono Giuseppe; è mio padre ancora in vita? Ma i suoi fratelli non gli potevano rispondere perché erano sgomenti alla sua presenza.
    Allora Giuseppe disse ai suoi fratelli: Deh, avvicinatevi a me! Quelli si avvicinarono, ed egli disse: Io sono Giuseppe, vostro fratello, che voi vendeste perché fosse condotto in Egitto
    (Genesi 45:3,4).

    Non saprei dire esattamente quante volte, nel corso dei miei circa cinquanta anni di fede, ho letto la storia di Giuseppe. Non mi vergogno di affermare che non c’è stata una sola volta che leggendo questa storia, non abbia fatto ricorso al fazzoletto per asciugarmi le lagrime.

    Posso capire perché in quel momento i fratelli di Giuseppe non potevano rispondere alla sua domanda. Probabilmente, per la troppa commozione, avranno avuto un nodo alla gola che non permetteva loro di parlare. Giuseppe, da persona intelligente, capisce lo stato d’animo dei suoi fratelli, perché anche lui in quel momento è commosso; con la differenza che lui riesce a parlare, mentre i suoi fratelli non possono parlare.

    Non possono parlare, nella stessa maniera di venti anni addietro, quando non gli potevano parlare in modo amichevole, ma probabilmente perché si vergognano di tutto il male che gli hanno fatto. Giuseppe intuisce la situazione, e per, dimostrare a loro che DIO gli aveva fatto dimenticare tutti i suoi affanni, dice loro:

    Ma ora non vi contristate e non vi dispiaccia di avermi venduto, perché io fossi condotto quaggiù, poiché DIO mi ha mandato davanti a voi per preservarvi la vita.
    DIO mi ha mandato davanti a voi, perché sia conservato per voi, e per preservarvi la vita con una grande liberazione.
    Non siete dunque voi che mi avete mandato qui, ma è DIO; egli mi ha stabilito come padre del Faraone, come signore di tutta la casa e governatore di tutto: il paese d’Egitto
    (Genesi 45:5,7-8).

    Dopo che Giuseppe finì di dare tutte le istruzioni ai suoi fratelli, riguardante Giacobbe loro padre, si legge:

    Egli baciò pure tutti i suoi fratelli e pianse stretto a loro. Dopo questo, i suoi fratelli si misero: a parlare con lui (Genesi 45:15).

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    Domenico34
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    00 21/12/2010 12:23
    Quando Giuseppe si fece riconoscere dai suoi fratelli, si limitò ad invitarli ad “avvicinarsi a lui”; ora però che la situazione è totalmente cambiata, nel senso che i fratelli credono che la persona con la quale stanno parlando è proprio Giuseppe il loro fratello, e che questi li ha rassicurati che in tutta la faccenda del passato, c’era in fin dei conti un preciso piano divino, lo stesso Giuseppe cambia atteggiamento, invece di aspettare che i suoi fratelli si gettino al suo collo per baciarlo, - e perché no, per chiedergli anche perdono per tutto il male che gli hanno fatto -, è lui che prende l’iniziativa di “baciare tutti i suoi fratelli”.

    Forse Giuseppe, rendendosi conto che i suoi fratelli, nello stato attuale, non si vedono al loro agio come avrebbero dovuto, nel senso di una sincera e profonda umiliazione, con parole che esprimevano il loro rammarico per avere agito in modo crudele nei suoi confronti, senza indugiare, “bacia tutti i suoi fratelli”, come se lui si trovasse nella parte del torto e i suoi fratelli in quella della ragione.

    L’atteggiamento di Giuseppe, assunto in quel preciso momento davanti ai suoi fratelli, può essere additato come una manifestazione di “vera grandezza spirituale”, atta ad insegnare la verità relativa all’umiltà e alla sottomissione. La “vera grandezza” di una persona, non risiede tanto nel saper ricevere i riconoscimenti e gli onori, quanto nel dimostrare con azioni visibili, di essere uno che ha “dimenticato tutto”, per quanto riguarda le varie offese ricevute e i torti subiti.

    Per verificare l’onestà e la sincerità di Giuseppe nei confronti dei suoi fratelli, e soprattutto sapere se “veramente Giuseppe aveva dimenticato i suoi affanni”, o se piuttosto conservasse ancora rancore nel suo cuore per i suoi fratelli, basta leggere quello che la Scrittura dice:

    I fratelli di Giuseppe, quando videro che il loro padre era morto, dissero: Chissà se Giuseppe non nutra rancore verso di noi, e non ci renda tutto il male che gli abbiamo fatto?
    Allora mandarono a dire a Giuseppe: Tuo padre prima di morire diede quest’ordine dicendo:
    Così direte a Giuseppe: Deh, perdona ora ai tuoi fratelli il loro misfatto e il loro peccato, perché ti hanno fatto del male. Deh, perdona dunque ora il misfatto dei servi del DIO di tuo padre! Giuseppe, quando gli parlarono così, pianse.
    Poi vennero anche i suoi fratelli e si gettarono davanti a lui, e dissero: Ecco, siamo tuoi servi.
    Giuseppe disse loro: Non temete; sono io forse al posto di DIO?
    Voi avete macchinato del male contro di me; ma DIO ha voluto farlo servire al bene, per compiere quello che oggi avviene: conservare in vita un popolo numeroso.
    Ora dunque non temete; io provvederò il nutrimento per voi e per i vostri figli. Così li confortò e parlò al cuore: loro con dolcezza
    (Genesi 50:15-21).

    Questa è la prova più eloquente e la dimostrazione più completa della testimonianza che Giuseppe rende dell’opera di Dio nella sua vita, quando, mettendo il nome al suo primogenito Manasse, affermava: DIO mi ha fatto dimenticare ogni mio affanno e tutta la casa di mio padre (Genesi 41:51).

    8. GIACOBBE BENEDICE EFRAIM E MANASSE

    Riallacciandoci ad Ebrei 11:21, che parla chiaramente della benedizione che ricevono i due figli di Giuseppe, dal vecchio morente Giacobbe, concludiamo la nostra indagine sulla storia di Giuseppe, la più commovente e più significativa di tutte le storie che la Bibbia contiene.

    Alla notizia che Giacobbe è ammalato, Giuseppe prende i suoi due figli, Manasse ed Efraim e va da suo padre. Dopo che questi, con le poche forze che ancora gli rimanevano, finì di raccontare a Giuseppe le tappe più importati della sua vita, gli fa una domanda:

    Chi sono questi?
    Giuseppe rispose a suo padre: Sono i miei figli, che DIO mi ha dato qui. Allora egli disse: Deh, falli avvicinare a me, e io li benedirò.
    Poi Giuseppe li prese ambedue: Efraim alla destra, alla sinistra di Israele, e Manasse alla sinistra, alla destra di Israele, e li fece avvicinare a lui.
    Allora Israele stese la sua mano destra e la posò sul capo di Efraim che era il più giovane, e posò la sua mano sinistra sul capo di Manasse incrociando le mani, benché Manasse fosse il primogenito.
    Così benedisse Giuseppe e disse: Il DIO, davanti al quale camminarono i miei padri Abrahamo e Isacco, il DIO che mi ha aiutato da quando esisto fino a questo giorno,
    l’Angelo che mi ha liberato da ogni male, benedica questi fanciulli! Siano chiamati col mio nome e col nome dei miei padri Abrahamo e Isacco, e moltiplichino grandemente sulla terra!
    (Genesi 48:8,9,13-16).

    Quello che Giacobbe fece, nel mettere la sua mano destra sul capo di Efraim e la sua sinistra sul capo di Manasse, non piacque sicuramente a Giuseppe, perché questa specie di “inversione”, operata specificatamente e con piena cognizione di causa dal vecchio Giacobbe, equivaleva a mettere Efraim, nel ruolo di “primogenito” e Manasse in quello di “secondogenito nonostante che Manasse fosse il primogenito ed Efraim il secondogenito. Quello che il sacro testo ci precisa, ci fa chiaramente capire che Giuseppe, non approva quello che aveva fatto suo padre.

    Giuseppe disse quindi a suo padre: Non così, padre mio, perché il primogenito è questo; metti la tua mano destra sul suo capo (Genesi 48:18).

    Siccome Giacobbe agiva “per fede”, precisa lo scrittore agli Ebrei, nell’impartire la benedizione ai due figli di Giuseppe, il racconto della Genesi specifica:

    Ma suo padre si rifiutò e disse: Lo so, figlio mio, io so; anche lui diventerà un popolo, anche lui sarà grande; tuttavia il suo fratello più giovane sarà più grande di lui, e la sua discendenza diventerà una moltitudine di nazioni.
    E in quel giorno li benedisse, dicendo: Per te Israele benedirà, dicendo: DIO ti faccia come Efraim e come Manasse!. Così egli pose Efraim prima di Manasse
    (Genesi 48:19-20).

    Alla luce di quanto chiaramente specificato dal libro della Genesi e da quello della lettera agli Ebrei, risulta evidente che, non sempre “gli atti della fede”, vengono compresi da pie anime, quale fu Giuseppe, e quelli del nostro tempo, per non parlare di tutte le generazioni passate.

    Non è un valido motivo per opporci ad un “atto di fede”, sol perché non lo comprendiamo né nei suoi particolari e neanche da un punto di vista globale.

    Quello che si deve maggiormente tener presente non è solamente il non opporci a certe azioni di fede, adducendo motivi della cosiddetta logicità, dal punto di vista umano, dettate essenzialmente dalla nostra incomprensione, ma soprattutto di non lottarle, tacciandole come manifestazioni di fanatismo, e peggio ancora come uno che si sia montato la testa.

    Tutto quello che viene mosso dalla fede, sia per quanto riguarda le piccole cose come anche le grandi, andranno avanti nel cammino del loro adempimento, tenendo presente soprattutto, che al di sopra e al di fuori di ogni umana considerazione, c’è una mano invisibile che guida le cose, e che tutto quello che Dio abbia stabilito, non potrà essere impedito o neutralizzato dall’intervento dell’uomo.

    PS: Se ci sono domande da fare, sentitevi liberi di farle, e, da parte nostra, sarà una gioia rispondere.