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Domenico34 - LA FEDE NELLE EPISTOLE DI PAOLO -

Ultimo Aggiornamento: 24/11/2011 00:07
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23/10/2011 00:08

6) 1 Corinzi 15:17:

ma se Cristo non è stato risuscitato, vana è vostra fede; [ pistis ] voi siete ancora nei vostri peccati.

Continuando il discorso che l’Apostolo ha fatto nei (vv. 12-16), con il (v. 17) egli aggiunge qualcosa che ha a che fare con la salvezza. In senso concreto, non c’è salvezza senza il perdono dei peccati. Se uno è ancora nei suoi peccati, ciò significa che questi non sono stati tolti. I peccati del peccatore vengono perdonati, e col perdono vengono tolti dalla sua vita, mediante la fede in Cristo Gesù. Ma non di un Cristo morto, ma di un Cristo vivente, cioè risuscitato dai morti.

Se con la sua morte Gesù Cristo ha espiato i peccati del peccatore, con la sua risurrezione, ne ha garantito la giustificazione (Rom 4:25), cioè il peccatore è stato dichiarato giusto da Dio, come se egli non avesse mai commesso peccati preso in questo contesto teologico, si può meglio comprendere la portata del (v. 17).

7) 1 Corinzi 16:13:

Vegliate, state fermi nella fede, [ pistei ] comportatevi virilmente, siate forti.

Quest’ultimo riferimento alla fede, che la 1 Corinzi fa, riguarda una precisa esortazione in forma imperativa.

«State fermi nella fede si riferisce alla stabilità del cristiano fermamente radicato in Cristo, una stabilità vistosamente assente nei Corinzi» [Cf. G. Stählin, GLNT. Vol. VII, col. 1467, nota 28].

[DI,=16pt]SECONDA EPISTOLA AI CORINZI

Nota preliminare

«Dopo aver attentamente ascoltato i grandi maestri per penetrarne il pensiero» scriveva il Ruskin in Sesame and Lilies, «si deve andare oltre e penetrarne il cuore». Sono due doveri che l’arte dello scrivere impone a chi legge; con alcuni scrittori è più facile affrontare il primo di questi doveri, ma con altri il secondo riesce meno difficile. L’autore della II Corinzi dovrebbe essere posto in quest’ultima categoria, perché quel documento così personale e ricco di pathos lascia ben pochi lettori insensibile al battito accelerato del cuore di chi lo ha redatto anche se, a volte, li mette in difficoltà quando vogliono seguirne i ragionamenti. L’Apostolo si svela così apertamente ed esprime con tanta libertà il mutamento del suo umore e dei suoi sentimenti che nessun ostacolo impedisce di penetrare nell’intimo del suo cuore e di comprendere la grande tenerezza che esso alberga insieme con le gioie ed i timori. «La Seconda Epistola ai Corinzi è forse la lettera che rivela di più il carattere e il pensiero dell’Apostolo... Gloria e umiliazione; vita e morte; una visione di angeli che lo rinvigorisce; la spina nella carne che lo abbatte; una grandissima tenerezza, ma non priva di severità; un dolore smisurato, delle consolazioni smisurate; ecco alcune fra le contraddizioni che si conciliano nello stesso uomo» [Cfr. L. Morris, La prima epistola di Paolo ai Corinzi, pag. 288].

Per quanto riguarda le occorrenze che ha la 2 Corinzi intorno alla fede, sono esattamente sei, cioè una in meno rispetto alla 1 Corinzi. La 2 Corinzi non differisce rispetto alla prima solo per il numero di occorrenze; sono anche diversi i contesti nei quali appare la fede. L’esame di tutti i riferimenti che contiene questo scritto paolino, metterà in risalto le varie verità che vengono proclamate, valevoli anche per i cristiani dei nostri giorni.

1) 2 Corinzi 1:24:

Non già che dominiamo sulla vostra fede, [ pistes] ma siamo collaboratori della vostra gioia, perché state saldi per fede [ pistei ]

Il primo riferimento alla fede si trova in un contesto del comportamento dell’Apostolo nei confronti della fratellanza dei Corinzi. Poiché Paolo era stato colui che li aveva generati in Cristo (1 Corinzi 4:15), la fratellanza avrebbe potuto pensare che lui, in qualità di apostolo e di padre spirituale, si sarebbe avvalso della sua autorità per signoreggiare la loro vita, quindi agire nei loro confronti come un vero e proprio monarca. Se la fratellanza di Corinto avesse avuto simili convincimenti, l’Apostolo, con questa sua epistola dimostrava loro che non era nella sua intenzione agire come un comandante in prima, e considerare i fratelli come i suoi sudditi.

Non è un puro caso che questi sentimenti che rispecchiavano l’atteggiamento umile e comprensivo di Paolo, li abbia manifestati proprio all’inizio della sua epistola. Onde fugare ogni sospetto, l’Apostolo ci tiene a dire, con franchezza e fermezza che egli, in mezzo a loro, si era

comportato con la semplicità e sincerità di Dio, non con sapienza carnale, ma con la grazia di Dio (v. 12).

Se l’Apostolo aveva ritardato la sua visita a Corinto, come egli stesso aveva preannunciato, non l’aveva fatto per altri scopi, ma solamente per risparmiare quella fratellanza. Se Paolo non avesse aggiunto altre parole, avrebbe dato la più grande dimostrazione di essere un vero dittatore, uno che vuole tenere tutti sotto la sua autorità. Ma con le parole: Non già per dominare la vostra fede, fornisce la più ampia garanzia che in lui non c’è né il desiderio né la volontà di essere considerato un gerarca dispotico, «un tiranno che vuole dare ordini riguardo alla coscienza, ben deciso ad ottenere la loro sottomissione in tutte le cose» [R.V.G. Tasker, La seconda epistola di Paolo ai Corinzi, p. 60]; ma vuole essere semplicemente un collaboratore della loro gioia, con l’augurio che questi fratelli rimangano saldi nella loro fede.

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6) 1 Corinzi 15:17:

ma se Cristo non è stato risuscitato, vana è vostra fede; [ pistis ] voi siete ancora nei vostri peccati.

Continuando il discorso che l’Apostolo ha fatto nei (vv. 12-16), con il (v. 17) egli aggiunge qualcosa che ha a che fare con la salvezza. In senso concreto, non c’è salvezza senza il perdono dei peccati. Se uno è ancora nei suoi peccati, ciò significa che questi non sono stati tolti. I peccati del peccatore vengono perdonati, e col perdono vengono tolti dalla sua vita, mediante la fede in Cristo Gesù. Ma non di un Cristo morto, ma di un Cristo vivente, cioè risuscitato dai morti.

Se con la sua morte Gesù Cristo ha espiato i peccati del peccatore, con la sua risurrezione, ne ha garantito la giustificazione (Rom 4:25), cioè il peccatore è stato dichiarato giusto da Dio, come se egli non avesse mai commesso peccati preso in questo contesto teologico, si può meglio comprendere la portata del (v. 17).

7) 1 Corinzi 16:13:

Vegliate, state fermi nella fede, [ pistei ] comportatevi virilmente, siate forti.

Quest’ultimo riferimento alla fede, che la 1 Corinzi fa, riguarda una precisa esortazione in forma imperativa.

«State fermi nella fede si riferisce alla stabilità del cristiano fermamente radicato in Cristo, una stabilità vistosamente assente nei Corinzi» [Cf. G. Stählin, GLNT. Vol. VII, col. 1467, nota 28].

SECONDA EPISTOLA AI CORINZI

Nota preliminare

«Dopo aver attentamente ascoltato i grandi maestri per penetrarne il pensiero» scriveva il Ruskin in Sesame and Lilies, «si deve andare oltre e penetrarne il cuore». Sono due doveri che l’arte dello scrivere impone a chi legge; con alcuni scrittori è più facile affrontare il primo di questi doveri, ma con altri il secondo riesce meno difficile. L’autore della II Corinzi dovrebbe essere posto in quest’ultima categoria, perché quel documento così personale e ricco di pathos lascia ben pochi lettori insensibile al battito accelerato del cuore di chi lo ha redatto anche se, a volte, li mette in difficoltà quando vogliono seguirne i ragionamenti. L’Apostolo si svela così apertamente ed esprime con tanta libertà il mutamento del suo umore e dei suoi sentimenti che nessun ostacolo impedisce di penetrare nell’intimo del suo cuore e di comprendere la grande tenerezza che esso alberga insieme con le gioie ed i timori. «La Seconda Epistola ai Corinzi è forse la lettera che rivela di più il carattere e il pensiero dell’Apostolo... Gloria e umiliazione; vita e morte; una visione di angeli che lo rinvigorisce; la spina nella carne che lo abbatte; una grandissima tenerezza, ma non priva di severità; un dolore smisurato, delle consolazioni smisurate; ecco alcune fra le contraddizioni che si conciliano nello stesso uomo» [Cfr. L. Morris, La prima epistola di Paolo ai Corinzi, pag. 288].

Per quanto riguarda le occorrenze che ha la 2 Corinzi intorno alla fede, sono esattamente sei, cioè una in meno rispetto alla 1 Corinzi. La 2 Corinzi non differisce rispetto alla prima solo per il numero di occorrenze; sono anche diversi i contesti nei quali appare la fede. L’esame di tutti i riferimenti che contiene questo scritto paolino, metterà in risalto le varie verità che vengono proclamate, valevoli anche per i cristiani dei nostri giorni.

1) 2 Corinzi 1:24:

Non già che dominiamo sulla vostra fede, [ pistes] ma siamo collaboratori della vostra gioia, perché state saldi per fede [ pistei ]

Il primo riferimento alla fede si trova in un contesto del comportamento dell’Apostolo nei confronti della fratellanza dei Corinzi. Poiché Paolo era stato colui che li aveva generati in Cristo (1 Corinzi 4:15), la fratellanza avrebbe potuto pensare che lui, in qualità di apostolo e di padre spirituale, si sarebbe avvalso della sua autorità per signoreggiare la loro vita, quindi agire nei loro confronti come un vero e proprio monarca. Se la fratellanza di Corinto avesse avuto simili convincimenti, l’Apostolo, con questa sua epistola dimostrava loro che non era nella sua intenzione agire come un comandante in prima, e considerare i fratelli come i suoi sudditi.

Non è un puro caso che questi sentimenti che rispecchiavano l’atteggiamento umile e comprensivo di Paolo, li abbia manifestati proprio all’inizio della sua epistola. Onde fugare ogni sospetto, l’Apostolo ci tiene a dire, con franchezza e fermezza che egli, in mezzo a loro, si era

comportato con la semplicità e sincerità di Dio, non con sapienza carnale, ma con la grazia di Dio (v. 12).

Se l’Apostolo aveva ritardato la sua visita a Corinto, come egli stesso aveva preannunciato, non l’aveva fatto per altri scopi, ma solamente per risparmiare quella fratellanza. Se Paolo non avesse aggiunto altre parole, avrebbe dato la più grande dimostrazione di essere un vero dittatore, uno che vuole tenere tutti sotto la sua autorità. Ma con le parole: Non già per dominare la vostra fede, fornisce la più ampia garanzia che in lui non c’è né il desiderio né la volontà di essere considerato un gerarca dispotico, «un tiranno che vuole dare ordini riguardo alla coscienza, ben deciso ad ottenere la loro sottomissione in tutte le cose» [R.V.G. Tasker, La seconda epistola di Paolo ai Corinzi, p. 60]; ma vuole essere semplicemente un collaboratore della loro gioia, con l’augurio che questi fratelli rimangano saldi nella loro fede.

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[Modificato da Domenico34 23/10/2011 00:13]
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24/10/2011 00:03

I pastori di comunità, i ministri del vangelo e tutti coloro che sono stati chiamati a svolgere ruoli di comando, hanno tanto da imparare da questo testo. Che lo Spirito Santo scolpisca queste parole nel nostro cuore!

2) 2 Corinzi 4:13:


Ma pure, avendo noi lo stesso spirito di fede, [ pistes] come sta scritto: «Io ho creduto, perciò ho parlato», anche noi crediamo e perciò parliamo.

Il riferimento che Paolo fa alla fede, riguarda se stesso in relazione ai tanti pericoli cui va incontro nell’esercizio del suo ministero. Le avversità di ogni genere che l’Apostolo affronta, sono chiaramente descritte nei (vv. 8-11). Egli però, non perdendosi d’animo (v. 1), fa sue le parole del Salmo 116:10, perché in esse vede lo spirito di fede che animava il salmista in mezzo alle sue tribolazioni. E se Paolo, davanti al pericolo di morte che lo minacciava ogni giorno, poteva trovare sollievo ed incoraggiamento dall’esperienza del salmista, ciò era perché anche lui aveva lo stesso spirito di fede. Come il salmista parlava, in virtù della sua fede in Dio, in mezzo ai pericoli dei legami della morte, della liberazione che aveva ricevuto dal Signore, allo stesso modo si comporta Paolo, quando dice: anche noi crediamo e perciò parliamo.

Parlare solamente delle angosce della vita, delle tribolazioni che si incontrano, delle afflizioni che ci circondano e dei pericoli a cui si va incontro, non è certo parlare secondo lo spirito della fede. Ma parlare in mezzo a quelle difficoltà dell’aiuto e della liberazione che si riceve dal Signore, questo, è veramente spirito di fede. Quelli che veramente hanno fede, non rimarranno muti, senza parole; e, se si trovano in quella condizione, è perché la loro incredulità li ha ridotti in quello stato (cfr. Luca 1:20).

Condividiamo in pieno le parole del Denney, quando commentando le parole del nostro testo scrive:

«Non tutti i credenti devono insegnare e predicare, ma tutti devono confessare. Chiunque ha fede, ha una testimonianza da portare a Dio» [Cfr. R. V. G. Tasker, La seconda epistola di Paolo ai Corinzi, pagg. 11,12].

3) 2 Corinzi 5:7:

Camminiamo infatti per fede, [ pistes] e non per visione.

Per comprendere in un modo coerente questo testo, è necessario inquadrarlo nell’ambito di tutto quello che Paolo ha detto nei versetti precedenti, cioè (vv. 1-6). Nel (v. 1) l’Apostolo considera il corpo umano, — ch’è l’abitazione terrena —, come una tenda che non sempre rimane piantata in un posto. Infatti, se una persona abita in una certa località sotto tenda, se dovesse trasferirsi in un’altra località, si rende necessario smontare quella tenda.

Quando Paolo parla del disfacimento della tenda, vuole riferirsi senza dubbio alla morte. È infatti con la morte che avviene il disfacimento della tenda, = abitazione terrena. Siccome con la morte avviene anche il trasferimento di residenza, si rende necessario che ci sia pronta una nuova dimora. Per Paolo che segue un ragionamento cristiano, cioè il ragionamento di colui che crede nel Signore per la vita futura e migliore, la nuova abitazione non sarà costituita dalla tenda smontata e ricomposta, ma dall’abitazione, non fatta da mano d’uomo, ma da Dio stesso, eterna nei cieli. Precisando che questa nuova abitazione è ben diversa della prima, non solo perché non è costruita dall’uomo, ma da Dio stesso, anche perché viene definita eterna, cioè una volta costruita, non è più soggetta ad essere disfatta: in altre parole non ci sarà più cambiamento di residenza.

Il gemito, di cui fanno riferimento i (vv. 2,4), è senza dubbio una chiara allusione a tutte le peripezie che si incontrano sulla terra, durante tutto il tempo della permanenza terrena. Avendo davanti a sé la prospettiva della nuova residenza celeste, esprime il desiderio di volere essere rivestito, non di un nuovo vestito terreno, o di un soprabito, che nasconda il vecchio, come il termine giustamente potrebbe suggerire, ma della sua abitazione celeste. Davanti a simili termini che l’Apostolo adopera, è naturale chiedere: A che cosa voleva alludere Paolo con questa metafora? Per vivere in una abitazione celeste, ci vuole anche un vestito adatto per quella residenza.

Il vestito adatto per l’abitazione celeste, è senza dubbio l’immortalità, l’incorruttibilità, che Dio stesso darà alla risurrezione. Ma perché l’Apostolo condiziona queste mete, col dire: se saremo trovati vestiti e non nudi? (v. 3). In altre parole questo vuol dire che se uno viene trovato nudo, non potrà entrare nell’abitazione celeste. Come è possibile che una simile eventualità possa accadere a un cristiano? Che cosa, insomma, voleva dire Paolo? Queste enigmatiche parole dell’Apostolo, trovano una soddisfacente risposta in quello che Gesù rivolse all’angelo della chiesa di Laudicea:

Poiché tu dici: Io sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di nulla; e non sai invece di essere disgraziato, miserabile, povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me dell’oro affinato col fuoco per arricchirti, e delle vesti bianche per coprirti e non far apparire così la vergogna della tua nudità, e di ungerti gli occhi con del collirio, affinché tu veda (Apocalisse 3:17,18).

Ed ancora:
Ecco, io vengo come un ladro; beato chi veglia e custodisce le sue vesti per non andare nudo e non lasciar così vedere la sua vergogna (Apocalisse 16:15).

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25/10/2011 00:07

La chiesa di Laudicea, dal punto di vista umano, era ben vestita, con abiti sontuosi, ma davanti a Gesù appariva nuda. Il suo vestito era quello della vanagloria e dell’auto sufficienza. Nonostante che ella fosse ricca e non avesse bisogno di nulla, Gesù la considerava: miserabile, povera, cieca e nuda. Per coprire la sua nudità, aveva bisogno di vesti bianche. Che cos’altro possono essere le vesti bianche, se non la giustizia di Cristo?

Essere trovati vestiti, quindi, significa avere addosso le vesti bianche della giustizia di Cristo; trovarsi nudi, invece, significa avere addosso il vestito della vanagloria, della superbia e dell’auto sufficienza.

C’è una bella cosa davanti a Paolo, in vista della dimora celeste: la caparra dello Spirito che Dio stesso ha dato, come pegno per la nuova residenza celeste (v. 5). Davanti a questa prospettiva, l’Apostolo non può ignorare che mentre dimora nel corpo, cioè nell’abitazione terrena, è lontano dal Signore (v. 6), perché ancora non lo può vedere faccia a faccia. Però, avendo fiducia in Dio, Colui che ha costruito la dimora celeste, che quello che Egli ha fatto è vero, può dire con fermezza, assieme ad altri credenti come lui: Camminiamo per fede, e non per visione.

Il suo camminare, che equivale al modo di vivere cristianamente, è basato sulla fede, certezza delle cose che egli spera (e tra le cose che egli spera c’è la dimora celeste e l’incontro faccia a faccia con il suo Gesù, Colui per il quale sta dedicando la sua vita e tutte le attività ministeriali connesse alla sua chiamata), e non come un visionario, che si basa su ciò che può costruire con la sua immaginazione.

4) 2 Corinzi 8:7:


Ma come abbondate in ogni cosa, nella fede, [ pistei ] nella parola e nella conoscenza, in ogni premura e nel vostro amore verso di noi, cercate di abbondare anche in quest’opera di grazia.

L’elogio che Paolo rivolge ai Corinzi perché abbondino in vari settori della vita cristiana, ha lo scopo di invogliarli ad abbondare anche nella colletta per i cristiani poveri della Giudea. Questo non è un elogio adulatorio, nel senso di volere carpire l’attenzione dei destinatari, solamente per raggiungere uno scopo, ma vuole essere una sincera testimonianza per quello che l’Apostolo vede nella vita dei Corinzi. Poiché a noi interessa l’argomento della fede, ogni elemento che raccogliamo nel suo contesto, deve contribuire a farci meglio comprendere la fede ed apprezzarla nel suo modo di manifestarsi.

Anche se l’elogio che Paolo fa ai Corinzi, ha uno scopo ben preciso: incentivare la raccolta di fondi a favore dei cristiani poveri della Giudea, questo però non toglie il merito che realmente la fede di questi credenti abbondi, cioè cresca. Non sono i Corinzi che vanno dicendo che la loro fede abbonda, è Paolo che lo afferma. Questo significa, in altre parole, che l’Apostolo notava un progresso spirituale nella vita dei suoi fratelli. Quando ciò avviene veramente, sono gli altri a renderne testimonianza.

5) 2 Corinzi 10:15:

E non ci vantiamo oltre misura delle fatiche altrui, ma nutriamo la speranza che, crescendo la vostra fede, [ pistes] noi saremo maggiormente considerati tra di voi secondo i nostri limiti.

Come abbiamo visto in (2 Corinzi 8:7) Paolo rende testimonianza che la fratellanza dei Corinzi, abbonda nella fede, nella parola e nella conoscenza. In questo testo l’Apostolo formula l’augurio che la fede possa crescere. Se egli augura e nutre una simile speranza, lo fa con una precisa motivazione: lui stesso e i suoi collaboratori, unitamente al loro ministero, possono essere maggiormente considerati.

Questo parlare, Paolo lo porta avanti, in considerazione del fatto che in questo tratto della sua epistola, difende l’autorità apostolica, davanti a quelli che si son levati contro di lui, cercando di denigrare la sua attività ministeriale. La crescita della fede dei Corinzi, rappresenta una seria garanzia, non solo per lo sviluppo spirituale, ma anche per un maggiore apprezzamento dell’attività missionaria di Paolo.

Siccome l’Apostolo ha dato prova che egli non vuole ]C]signoreggiare la fede della fratellanza, ma vuole essere semplicemente un collaboratore della loro gioia (1:24), con l’augurio che la loro fede cresca, i Corinzi possono comprendere meglio Paolo ed apprezzarlo maggiormente in quello che sta facendo, anziché porgere l’orecchio a quelli che si sono schierati contro di lui. Tutto questo, naturalmente, perché in Paolo, non c’è quel sentimento di vantarsi delle fatiche altrui.

Se di vanto si può parlare, sotto l’aspetto umano, naturalmente, (che poi in fin dei conti è un certo alimentare la propria vanagloria e non torna mai alla gloria di Dio), ciò riguarda quello che ognuno fa nel proprio campo di lavoro e non quello che compiono gli altri. Se poi si deve considerare seriamente l’opportunità di vantarsi, è meglio attenersi a quello che Paolo dice chiaramente, servendosi di una citazione di (Geremia 9:23,24):

Chi si gloria si glori nel Signore, poiché non colui che raccomanda se stesso è approvato, ma colui che il Signore raccomanda (v. 17,18).

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26/10/2011 00:37

6) 2 Corinzi 13:5:

Esaminate voi stessi per vedere se siete nella fede; [ pistei ] provate voi stessi. Non riconoscete voi stessi che Gesù Cristo è in voi? A meno che non siate riprovati.

In quest’ultimo riferimento alla fede, Paolo ritornando a difendere la sua autorità apostolica, avverte la fratellanza del pericolo che vanno incontro, se continueranno ad ascoltare i calunniatori e i diffamatori dell’Apostolo. La prova che questi credenti indagano nella vita di Paolo, riguarda il Cristo che parla in lui. Se l’Apostolo ha scritto la presente lettera, l’ha fatto tenendo presente quelli che hanno peccato e tutti gli altri, che egli non intende risparmiare, una volta che sarà venuto a Corinto.

Con l’invito ad esaminare voi stessi per vedere se siete nella fede, Paolo non vuole insinuare nella mente di quei credenti, come se fossero scaduti dalla grazia; vuole solamente esprimere la sua preoccupazione e indurli a fare una certa verifica per conoscere se Cristo è ancora in loro. Se la prova dovesse portare alla constatazione che Cristo non è più in loro, significherebbe in pratica che sono riprovati.

Anche se l’Apostolo ha usato un tono severo e forte con i Corinzi, non l’ha fatto sicuramente per giudicarli e scoraggiarli, ma per far loro comprendere che l’autorità che il Signore gli ha data, egli l’ha usata per la loro edificazione e non per la loro distruzione (v. 10).

EPISTOLA AI GALATI

Nota preliminare

Delle 19 occorrenze che l’epistola ai Galati contiene per quanto riguarda la fede, come contenuto e significato si avvicinano a quelle dell’epistola ai Romani, che sotto alcuni aspetti e per alcuni di essi, si trovano sullo stesso piano. Con l’esame che ne faremo, non solo metteremo in evidenza tutti gli elementi che possono maggiormente arricchire la nostra conoscenza, ma anche e soprattutto per farci notare come l’Apostolo inquadrava la fede, quale peso da ad essa e come la colloca nelle varie situazioni che si determinano davanti al suo ministero e in riferimento alla dottrina cristiana che egli insegna.

1) Galati 1:23:

ma esse udivano soltanto dire: «Colui che prima ci perseguitava, ora annunzia quella fede pistin che egli devastava».

Questo primo riferimento alla fede, si trova in un ampio contesto in cui si parla della conversione di Paolo e del come egli si comportò subito dopo la sua conversione a Gesù Cristo. La testimonianza della sua conversione l’Apostolo la racconta ai Galati, non solo per far loro conoscere quello che egli era prima dell’evento sulla via di Damasco, che segnò la svolta decisiva nella sua vita, ma anche per rivendicare l’autorità divina del suo apostolato e della sua dottrina, di fronte agli avversari che erano riusciti a penetrare con le loro eresie nella comunità dei Galati, producendo un certo sbandamento nella loro vita, pronti a lasciarsi prestamente convincere da quelli che predicavano un altro evangelo, rispetto a quello che Paolo predicava, evangelo che essenzialmente si concretizzava nella proclamazione della grazia di Cristo, mediante la quale quei cristiani erano stati chiamati. Siccome però l’Apostolo sa che in effetti non si tratta di parlare di un altro evangelo, ma solamente di pervertire l’evangelo di Cristo, (perché tale è in effetti l’opera degli eretici) e turbare la coscienza tranquilla dei Galati (vv. 6,7).

Davanti a questa tragica realtà che si delinea chiaramente davanti Paolo, egli che sa molto bene che l’evangelo che predica, non viene dall’uomo, né l’ha imparato da nessun uomo, ma l’ha ricevuto per rivelazione da Gesù Cristo (v. 12), egli può rivolgere una ferma e autorevole parola ai suoi fratelli e dir loro:

Anche se noi o un angelo dal cielo vi predicasse un evangelo diverso da quello che vi abbiamo annunziato, sia maledetto. Come già detto, ora lo dico di nuovo: Se qualcuno vi predica un evangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia maledetto (vv. 8,9).

Davanti a queste precise e categoriche parole, — che poi rappresentano una chiara evidenza della sua divina autorità apostolica —, Paolo passa a raccontar loro la sua testimonianza, quando era nel giudaismo, dicendo: voi avete udito

come perseguitavo con grande ferocia la chiesa di Dio e la devastavo. ... Ma quando piacque a Dio, che mi aveva appartato fin dal grembo di mia madre e mi ha chiamato per la sua grazia, di rivelare in me suo Figlio, affinché l’annunziassi fra i gentili, io non mi consultai subito con carne e sangue, né salii a Gerusalemme da quelli che erano stati apostoli prima di me, ma me ne andai in Arabia e ritornai di nuovo a Damasco (v. 13-17).

In questo resoconto che Paolo fa della sua conversione, ci sono tre cose che vengono messe in evidenza, dopo l’evento di Damasco.

1. Non mi consultai subito con carne e sangue;
2. non salii a Gerusalemme da quelli che erano stati apostoli prima di me;
3. me ne andai in Arabia…

Su questa puntualizzazione che l’Apostolo fa, i commentatori hanno cercato di comprendere e spiegare, perché Paolo si comportò in quel modo.

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27/10/2011 00:08

La cosa più naturale, dopo l’evento di Damasco, sarebbe stata che Paolo fosse tornato indietro a Gerusalemme e avesse cercato di mettersi in contatto con la protocomunità o per lo meno con la comunità cristiana di Damasco.

Secondo Atti 9:6, Gesù diede un ordine a Saulo: Alzati ed entra nella città, e ti sarà detto ciò che devi fare. Inoltre si precisa che, dopo i tre giorni, durante i quali egli non vide, non mangiò né bevve (Atti 9:9), riacquistata la vista e recuperate le forze fisiche,

Saulo rimase alcuni giorni con i discepoli che erano a Damasco. E subito si mise a predicare il Cristo nelle sinagoghe, proclamando che egli è il Figlio di Dio (Atti 9:19,20).

A questo punto, lo Mussner, si chiede: «Ma allora non ricevette un insegnamento più preciso sulla dottrina cristiana?» [Anche se quello che seguirà non è attinente al soggetto della fede, tuttavia ne parliamo, non solo per conoscere come sono stati interpretati e spiegati dai commentatori questi eventi, ma anche e soprattutto perché il primo riferimento alla fede che si trova nell’epistola ai Galati, ha come contesto la storia della conversione di Paolo al cristianesimo, con le sue svolte e le sue decisioni, che ebbero un punto fermo nell’espletamento del ministero apostolico, tra il popolo gentile come in quello giudaico].

La frase: rimase alcuni giorni con i discepoli che erano in Damasco, suggerisce l’idea che Paolo avrebbe ricevuto qualcosa che riguardasse l’evangelo da quei cristiani di Damasco. Considerando però le parole di (Galati 1:16), per ciò che riguarda il non consultarsi subito con carne e sangue, l’Apostolo vuole fare una precisazione di prima mano che Luca non ha fatto, per ribadire ancora una volta che, l’evangelo che egli predica, non deve essere considerato il risultato di quello che gli uomini avrebbero potuto dirgli in quei pochi giorni che rimase con loro.

«In Galati 1:16 e Matteo 16:17 si designa l’uomo in quanto tale, che può trasmettere opinioni teologiche, esperienze religiose o tradizioni ecclesiastiche. Anche in questo caso il contrapposto è Dio stesso quale rivelatore. Manca completamente l’aspetto di realtà soggetta a peccare» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 162].

«Se si tiene conto dello scopo dell’argomentazione di Paolo, in concreto con «carne e sangue» possono essere indicati solo dei cristiani; eppure egli sceglie un’espressione (semitica) di portata universale per sottolineare che dopo la sua conversione non andò assolutamente dagli uomini a cercare consigli; dunque non poteva neppure aver ricevuto da loro dei chiarimenti sulla natura dell’evangelo» [Cfr. E. Schweizer, GLNT, Vol. XII, col. 1339].

«Per lo Schlatter (Der Evangelist Matthäus 505) carne e sangue si trovano «là dove l’uomo viene caratterizzato come diverso da Dio»; il Bonnard, fa queste considerazioni: «Nelle parole sarchi kai aimati... = (carne e sangue) si è vista un’allusione sia a vincoli di parentela (non cercai consiglio dai miei parenti stretti), sia a vincoli coniugali (non mi lasciai trattenere da mia moglie, rimasta giudea), sia ai vantaggi personali dell’Apostolo (non mi lasciai impressionare dalla considerazione della mia salute, del mio avvenire, della mia reputazione), sia ai membri della chiesa di Damasco (non consultai nemmeno i miei confratelli di Damasco). Queste interpretazioni non si escludono fra loro. L’espressione può indicare assieme Paolo stesso, i suoi parenti, gli amici, il suo ambiente e gli apostoli di Gerusalemme. Questo senso generale si adatta benissimo alla tesi enunciata nei vv. 11, 12. Dopo aver mostrato che Dio solo fu all’origine del suo apostolato, Paolo mette in evidenza che Dio solo fu pure il garante delle sue prime iniziative apostoliche» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 162-166].

Dopo aver detto con chiarezza che non si consultò con carne e sangue, dopo la sua conversione, ora Paolo aggiunge, con altrettanta chiarezza e fermezza che, non salì neanche a Gerusalemme da quelli che erano stati apostoli prima di lui. Perché non fece ciò, non lo sappiamo; allora che cosa voleva dire con ciò?

«L’Apostolo afferma semplicemente che fu così, e per la sua argomentazione questo fatto risulta naturalmente assai opportuno, benché egli con tale constatazione non voglia di certo svalutare la dignità e il rango dei protoapostoli, come dimostrano le sue successive dichiarazioni nel cap. 2.» «In questo non salire a Gerusalemme non c’era il disconoscimento della dignità apostolica degli altri e neppure la negazione della loro autorità apostolica ed ecclesiastica in riguardo all’evangelo, ma soltanto la consapevolezza della sua personale parità di rango apostolico ed ecclesiastico» (Schlier; similmente anche Bonnard). «L’obiezione degli avversari di Paolo era proprio questa, che egli non era dello stesso rango dei protoapostoli. E questo è il punto su cui deve polemizzare. Secondo il Bonnard la formulazione tous pro emou apostolous vuol dire: 1. Paolo attribuisce agli apostoli «prima di lui» l’autorità apostolica; 2. rivendica per sé la medesima autorità, ma non dal punto di vista cronologico ( = pro emou; cfr. anche Romani 16:7: Andronico e Giunia, oi kai pro emou gheghonasin en Crist) = (essi sono stati in Cristo prima di me); 3. nella priorità temporale egli non vede alcuna motivazione per un più alto diritto apostolico. Certo non appare chiaro, «quali criteri si applicassero a un ‘apostolo’ a Gerusalemme», come giustamente osserva lo Schnackenburg; le lettere stesse di Paolo mostrano anche che «Paolo conosce diversi ‘apostoli’ operanti nella prima chiesa, per i quali non c’erano criteri univoci ed unitari. Questa mancanza nella prima chiesa, di un unitario «concetto d’apostolo» può essere stato uno dei motivi per i quali Paolo agli occhi di certa gente non era un «apostolo» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, nota 58].

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28/10/2011 00:05

Chiariti i primi due punti, resta il terzo, cioè l’andata in Arabia. Si è voluto sapere per quali motivi Paolo si recò in quella località e per quanto tempo vi rimase. L’ipotesi secondo la quale l’Apostolo si recò in Arabia per svolgervi un’attività missionaria allo scopo di fondare chiese, è totalmente sconosciuta dal libro degli Atti e dallo stesso epistolario paolino. Se fosse stata questa la sua intenzione, anche se Paolo nelle sue epistole non fa nessun cenno a questa ventilata attività missionaria, ma a Luca che descrive le svariate attività missionarie dell’Apostolo, certamente non gli sarebbe sfuggita.

Pensare poi che l’Apostolo sia rimasto in Arabia da due anni e mezzo a tre, come un tempo di solitudine monacale durante la quale nella meditazione egli si sia addestrato alla sua successiva attività, è un puro quadro fantasioso, dipinto con intenti edificanti sul modello dell’anacronismo veteroecclesiastico. Giustamente lo Mussner chiede:

«Come avrebbe potuto Paolo, che si aspettava come imminenti la fine del mondo e la venuta di Cristo, rimandare così a lungo il compimento della sua missione?» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 165, note 63,64].

Dal momento che si è pensato che Paolo sia andato in Arabia per scopi evangelistici, il suo ritorno in Damasco, lo si è fatto dipendere dall’insuccesso e da una serie di ostacoli, compresa la persecuzione, che egli avrebbe incontrato in quella regione. Andare dietro a queste ipotesi che poi non si possono dimostrare, significa in definitiva girovagare nel campo dell’immaginazione, con la pretesa di raccogliere nuovi elementi. Se si deve obbiettivamente valutare perché Paolo ricorda la sua andata in Arabia, ciò è solamente per dimostrare che egli, dopo la sua conversione, non ritornò a Gerusalemme per allacciare rapporti con la protocomunità e farsi istruire da essa Questa è in fondo la prima preoccupazione dell’Apostolo espressa in questa parte della sua epistola ai Galati.

Quando poi si arriva al (v. 18), il testo afferma che Paolo dopo tre anni salì a Gerusalemme per andare a vedere Pietro e rimase con lui quindici giorni, si apre una parentesi di interpretazioni che non sempre vede tutti unanimi nel valutare questo avvenimento. Non ha tanta importanza stabilire da dove fare partire il conteggio dei tre anni: dalla sua conversione o piuttosto dal suo ritorno dall’Arabia? Il punto su cui i commentatori non sono tutti concordi, riguarda invece l’interpretazione del termine historsai, comunemente tradotto ‘visitare’, che la CEI addirittura traduce ‘interpellare’, facendo così intravedere lo scopo della visita di Paolo a Pietro. Che la CEI rifletta il pensiero della chiesa Cattolica Romana, è ben noto per il contenuto teologico che dà a questo avvenimento.

Tenendo però presente il significato etimologico che ha il termine greco historsai, non si può sostenere l’interpretazione teologica che la Chiesa Cattolica Romana ha costruito sul primato di Pietro. Infatti, historsai, «l’unico passo nel N.T.» viene presentato «come spesso nel greco ellenistico, col senso di frequentare per conoscere [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 166, nota 66]. Sullo stesso piano si colloca G. Schneider, quando dice: «Questo verbo indica un visitare, tra l’altro allo scopo di conoscere, fare la conoscenza» [Cfr. F. Büchsel, GLNT, Vol. IV, col. 1210-1211].

Aggiungere a questa visita lo scopo di fare la conoscenza, di «qualcosa di noto e illustre», come la pensavano Crisostomo, Teodoreto, Girolamo ed Agostino, significava per questi esegeti della chiesa antica, riconoscere che Pietro era il «capo supremo, conosciuto e riconosciuto, dalla chiesa e onorato come tale». Si esce dal contesto quando si pretende di ricavare troppo da historsai, come fanno il Kilpatrick «ricevere informazioni da Cefa», sulla vita e l’insegnamento di Gesù, e il Roloff: che afferma: «Paolo si è coscienziosamente preoccupato di avere accesso a tradizioni attendibili su Gesù e sulla sua attività terrena. Sicché la visita a Pietro (Galati 1:18) è sicuramente servita allo scambio di paradosis» = (tradizione). A giudizio di Mussner, anche se la visita di Paolo avesse avuto quello scopo, non si può dedurre questo dal termine historsai. Quando si tiene conto della durata della visita di Paolo che fu di appena due settimane, lo Schlier, giustamente annota:

«un tempo assai breve, troppo breve per un indottrinamento che potesse influire sull’annuncio dell’evangelo paolino». «Ovviamente si ebbero dei colloqui fra Paolo e Pietro durante questi giorni, ma purtroppo non sappiamo su quale argomento». Inoltre, «Se Paolo in questa visita a Gerusalemme avesse sottoposto il suo evangelo all’approvazione di Pietro, sarebbe stato superfluo che nella sua seconda visita esponesse ai ‘notabili’ l’evangelo che egli ‘annunciava ai gentili, per non correre o per aver corso invano’ (Galati 2:2)» [Cfr. G. Schneider, Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, col. 1792; cfr. anche Alan Cole, l’Epistola di Paolo ai Galati, pag. 68].

Il fatto che Paolo ricordi che dopo la sua visita a Pietro, se ne va nelle regioni della Siria e della Cilicia, e vi rimase per parecchi anni svolgendo la sua attività missionaria, dà maggior peso al v. 23. Il v. 22 afferma che Paolo era sconosciuto personalmente dalle chiese della Giudea. Secondo quello che dice Luca in Atti 9:22-28, Paolo venne messo in salvo dalla minaccia di morte che i Giudei avevano ideato. Giunto a Gerusalemme, egli voleva unirsi ai discepoli, ma non fu possibile per la paura che tutti avevano, non potendo credere che egli fosse un discepolo. Ci volle la mediazione di Barnaba, per dissipare ogni dubbio e paura, nel raccontar loro come Paolo aveva visto il Signore, sulla strada di Damasco, e come in seguito aveva parlato con franchezza nel nome di Gesù. Davanti ad una simile assicurazione, gli apostoli non ebbero nessuna difficoltà ad accoglierlo, così che egli

rimase con loro a Gerusalemme, andando e venendo, e parlava con franchezza nel nome del Signore Gesù (v. 28).

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29/10/2011 00:15

La fede che Paolo annunziava, e che prima egli stesso devastava, non aveva altro significato se non quello di ‘religione cristiana’, la cui natura, in contrasto con la religione giudaica legalistica, si esprime appunto come pistis (cfr. anche 3:23; 6:10; Atti 3:16; 6:7; 13:8; 14:22; 16:5; Col. 1:23).

2) Galati 2:16:


sapendo che l’uomo non è giustificato per le opere della legge ma per mezzo della fede [ pistes] in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù, affinché fossimo giustificati mediante la fede di Cristo e non mediante le opere della legge, poiché nessuna carne sarà giustificata per mezzo della legge.

Il secondo riferimento alla fede, si trova in un contesto polemico tra Paolo e Pietro, circa la ferma e decisa posizione che il primo prese nei confronti del secondo, quando lo riprese pubblicamente in occasione della sua venuta in Antiochia per non aver camminato rettamente secondo la verità dell’evangelo (v. 14). Per meglio valutare la fede, di cui parla chiaramente il (v. 16), si rende necessario ricordare, anche criticamente, tutta la storia dell’avvenimento di Anticohia.

I vv. da 11-14, sono stati oggetto di lunghe discussioni tra i vari commentatori, antichi e moderni, per cercare di spiegare, l’incidente’, come viene definito, che sorse tra Pietro e Paolo nella città di Antiochia. Le valutazioni che sono state fatte, ovviamente, hanno messo in evidenza punti di vista diversi, specie quando si è toccato il punto polemico intorno alla supremazia di Pietro, come principe degli apostoli, e da vicino l’infallibilità del papato, specie ad opera di M. Lutero. F. Mussner, nel suo Commentario Teologico all’Epistola ai Galati, in un EXCURSUS, ha tracciato la storia dell’esegesi di Galati 2:11-14. In esso vengono elencati, tra i più significativi, quelli che sono intervenuti, a cominciare dalla chiesa antica per finire agli esegeti più recenti. Poiché non tutti hanno sottomano il commentario in questione, daremo un succinto resoconto, perché ognuno sappia come sono andate le cose e come il testo di Galati 2:11-14 è stato interpretato, in modo che si possono fare le dovute riflessioni per accettare o rifiutare quello che è stato detto.

Si comincia col chiedersi se «l’incidente antiocheno sia avvenuto prima dell’accordo geresolimitano. Lo Zahn ritiene che quell’incidente sia avvenuto prima dell’accordo stipulato a Gerusalemme. Egli argomenta:

«È impensabile che Pietro si recasse in un territorio di missione tra i pagani senza un’urgente necessità e che Paolo, se Pietro avesse fatto ciò, non lo accusasse di violazione del trattato e non lo giudicasse alla stregua di quei simpatizzanti di Giacomo (v. 12), venuti ad Antiochia subito dopo, assimilandolo ai falsi fratelli e spie del v. 4. Anche il giudizio più benevolo non avrebbe potuto cambiar nulla in un fatto: Pietro con la sua venuta indesiderata ad Antiochia avrebbe provocato nella comunità locale quegli abusi preoccupanti, la cui prevenzione era lo scopo primario dell’accordo sulla reciproca indipendenza dei due settori della chiesa»; perciò lo Zahn pensa che la visita di Pietro alla capitale siriana debba «collocarsi nel tempo anteriore al concilio apostolico e al primo viaggio missionario di Paolo», quando «Paolo e Barnaba con altri maestri giudaici erano a capo della comunità antiochena». È proprio vero (sostiene il Gaechter) che noi non sappiamo né quando né perché Pietro si recò ad Antiochia; al riguardo le fonti non dicono nulla. Anche Paolo non è interessato a queste questioni, ma soltanto a ciò che accadde ad Antiochia con la venuta di Pietro. Un’unica cosa si può dire, cioè che Paolo in quel tempo «è ancora in rapporto con Barnaba e con la comunità antiochena» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 169-171, note 85, 88].

Il testo precisa che quando Pietro venne in Antiochia, io gli resistei in faccia, perché era da riprendere (v.11).

[ kata prospon ] non significa secondo le apparenze, quasicché si debba concludere che vi sarebbe stato un litigio apparente, che Paolo e Cefa avrebbero inscenato ad ammaestramento della comunità, ma nel senso di presente di persona, a faccia a faccia [E. Lohse, GLNT, XI col. 430; F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 229, nota 15].

Perché Paolo assume un atteggiamento severo e fermo nei confronti di Pietro, viene subito specificato.

Infatti prima che venissero alcuni da parte di Giacomo, egli mangiava con i gentili; ma quando giunsero quelli, egli si ritirò e si separò, temendo quelli della circoncisione (v. 12).

Quel mangiare di Pietro con i gentili, (si intende con gli etnicocristiani) non si sa esattamente per quanto tempo venne fatto. Non pensiamo che quel mangiare, si riferisca alla Cena del Signore (così intendono ad es. Lietzmann, Schlier), cosa che G. Kittel obietta (secondo noi giustamente) contro questa ipotesi: «Se in questa [nella Cena del Signore] si tratta di spezzare e mangiare il pane, la situazione è diversa da quella di un pasto in cui si mangia carne» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 231, nota 19].

Anche se il testo biblico non specifica di che cosa si trattasse, è più coerente pensare alla comunione e partecipazione di mensa, dove si potevano benissimo mangiare cibi che non era permesso a un giudeo di mangiare, secondo le norme della legge di Mosè. Paolo non trova niente da obiettare e tanto meno da rimproverare a Pietro per questa sua partecipazione a mangiare con gli etnicocristiani; trova invece validi motivi per richiamarlo severamente, perché l’ha fatto in vista di quelli di Giacomo, cioè, se Pietro non avesse visto quei giudeocristiani proveniente da Gerusalemme, non solo non avrebbe cessato di mangiare con gli etnicocristiani, ma neanche avrebbe temuto quelli della circoncisione. Il fatto che egli abbia avuto timore dai confidenti di Giacomo arrivati nella Comunità di Antiochia alla sua insaputa, questo ha portato diversi a riflettere.

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30/10/2011 00:04

O. Cullmann, per esempio,
«vede in [ phoboumenos ] qualcosa di più di una reazione psicologica di Pietro; per lui il «timore» è segno di una dipendenza amministrativa di Pietro dall’autorità gerosolimitana, più precisamente dal fratello del Signore, Giacomo, al quale nel frattempo sarebbe stato trasferito il primato nella chiesa» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 235; O. Cullmann, GLNT, Vol. X. col. 152,153, nota 56. «Il maggiore argomento con cui gli studiosi cattolici cercano di sminuire la posizione preminente di Giacomo riguarda l’espressione phoboumenos di Galati 2:12. Secondo loro, phoboumenos significherebbe qui che Pietro temeva delle difficoltà (da parte, in questo caso, di un’inferiore). Ma tale interpretazione è in contraddizione con l’uso costante del verbo che, negli altri passi, indica sempre il timore verso un superiore o di un’istanza superiore»].

La cosa che preoccupa Paolo, davanti all’atteggiamento di Pietro, non è tanto che egli si sia ritirato e separato dagli etnicocristiani, quanto che egli con quel suo comportamento, oltre a creare un serio problema nella vita della Comunità per ciò che riguarda l’unità della chiesa, trascina anche Barnaba dietro questa ipocrisia, tutto a scapito della verità dell’evangelo, dato che essi non stanno camminando rettamente secondo questa verità (v. 14).

In vista di quello che si prospetta davanti a Paolo, il rispetto della posizione e della persona di Pietro, passano in secondo piano, dato che il rimanere saldi alla verità dell’evangelo, vale più di ogni altra cosa Perciò, Paolo dice a Pietro, ( il greco ha Cefa): «Se tu, che sei Giudeo, vivi alla gentile e non alla giudaica, perché costringi i gentili a giudaizzare?» (v. 14).

STORIA DELL’ESEGESI DI GALATI 2:11-14

La storia dell’esegesi di Galati 2:11-14, tratta chiaramente della venuta di Pietro ad Antiochia e, da parte di Clemente d’Alessandria, (prima del 215) si dice che «il Cefa di Galati 2:11 non è l’Apostolo Pietro, ma un omonimo, facente parte della schiera dei 70 discepoli di Gesù» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 246. Si dovrebbe inoltre ricordare che non è solamente il v. 11 che parla di Kēfa, ci sono anche: 1:18; 2:9,14].

Se la tesi di Clemente d’Alessandria fosse esatta, si dovrebbero considerare sullo stesso piano anche: 1:18; 2:9,14, dato che il greco ha per questi testi Kēfa. Se poi si considerano: (Giovanni 1:42; 1 Corinzi 1:12; 3:22; 9:5; 15:5) in cui il greco ha ancora Kēfa, testi che indiscutibilmente parlano dell’Apostolo Pietro, non vediamo come la tesi di Clemente possa reggere. Dato per certo che il N.T. non conosce altri con questo soprannome, i riferimenti di 2:11, come anche 1:18; 2:9,14, sono da attribuirsi indiscutibilmente all’Apostolo Pietro.

Anche Girolamo, Crisostomo e Gregorio Magno assunsero una posizione critica nei riguardi di questa opinione. Per Tertulliano (160-220), quando considera il caso antiocheno, si esprime nel seguente modo: «Non fu Pietro a fare in Antiochia un passo falso, ma Paolo, che era privo di esperienza cristiana, ipersensibile (a causa degli attacchi alla sua dignità apostolica) un neoconvertito, eccessivamente zelante». Tertulliano, giudicando Paolo un «neofita», aveva dimenticato che al tempo dell’incidente di Antiochia era già cristiano da circa 14 anni [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 246, note, 12,16].

Giovanni Crisostomo (344/54-407) dedicando all’episodio una predica particolare, osò dire che i due apostoli in Antiochia, per il bene degli spettatori, organizzarono addirittura un conflitto apparente, così che Pietro svolse la parte del biasimato e tace a ragion veduta di fronte ai rimproveri di Paolo; con questa tattica egli non ha bisogno di rimproverare i giudeocristiani, ma lascia che ciò sia fatto da Paolo. Giustamente l’Overbeck, osserva:

«Che con simile trattamento del testo paolino le figure degli apostoli appaiano come marionette mosse dalle funi intrecciate coi concetti astratti dei dogmatici, è senz’altro vero. Solo che qui questo rimprovero non va rivolto particolarmente o addirittura esclusivamente all’esegesi di Origene, ma in generale a tutta l’esegesi ecclesiastica del suo tempo» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 247, nota 18]. Agostino (354-430), il comportamento di Pietro «era veramente riprensibile» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 251-252]. Per Lutero, infine, l’ipocrisia di Pietro ad Antiochia fu ancor più di un «errare»; essa fu un peccato grave [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 251-252].

Per gli autori moderni che si sono interessati per la vicenda antiochena, possiamo riassumerli nel seguente modo. Secondo lo Zahn il rimprovero di Paolo a Pietro si riferisce direttamente solo a questo: «egli costringerebbe i pagani ad adottare un’usanza giudaica. Separandosi dalla commensalità con loro, Pietro, benché da parte sua non ne avesse l’intenzione e la relativa conseguenza ancora non apparisse, esercitò sugli etnicocristiani una costrizione morale che in definitiva li doveva indurre ad adottare usanze giudaiche... Che Pietro, forse senza volerlo e senza saperlo, tendesse a questo scopo, è indicato come qualcosa di quasi incomprensibile già dalla formulazione della domanda [«come fai tu a costringere i pagani a giudaizzare?»], e ancor più dalla protasi [«Se tu, pur essendo un giudeo, vivi in modo pagano e non giudaico»]... Può anche darsi che Pietro abbia cambiato il suo atteggiamento solo per ciò che concerneva il mangiare coi pagani, e che, per il resto, continuasse — trattando con loro — a lasciar da parte qualche scrupolosità giudaica. Ma poiché Pietro di propria iniziativa e radicalmente... per motivi superiori si era emancipato dagli usi giudaici, lo colpisce sia il rimprovero dell’inconcepibile incoerenza sia quello della deplorevole ipocrisia» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 258].

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30/10/2011 23:17

Secondo il Lagrange il termine hupocrisis in Galati 2:13 non si deve tradurre «con ‘ipocrisia’, dove s’insinua un’idea spregevole: fingere un sentimento che non si prova per trarne un vantaggio. Questo non è il movente di Pietro» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 259]. Resta tuttavia il fatto che Pietro non ha conformato la sua prassi alle proprie convinzioni. Egli si credeva affrancato dalla legge, poiché mangiava con i gentili, e Paolo non suppone minimamente che lo abbia fatto contro la sua coscienza. Dunque egli aveva preso una risoluzione e non ha il coraggio di difendersi. Se ora si ritira, fa credere di non aver agito a ragion veduta, si ritratta di fatto e la conclusione era naturalmente sottolineata dai giudeocristiani di stretta osservanza che, senz’alcun dubbio, non tralasciarono di contribuire al mutamento repentino allegando presso i ritardatari l’autorità di Pietro... Ai gentili convertiti non rimaneva che Paolo... Solo Paolo era rimasto incrollabile» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 263-265].

Secondo lo Schlier
«nella persona di Pietro ora Paolo affrontò un avversario simile a quelli che si trovavano nelle comunità galate e in Gerusalemme. Solo così si capisce l’accentuazione dell’asprezza e dell’energia nell’opposizione... Pietro condivideva la medesima dottrina di lui, almeno per ciò che riguardava i principi fondamentali. Ma ora nella prassi egli voleva una chiesa di giudeocristiani che fosse separata dalla chiesa dei pagani nella visibilità della mensa comune. Così, praticamente, o negava che il Cristo Gesù avesse infranto la legge che divideva il cosmo e che i giudei e pagani vivessero totalmente e pienamente grazie al suo sacrificio, o — ciò che qui è più probabile — negava che la realtà della croce e della risurrezione di Cristo Gesù si renda presente nell’unità visibile di coloro che partecipano al suo corpo e quindi sono il suo corpo. Contro una tale negazione pratica e oggettiva della verità interviene Paolo. Pertanto si giunge a un dibattito pubblico, o meglio a una pubblica accusa di Paolo contro Pietro. Nella chiesa lo scandalo pubblico dev’essere biasimato ed eliminato pubblicamente» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 265-267].

Per il Gaechter, che cerca anzitutto di determinare il genere letterario di Galati 2:11-14 e vorrebbe chiamarlo «accusa eccitata». «Ovviamente Paolo era consapevole, benché probabilmente non con tutta lucidità, di scrivere in stato di eccitazione, e per questo supponeva anche di essere interpretato in modo corrispondente». Questo autore constata «tre qualità» nell’accusa di Paolo: «L’incompletezza dell’accusa, l’unilateralità della sua esposizione e la colorazione che l’accusa riceve dal suo temperamento». Il fatto poi che anche Barnaba partecipi alla simulazione assieme ad altri giudei, per il Gaechter «oltrepassa ogni verosimiglianza; qui parla l’accusatore stizzito, che non pondera le sue parole». Poi aggiunge: «È impensabile che tutto questo gruppo di uomini potesse essere globalmente accusato della medesima debolezza morale e della stessa scarsezza d’intelligenza, e così viene anche il giudizio su Pietro, giacché egli agì non diversamente da loro».

A questo punto, giustamente il Mussner chiede:
«Ma qui l’accusa non viene ritorta? Infatti, chi ha indotto «gli altri ad unirsi alla simulazione», se non Pietro col suo comportamento?». Secondo il Gaechter, anche le dichiarazioni di Paolo in Galati 2:15-21 «non sono espressioni di vittoria..., ma una prova che la sua sconfitta aveva lasciato nella sua anima una piaga ulcerosa». Se Paolo scrisse ai Galati parecchi anni dopo dell’evento antiocheno, sostiene il Gaechter, era dovuto dal fatto che Paolo allora stava attraversando «evidentemente un periodo d’irritazione nervosa». Davanti a queste precise affermazioni che fa il Gaechter, Mussner, risponde: «La ragione per cui Paolo allora, in Antiochia, ebbe «un cuore soltanto per gli etnicocristiani e non anche per i giudeocristiani» (per riportare letteralmente le parole del Gaechter), stando alla testimonianza di Galati non propana sicurissimamente da «irritazione nervosa», ma dal fatto che Paolo aveva compreso che ad Antiochia era in gioco la verità dell’evangelo (cfr. 2:14). È poi molto dubbio che ciò si possa designare come implicazione «nella logica delle sue premesse». Non era la logica delle sue premesse, ma la «logica» dell’evangelo quella a cui Paolo doveva obbedire, affinché l’evangelo non venisse «stravolto» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 259].

Secondo il Munck (anche se egli non contesta che i tinas apo Iakbou di Galati 2:12 fossero «alcuni giudeocristiani di Gerusalemme e che essi costituissero il motivo «per il quale Pietro si ritrasse dai pasti»), nondimeno pensa che i giudaizzanti, cioè quelli che contestavano l’autorità apostolica di Paolo e che erano e veri oppositori dell’Apostolo, erano gli etnicocristiani. «I giudaizzanti invece sono «etnicocristiani e — dal loro erroneo punto di vista giudaico — esigono che tutti i pagani che si fanno accogliere nella chiesa siano circoncisi e tenuti ad osservare la legge.. Dunque la differenza fra Pietro e i giudaizzanti consiste sostanzialmente in questo, che Pietro non pone alcuna esigenza — solo indirettamente il suo contegno ha l’aspetto di una costrizione (2:14) —, ma partecipa il più possibile alla vita comunitaria degli etnicocristiani, mentre i giudaizzanti non riescono a riconoscere la chiesa dei gentili come cristianesimo e perciò pretendono che all’evangelo paolino vengano ‘aggiunte’ tanto la circoncisione e l’osservanza della legge, quanto altre usanze. Nell’esegesi questa differenza ci può servire come criterio per distinguere esattamente ciò che viene detto a Pietro e ciò che in realtà è diretto ai giudaizzanti». Se si pensa però al discorso che Pietro tenne al concilio apostolico di Gerusalemme, Paolo in Galati 2:14, cita veramente Pietro. In Galati 2:17 si enuncia «qualcosa che ha validità generale per il giudeocristiano che cerca la giustizia in Cristo [come fa anche Pietro]: anch’egli risulta peccatore». Se s’intende il v. 17 così, «allora a partire da questo versetto non si pensa più a Pietro. Paolo non pensa più all’episodio di Antiochia. Esiste invece la possibilità che qui egli abbia presenti i giudaizzanti». Tenuto conto del contesto, pensa il Munck, «non vi può esser dubbio che il v. 18 sia rivolto agli etnicocristiani giudaizzanti, dei quali però non si può dire che proprio loro abbiano ricostruito ciò che prima avevano distrutto».

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31/10/2011 13:04

Facendo le sue considerazioni su quello che Munk ha detto, giustamente il Mussner scrive:
«Gli etnicocristiani, quand’anche dovessero giudaizzare, non ricostruiscono ciò che prima hanno «abbattuto»; convertendosi, essi non avevano bisogno anzitutto di «demolire» la legge, proprio perché in qualità di pagani non avevano vissuto secondo la legge Qui si rivela tutta la fragilità delle costruzioni del Munck, che portano anche a una completa minimizzazione del conflitto antiocheno fra Paolo e Pietro. Inoltre, da Galati 2:12 risulta chiaramente che i «giudaizzanti» erano di fatto giudeocristiani che indussero Pietro a lasciare, temporaneamente e contro la sua migliore convinzione, la retta via che conduce alla verità dell’evangelo. Il destinatario principale del «discorso» di Paolo in Galati 2:14-21 è Pietro, come risulta inequivocabilmente dalla precisazione del v. 14b (su = Pietro!)» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 263-265].

Secondo lo Schmithals (che esprime diversamente le cose), precisa che «noi veniamo a conoscere quegli «effettivi avvenimenti d’Antiochia... solo nell’ambito di una relazione molto finalizzata». Benché i giudeocristiani continuassero a vivere in conformità della legge, il «comportamento di Pietro... non contraddiceva del tutto alla lettera dell’accordo di Gerusalemme; ma contrastava con la sua intenzione», perché questo accordo comportava effettivamente anche certe implicazioni riguardanti il comportamento concreto dei giudeocristiani e degli etnicocristiani («noi ai pagani, essi invece alla circoncisione»). Che in modo particolare Pietro, il capo della missione ai giudei fedeli alla legge, fosse coinvolto in questi fatti e che questi accadessero nella famosa metropoli di Antiochia, dev’essere apparso particolarmente preoccupante ai gerosolimitani», soprattutto anche per le conseguenze che eventualmente dalla comunione di mensa dei giudeocristiani con gli etnicocristiani in Antiochia sarebbero derivate per le comunità giudeocristiani di Giudea, dove si potevano temere rappresaglie da parte del giudaismo.

I messaggeri di Giacomo vennero ad Antiochia a causa di questi timori — e anche Pietro li condivise (phoboumenos tous ek peritoms = (camminare rettamente) secondo lo Schmithals significa «per timore dei giudei», non dei giudeocristiani). «Ciò considerato, non si potrà contestare a Pietro l’onestà e coscienziosità della sua decisione». Davanti a questa visuale che lo Schmithals ha voluto tracciare, la domanda di Mussner, è più che pertinente: «Ma allora, perché Paolo affronta così aspramente Pietro, non gli uomini di Giacomo e gli altri giudeocristiani?». «Di qualunque genere possano essere i motivi personali della condotta di Pietro, Paolo teme evidentemente che il suo ritorno sotto la legge possa essere inteso dai pagani come una decisione teologica in favore della giustizia acquisibile con la legge.. solo in vista delle conseguenze temute per le sue comunità l’incoerenza nel comportamento di Pietro provocò la sua critica. Ciò premesso, si spiegano facilmente anche gli altri particolari dell’argomentazione paolina».

La conclusione che fa lo Schmithals è: «Quantunque Paolo in Galati 2:11 si mostri soprattutto interessato a riferire sulla controversia con Pietro, non si può tuttavia mettere in dubbio che l’argomento vero e proprio di quell’incidente in Antiochia fu il suo disaccordo con Barnaba. L’irritazione contro Pietro fu provocato in gran parte dalla conseguenza alla quale il suo comportamento costrinse proprio Barnaba. Non a caso Luca riferisce soltanto del conflitto fra Paolo e Barnaba; questo è il conflitto che nell’episodio antiocheno è rimasto impresso nella memoria della cristianità».

Che Paolo, sostiene lo Mussner, in effetti consideri colpevole anche Barnaba, si deduce dal plurale orthopodousin in 2:14, nel quale è incluso anche Barnaba; ciononostante riuscirebbe strano che poi tutta l’indignazione di Paolo si sfoghi soltanto su Pietro e che di Barnaba personalmente non si faccia il minimo cenno. Per questo, conclude Mussner, «l’ultima tesi dello Schmithals dovrà essere contrassegnata da un punto interrogativo» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 265-267].

L’ultimo punto, sul quale ritengo importante conoscere, è costituito dal modo di intendere dello Lönning, il quale vede nel testo di Galati 2:11 il «problema fondamentale di teologia controversistica». Dopo un esame accurato della storia dell’esegesi di Galati 2:11, il Lönning passa a considerazioni di fondo. Egli capisce assai bene che la storia dell’interpretazione di Galati 2:11 spesso offre pure la risposta attualizzante alle questioni di fronte alle quali si vede posta un’epoca nella sua problematica teologica. Ovviamente questo giudizio vale in particolare per il periodo dell’«insurrezione» riformatoria contro la chiesa papale. L’esegesi cattolica mirò più volte, fino ai nostri giorni, a giustificare Pietro nei confronti dell’attacco di Paolo.

Il Lönning riconosce che il problema fondamentale di Galati 2:11 è questo: qual’è l’essenza dell’«apostolicità»? Egli osserva: «Nel nostro caso il quadro viene drasticamente complicato dal fatto che il testo apostolico parla di una controversia fra due apostoli, in un contesto in cui si sviluppa il tema dell’apostolato. Ancor più: la controversia apostolica coinvolge proprio le due persone che nella storia della chiesa — l’uno in forza della sua posizione centrale nella Scrittura apostolica, l’altro per il predominio della Tradizione apostolica — figurano per così dire come prototipi». Si potrebbe col Crisostomo obbiettare che un dissidio isolato non si può davvero intendere come un «conflitto duraturo», che dia avvio a una permanente posizione di problemi. Ma lo stesso Crisostomo non avverte che, essendo quel celebre conflitto diventato Scrittura in una graf che per la chiesa ha valore canonico, anche la problematica di fondo che emerge è divenuta nella chiesa oggetto di continua meditazione; vale a dire: una simile situazione conflittuale può nella chiesa ripetersi. Richiamato questo principio, come si deve interpretare il conflitto antiocheno? Secondo il Lönning esso riguarda questa problematica: continuità e discontinuità nella vita della chiesa-Salmo. Allora tutta l’argomentazione dell’Apostolo in Galati 1 e 2 mostrerebbe che la «continuità della chiesa è inclusa in h altheia tou euaggeliou (2:14)». «Col nostro testo — cioè col testo considerato nella storia dei suoi effetti — si ha un possibile punto d’incrocio. La chiesa non è direttamente accessibile né alla considerazione empirica né alla deduzione speculativa.

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01/11/2011 00:10

Ma alla ‘verità dell’evangelo’ come continuità della chiesa corrisponde l’interpretazione della Scrittura come nota ecclesiae». Ma se alle notae ecclesiae appartiene anche l’interpretazione della Scrittura, allora chiesa in senso specifico si ha sempre là dove viene applicata la «verità dell’evangelo». Ciò significa: «Non è la chiesa che rende evangelo l’evangelo, ma è l’evangelo che rende chiesa la chiesa». «Quand’anche tutte le Scritture bibliche e l’intero corpus degli scritti confessionali vengano recitati con la massima fedeltà al testo, la chiesa non sta in piedi se attivamente o passivamente, parlando o tacendo, in concreto si rinnega la verità dell’evangelo...».

Il testo di Galati 1 e 2 dev’essere continuamente calato nella rispettiva situazione della chiesa perché possa svolgere la sua funzione critica, eventualmente nei confronti di tutte le semplici traditiones humanae esistenti nella chiesa-Salmo Così per il Lönning Galati 1 e 2 può essere il testo che nella chiesa ha la funzione di una permanente critica della tradizione e proprio per questo può anche essere un ausilio sulla via che conduce all’Una Sancta.

In questo modo d’intendere Galati 1 e 2 l’evangelo, che per Paolo è un’entità indipendente dall’autorità umana, assume un compito che relativizza le persone, siano esse Pietro o Paolo. Per quanto istruttiva e interessante sia la storia dell’esegesi di Galati 2:11, la conseguenza da trarne dovrebbe essere quella che Paolo stesso ha dedotto da tutta la polemica con i suoi avversari: quale sia la persona interessata, al di sopra di tutte sta l’evangelo di Cristo; perché Dio non bada al prestigio personale (Galati 2:6).

È servitore dell’evangelo colui che valorizza la verità evangelica. Visto così, Galati 2:11, contiene effettivamente un «problema fondamentale di teologia controversistica», che dev’essere ripensato in egual modo da tutte le chiese. Dall’evangelo, quale lo intende Paolo — come kerygma della morte salvifica e della risurrezione salvifica di Gesù dai morti —, non si può deviare né verso «destra» né verso «sinistra». Un deviamento verso «sinistra» sarebbe ad es. una rinuncia al Kerygma in favore d’una semplice «solidarietà umana», un deviamento verso «destra» potrebbe essere un culto delle persone di chiesa a tutto svantaggio dell’evangelo. Nella chiesa dev’essere sempre possibile «opporsi in faccia all’uomo-roccia», quand’egli non «procede per via diretta verso la verità dell’evangelo». Proprio il coraggio dell’Apostolo Paolo ha salvato allora l’unità della chiesa e l’ha preservata dal pericolo di snaturarsi. Tale coraggio deve permanere» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 267-269].

Dopo aver riferito sulla storia dell’esegesi di Galati 2:11-14, analizziamo attentamente il v. 16 del quale ancora non abbiamo parlato, per meglio comprendere e valorizzare la fede. L’Apostolo Paolo comincia col dire di sapere (gr. eidotes) che l’uomo non è giustificato per le opere della legge ma per mezzo della fede in Gesù Cristo. Il suo modo di esprimersi però non è singolare, come per es.:

«Io so che...», ma un collettivo che include anche Pietro, Barnaba e tutti gli altri giudei diventati cristiani. Appare chiaro quindi che questo sapere, non si riferisce a tutti i giudei, perché di fatto il giudeo che non è diventato cristiano, questo non lo «sa». Dunque il participio eidotes esprime qui la «conoscenza di fede». «In ogni caso, per l’Apostolo la fede comporta un (nuovo) sapere. Fede significa per lui anche conoscenza di fede! Quindi questo «sapere» «non è l’accesso a una verità generica, per principio disponibile a chiunque, ma una conoscenza resa possibile storicamente, ossia rivelata per la prima volta solo nell’avvenimento-Cristo» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 269-272].

Quello che Paolo disse a Pietro con estrema fermezza e determinazione, (più tardi lo scriverà nella lettera ai Romani, precisamente in (Romani 3:20,28), cioè che l’uomo è giustificato solamente per la fede in Cristo Gesù e non per lo opere della legge, prova quanto sia giustificante il suo intervento, non per difendere la sua persona e con essa la sua apostolicità, (anche se indirettamente tendeva a provare l’autorità del suo apostolato divino, contestato dai giudaizzanti) ma perché la verità dell’evangelo che egli stesso proclamava, non avesse a subire nessun danno ma che rimanesse ferma e incrollabile davanti ad ogni forma di deviazione.

Per Paolo, che aveva ben compreso quest’aspetto della teologia cristiana, non c’è nessuna differenza di parlare del giudeo o del pagano in questa prospettiva globale. Infatti, il termine anthropos che egli adopera, è adatto in effetti a riferirsi a tutti gli uomini e a metterli sullo stesso piano, anche se gli uomini non appartengono allo stesso strato sociale e non hanno la stessa forma religiosa che praticano.

Queste affermazioni l’Apostolo le può fare ora, e non parla come il vecchio fariseo imbottito delle rigide convinzioni basate sull’osservanza della legge mosaica e delle tradizioni dei suoi padri, ma come persona che si è convertita a Gesù Cristo, dal quale gli è stata rivelata questa importante e fondamentale verità evangelica. Dal tono che l’Apostolo usa, sembrerebbe che egli dia sfogo al suo carattere forte considerandosi superiore a Pietro in materia di dottrina. Ma se si considera il discorso dell’Apostolo in relazione al comportamento poco coerente di Pietro, che aveva assunto davanti agli etnicocristiani quando si era separato da loro e non partecipava più alla comunione di mensa, si capisce subito che lo scopo di Paolo non è quello di ergersi su Pietro, ma bensì di far vedere allo stesso Pietro quanto egli fosse incoerente, sia con la sua stessa convinzione e sia soprattutto con la verità dell’evangelo.

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02/11/2011 00:02

Dal testo che abbiamo esaminato, risulta chiaramente che per un certo tempo, (non si sa esattamente per quanto) Pietro non ebbe nessuna difficoltà a mangiare assieme con gli etnicocristiani di Antiochia, dimostrando apertamente sia a Paolo che agli atri, giudeocristiani e etnicocristiani, che lui in qualità di giudeocristiano, non aveva niente in contrario a condividere con questi cristiani il loro modo di vivere. Questo naturalmente perché Pietro l’aveva capito chiaramente in precedenza, cioè con l’evento della casa di Cornelio (Atti 10).

Se poi il discorso si sposta su quello che egli sostenne al concilio apostolico di Gerusalemme (Atti 15:7-11), diventa più chiaro che l’Apostolo non condivideva l’opinione dei giudaizzanti, che avrebbero voluto un taglio netto col modo di vivere degli etnicocristiani, a meno che quest’ultimi non fossero stati disposti ad accettare la pratica della circoncisione e l’osservanza della legge di Mosè. Si nota subito che la posizione di Pietro era uguale a quella di Paolo. Però, quando nella chiesa di Antiochia arrivarono alcuni da parte di Giacomo, Pietro ebbe paura di loro, e, facendo un voltafaccia con la sua stessa convinzione, si ritirò dagli etnicocristiani e non si unì più alle loro mense. Anche se questo atteggiamento fu visto da tutti e lo stesso Barnaba venne trascinato dalla loro ipocrisia, non tutti però si resero conto che Pietro, (in qualità di capo per la missione dei giudeocristiani) non stava comportandosi secondo la verità dell’evangelo. Fu Paolo che vide questo e fu lui che ebbe il coraggio di rimproverare Pietro davanti a tutti. Quindi, le parole del (v. 16), non sono indirizzate ai giudeocristiani, come qualcuno suggerisce, ma a Pietro.

Quando Paolo fa riferimento alle opere della legge, per ottenere la giustificazione, giustamente afferma che per tali opere, l’uomo, sia giudeo che pagano, non può mai concquistarsi la giustificazione. Il non mangiare assieme ai gentili convertitesi al cristianesimo, era appunto l’osservanza di quello che diceva la legge intorno a certi cibi che i gentili mangiavano liberamente e che ai giudei era proibito. Ma che cosa s’intende precisamente con queste opere della legge che non procurano la giustificazione? Considerando il contesto di Galati 2:16 e anche altri passi della lettera, quali (3:2,5,10)

«si ricava che come opere di tal genere non si vogliono affatto indicare soltanto le prescrizioni rituali del giudaismo, compresa la circoncisione, ma le opere dell’uomo deducibili dalla totalità del nomos, dalla torà (cfr. specialmente 3:10-12 con l’espressione del v. 11: en mon [ ! ] oudeis dikaioutai para the) = (mediante la legge, nessuno è giustificato davanti a Dio). Questa constatazione è confermata dalla lettera ai Romani (cfr. specialmente 3:20,27; 4:2; 9:11,31; 11:6). «Le opere della legge» contengono per Paolo un principio religioso, che viene annullato dalla norma della grazia e della fede instaurata escatologicamente in Cristo. Solo un’esegesi ingenua potrebbe negare questi risultati e limitare «le opere della legge» ai precetti rituali giudaici.

La giustificazione avviene per fede: ciò è valevole per sempre (presente acronico dikaioutai in Galati 2:16a) e — secondo l’esegesi scritturistica di Paolo — è già stato valido da sempre, come mostra l’esempio di Abramo (cfr. Galati 3:6-12; Romani 4:2,23). Al posto del principio della legge, che comunque non portava alla giustificazione (cfr. Galati 3:11), subentra il principio della fede (dia pistes Christos Isuo). Qui la preposizione dia qualifica la fede come la via alla giustificazione per l’uomo, col che però la pistis non dev’essere intesa a sua volta come (nuova) «opera», e lo dimostra la netta antitesi «fede» / «opere della legge». La fede è la risposta appropriata a una concreta offerta di grazia da parte di Dio, espressa mediante il genitivo oggettivo Christou Isou che segue pistes. La fede giustificante ha il suo fondamento oggettivo in quell’evento salvifico che è inscindibilmente congiunto con la persona e con l’opera redentrice di Gesù Cristo; essa perciò non è una fede qualsiasi, ma, detto in forma pregnante, «fede in Cristo Gesù», come l’Apostolo si affretta a precisare» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 274, nota 6].

La seconda parte del (v. 16), mette in evidenza, sia per la vita di Paolo come anche per quella di Pietro (per non parlare di tutti gli altri giudei convertitisi) che essi hanno creduto in Cristo Gesù, affinché fossero giustificati mediante la fede di Cristo. È chiaro quindi, dove vuole arrivare l’Apostolo con queste sue parole: mettere Pietro davanti alla realtà della sua salvezza. In altre parole Paolo voleva dire a Pietro: Se tu sei salvato = giustificato, lo sei solamente per la fede in Cristo Gesù e non in virtù delle opere della legge. Questa è una verità che deve essere ribadita continuamente da ogni predicatore del vangelo, per non deviare dalla verità dell’evangelo.

A questo punto non ci resta altro che fare qualche osservazione sulla vita di Pietro per ciò che riguarda la polemica che ci fu tra lui e Paolo. Dall’epistola ai Galati come del resto di tutte le altre epistole paoline, non si dice niente della possibile reazione che avrebbe potuto avere Pietro nei confronti di Paolo. Ha capito Pietro il valore e il significato dell’intervento di Paolo? Ha conservato nel suo cuore risentimenti nei suoi confronti? Se non ci fosse niente nel N.T. che potesse rispondere alle due domande, non sapremmo veramente proprio nulla di come andarono le cose tra Pietro e Paolo. Però, un riferimento nella (2 Pietro 3:15), che parla specificatamente di Paolo, dicendo addirittura: il nostro caro fratello Paolo, questo potrebbe essere la chiave per dare una risposta alle nostre due domande.

A questo punto si presenta il problema della paternità, cioè se la 2 Pietro sia stata scritta dall’Apostolo o sia stato un’altro a farlo, usando il suo nome. Siccome il nostro scopo non è quello d’intrattenerci su questo dibattuto problema, possiamo rimandare il lettore alle opere specifiche [Cfr.Karl Hermann Schelkle, Le lettere di Pietro e di Giuda, pagg. 288-294 e di Everett F. Harrison, La Parola del Signore, Vol. 2 pagg. 423-434].

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02/11/2011 00:03

Dal testo che abbiamo esaminato, risulta chiaramente che per un certo tempo, (non si sa esattamente per quanto) Pietro non ebbe nessuna difficoltà a mangiare assieme con gli etnicocristiani di Antiochia, dimostrando apertamente sia a Paolo che agli atri, giudeocristiani e etnicocristiani, che lui in qualità di giudeocristiano, non aveva niente in contrario a condividere con questi cristiani il loro modo di vivere. Questo naturalmente perché Pietro l’aveva capito chiaramente in precedenza, cioè con l’evento della casa di Cornelio (Atti 10).

Se poi il discorso si sposta su quello che egli sostenne al concilio apostolico di Gerusalemme (Atti 15:7-11), diventa più chiaro che l’Apostolo non condivideva l’opinione dei giudaizzanti, che avrebbero voluto un taglio netto col modo di vivere degli etnicocristiani, a meno che quest’ultimi non fossero stati disposti ad accettare la pratica della circoncisione e l’osservanza della legge di Mosè. Si nota subito che la posizione di Pietro era uguale a quella di Paolo. Però, quando nella chiesa di Antiochia arrivarono alcuni da parte di Giacomo, Pietro ebbe paura di loro, e, facendo un voltafaccia con la sua stessa convinzione, si ritirò dagli etnicocristiani e non si unì più alle loro mense. Anche se questo atteggiamento fu visto da tutti e lo stesso Barnaba venne trascinato dalla loro ipocrisia, non tutti però si resero conto che Pietro, (in qualità di capo per la missione dei giudeocristiani) non stava comportandosi secondo la verità dell’evangelo. Fu Paolo che vide questo e fu lui che ebbe il coraggio di rimproverare Pietro davanti a tutti. Quindi, le parole del (v. 16), non sono indirizzate ai giudeocristiani, come qualcuno suggerisce, ma a Pietro.

Quando Paolo fa riferimento alle opere della legge, per ottenere la giustificazione, giustamente afferma che per tali opere, l’uomo, sia giudeo che pagano, non può mai concquistarsi la giustificazione. Il non mangiare assieme ai gentili convertitesi al cristianesimo, era appunto l’osservanza di quello che diceva la legge intorno a certi cibi che i gentili mangiavano liberamente e che ai giudei era proibito. Ma che cosa s’intende precisamente con queste opere della legge che non procurano la giustificazione? Considerando il contesto di Galati 2:16 e anche altri passi della lettera, quali (3:2,5,10)

«si ricava che come opere di tal genere non si vogliono affatto indicare soltanto le prescrizioni rituali del giudaismo, compresa la circoncisione, ma le opere dell’uomo deducibili dalla totalità del nomos, dalla torà (cfr. specialmente 3:10-12 con l’espressione del v. 11: en mon [ ! ] oudeis dikaioutai para the) = (mediante la legge, nessuno è giustificato davanti a Dio). Questa constatazione è confermata dalla lettera ai Romani (cfr. specialmente 3:20,27; 4:2; 9:11,31; 11:6). «Le opere della legge» contengono per Paolo un principio religioso, che viene annullato dalla norma della grazia e della fede instaurata escatologicamente in Cristo. Solo un’esegesi ingenua potrebbe negare questi risultati e limitare «le opere della legge» ai precetti rituali giudaici.

La giustificazione avviene per fede: ciò è valevole per sempre (presente acronico dikaioutai in Galati 2:16a) e — secondo l’esegesi scritturistica di Paolo — è già stato valido da sempre, come mostra l’esempio di Abramo (cfr. Galati 3:6-12; Romani 4:2,23). Al posto del principio della legge, che comunque non portava alla giustificazione (cfr. Galati 3:11), subentra il principio della fede (dia pistes Christos Isuo). Qui la preposizione dia qualifica la fede come la via alla giustificazione per l’uomo, col che però la pistis non dev’essere intesa a sua volta come (nuova) «opera», e lo dimostra la netta antitesi «fede» / «opere della legge». La fede è la risposta appropriata a una concreta offerta di grazia da parte di Dio, espressa mediante il genitivo oggettivo Christou Isou che segue pistes. La fede giustificante ha il suo fondamento oggettivo in quell’evento salvifico che è inscindibilmente congiunto con la persona e con l’opera redentrice di Gesù Cristo; essa perciò non è una fede qualsiasi, ma, detto in forma pregnante, «fede in Cristo Gesù», come l’Apostolo si affretta a precisare» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 274, nota 6].

La seconda parte del (v. 16), mette in evidenza, sia per la vita di Paolo come anche per quella di Pietro (per non parlare di tutti gli altri giudei convertitisi) che essi hanno creduto in Cristo Gesù, affinché fossero giustificati mediante la fede di Cristo. È chiaro quindi, dove vuole arrivare l’Apostolo con queste sue parole: mettere Pietro davanti alla realtà della sua salvezza. In altre parole Paolo voleva dire a Pietro: Se tu sei salvato = giustificato, lo sei solamente per la fede in Cristo Gesù e non in virtù delle opere della legge. Questa è una verità che deve essere ribadita continuamente da ogni predicatore del vangelo, per non deviare dalla verità dell’evangelo.

A questo punto non ci resta altro che fare qualche osservazione sulla vita di Pietro per ciò che riguarda la polemica che ci fu tra lui e Paolo. Dall’epistola ai Galati come del resto di tutte le altre epistole paoline, non si dice niente della possibile reazione che avrebbe potuto avere Pietro nei confronti di Paolo. Ha capito Pietro il valore e il significato dell’intervento di Paolo? Ha conservato nel suo cuore risentimenti nei suoi confronti? Se non ci fosse niente nel N.T. che potesse rispondere alle due domande, non sapremmo veramente proprio nulla di come andarono le cose tra Pietro e Paolo. Però, un riferimento nella (2 Pietro 3:15), che parla specificatamente di Paolo, dicendo addirittura: il nostro caro fratello Paolo, questo potrebbe essere la chiave per dare una risposta alle nostre due domande.

A questo punto si presenta il problema della paternità, cioè se la 2 Pietro sia stata scritta dall’Apostolo o sia stato un’altro a farlo, usando il suo nome. Siccome il nostro scopo non è quello d’intrattenerci su questo dibattuto problema, possiamo rimandare il lettore alle opere specifiche [Cfr.Karl Hermann Schelkle, Le lettere di Pietro e di Giuda, pagg. 288-294 e di Everett F. Harrison, La Parola del Signore, Vol. 2 pagg. 423-434].

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03/11/2011 00:09

Considerando la 2 Pietro come scritto di Pietro, la sua composizione risalirebbe verso il 65,66, cioè poco prima di morire, circa una decina di anni dopo l’epistola ai Galati, (non sapendo esattamente l’evento antiocheno quando si verificò). Col chiamare Paolo il nostro caro fratello Paolo, anche se nella mente dell’Apostolo Pietro non c’era presente l’evento antiocheno, per uno che legge queste parole e tiene presente la disputa di Antiochia, non può fare a meno di pensare che l’Apostolo, riflettendo sulle parole che Paolo gli disse ad Antiochia, abbia riconosciuto lo sbaglio che fece in quella circostanza, e, come prova di aver capito e valutato nella sua giusta portata l’intervento di Paolo nei suoi confronti, ha voluto anche dimostrare, — contro coloro che probabilmente pensavano che Pietro sarebbe rimasto offeso —, che in lui non vi era rimasto nessun risentimento nei confronti di Paolo, altrimenti: il nostro caro fratello Paolo , non avrebbe nessun senso, parlerebbe soltanto di una messa in scena, di una semplice finzione, cosa che è impensabile sostenere una simile ipotesi.

3) Galati 2:20:


Io sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me; e quella vita che ora vivo nella carne, la vivo nella fede [ pistei ] del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me.

L’affermazione di questo versetto, riguarda esclusivamente la vita di Paolo. L’esperienza che egli ha fatto con la sua conversione a Gesù Cristo, ha prodotto un vero cambiamento di rotta, sia per quanto riguarda il suo modo di pensare e soprattutto per il suo modo di vivere. Non c’è nessun dubbio che la crocifissione a cui fa riferimento l’Apostolo debba intendersi in senso spirituale, il suo significato certo è quello che parla della sua morte, cioè del suo passato, del suo modo di vivere alla farisaica. La susseguente frase e non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me, vuole essere la dimostrazione che il vecchio Saulo che è stato crocifisso, non è rimasto nella tomba, è stato risuscitato; di conseguenza, la vita che egli ha ora è quella che ha ricevuto da Cristo, ragion per cui non ha nessun diritto di vivere a modo suo, ma la sua vita la vuole vivere nella fede del Figlio di Dio, che lo ha amato e ha dato se stesso per lui.

Questi due motivi che l’Apostolo adduce, non hanno solamente valore motivante per lui, sono anche un incitamento per ogni cristiano che voglia seguire l’esempio di Paolo. Se l’uomo effettivamente prende atto che Gesù lo ha amato e ha dato la sua vita per lui, sarà portato a vivere la sua vita nella carne, non più a se stesso, ma unicamente nella fede del Figlio di Dio.


1. UN APPELLO ALL’ESPERIENZA CRISTIANA DEI GALATI

4) Galati 3:2:

Questo solo desidero sapere da voi: avete ricevuto lo Spirito mediante le opere della legge o attraverso la predicazione della fede? pistes.

Cominciando a riflettere sul capitolo tre di questa epistola, bisogna subito dire che delle 19 occorrenze che si trovano in tutta la lettera intorno alla fede, ben 13 si trovano in questo capitolo. Questo vuol dire che la fede in questo capitolo, ha un’importanza particolare. Ma non è solo questo. Se nei primi due capitoli Paolo ha fatto largamente riferimento alla sua esperienza personale di convertito al cristianesimo, ora affronta i giudaizzanti, che poi sono i suoi avversari, con le prove scritturali per dare più peso e validità alle sue argomentazioni. [Cfr. Alan Cole, l’Epistola di Paolo ai Galati, pagg.. 107-109].

A dire il vero questo modo di procedere è oltremodo lodevole sotto ogni aspetto, non solo allora per Paolo, ma lo è anche per i nostri giorni, come lo è stato per tutti i tempi e lo sarà per sempre. Per l’Apostolo allora non fu solamente per mettere in evidenza la sua erudizione rabbinica che aveva acquistato nel giudaismo, ma la valorizzazione che ora può fare delle stesse Scritture, quando li può applicare alla vita e alla dottrina cristiana. Sotto questo aspetto, il valore e l’insegnamento che ci fornisce questo testo, è senza dubbio immenso. Inoltre, la fede, di cui ci stiamo occupando, deve essere sempre inquadrata e valutata tenendo presente il contesto in cui si trova menzionata. Questo naturalmente ci porterà a considerare, sia le persone che le varie situazioni a cui il testo biblico fa allusione. Con questa premessa, passiamo subito ad analizzare il testo biblico.

Anche se tutta l’argomentazione che l’Apostolo fa in questo capitolo terzo mira ad affrontare i giudaizzanti, nondimeno le sue parole sono rivolte alla fratellanza che ha vissuto una reale esperienza cristiana, ma che poi in un secondo tempo hanno anche subito l’influenza dei giudaizzanti, che poi sono gli avversari dell’evangelo che Paolo predica. Il termine [ anotoi ] che Paolo adopera, significa:

1. Irragionevole, insensato, stolto
2. incomprensibile, impensabile
3. inatteso, inaudito, straordinario
4. che non comprende, inetto a comprendere


e secondo C. Buzzetti: Stupido, ignorante, che non sa comprendere[/C[. Se Paolo apostrofa i Galati come [ anotoi ],

«con ciò viene loro attribuita non una scarsa intelligenza, ma una mancanza di discernimento, e precisamente per ciò che concerne l’essenza dell’evangelo e quindi del cristianesimo» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 327, note 3, e 4].

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[Modificato da Domenico34 03/11/2011 00:10]
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