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Domenico34 - LA FEDE NELLE EPISTOLE DI PAOLO -

Ultimo Aggiornamento: 24/11/2011 00:07
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08/10/2011 17:14


LA FEDE NELLE EPISTOLE DI PAOLO





Nota introduttiva

Dopo avere esaminato quello che hanno i sinottici e gli Atti, per ciò che riguarda la fede, ci accingiamo ad esaminare quello che ha lasciato l’Apostolo Paolo nelle sue epistole, specialmente in quella ai Romani, che contiene il maggior numero di occorrenze, rispetto a tutte le altre epistole. L’esame del materiale dell’epistola ai Romani, è importante, non solo per i molti passaggi che essa contiene, ma soprattutto per i grandi temi di teologia cristiana che questo scritto affronta, come per esempio: La giustizia di Dio, la giustificazione per fede, la giustizia della legge. Naturalmente, queste dottrine fondamentali, che ha impegnato tanti studiosi di fama attraverso i secoli, a partire specialmente dalla riforma protestante, che furono gli argomenti focali di tutta la polemica che si sviluppò con la Chiesa Cattolica Romana e continuano ad essere i cardini della teologia cristiana, saranno esaminati solamente in riferimento alla fede, di cui questo nostro lavoro si sta occupando.

EPISTOLA AI ROMANI

1) Romani 1:8:

Prima di tutto, rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo per tutti voi, perché la vostra fede pistis è pubblicata in tutto il mondo.

Il motivo del rendimento di grazie che l’Apostolo all’inizio della sua epistola innalza al suo Dio, per mezzo di Gesù Cristo per tutti i cristiani che si trovano nella capitale dell’impero Romano, vuole essere un segno evidente della sua gratitudine a Dio, per l’opportunità che gli viene concessa di scrivere questa sua epistola (che poi si rivelerà un documento di straordinaria importanza rispetto al resto dell’epistolario paolino, soprattutto per il valore teologico che essa ha, poiché vengono trattati i temi fondamentali della dottrina cristiana) e indirizzarlo a dei credenti che non conosce di faccia, la cui conversione per altro non è attribuita al suo ministero, ma ad altri (ignoti).

Il fatto che la fede dei credenti di Roma, sia pubblicata in tutto il mondo, spinge Paolo, non solo a rendere grazie a Dio e a scrivere loro, ma anche ad esprimere sentimenti di congratulazione per la condizione in cui si trova questa fratellanza, e, nello stesso tempo fa oggetto di incessanti richieste di preghiera a Dio, perché si possa concretizzare il suo desiderio di andare a Roma per conoscere questa fratellanza. Infine, la fede, oggetto di questo preambolo epistolare, rappresenta anche un legame che unisce le due parti col vincolo fraterno, protesi entrambi verso una stessa meta e traguardo: la proclamazione del vangelo di Gesù Cristo e il servizio che si può dare l’uno all’altro, in vista soprattutto della comune salvezza. Inoltre, la fede nella vita di un credente, non rimane nascosta nell’intimo del cuore, ma si manifesta in modo tale che anche gli altri la possono vedere, nella vita pratica di ogni giorno e servirà anche come sprone ed incoraggiamento nell’esperienza cristiana.


2) Romani 1:12:


E questo è per essere in mezzo a voi consolato insieme mediante la fede pistes che abbiamo in comune, vostra e mia.

L’ardente desiderio che Paolo ha di recarsi a Roma per conoscere quella fratellanza, ha principalmente un doppio scopo: Comunicare qualche dono spirituale per la loro fortificazione e nello stesso tempo per essere lui stesso consolato (v. 11). Questo naturalmente avviene mediante la fede, che fa da legame ed è di supporto per conseguire simili risultati. Se la fede (non importa se è grande o piccola) è vista e valutata sotto questo aspetto, il beneficio che arreca, è indiscutibile. Infine, la fede non porta le persone ad agire egoisticamente, cioè pensando solo a sé stessi, ma si muove in senso altruista; non si crede e si considera autosufficiente, come non avendo bisogno degli altri, ma è aperta a ricevere volentieri quello che verrà dato da altri. Agendo in questo modo, le persone che hanno fede, contribuiscono vicendevolmente ad ammaestrarsi, a incoraggiarsi, a edificarsi e a consolarsi.

3) Romani 1:17:

Perché la giustizia di Dio è rivelata in esso di fede pistis in fede pistin, come sta scritto: Il giusto vivrà per fede pistes.

Nella parte introduttiva, l’Apostolo Paolo, oltre ad elogiare la fede dei credenti di Roma, rivelare il suo ardente desiderio di recarsi da loro per conoscerli di persona; rivela a questi credenti di essere debitore ai Greci e ai barbari, ai savi e agli ignoranti (v. 14) e nello stesso tempo dichiara la sua disponibilità ad evangelizzare anche loro che abitano a Roma. Prima però che l’Apostolo entri in tema, cioè, cominci a parlare della giustizia per la fede, che è il soggetto dell’epistola, oltre ad essere consapevole di essere servo di Gesù Cristo, chiamato ad essere apostolo, appartato per l’evangelo di Dio (v. 1), sente anche un dovere di dire a questa fratellanza che egli non si vergogna dell’evangelo di Cristo perché sa che esso è la potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco (v. 16).

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[Modificato da Domenico34 10/10/2011 00:23]
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09/10/2011 02:37

Siccome l’Apostolo sa molto bene che cosa può fare l’evangelo nella vita di chiunque crede, deve anche rivelare che la giustizia di Dio, — che è l’elemento essenziale di tutto quello che egli esporrà in breve —, viene rivelata nel vangelo di fede in fede. Quindi, appare chiaro, fin dalle prime battute, il ruolo che ha la fede e l’importanza che essa riveste, in questa esposizione teologica che verrà fatta.

«Negli scritti di Qumran si trova una anticipazione assai rimarchevole di questo duplice significato della giustizia di Dio; a) la sua propria giustizia, b) la giustizia con cui Egli giustifica i peccatori sulla base della fede. «Per la Sua giustizia il mio peccato è cancellato... Se inciampo a causa di una iniquità della carne, la sentenza contro di me si trova nella giustizia di Dio che dura in eterno... Per la Sua misericordia Egli ha fatto sì che potessi avvicinarmi, e per la Sua amorevole benevolenza Egli avvicina a Sé la sentenza contro di me. Per la Sua vera giustizia Egli mi giudica e per la Sua immensa bontà Egli fa l’espiazione di tutte le mie iniquità. Per la Sua giustizia Egli mi purifica dalle impurità dell’uomo mortale e dal peccato dei figli degli uomini, così che io possa lodare Dio per la Sua giustizia e l’Altissimo per la Sua gloria» [Cfr. F. F. Bruce, L’epistola di Paolo ai Romani, pagg. 94, 95].

La frase: giustizia di Dio, greco [ dikaiosun theou ] che poi è una formula prediletta di Paolo, specialmente nell’epistola ai Romani, ha il suo particolare e profondo significato, specialmente quando viene inquadrata nel contesto della salvezza. Poiché il concetto stesso di giustizia greco. [ dikaiosun ] ha un posto rilevante nella teologia biblica, specie nel N.T. che ricorre 91 volte, di cui 57 negli scritti paolini (in particolare 33 in Romani), e, poiché questo tema non rientra nello scopo di questo libro, rimandiamo il lettore alle opere specifiche, per un maggiore approfondimento [Cfr. G. Schrenk, GLNT, Vol. 2, col. 1236-1289; K.Kertelge, Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, col. 861-874; H. Seebass, Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, pagg. 799-808; Dizionario di teologia biblica, pagg. 427-437]. Siccome nell’evangelo che Paolo predica, viene rivelata la giustizia di Dio, ne consegue la piena giustificazione della maggiore insistenza nell’epistola ai Romani, poiché è in essa che viene trattato specificatamente il soggetto della giustizia di Dio.

La fede, ovviamente, in questo processo di rivelazione, nel senso cioè di mettere in evidenza, far conoscere, svolge un ruolo primario e fondamentale, ragione per cui, la stessa citazione che viene addotta di Habacuc 2:4, serve essenzialmente all’Apostolo a mettere maggiormente in risalto il valore della fede, poiché il giusto vivrà per la fede. Concepire infatti il ‘vivere’ del giusto senza la fede, significa, non solamente svuotare la vita della sua vera essenza, ma anche e soprattutto farla apparire in una diversa dimensione di come Dio l’ha tracciata e l’ha stabilita. La vita di una persona in genere, non è scevra di pericoli e difficoltà, — e quella del giusto non è diversa —, ragion per cui, per superare facilmente questi sbarramenti, il giusto, in maniera particolare, non può fare affidamento alle sue capacità umane, deve necessariamente appellarsi alla fede, la sola che può garantirgli il superamento di ogni pericolo e difficoltà)


4) Romani 3:22:


cioè la giustizia di Dio mediante la fede pistes in Gesù Cristo verso tutti e sopra tutti coloro che credono, perché non c’è distinzione.

Stabilito come punto fermo che la giustizia di Dio viene rivelata nel vangelo di Cristo, (1:17) e che alla stessa rendono testimonianza la legge e i profeti (3:21), e, visto che l’Apostolo nel tratto 3:9-20 ha dimostrato, tramite le Scritture, precisamente: (Salmo 14:3; 53:1-3; 5:9; 140:3; Proverbi 1:16; Isaia 59:7 e Sal 36:1) che tutti gli uomini, tanto Giudei quanto Greci sono tutti sotto peccato (3:9), e, premettendo che:

nessuna carne sarà giustificata davanti a lui (cioè davanti a Dio) per le opere della legge perché la legge dà soltanto la conoscenza del peccato (N. Riveduta 3:20),

gli si impone la necessità di chiarire e specificare come tutti gli uomini, essendo peccatori, privi della gloria di Dio (3:23), possono essere beneficati dalla giustizia di Dio al punto di essere addirittura giustificati, cioè dichiarati giusti. Questo cambiamento di ‘stato’, naturalmente, non può avvenire nella vita del peccatore per le opere della legge, ma solamente mediante la fede in Gesù Cristo.

A questo punto lo Schlier, nel suo commento scrive:

«Ma di che natura è questa giustizia? E come viene elargita? La prima risposta l’abbiamo da questo versetto. Il [ de ] ha valore esplicativo e indica un contrasto. La [ dikaiosun theu ] = (giustizia di Dio) è una particolare giustizia di Dio e la specialità sua consiste nel modo in cui si diviene partecipi di essa Si tratta infatti di una [dikaiosun theu dia ts pistes Xristou ]» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pagg. 188,189], (la giustizia di Dio mediante la fede in Cristo).

È solamente in virtù o ‘mediante’ la fede che si può essere giustificati. Onde evitare che le parole dell’Apostolo possano essere fraintese o mal comprese, si precisa e si specifica che questa fede, deve essere in Gesù Cristo. Cosa vuol dire Paolo con questa precisazione dogmatica? La giustizia di Dio può essere applicata nella vita del peccatore ai fini della sua giustificazione, solamente attraverso Gesù Cristo, il divino Mediatore tra Dio e l’uomo (1 Timoteo 2:5), e ciò avviene in virtù di quello che Egli ha fatto. La fede in Lui, non è solamente l’anello di congiunzione tra il divino e l’umano, ma è soprattutto l’appropriazione del ‘merito’ che Gesù Cristo ci ha acquistato con la sua morte. Appare quindi abbastanza chiaro che, senza la fede in Gesù Cristo, la giustizia di Dio non può beneficare nessun peccatore.

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[Modificato da Domenico34 10/10/2011 00:24]
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10/10/2011 00:09

5) Romani 3:25:

Lui ha Dio preordinato per fare l’espiazione mediante la fede [ pístes ] nel suo sangue, per dimostrare così la sua giustizia per il perdono dei peccati, che sono stati precedentemente commessi durante il tempo della pazienza di Dio.

Dal momento che tutti gli uomini sono peccatori e privi della gloria di Dio (v. 23) (nel senso universale cioè senza esclusione di nessuno), e, siccome la giustificazione del peccatore è gratuita e avviene solamente per la grazia divina, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù (v. 24), la portata teologica del verso 25 per ciò che riguarda la morte di Gesù, come sacrificio espiatorio per l’intera umanità, è di una portata imparareggiabile.

Questo testo paolino è stato oggetto di lunghe discussioni per cercare di comprendere e stabilire alcuni punti fondamentali che il testo presenta; di conseguenza, la stessa interpretazione del testo, non è stata unanime. Il fatto stesso che il testo in questione non è stato unanimemente tradotto, mette in chiaro queste diversità di intendere la parola dell’Apostolo. Anche se lo scopo di questo nostro lavoro mira a trattare il soggetto della fede, tuttavia, non possiamo esimerci dal presentare le diverse valutazioni che sono state fatte attraverso gli anni, riguardante l’interpretazione del testo paolino in questione, che poi essenzialmente verte su due direzioni, convinti che la stessa fede di cui ci stiamo occupando, lungi dall’essere sminuita nel suo valore, apparirà maggiormente valorizzata nel suo insieme.

Le parole greche su cui gli studiosi hanno maggiormente concentrato la loro discussione interpretativa, verte essenzialmente su tre termini: [ protheto, Hilastērion e páresin ]. Queste tre parole sono state tradotte nel seguente modo:

a) pro–theto:

G. Diodati Innanzi ordinato;
G. Luzzi; N. Riveduta; CEI; G. Bonaccorsi, G. Castoldi, G. Giovannozzi, G. Mezzacasa, F. Ramorino, G. Ricciotti, G. M. Zampini; L. Dettori prestabilito
N. Diodati; A. Martini preordinato;
Paideia stabilito;
Marietti destinò;
AV. dichiarato;
Conc. esposto;
N.A.S. esposto pubblicamente;
N.I.; N.I.V. presentato;
P.M.E.; J.B; N.E.B stabilito o designato.

Lo Schlier presenta i seguenti significati del termine in questione: a) «esporre in pubblico»; b) «affiggere pubblicamente», «notificare» e sim.; c) «riferire», «drizzare pubblicamente»; d) «erigere», «porgere», «mettere fuori» e sim. Nel commento scrive:

«Nel nostro contesto non si tratta tanto di «rendere noto pubblicamente», quanto di «esporre in pubblico». «presentare», «offrire», ossia di una generica accezione intermedia fra a), c) e d). Qui, infatti, non si parla dell’evangelo (come Galati 3:1), bensì dell’evento che l’evangelo rende presente. E l’evento consiste per l’appunto nell’avere Dio pubblicamente esposto, presentato, mostrato Cristo Gesù come [ Hilastērion» ] [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pag. 195].

Il Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, dal canto suo, dà la seguente definizione del termine [ protithemai ]: esporre (in pubblico), proporsi, prefissarsi, prefissare, prestabilire. Nel commento scrive: «Nel N.T. è usato solo al med.: in Romani 3:25 (in una formulazione probabilmente da Paolo adottata) in riferimento alla morte espiatrice di Cristo: [hon pro–theto ho thes Hilastērion. Stando al contesto (cfr. 3:21), si tratta di un’azione di Dio riguardante Cristo; si propone quindi la traduzione «che Dio ha esposto / ha mostrato pubblicamente come mezzo di espiazione» [Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, Vol 2, col. 1182]. Dal canto suo, C. Maurer, dice:

«Per Romani 3:25 (hon proetheto ho thes Hilastērion) due sono le interpretazioni possibili. La prima parte dalla considerazione che in Paolo il verbo [ protithemai ] ed il sostantivo [ prothesis ] indicano normalmente una decisione presa, e quindi Romani 3:25 significherebbe «che Dio ha predestinato, ha scelto quale mezzo di espiazione». Questa interpretazione è sostenuta dalla Pescitta, Origene, Crisostomo, l’Ambrosiaster. Ma si può obbiettare che la costruzione col doppio accusativo richiede un verbo d’azione e non di decisione; inoltre il contesto non parla del progetto, bensì dell’attuazione della nuova giustizia di Dio (cfr. Romani 3:21-27). Per tali ragioni e nonostante la varietà semantica di [ Hilastērion il favore va in genere alla seconda interpretazione: «che Dio ha esposto pubblicamente quale mezzo di espiazione» [Cfr. C. Maurer, GLNT, Vol XIII, col. 1262].

Come si può benissimo notare da quanto esposto, nonostante che le due interpretazioni siano diverse, e che la semantica del temine greco può consentire sia l’una che l’altra, nondimeno, preferire la prima interpretazione: «preordinato» o «prestabilito», almeno ha il merito, non solo di trovarsi in piena armonia con l’affermazione dell’Apostolo Pietro, che dice:

sapendo che non con cose corruttibili, come argento od oro, siete stati riscattati dal vostro vano modo di vivere tramandatovi dai padri, ma col prezioso sangue di Cristo, come di Agnello senza difetto e senza macchia, preordinato prima della fondazione del mondo, ma manifestato negli ultimi tempi per voi (1 Pietro 1:18-20),

ma anche e soprattutto perché Gesù Cristo, come vittima per l’espiazione del peccato dell’umanità, è stato designato nell’eternità, prima della fondazione del mondo e prima della sua venuta sulla terra.

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[Modificato da Domenico34 10/10/2011 00:24]
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11/10/2011 00:16

b) Hilastērion:

Anche questa parola greca non è stata unanimemente tradotta:
G. Diodati, l’ha tradotta: per purgamento;
G. Luzzi; L. Dettori: come propiziazione;
N. Riveduta: come sacrificio propiziatorio;
CEI: come strumento di espiazione;
G. Bonaccorsi, G. Castoldi, G. Giovannozzi, G. Mezzacasa, F. Ramorino, G. Ricciotti, G. M. Zampini: mezzo di propiziazione;
N. Diodati: per fare l’espiazione;
Paideia: strumento di espiazione;
Marietti: strumento di propiziazione;
A. Martini; K. J.; N.A.S.; P.M.E: propiziazione;
N.I.; N.I.V.: sacrificio di espiazione;
N.E.B: espiazione;
J.B: sacrificio.

Tutti gli esegeti fanno esplicito riferimento al termine ebraico kappret che i LXX, l’hanno reso in greco [ Hilastērion ], per parlare del «luogo dove i peccati sono cancellati», vale a dire del «propiziatorio», che era una lastra di oro messa a copertura dell’arca nel luogo santissimo» [Cfr. Frederick F. Bruce, L’epistola di Paolo ai Romani, pag. 126].

«La kappret è, secondo (Es. 25:17-22), l’oggetto di culto più importante nel Santo dei Santi del tabernacolo o del tempio, e precisamente una lastra d’oro posta sull’arca del patto, sulla quale stanno, d’ambo i lati, i Cherubini che coprono con le loro ali il luogo della presenza invisibile di Jahvé. Come tale, essa è anche il luogo in cui, per ordine di Jahvé, nel gran giorno della riconciliazione viene fatta l’espiazione per tutta la comunità d’Israele: il sommo sacerdote spruzza il sangue di un giovane animale sulla kappret (Levitico 16)» [Cfr. J. Roloff, in Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, 1 col. 1733].

[ Hilastērion ] che ricorre due volte nel N.T. precisamente in Romani 3:25 e Ebrei 9:5, secondo C. Buzzetti, significa:

«Strumento per ottenere il perdono dei peccati (Rom); luogo dove si offre il sangue per il perdono (Eb)» [Cfr. C. Buzzetti, Dizionario base del Nuovo Testamento, pag. 76].

Siccome nei due passi in questione, pur trovandovi lo stesso termine [ Hilastērion ], esso non può intendersi nella stessa maniera, per il semplice motivo che in Ebrei 9:5 esso descrive il culto divino dell’AT, mentre in Romani 3:25 indica il coperchio posto sopra l’arca dell’alleanza.

«Gli esegeti più antichi, agganciandosi alla tradizione dei LXX, pensano si tratti del coperchio dell’arca dell’alleanza dell’AT e, di conseguenza, intendono Gesù crocifisso come il kappret spiritualizzato, «di rango superiore » (così Büchsel, GLNT, Vol IV, col. 1008). Questa interpretazione è stata messa in discussione da E. Lohse con valide motivazioni. Invece un passo parallelo più in linea con (Romani 3:25), si trova in 4 Mac. 17:21, (libro apocrifo) in cui la morte dei martiri viene indicata come sacrificio espiatorio dei peccati del popolo. Di conseguenza l’Hilastērion, di cui Romani 3:25, non deve essere inteso come l’indicazione di un posto (kappret; da Lutero tradotto con sede di grazia), bensì come evento dell’espiazione del peccato, e perciò tradotto con sacrificio di espiazione» [Cfr. H.G. Link, in Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, pagg. 1560,1561].

Lo Schlier, dal canto suo fa questo ragionamento:

«In primo luogo si afferma (v. 25a) che Dio ha fatto di Cristo Gesù un Hilastērion, il quale viene riconosciuto e afferrato mediante la fede... La kappret poi è il luogo sul quale Jahvé appare in una nube. Essa viene spruzzata col sangue espiatorio delle vittime, che in questo modo deve avvicinarsi il più possibile alla divinità (Levitico 16:14). Filone riprende l’uso del vocabolo in senso tecnico, mostrandosi così ben consapevole di usare un termine biblico. Ma non è questo l’unico significato di Hilastērion nel giudaismo ellenistico. G. Flavio, ad esempio, ignora Hilastērion come designazione tecnica di quel coperchio dell’arca dell’alleanza, ma parla una volta (ant. 16, 182), usa cioè Hilastērion con valore di aggettivo come avviene anche in 4 Mac. 17:21s: dia tou hilastriou thanatou «attraverso la morte espiatrice e sacrificale». Il significato di Hilastērion non è quindi vincolato alla kappret. Stando a queste testimonianze si dovrà intendere, a mio avviso, Hilastērion in Rom 3:25 nel senso generale di «mezzo di espiazione». Se proprio si vuol pensare alla kappret come tipo, il suo antitipo potrebbe essere la croce di Cristo, non Cristo stesso» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pagg. 196,197].

Quando si precisa che le epistole di Paolo sono «piene di citazioni e allusioni ai LXX» [Cfr. F. Büchsel, GLNT, Vol IV, col. 1009], è impensabile che l’Apostolo usi il termine [ Hilastērion ] con lo stesso significato che lo adoperarono i LXX, cioè per parlare di un ‘luogo’, precisamente del coperchio dell’arca dell’alleanza. Dato per certo che lo [ Hilastērion ] di cui Romani 3:25 è Gesù Cristo stesso e che Dio stesso lo ha prestabilito come tale, e, tenendo soprattutto conto della specifica teologia paolina che parla frequentemente della morte di Gesù, in termini di offerta, sacrificio (Galati 2:20; Efesini 5:2) e redenzione per il perdono dei peccati (Romani 3:24; 1 Corinzi 1:30; Efesini 1:7; Col. 1:14), non vediamo la coerenza che possa esserci tra l’uso e il significato che davano i LXX e lo scopo che Paolo si proponeva nell’usare il termine in questione.

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12/10/2011 00:02

Usando [ Hilastērion ], senza dubbio l’Apostolo Paolo aveva in mente il grande giorno dell’espiazione, quando il sommo sacerdote, una volta all’anno, entrava nel luogo santissimo e versava il sangue di un animale sul coperchio kappret dell’arca dell’alleanza, perché l’intera nazione israelita potesse ottenere il perdono dei loro peccati. Quello che compiva il sommo sacerdote israelita nel giorno dell’espiazione, aveva valore solo per il popolo d’Israele; mentre quello che avrebbe compiuto Gesù con la donazione della Sua vita come sacrificio espiatorio, oltre ad includere tutte le nazioni della terra, avrebbe anche raggiunto le sfere celesti (Ebrei 9:23). Davanti alla portata universale del sacrificio di Gesù Cristo, intendere l’Hilastērion di Romani 3:25 come «mezzo di espiazione», rappresenta la soluzione più felice e la conclusione più coerente in armonia con tutta la teologia del N.T.

«Paolo, quindi, per rendere giustizia alla pienezza dell’atto misericordioso di Dio in Cristo, ha reso e collocato nel contesto del proprio ragionamento parole tratte dal linguaggio dei tribunali (« giustificati »), del mercato degli schiavi (« redenzione ») e del tempio (« propiziatorio »). Perdono, liberazione, espiazione — tutti sono messi alla portata e a disposizione degli uomini per la sua iniziativa gratuita, e gli uomini possono appropriarsene per fede. La fede, in questo senso, non è una sorta di opera particolarmente meritoria agli occhi di Dio; è l’atteggiamento semplice e diretto verso Dio, che Lo prende in parola, e accetta con gratitudine la Sua grazia» [Cfr. Frederick F. Bruce, L’epistola di Paolo ai Romani, pag. 129].

c) paresis

Per quanto riguarda l’interpretazione di [ paresis ], che si trova una sola volta nel NT, e cioè in Romani 3:25, i traduttori si sono orientati su due fronti:
G. Diodati, A. Martini e la K. J. remissione;
N. Diodati e Marietti: perdono;
G. Luzzi, N. Riveduta, CEI, G. Ricciotti: tolleranza;
N.A.S., N. I., R.S.V.; N. E. V.: sopportazione.

Per C. Buzzetti, il termine [ paresis ] ha il significato di tolleranza [Cfr. C. Buzzetti, Dizionario base del Nuovo Testamento, pag. 121]; mentre per il ]Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, si tratta di: remissione, condono, perdono [Cfr Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, 2 col. 808]. Per il Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, i termini che Paolo adopera di aphi–mi, aphesis e paresis, hanno lo stesso significato di perdonare [Cfr. Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, pag. 1277].

Da parte sua, lo Schlier, chiede:

«Il problema è se paresis significhi «lasciare andare» nel senso di «lasciare correre, oppure voglia dire «condonare» e «perdonare». In altre parole: paresis è uguale ad aphesis o no?» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pag. 199].

Senza voler addentrare nei particolari, questo autore fa la seguente dichiarazione:

«Siamo d’avviso che in paresis il senso di «lasciare correre» ecc. prevalga su quello di «condonare», anche se talvolta nella sostanza i due significati vengono a coincidere». Ed ancora: «L’uso linguistico non consente, almeno per quanto riguarda paresis, di stabilire con sicurezza il significato, anche se, a mio avviso, paresis va inteso nel senso di «lasciar correre, «lasciare andare», piuttosto che in quello di «perdonare». Poi conclude: «Ma quando la dikaiosun theou si è rivelata in Cristo Gesù, il tempo della paresis è finito e ad esso è succeduto il tempo della decisione, sebbene in effetti la manifestazione della giustizia di Dio sia una dimostrazione di grazia, o meglio proprio perché è tale. Nel rapporto con la grazia si concreta anche il giudizio di Dio. Ora il rapporto personale con la grazia in quanto tale è la fede. La nostra frase (3:25) va perciò intesa così: Dio, senza alcun concorso della legge, ma in un modo predetto dalla Scrittura, ha manifestato nel cosmo la sua giustizia, che è poi la sua fedeltà, la sua verità e la sua gloria. Il cosmo, è vero, non reca più l’originario splendore della creazione, bensì è soggetto al peccato, ma la giustizia di Dio si manifesta come grazia che giustifica il credente. E il modo della manifestazione è questo: Dio presenta ed offre Gesù Cristo come strumento di espiazione, che in quanto tale viene conosciuto e riconosciuto solo dalla fede. E così la temporanea tolleranza dei peccati è giunta alla fine. Ora non è più il tempo in cui Dio si trattiene, ma il tempo in cui pronuncia la sua decisione» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pagg. 199-202].

6) Romani 3:26:


per manifestare la sua giustizia nel tempo presente, affinché egli sia giusto e giustificatore di colui che ha la fede [ pisteōs ] di Gesù.

La manifestazione della giustizia di Dio nel tempo ‘presente’, che è appunto il tempo della grazia, mediante l’opera che Cristo Gesù ha compiuto morendo sulla croce del Calvario, si concretizza nell’opera di giustificazione del peccatore, che Dio giusto compie, sulla base della fede che si ha in Gesù. Questo significa in parole più semplici che, nonostante che Cristo abbia fatto di sé stesso il sacrificio espiatorio per il perdono dei peccati, e che la giustizia divina sia stata pienamente soddisfatta, il peccatore non riceve il perdono dei suoi peccati e con esso la giustificazione in maniera automatica; occorre il suo concorso, che consiste semplicemente e solamente con la sua fede in Gesù, per potere largamente usufruirne del grande beneficio. La fede, quindi, in ultima analisi, facendo leva su quello che Gesù ha compiuto per il peccatore e credendo appieno che l’opera Sua è sufficiente per la salvezza, questi si appropria il beneficio della grazia divina.

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13/10/2011 00:09

7) Romani 3:27:

Dov’è dunque il vanto? È escluso. Per quale legge? Quelle delle opere? No, ma per la legge della fede. pistes

«La giustificazione per la fede, quale procede dalla manifestazione della giustizia di Dio, non consente più alcun «vanto» umano né per i Giudei, né per i gentili» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pagg. 199-202].

Quando l’Apostolo chiede: Per quale legge? Quella delle opere?. Il riferimento è senza dubbio alla legge mosaica, che per i Giudei, in modo particolare, costituiva la fonte del loro vanto, una specie di opere meritorie. Siccome Paolo ha stabilito precedentemente, in maniera dogmatica che: nessuna carne sarà giustificata davanti a Dio per le opere della legge (v. 20), la sua domanda, non solo ha piena attinenza con la dottrina della giustificazione per fede, ma ne rappresenta anche un ulteriore chiarimento, in quanto che, la giustificazione del peccatore, non è basata su quello che egli compie, ma unicamente su quello che Gesù Cristo ha compiuto.

«Nella risposta alla domanda («no, mediante la legge della fede») questo significato formale nomos risulta ben chiaro, senza tuttavia perdere il suo carattere paradossale. nomos pistes è il nuovo regime di salvezza, la nuova legge salutare invalsa con la fede (cfr. Galati 3:23,25), la quale a sua volta è giunta con Cristo. La fede è la richiesta perentoria che si pone ora al mondo. Questa richiesta esclude l’antica legge, la quale esige le «opere» e attraverso le «opere» provoca il «vanto». Ora Dio ha stabilito la fede come via di salvezza ed è la legge della fede che regola il mondo» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pag. 204].

8) Romani 3:28:

Noi dunque riteniamo che l’uomo è giustificato mediante la fede [ pistei ] senza le opere della legge.

Avendo l’Apostolo saldamente stabilito in 3:27 che l’uomo, per la sua giustificazione non può fare ricorso al vanto delle opere della legge, perché ai fini di questa azione giuridica di Dio queste non hanno nessun valore, poiché la giustificazione non viene realizzata sulla base delle opere della legge, ma su quella della fede, in questo verso fa conoscere la sua convinzione su quello che ha affermato nei versetti precedenti. Il noi riteniamo, che è un plurale, non parla solo dell’Apostolo ma abbraccia anche tutti gli altri che sono sullo stesso piano di convincimento come lui. L’affermazione secca e categorica in senso conclusivo che la giustificazione dell’uomo avviene solamente mediante la fede senza le opere della legge, è valevole per tutti, Giudei e Gentili.

«Paolo non vuol intendere che le opere della legge non debbano essere rispettate e compiute, ma che anche quando un uomo le rispetti e compia sufficientemente bene, non pertanto è giustificato agli occhi di Dio. dicendo questo Paolo scava la terra sotto i piedi di quelli che dicono: «Ho sempre fatto come meglio ho potuto... Cerco di vivere in modo decente, irreprensibile... non imbroglio mai nessuno, che cos’altro vuole Dio da me?» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pag. 205].

9) Romani 3:30:

Poiché vi è un solo Dio, che giustificherà il circonciso per fede pistes, e anche l’incirconciso mediante la fede pistes.

Con l’affermazione che l’Apostolo fa che Dio giustifica il circonciso e l’incirconciso, — allusione chiaramente per il Giudeo e per il pagano —, Egli non fa nessuna differenza e non tiene conto a quale gruppo etnico si appartiene; l’unica cosa a cui Dio guarda, sia per il Giudeo che per il pagano è la fede, senza quale non è possibile ricevere la giustificazione.

10) Romani 3:31:

Annulliamo noi dunque la legge mediante la fede? pistes Così non sia; anzi stabiliamo la legge.

In vista delle precise affermazioni che Paolo ha fatto nei vv. 20,27-30, qualcuno potrebbe fraintenderlo, e comprendere che egli, insegnando la dottrina della fede, lo faccia a scapito della legge, nel senso di volerla abrogare. La domanda che l’Apostolo fa, mira appunto a precisare che la fede non annulla la legge, ma la stabilisce o la conferma. Si potrebbe chiedere: In che modo? Nel senso dell’adempimento della legge

«Romani 3:31 deve essere interpretato sulla base del v. 27b (contrapposizione di legge della fede e legge delle opere): la legge come volontà di Dio attestata nell’A.T. è una legge della fede e non delle opere e viene perciò adempiuta e valorizzata soltanto mediante la fede» [Cfr. Frederick F. Bruce, L’epistola di Paolo ai Romani, pag. 131].

11) Romani 4:5:

invece colui che non opera, ma crede in colui che giustifica l’empio, la sua fede [ pistis ] gli è imputata come giustizia.

La menzione di colui che non opera, ma crede in colui che giustifica, viene fatta per dimostrare che la giustificazione non avviene sulla base di quello che si fa, (opera) ma sulla base di credere in colui che compie una simile azione. Siccome Paolo ha preso in esempio il patriarca Abrahamo per sostenere le sue affermazioni intorno alla giustificazione per fede, è necessario che la sua tesi venga sostenuta con un passo scritturale. Or Abrahamo credette a Dio e ciò gli fu imputato a giustizia.

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[Modificato da Domenico34 13/10/2011 00:09]
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14/10/2011 00:05

Se si considera la Scrittura che l’Apostolo cita, che è (Genesi 15:6) in cui Dio fa una specifica promessa ad Abramo per quanto riguarda la sua discendenza, si può comprendere subito il valore della fede di Abramo, non attraverso un’opera che egli ha compiuto, ma credendo a tutto quello che Dio gli ha detto. Siccome Dio non si limitò solamente a promettere una discendenza al suo servitore, ma parlò di una abbondanza di progenie, si rendeva necessario far comprendere ad Abramo in quale dimensione Egli voleva guidarlo e in quali termini Abramo avrebbe dovuto pensare.

«Mira il cielo e conta le stesse, se le puoi contare», quindi aggiunse: «Così sarà la tua discendenza» (Genesi 15:5).

Se Abramo avesse dovuto compiere ‘un’opera’, — secondo che la logica umana avrebbe suggerito di fare, nel senso dell’argomentazione che fa Paolo — in quella specifica circostanza, l’opera sarebbe consistita nel contare le stelle del cielo; questo però Abramo non l’ha fatto, quindi, l’evidenza e la dimostrazione per l’Apostolo è chiarissima.

La seconda citazione che l’Apostolo adduce, (la prima l’ha tratta dalla Torà e la seconda da un salmo), si trova in armonia con un principio giudaico secondo cui la verità dev’essere confermata da due testimonianze, la seconda delle sette norme ermeneutiche di Hillel,

«la quale viene a dire che parole identiche (e di eguale terminazione) che si ritrovano in due luoghi diversi della Scrittura, si spiegano reciprocamente» [Cfr. M. Wolter, Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, 2 col. 1791].

Le due testimonianza scritturali che Paolo adduce, servono essenzialmente, non solo per provare che la giustizia ad Abrahamo non gli venne accreditata in base a quello che egli fece, ma unicamente sulla base della sua fede, credendo a quello che Dio gli aveva detto, ma serve anche e soprattutto come principio universale che la giustizia viene imputata, solamente a colui che crede in colui che giustifica l’empio e non a colui che opera.

12) Romani 4:9:


Ora dunque questa beatitudine vale solo per i circoncisi, o anche per gli incirconcisi? Perché noi diciamo che la fede [ pistis ] fu imputata ad Abrahamo come giustizia.

La beatitudine del Salmo 32:1,2, secondo l’interpretazione rabbinica, era un’esclusiva del popolo d’Israele all’infuori del quale non era pensabile che Dio perdonasse i peccati. Questa precisazione che i rabbini facevano nella spiegazione del Salmo in questione, senza dubbio Paolo la conosceva. Con la sua domanda se questa beatitudine vale solo per i circoncisi ( = Giudei) o debba estendersi anche agli incirconcisi ( = pagani), l’Apostolo dimostra di non condividere più quello che per un tempo credeva e sosteneva. Citando di nuovo (Genesi 15:6), l’Apostolo vuole ribadire quello che ha già detto al (v. 5), cioè che la fede fu imputata ad Abrahamo come giustizia.

Una risposta alla sua domanda, avrebbe eliminato un possibile equivoco di incomprensione; non facendolo però, l’Apostolo si esponeva a un possibile fraintendimento. Siccome nella mente di Paolo c’era la risposta alla sua domanda, egli non l’ha voluta dare senza prima fare una considerazione teologica, che contribuirà notevolmente a far comprendere ai suoi lettori quello che egli intendeva sulla vita del patriarca Abrahamo.

13) Romani 4:11:

Poi ricevette il segno della circoncisione, come sigillo della giustizia della fede pistes che aveva avuto mentre era ancora incirconciso, affinché fosse il padre di tutti quelli che credono anche se incirconcisi, affinché anche a loro sia imputata la giustizia.

Ritornando alla giustizia che venne imputata ad Abrahamo, all’Apostolo urge la necessità di sapere in che modo gli venne imputata. Ancora una volta chiede: Mentre era circonciso o incirconciso? La risposta è: Non mentre era circonciso, ma quando era incirconciso (v.10). Una volta che l’Apostolo risponde con certezza che la giustizia venne imputata ad Abrahamo quando egli era incirconciso, cioè pagano, tutto il resto della sua argomentazione, ha più senso e può dare anche la risposta alla sua domanda nel (v. 9). L’esattezza della risposta di Paolo,

«concorda in effetti col racconto dell’A.T., che la sinagoga interpretava nel senso che la circoncisione di Abramo, secondo Genesi 17:10s., sarebbe avvenuta 29 anni dopo la stipulazione dell’alleanza (Genesi 15:10). È chiaro quindi che Abramo ricevette la giustizia per fede quando era ancora un pagano incirconciso» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pag. 219, nota 17].

Stabilito questo punto importante, la conclusione che Paolo fa, ha più attinenza e può maggiormente chiarire come Abrahamo possa essere considerato il padre di tutti quelli che credono. Se il segno della circoncisione, come sigillo della giustizia della fede, Abrahamo lo ricevette dopo essere stato giustificato mentre era ancora incirconciso, quel sigillo, aveva lo scopo di elevare Abrahamo a padre di tutti quelli che credono anche se incirconcisi, affinché anche a loro sia imputata la giustizia.

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15/10/2011 00:08

Con questa considerazione teologica, la risposta alla domanda del (v. 9) se la beatitudine del Salmo 32:1,2 vale solo per i circoncisi, o anche per gli incirconcisi, è che gli uni e gli altri sono inclusi e che Abrahamo deve essere considerato il padre degli Ebrei e dei pagani, per ciò che riguarda la giustizia della fede.

14) Romani 4:12:


e fosse il padre dei veri circoncisi, di quelli cioè che non solo sono circoncisi, ma che seguono anche le orme della fede pistes del nostro padre Abrahamo, che egli ebbe mentre era incirconciso.

Paolo ha voluto mettere in evidenza che la fede di Abrahamo gli è stata messa in conto di giustizia quando egli era ancora incirconciso. Se egli è il padre dei circoncisi ( = Giudei), lo è non di quelli che hanno solamente il segno nella carne, ma di quelli che seguono la fede del patriarca, fede che ebbe mentre egli era incirconciso.

«Quel che Abramo ricevette da Dio, fu accordato alla sua fede, e quel che egli fece, fu prescritto dalla sua fede. In tal modo egli divenne modello e guida dei suoi figli, i quali divengono tali in quanto si collocano nella schiera dei credenti» (Schlatter). Posto dunque che Abramo fu giustificato per la fede, non si potrà obiettare che ciò avvenne a motivo della circoncisione, perché in realtà questa fu preceduta dalla fede e dalla giustificazione del patriarca. È quanto Paolo ha dimostrato» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pag. 222].

15) Romani 4:13:

Infatti la promessa di essere erede del mondo non fu fatta ad Abrahamo e alla sua progenie mediante la legge, ma attraverso la giustizia della fede. pistes

La prima osservazione che l’Apostolo fa per quanto riguarda la promessa di Dio fatta ad Abrahamo, è che essa non venne fatta in forza della legge La legge non aveva avuto parte alcuna in quella promessa nella cui accettazione consiste la fede di Abramo. La promessa rivolta ad Abramo consiste, secondo l’A.T.,

1. nella promessa che Sara avrebbe avuto un figlio (Genesi 15:5; 17:16,19);
2. nella promessa della presa di possesso di Canaan (Genesi 12:1,4; 13:14,15,17; 15:7,18-21; 17:8);
3. nella promessa di una discendenza innumerevole (Genesi 12:2; 13:16; 15:1; 17:5); 18:18; 22:17;
4. nella promessa di benedizione per tutti i popoli della terra (Genesi 12:2; 18:18;22:18).

Siccome questa promessa Dio non la fece ad Abramo in virtù della legge, ma unicamente attraverso la giustizia della fede, ne consegue quello che l’Apostolo afferma nel (v. 14)

16) Romani 4:14:

Poiché se sono eredi quelli che sono della legge, la fede [pistes ] è resa vana e la promessa annullata.

L’affermazione di rendere vana la fede e la promessa annullata, deriva dal fatto che, nella legge e nella fede, ci sono, da parte dell’uomo, due atteggiamenti diversi: Il primo coglie il vanto per quello che fa, il secondo invece, escludendo ogni forma di vanto, si aggrappa a quello che Dio dice e manifesta piena fiducia nella Sua parola. La fede inquadrata sotto questo aspetto, non solo viene vitalizzata nella sua funzione, ma ne risulta anche l’elemento fondamentale per ogni tipo di promessa divina.

17) Romani 4:16:

Perciò l’eredità è per la fede [ pistes ]; in tal modo essa è per grazia, affinché la promessa sia assicurata a tutta la progenie, non solamente a quella che è dalla legge, ma anche a quella che deriva dalla fede pistes di Abrahamo....

Nel proseguimento della sua valutazione teologica, l’Apostolo aggiunge un altro e un nuovo tassello nel mosaico della sua argomentazione: la grazia. Ed è proprio la grazia, = favore immeritato, che non solo dà più peso e valore a quello che egli sta dicendo, ma anche e soprattutto rende stabile o sicura la promessa per tutta la discendenza, cioè per tutti i credenti. Siccome nella prospettiva di questa promessa ci sono tutti, onde evitare qualsiasi fraintendimento, (dato che Paolo sta parlando della progenie) viene chiaramente detto: non solamente a quella che è dalla legge, ma anche a quella che deriva dalla fede, volendo così includere credenti Giudei e credenti pagani.

18) Romani 4:19:

E, non essendo affatto debole nella fede [ pistei ], non riguardò al suo corpo già reso come morto (avendo egli quasi cent’anni), né al grembo già morto di Sara.

Nel (v. 17) viene ricordata la promessa di Genesi 17:5 in base alla quale Abrahamo sarebbe diventato padre di molte nazioni e nel (v. 18) viene affermato che egli, sperando contro ogni speranza, credette per diventare padre di molte nazioni.

Davanti a simili affermazioni, si rendeva necessario che l’Apostolo parlasse dell’adempimento di questa promessa divina, e per fare ciò, parla della vita fisica di Abrahamo e di sua moglie Sara. Paolo usa un’espressione che allude al corpo del patriarca e lo definisce reso come morto, volendo con ciò significare che le funzioni sessuali di Abrahamo erano pressoché inesistenti e a quelle del grembo di sua moglie Sara morte, cioè fisiologicamente inattive. Ma siccome l’intenzione dell’Apostolo era di parlare della fede di Abrahamo, l’aspetto fisiologico che egli presenta, serve principalmente dimostrare come questa fede non venne meno.

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16/10/2011 00:18

Se Abrahamo avesse guardato e valutato il suo corpo e quello di sua moglie, dal punto di vista fisiologico, avrebbe detto: «Non è possibile che io, a questa età di novantanove anni, e, per giunta nella condizione fisiologica in cui mi trovo e mia moglie novantenne, con le mestruazioni che le sono terminate, (Genesi 18:11) possiamo avere figli». Se il patriarca avesse ragionato in quel modo, non solo la promessa di Dio sarebbe stata una semplice utopia, ma addirittura annullata e l’adempimento non avrebbe avuto luogo.

19) Romani 4:20,21:


Neppure dubitò per incredulità riguardo alla promessa di Dio, ma fu fortificato nella fede [ pistei ] e diede gloria a Dio, pienamente convinto che ciò che egli aveva promesso era anche potente da farlo.

La minaccia dell’incredulità era forte per Abrahamo, per i motivi suddetti (v. 19). Egli però, senza dubitare, volse lo sguardo a colui che aveva fatto la promessa, affermando che lo stesso Dio, era anche potente da farlo. La fede viene fortificata quando si guarda verso Dio e si tiene conto della Sua immutabile Parola. Anche se l’opera di portare alla luce un figlio, — dal punto di vista prettamente fisiologico sarebbe dipeso dall’unione sessuale di Abrahamo con Sara — nondimeno il patriarca sapeva con convinzione che Dio l’avrebbe operata. Con questa forte argomentazione che l’apostolo Paolo ha condotto sulla vita di Abrahamo, egli è riuscito a far comprendere che in ultima analisi quello che conta davanti a Dio, sia per l’appropriazione della giustizia come per le promesse divine, è la fede che, facendo affidamento su quello che Dio può fare e tenendo conto di quello che Egli ha detto, ci libera da ogni forma di incredulità, e realizza in noi i suoi piani e i disegni di Dio.

20) Romani 5:1:

Giustificati dunque per fede, [ pistes] abbiamo pace presso Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore.

La giustificazione per fede è stata ampiamente discussa e dimostrata nel capitolo 3; ora l’Apostolo tratta del risultato che produce nella vita di colui che gli è stata imputata la giustizia di Dio per la fede in Cristo Gesù. Questo risultato possiamo anche definirlo come una serie di benedizioni che accompagnano la vita del giustificato. «La prima di esse è la pace con Dio» .

«La «pace» non è lo «stato di equilibrio dell’animo nostro» e neppure una disposizione del nostro vivere. «Pace» non indica neppure primariamente il nostro comportamento pacifico. La pace è in primo luogo la pace di Dio intesa come la pace in cui ci troviamo, lo stato di pace che ci sorregge e del quale siamo divenuti partecipi in quanto giustificati per la fede» [Cfr. Frederick F. Bruce, L’epistola di Paolo ai Romani, pag. 144].

La preposizione [ pros ] che è stata resa presso, è meglio tradurla con, (come fanno la N. Riveduta, la CEI e tanti altri comprese le versioni inglesi), perché meglio risponde allo ‘stato’ in cui si trova colui che è stato giustificato davanti a Dio, di cui Paolo intende chiaramente parlare. Se poi il detto paolino si collega col detto del profeta Isaia: L’effetto della giustizia sarà la pace (Isaia 32:17), la verità che l’Apostolo intende proclamare, appare con maggiore incisività.

Parlare della pace con Dio, come primo risultato, significa in definitiva parlare del rapporto che intercorreva tra l’uomo e Dio prima della giustificazione. Si sa con certezza che l’uomo, a causa del suo peccato, viveva in uno stato di guerra con Dio; il suo rapporto con Lui, non era quello di un ‘amico’, bensì quello di un ‘nemico’. Paolo afferma chiaramente che
mentre eravamo nemici siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del suo Figlio (5:10).

Dio non è mai stato il nemico dell’uomo; è stato sempre l’uomo il nemico di Dio. Colui che ha operato la riconciliazione tra l’uomo e Dio, è stato Gesù Cristo, mediante la sua morte sulla croce del Calvario. Non ci sarebbe stata nessuna riconciliazione, se non fosse intervenuto un terzo (Gesù Cristo) che, fungendo da mediatore ( 1 Timoteo 2:5) raggiungesse quello scopo. Aggiungiamo anche che l’opera della riconciliazione non sarebbe stata raggiunta, se non ci fosse stato lo spargimento del sangue. Non del sangue di un animale, ma del sangue di un’innocente; dell’agnello di Dio, Gesù Cristo, preconosciuto prima della fondazione del mondo (1 Pietro 1:19).

Ora che quest’opera è stata portata a compimento, tutti coloro che sono giustificati per fede, ‘hanno’ pace con Dio. Il presente del verbo avere, è molto importante per sapere valutare quello che il credente possiede.

21) Romani 5:2:

per mezzo del quale abbiamo anche avuto, mediante la fede, [ pistei ] l’accesso a questa grazia nella quale stiamo saldi e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio.

In questo secondo versetto del capitolo cinque, sono menzionate altre benedizioni che l’uomo ha ricevuto mediante la giustificazione per fede. Il (v. 1) parla della pace con Dio, il (v. 2) presenta il privilegio di accesso a questa grazia e il vanto nella speranza della gloria di Dio. Tutto questo, naturalmente, per mezzo di Gesù Cristo. Come comprendere? Prima della giustificazione per fede, il peccatore viveva in uno stato di inimicizia con Dio, ragion per cui, oltre a non godere l’abbondanza della grazia divina, vedeva tutto distorto intorno a sé, cioè come se Dio fosse il suo più accanito nemico che lo perseguitava con la sua severità punitiva. Ma da quando però Gesù Cristo ha compiuto l’opera di riconciliazione tra l’uomo e Dio, mediante il sacrificio della Sua morte, il peccatore, non solo ha potuto vedere le cose nel modo giusto, cioè che non era vero che fosse Dio il suo nemico, ma era lui il nemico di Dio, costatando anche la differenza che è venuta a determinarsi tra lui e Dio, per ciò che riguarda il rapporto di comunione con Lui.

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17/10/2011 00:07

Una volta che il peccato, oggetto di separazione e di discordia tra l’uomo e Dio è stato rimosso — e questo è avvenuto con la giustificazione per fede —, il peccatore giustificato, non solo si trova in pace con Dio, ma può accedere alla grazia, cioè a quel favore immeritato divino, a cui prima non aveva nessun diritto di partecipare, in virtù del merito acquistatogli da Gesù Cristo. Una volta che tutti gli ostacoli sono stati rimossi, il giustificato per fede, non solo gode pace con Dio e la ricchezza della grazia divina, ma può anche esprimere il suo vanto nella speranza della gloria di Dio. Un simile vantarsi, non è più quello di sé stesso o delle opere della legge, ma un prendere coscienza di uno stato, in cui tutto è diventato nuovo.

«Vantarsi è avere una fiducia radicale. Quando invece l’uomo si «vanta» di Dio, del Signore (cfr. 1 Corinzi 1:31; 2 Corinzi 10:17; Filippesi 3:3; anche Galati 6:13; 2 Corinzi 11:30; 12:9), allora al [ cauchasthai ] si lega il momento della gioia e del giubilo. In tal cosa «vantarsi» assume in qualche modo il senso di un riconoscimento e di lode» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pagg. 244,245]. «Pace e gioia sono due benedizioni gemelle del vangelo; come ha detto un vecchio predicatore scozzese, «la pace è la gioia che riposa; la gioia è la pace che danza» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pag. 248].

Infine, il vantarsi del giustificato, ha come scopo e finalità, la gloria di Dio. La speranza della gloria di Dio, riguarda essenzialmente il futuro, quando i credenti saranno portati nella casa del Padre (Giovanni 14:2), questo però non toglie che anche al presente si possa vedere e godere la gloria di Dio, se si crede (Giovanni 11:40).

22) Romani 9:30:


Che diremo dunque? che i gentili, che non cercavano la giustizia, hanno ottenuta la giustizia, quella giustizia però che deriva dalla fede. pistes

A differenza di Israele che cercava la legge della giustizia e non è arrivato alla legge della giustizia (v. 31), i gentili, che pur non cercando la giustizia, l’hanno però ottenuta. Non si tratta però, precisa l’Apostolo, della giustizia della legge, ma quella che deriva dalla fede. Per Paolo che ha fatto una lunga discussione nei capitoli 3 e 4 intorno alla giustizia della legge, quello che ha valore davanti a Dio, è la giustizia che Dio offre al peccatore, mediante la fede in Cristo Gesù, e non quella che si basa sulla legge Di conseguenza, ogni ricerca della giustizia al di fuori della fede, rappresenta un vano ricercare, senza ottenere quello che si cerca. Anche se questo ragionamento l’Apostolo lo fa per il popolo d’Israele, è valido per ogni persona che si muove su questo terreno.

23) Romani 9:32:

Perché? Perché la cercava non mediante la fede [ pistes] ma mediante le opere della legge; essi infatti hanno urtato nella pietra d’inciampo.

Alla domanda che Paolo pone per sapere perché Israele non ha ottenuto la giustizia che cercava, lui stesso fornisce la risposta e dice chiaramente perché la cercava mediante le opere della legge In tutta l’argomentazione che l’Apostolo ha condotto nei primi quattro capitoli della sua epistola ai Romani, egli ha dimostrato che le opere della legge portano l’uomo a vantarsi per quello che egli ha fatto. Siccome la giustizia di Dio è data per grazia = favore immeritato, mediante la fede, non c’è posto per nessuna forma di vanto che l’uomo potrebbe reclamare o avvalersi. Di conseguenza, agendo così Israele, è finito per imbattersi nella pietra d’inciampo.

24) Romani 10:6:

Ma la giustizia che proviene dalla fede [ pistes] dice così: «Non dire in cuor tuo: Chi salirà in Cielo?». Questo significa farne discendere Cristo.

Se si esamina la citazione del (Deuteronomio 30:12) che Paolo adduce, per sostenere la sua argomentazione, si vedrà facilmente che il testo del Deuteronomio parla del comandamento che Mosè stava per prescrivere al popolo d’Israele, comandamento che non sarebbe stato troppo difficile per comprenderlo e troppo lontano da lui. Non si trattava neanche di pensare che questo comandamento sarebbe stato in cielo, per cui chiedere: Chi salirà per noi in cielo per portarcelo e farcelo ascoltare, perché lo mettiamo in pratica? (Deuteronomio 30:12). A differenza di Mosè che parlava del comandamento, Paolo sta parlando della giustizia, non quella della legge naturalmente, ma quella mediante la fede. Ragion per cui, la fede che si appropria questa giustizia, non è portata a dire in cuor suo: Chi salirà in Cielo? Perché giustamente l’Apostolo conclude che questo significherebbe far discendere Cristo.

25) Romani 10:8:

Ma che dice essa? «La parola è presso di te, nella tua bocca e nel tuo cuore». Questa è la parola della fede, [ pistes] che noi predichiamo.

Il testo del (Deuteronomio 30:14) che Paolo cita, parla espressamente della parola che è molto vicina... nella bocca e nel cuore per metterla in pratica. Però, siccome l’Apostolo ha davanti a sé la fede e non il comandamento, egli dà giustamente alla parola del Deuteronomio, il senso spirituale della fede, che poi è quella che egli stesso predica. Vista e valutata in questa prospettiva l’argomentazione dell’Apostolo, la parola della fede, è proprio quella che esce dalla bocca.

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18/10/2011 00:13

Le parole di Gesù, contenute in Marco 11:22,23:
Allora Gesù, rispondendo, disse loro: «Abbiate la fede di Dio! Perché in verità vi dico che se alcuno dirà a questo monte: Spostati e gettati nel mare, e non dubiterà in cuor suo, ma crederà che quanto dice avverrà, qualunque cosa dirà gli sarà concesso,

non solo si trovano in armonia con quelle di Paolo, ma hanno anche lo stesso significato. Infine la parola della fede, secondo l’insegnamento dell’Apostolo Paolo, deve essere predicata nella stessa maniera come si predicano tutte le altre verità bibliche.

26) Romani 10:17:


La fede [ pistis ] dunque viene dall’udire, e l’udire viene dalla parola di Dio.

Il termine greco [ aco ] che da molti è stato tradotto udire, tranne alcuni che l’hanno reso predicazione (cfr. CEI; Marietti; L. Dettori; Jerusalem Bible), abbraccia i due significati. A rigore, quindi, non si può dire che il primo significato è da accettare e il secondo da respingere. Per quanto riguarda invece la frase terminale, che alcune traduzioni riportano parola di Dio ed altre parola di Cristo, tutto dipende dai codici di riferimento poiché è risaputo che ve ne sono di quelli che hanno parola di Dio e altri che hanno parola di Cristo.

Queste disquisizioni linguistiche, per ciò che riguarda la fede, di cui Paolo sta parlando, non hanno nessuna importanza fondamentale, per il fatto che non si tratta del semplice udire o della semplice proclamazione della parola umana; si tratta invece di udire e proclamare la parola divina. Siccome la parola di Dio o quella di Cristo, possiedono una virtù divina che possono produrre effetti nella vita umana, — che l’Apostolo chiama fede —, tutta l’importanza risiede nell’attitudine che l’uomo assume davanti al messaggio che si ascolta o che si predica.

Davanti all’affermazione paolina, unica nel suo genere in tutto il N.T., bisogna insistere per far comprendere alle persone quanto sia importante assumere un giusto atteggiamento davanti alla Parola di Dio. Ne consegue che più si ascolta o si predica questa Parola, il risultato sarà sicuro, allorquando la fede, di cui l’uomo ha assoluto bisogno, se vuole essere gradito a Dio (Ebrei 11:6), la si vedrà germogliare.

27) Romani 11:20:

Bene; essi sono stati troncati per l’incredulità e tu stai ritto per la fede; [ pistei ] non insuperbirti, ma temi.

In tutto il capitolo 11 dell’epistola ai Romani, Paolo affronta il grande problema del rigetto e dell’incredulità del popolo d’Israele, nei confronti di Cristo e del vangelo, e, nello stesso tempo pone il gentile davanti alla sua responsabilità, in modo da evitare di cadere nella superbia. Se Israele è stato troncato dall’ulivo, essendo ramo naturale, lo è stato unicamente per la sua incredulità; mentre i gentili, che sono per natura olivastri, se sono stati innestati, è per renderli partecipi della radice e della grassezza dell’olivo nonché della bontà di Dio (v. 17,22). Davanti a questa precisazione che Paolo fa, il credente gentile deve fare molta attenzione se non vuole cadere nel peccato della superbia e della vanagloria.

28) Romani 12:3:

Infatti, per la grazia che mi è stata data, dico a ciascuno che si trovi fra voi di non avere alcun concetto più alto di quello che conviene avere, ma di avere un concetto sobrio, secondo la misura della fede [ pistes] che Dio ha distribuito a ciascuno.

L’affermazione che contiene questo verso, unica nel suo genere in tutto il N.T., riguarda appunto la misura di fede, che Dio ha distribuito. Come abbiamo fatto notare precedentemente, la cosa che l’Apostolo vuole mettere in evidenza, è il fatto che ogni credente ha ricevuto da Dio una misura di fede, uguale per tutti. Se questa misura di fede, (non importa se è piccola o grande) non fosse uguale per tutti, oltre che i credenti potrebbero argomentare, Dio stesso sarebbe tacciato di parzialità. Siccome si sa con estrema certezza che Dio non agisce con parzialità, il credente deve prendere atto che Dio gli ha dato una misura di fede. Naturalmente questa fede, nell’esercizio della vita di tutti i giorni, potrà aumentare o scemare, a seconda del come il credente si comporterà davanti ad essa

29) Romani 12:6:

Ora, avendo noi doni differenti secondo la grazia che ci è stata data, se abbiamo profezia, profetizziamo secondo la proporzione della fede. [ pistes]

I doni che si ricevono, sono tutti secondo la grazia che ci è stata data. Questo significa che nessun dono viene dato all’uomo per merito personale, ma tutto viene dato per grazia. Secondo quello che dice Paolo nella (1 Corinzi 12:1-11), lo Spirito Santo è quello che distribuisce i doni per essere usati a beneficio del popolo di Dio, la Chiesa di Gesù Cristo, e mai a beneficio della persona stessa che li riceve. Questo perché i doni dello Spirito, sono destinati all’edificazione del corpo di Cristo. Per quanto riguarda il dono della profezia, a cui il nostro testo fa esplicito riferimento, bisogna dire che esso ha una funzione particolare, non perché sia il migliore rispetto agli altri doni, ma principalmente in vista delle aree che copre nel suo svolgimento.

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19/10/2011 00:11

Senza ricorrere all’A.T. per conoscere la funzione del profeta e del suo ministero, atteniamoci a quello che dice il N.T., per comprendere perché il profeta del N.T. svolge una diversa funzione rispetto a quella dell’A.T.

Il triplice scopo della profezia neotestamentaria, consiste nel parlare agli uomini per edificazione, esortazione e consolazione (1 Corinzi 14:3). Questa definizione bene circostanziata, non vuole assolutamente dire che il profeta nello svolgimento del dono ricevuto, non possa uscire fuori da queste aree, e predire un avvenimento futuro (Atti 11:28); 21: 10-11), o rivelare un segreto del cuore (1 Corinzi 14:25). Queste manifestazioni profetiche, non costituiscono gli elementi fondamentali del dono della profezia; gli elementi fondamentali del ministero profetico del N.T. rimangono quelli di (1 Corinzi 14:3). Se si tiene conto che la profezia non è per i non credenti, ma per i credenti (1 Corinzi 14:22), si potrà meglio valutarne la portata.

Riguardo all’attività profetica, secondo questo testo, alcuni hanno pensato che ciò coincide con quella pastorale, credendo che il pastore nello svolgimento del suo ministero, raggruppi queste tre funzioni di edificare, esortare e consolare. Lungi dal negare che il ministero pastorale tocchi queste specifiche aree, non si può tuttavia affermare che il ministero pastorale incorpori quello del profeta. Se così fosse, le specificazioni che l’apostolo Paolo fa, quando parla dell’uno e dell’altro, non avrebbero nessun valore e neanche un senso logico (cfr. 1 Corinzi 12:28-29; Efesini 4:11).

Dal momento che è certo che il ministero del pastore è ben diverso da quello del profeta, per il semplice fatto che per il primo c’è bisogno di una certa preparazione scolastica, di un certo impegno particolare nello studio e nella preparazione di quello che vorrà dire al popolo; per il secondo invece, tutto è imperniato nella ispirazione estemporanea che lo Spirito Santo dà nel momento in cui il profeta dovrà profetizzare. Detto questo a mo’ di chiarimento, cerchiamo di comprendere il testo di (Romani 12:6).

La prima cosa che si pone davanti alla nostra riflessione è la seguente:
1. Perché il profeta deve profetizzare, secondo la proporzione della fede?
2. Che c’entra la fede col profetizzare, dato che l’esercizio di questo dono dipende dall’ispirazione che si riceve dallo Spirito Santo?

Quando un profeta è portato all’esortazione, la sua fede, ha un ruolo importante in quello che dovrà dire, perché si sa generalmente che l’esortazione produce sempre un effetto nella vita di colui che ascolta: potrebbe aprire una ferita; causare lacrime, dolore, tristezza, costernazione. Colui che profetizza dovrà tener presente che queste manifestazioni sgradevoli, successivamente si cambieranno in bene.

Quando subentrerà la conversione, il ravvedimento e il pentimento, la persona dirà: Quello che ho provato quando sono stato esortato; le lacrime che ho versato, il dolore che ho avvertito, la tristezza che si è verificata e la costernazione che si è manifestata in me, mi hanno indotto a riflettere sul mio agire, come comportarmi, sulla maniera in cui conduco la mia vita. In conseguenza di tutto questo, ho potuto notare il bene che mi ha fatto quella esortazione, perché mi ha riportato sul sentiero diritto, mi ha avvicinato a Dio, mi ha reso più interessato per le cose di Dio, mi ha spronato ad essere più zelante e più fedele alla volontà di Dio.

Se il profeta però, avesse pensato solamente all’inquietudine creata nella vita della persona che è stata esortata, anziché pensare al bene successivo, certamente sarebbe stato indotto a non esortare. Ma con la porzione della sua fede, ha pronunciato la sua esortazione, con la piena certezza di vedere il risultato benevolo. La fede è sempre certezza di cose che si sperano, e dimostrazione di cose che non si vedono (Ebrei 11:1).

Un profeta che dovesse profetizzare, nell’esercizio del dono ricevuto, non importa se riguarda l’edificazione, l’esortazione o la consolazione, senza la necessaria proporzione di fede, sarebbe solamente un parlatore, e nient’altro; ma con la sua fede, il suo profetizzare acquista valore e significato e tutta la sua attività sarà coronata di successo e risulterà alla lode e gloria di Dio e al beneficio di quanti ascoltano.

30) Romani 14:1:


Or accogliete chi è debole nella fede, [ pistei ] ma non per giudicare le sue opinioni.

Con il capitolo 14, l’Apostolo inizia un nuovo argomento che, sotto il profilo della vita pratica, ha la sua enorme importanza. L’esortazione ad accogliere i deboli nella fede, non mette solamente in risalto l’esistenza di due gruppi di credenti, quelli forti e quelli deboli nella fede, e di conseguenza come considerare il gruppo dei credenti deboli, ma soprattutto vuole insegnare al gruppo dei forti, la giusta maniera come comportarsi con loro.

«La « fede » di un cristiano può essere sotto molti aspetti debole, immatura, disinformata; ma in quanto cristiano egli deve essere accolto con calore e non spinto immediatamente a sostenere una discussione su quegli aspetti della sua vita nei quali non è ancora arrivato all’emancipazione» [Cfr. Frederick F. Bruce, L’epistola di Paolo ai Romani, pag. 145].

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20/10/2011 00:05

I deboli nella fede,

«non sono — diciamolo subito — persone che «pretendono di essere salvate e di diventare beate mediante le loro opere»; «essi vogliono vivere soltanto della loro fede, ma — per poterlo fare — vogliono prendere certi particolari provvedimenti; poiché essi non si sentono capaci di farlo senza servirsi di quel parapetto, di quei principi, e quegli esercizi, giacché senza questa piccola iniziativa personale temono di decadere dalla grazia» (Barth III) [Cfr. Frederick F. Bruce, L’epistola di Paolo ai Romani, pag. 297].

La questione dei deboli nella fede, riguardava su quello che si mangiava. Il credente forte mangiava di tutto, mentre quello debole, per paura di venir meno nella sua vita cristiana, si limitava a mangiare solo legumi. Il forte non aveva riguardo al giorno, dato che per lui non c’erano giorni particolari, mentre il debole faceva differenza tra un giorno e l’atro. Come si può vedere, c’era un problema nella comunità romana: le due parti di credenti non agivano secondo lo spirito cristiano, che è quello di essere tollerante l’uno verso l’altro, ma si comportavano a discapito dell’unità e peggio ancora giudicavano.

Senza dubbio, qualcuno avrà messo al corrente l’Apostolo che, nella Chiesa, c’era questo atteggiamento discordante. Paolo, rendendosi conto che i fratelli non stavano agendo secondo lo spirito cristiano, li esorta a cambiare atteggiamento nei riguardi dei deboli nella fede. Il debole, dice lui, non deve essere giudicato, per quello che egli fa e per come vede le cose; deve essere accolto con amore, con gentilezza e con tolleranza, onde evitare che prenda il sopravvento quello spirito di animosità, che crea senza dubbio disprezzo, l’uno verso l’altro. In altre parole l’Apostolo vuole dire questo: Il fratello debole nella fede, non ha tanta conoscenza per come valuta le cose e per come si comporta davanti ad esse; però è sempre un fratello, per il quale Cristo ha dato la Sua vita per lui, cioè è un fratello che è stato salvato per grazia, nella identica maniera come lo sono stati gli altri. Ragione per cui deve essere trattato senza fare dispute o giudicare le sue opinioni, ma come fratello in Cristo che, crescendo nella sua conoscenza e maturandosi nella sua esperienza cristiana, saprà vedere la sua debolezza, e, riconoscendola, potrà chiedere l’intervento di Dio nella sua vita per emanciparsi. Qualunque sia il giudizio che si formula nei confronti di un credente, abbiamo sempre bisogno di ricordarci delle parole di Gesù: Non giudicate, affinché non siate giudicati (Matteo 7:1).

31) Romani 14:22:


Hai tu fede? pistin Tienila per te stesso davanti a Dio; beato chi non condanna se stesso in ciò che approva.

La raccomandazione che l’Apostolo fa riguarda essenzialmente a non
porre intoppo o scandalo al fratello (v. 13), perché se il tuo fratello è contristato a motivo di un cibo, tu non cammini più secondo amore; non far perire col tuo cibo colui per il quale Cristo è morto (v. 15).

Siccome il regno di Dio non è mangiare e bere, ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo (v. 17), e poiché il credente deve perseguire le cose che contribuiscono alla pace e alla edificazione reciproca (v. 19), ne consegue che non bisogna distruggere l’opera di Dio per il cibo (v. 20). La fede, di cui parla il verso 22, è una fede personale, di cui non la si può imporre a nessuno.

32) Romani 14:23:

Ma colui che sta in dubbio, se mangia è condannato, perché non mangia con fede; [ pistes] or tutto ciò che non viene da fede [ pistes] è peccato.

Siccome la fede fa superare certi pregiudizi che potrebbero nascere circa il mangiare certi cibi e previene certi condizionamenti, e, poiché il dubbio porta alla condanna, perché non si mangia con fede, ne consegue che tutto ciò che non viene da fede è peccato. Davanti a questa categorica affermazione paolina, dobbiamo stare molto attenti per non cadere in questo pericolo, che porterebbe tragiche conseguenze all’anima.

33) Romani 16:26:

e ora manifestato e rivelato fra tutte le genti mediante le Scritture profetiche, secondo il comandamento dell’eterno Dio, per indurli all’ubbidienza della fede [ pisteōs ]

In base alla frase mediante le Scritture profetiche,

«Harnack riteneva queste parole come un’aggiunta ortodossa a una dossologia marcionita — ed anche un’aggiunta malfatta perché, se il mistero era stato «tenuto occulto fin dai tempi più remoti» (versetto 25) e solo ora era stato manifestato, come avrebbe potuto esser fatto conoscere mediante gli scritti dei profeti? Harnack non era l’unico a rilevare questa difficoltà; ma la soluzione che egli prospetta non è la sola possibile. «Per quanto i profeti avessero precedentemente insegnato tutto quello che Cristo e gli apostoli hanno spiegato, essi lo avevano insegnato in modo talmente oscuro, quando lo si paragoni con la splendente chiarezza che ha la luce del vangelo, da non doversi sorprendere se vien detto, delle cose ora rivelate, che prima erano state nascoste» (Calvino). Paolo, e gli altri apostoli con lui, si servivano abbondantemente delle «Scritture profetiche» nella loro predicazione del vangelo; ma potevano comprendere e spiegare quelle Scritture solo alla luce della nuova rivelazione in Cristo (cfr. 1 Pietro 1:10-12)» [Cfr. Frederick F. Bruce, L’epistola di Paolo ai Romani, pagg.345,346].

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21/10/2011 00:15

Inoltre, c’è da rilevare che le Scritture profetiche, non tengono presente il solo popolo d’Israele, anche se lui fu il depositario degli ‘oracoli divini’ (Romani 3:2), si estendano a tutto il mondo e riguardano tutti i popoli. Giustamente lo Schlier afferma che:

«L’annuncio del mistero divino mediante le Scritture profetiche fu fatto anche eis hypakoēn pisteōs = per l’ubbidienza di fede (genitivo oggettivo; cfr. Romani 1:5), e gli scritti profetici o il segreto di Dio da essi rivelato acquistano un carattere missionario, anzi universale» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pag. 725].

Infine, Paolo specifica chiaramente che lo scopo finale della ‘rivelazione del mistero’, secondo il comandamento dell’eterno Dio, è: indurre tutte le genti, all’ubbidienza della fede.


PRIMA EPISTOLA AI CORINZI


Nota preliminare


Dopo avere passato in rassegna tutti i riferimenti che ha l’epistola ai Romani riguardante la fede, ci accingiamo ad esaminare quei pochi che contiene la 1 Corinzi, sempre con il medesimo scopo di valutare e comprendere la fede nelle sue manifestazioni. Anche se il significato della fede nella 1 Corinzi è ben diverso da quello che ha nell’epistola ai Romani, è sempre utile conoscere i riferimenti che questo scritto paolino ha, soprattutto tenendo presente i contesti nei quali l’Apostolo l’adopera. Non si tratta quindi di tenere presente solamente il dato statistico, ma quello che maggiormente conta è il suo contenuto.

1) 1 Corinzi 2:5:

Affinché la vostra fede [ pistis ] non fosse fondata sulla sapienza degli uomini, ma sulla potenza di Dio.

Questo primo riferimento di Paolo intorno alla fede, riguarda appunto la predicazione che egli fa di Cristo e del vangelo. L’Apostolo non indugia a rivelare ai Corinzi che quando egli si recò da loro, non aveva altri scopi se non quello di proclamare la testimonianza di Dio, e di proporsi solamente di annunziare loro nient’altro che, Gesù Cristo e lui crocifisso. Poiché la sua predicazione non

consisteva in parole persuasive di umana sapienza, ma in dimostrazione di Spirito e di potenza (v. 4),

ci teneva a far conoscere a quei cristiani la sua premura per la loro fede. Sapendo che se la fede è fondata sulla sapienza umana, oltre a non avere nessun valore davanti a Dio, non può durare a lungo, col mutamento che fa continuamente l’uomo; invece, la dimostrazione di Spirito e di potenza, serve essenzialmente a far comprendere a quella fratellanza che la loro fede deve essere fondata sulla potenza di Dio. Questo contesto nel quale l’Apostolo adopera [ pistis ], non ha valore solamente per i Corinzi, riguarda anche tutti i cristiani di ogni tempo e di ogni luogo. Se la nostra fede è fondata sulla potenza di Dio, oltre a non venire mai meno, potrà sfidare qualsiasi resistenza e opposizione nemica ed essere sempre vittorioSalmo

2) 1 Corinzi 12:9:

a un altro fede, [ pistis ] dal medesimo Spirito; a un altro doni di guarigioni, per mezzo del medesimo Spirito; a un altro potere di compiere potenti operazioni; a un altro profezia; a un altro discernimento degli spiriti.

Questo testo è l’unico passo del N.T. in cui si parla specificatamente del dono della fede. Trattandosi di dono, che non si trova in tutti i credenti, deve essere una fede speciale, non tanto per quantità, quanto per qualità, poiché la fede della grandezza di un granel di senape, può spostare una montagna (Matteo 17:20). Non ci sentiamo di condividere la convinzione di alcuni secondo la quale tutti i credenti possiedono i nove doni dello Spirito, così come vengono elencati in (1 Con. 12:4-11). Se questo fosse vero, le due frasi che l’Apostolo adopera: A uno infatti è data... e: a un altro.. , (quest’ultima ripetuta per ben sei volte), non avrebbero nessun senso logico. Mentre, se le due frasi in questione vengono considerate nel loro ampio contesto, la conclusione più logica e coerente è quella che non tutti i credenti hanno i nove doni dello Spirito. Dato per certo che è lo Spirito Santo che

distribuisce i suoi doni a ciascuno in particolare come vuole (v. 11), quali criteri e per quali motivi fa questa selezione, non ci viene dato di sapere.

Ritornando al dono della fede, visto che viene presentato prima dei doni di guarigione e di potenti operazioni, non è fuori della logica se questo dono viene dato per effettuare guarigioni, potenti operazioni e manifestazioni miracolose di ogni genere che l’uomo, con le sue capacità naturali, non è capace di fare.

3) 1 Corinzi 13:2:

E se anche avessi il dono della profezia, intendessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede pistin da trasportare i monti, ma non ho amore, non sono nulla.

Anche se il nostro testo riporta la fede, non è certamente nell’intenzione dell’Apostolo parlare di essa, poiché la sta citando per mettere in risalto l’importanza dell’amore, che è al di sopra di ogni dono. Questo però non toglie che la fede possa trasportare i monti, secondo l’insegnamento di Gesù. Che qui l’accento sia posto sulla fede e non sul dono della fede, appare chiaro. Nonostante che la fede sia l’elemento essenziale nella vita cristiana, sia per piacere a Dio (Ebrei 11:6) e sia per vedere le manifestazioni miracolose divine, nondimeno, in mancanza dell’amore, il cristiano con tutta la sua fede, diventa nulla.

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22/10/2011 00:03

4) 1 Corinzi 13:13:

Ora dunque queste tre cose rimangono: fede, [ pistis ] speranza e amore; ma la più grande di esse è l’amore[/C[.

Lo scopo principale del capitolo 13 della 1 Corinzi non è quello di parlare dei doni dello Spirito (anche se nel (v. 2) si parla del dono della profezia, di intendere tutti i misteri e possedere tutta la scienza e di avere la fede che trasporta i monti), ma è quello di far comprendere l’importanza dell’amore, ch’è di gran lunga superiore a tutti i carismi.

Se poi si tiene conto che tutti i doni saranno aboliti, con la venuta della perfezione, mentre l’amore non viene mai meno (vv. 8-10), non si riesce a comprendere come mai al (v. 13) venga affermato che la fede, la speranza e l’amore rimangono. Anche se è vero che la speranza non è un dono, mentre la fede lo è ( 1 Corinzi 12:9). Per quanto riguarda la speranza, si sa con certezza che non è solo per il tempo presente, vale a dire per questa terra, ma è riposta nei cieliP/C] per i credenti, vale a dire nell’eternità, quindi destinata a rimanere per sempre. (cfr. Colossesi 1:5).

Pensare dell’amore destinato ad essere eterno, non è difficile a capirlo, non solo perché l’Apostolo lo afferma chiaramente nel (v. 8), ma soprattutto pensando al fatto che Dio stesso è amore (1 Giovanni 4:8). Per ciò che riguarda invece la fede, c’è da chiedere se nel (v. 13), Paolo faccia allusione al dono della fede, nel senso di (1 Corinzi 12:9). Se è assodato che con l’avvento della perfezione o parusia, tutti i carismi saranno aboliti, escludere il carisma della fede, non ci sembra coerente con quello che Paolo dice chiaramente. Ma se nel (v. 13), (come noi pensiamo debba intendersi) l’Apostolo vuole alludere a Romani 12:3, cioè alla misura di fede che Dio dona a tutti i credenti, allora la fede è destinata a rimanere nell’eternità, per il semplice fatto che le cose che Dio dona, non durano per un tempo, ma eternamente.

«Il permanere è caratteristica divina, a differenza della mutabilità e della caducità delle realtà terrene e umane. Tuttavia, qui non si tratta in alcun modo primariamente di un’esistenza sovrastorica di Dio, bensì si afferma che ci può abbandonare a lui nella storia. Così anche nel N.T. è citata la menzionata espressione men eis ton aina con Salmo 111.9 LXX (2 Corinzi 9:9) e Isaia 40:8 (1 Pietro 1:25): la giustizia o la parola di Dio «ha una stabilità irremovibile per l’eternità.». Tuttavia anche ciò che è stato dato all’uomo in virtù dell’evento salvifico in Cristo, rimane: così rimane il ministero della giustizia «in gloria»: 2 Corinzi 3:11; rimangono fede, speranza, amore: 1 Corinzi 13:13; «chi fa la volontà di Dio, rimane in eterno»: 1 Giovanni 2:17 [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pagg. 645,646].

Qualcuno ha voluto aggirare l’ostacolo del termine [ menei ], che le traduzioni hanno reso: ‘durare’ o ‘rimanere’, dato che il significato etimologico è questo, nel modo seguente:

«Se si vuole mantenere questa traduzione bisogna sottintendere un pensiero speciale: la perfezione non significa certo l’abolizione di fede e speranza (v. 10), ma la rivelazione del giusto orientamento» [Cfr. H. Hübner, Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, 2, col. 333].

Alla obiezione che J. Weiss ha sollevato, cioè

«che la [ pistis ] = fede e la [ elpis ] = speranza «nella parusia sono superflue ed escluse», si deve rispondere che allora cessano bensì le funzioni del credere e dello sperare, ma che il significato di pistis e elpis nel N.T. include il contenuto della fede (per es. Galati 2:20) e, rispettivamente, della speranza (cfr. spec. Colossesi 1:5, dove pistis, agapé e elpis sono del pari giustapposte) e che questi beni resteranno in eterno» [Cfr. Il Nuovo Testamento annotato, Vol. III, Le epistole di Paolo, pag. 118].

5) 1 Corinzi 15:14:

Ma se Cristo non è risuscitato, è vana dunque la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede. [pistis ]

Una fede che non ha come fondamento la risurrezione di Cristo, è una fede vana, cioè non ha alcun valore. Anche la predicazione, che ha come punto di riferimento la risurrezione di Cristo, se questa non è vera, cioè non è avvenuta, è anch’essa vana, cioè priva di valore e d’importanza. Come si può benissimo notare in questo testo, l’Apostolo pone l’accento sul fondamento della fede, ch’è appunto la risurrezione di Cristo. Se la fede, — come diciamo spesso —, è certezza di cose che si sperano... (Ebrei 11:1), quale certezza potrebbe sussistere sulla stessa risurrezione dei morti?

Giustamente l’Apostolo precisa: Se alcuni di voi dicono che non c’è la risurrezione dei morti, neppure Cristo è risuscitato. E se Egli non è risuscitato, il messaggio che noi predichiamo, in virtù del quale, ascoltandolo, viene prodotta la fede (Romani 10:17), tutto quello che noi diciamo, è essenzialmente un’impostura, una falsità (vv. 12-14). Quale beneficio potrebbe ricavare una persona, per questa vita e principalmente per l’eternità, se la sua fede fosse basata sull’imbroglio e sulla falsità? Valutando l’insieme dall’argomentazione di Paolo, si può ben valutare il valore della fede, se ha come base l’evento straordinario della risurrezione di Cristo.

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