Domenico34 - LA FEDE NELLE EPISTOLE DI PAOLO -

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Domenico34
00sabato 8 ottobre 2011 17:14

LA FEDE NELLE EPISTOLE DI PAOLO





Nota introduttiva

Dopo avere esaminato quello che hanno i sinottici e gli Atti, per ciò che riguarda la fede, ci accingiamo ad esaminare quello che ha lasciato l’Apostolo Paolo nelle sue epistole, specialmente in quella ai Romani, che contiene il maggior numero di occorrenze, rispetto a tutte le altre epistole. L’esame del materiale dell’epistola ai Romani, è importante, non solo per i molti passaggi che essa contiene, ma soprattutto per i grandi temi di teologia cristiana che questo scritto affronta, come per esempio: La giustizia di Dio, la giustificazione per fede, la giustizia della legge. Naturalmente, queste dottrine fondamentali, che ha impegnato tanti studiosi di fama attraverso i secoli, a partire specialmente dalla riforma protestante, che furono gli argomenti focali di tutta la polemica che si sviluppò con la Chiesa Cattolica Romana e continuano ad essere i cardini della teologia cristiana, saranno esaminati solamente in riferimento alla fede, di cui questo nostro lavoro si sta occupando.

EPISTOLA AI ROMANI

1) Romani 1:8:

Prima di tutto, rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo per tutti voi, perché la vostra fede pistis è pubblicata in tutto il mondo.

Il motivo del rendimento di grazie che l’Apostolo all’inizio della sua epistola innalza al suo Dio, per mezzo di Gesù Cristo per tutti i cristiani che si trovano nella capitale dell’impero Romano, vuole essere un segno evidente della sua gratitudine a Dio, per l’opportunità che gli viene concessa di scrivere questa sua epistola (che poi si rivelerà un documento di straordinaria importanza rispetto al resto dell’epistolario paolino, soprattutto per il valore teologico che essa ha, poiché vengono trattati i temi fondamentali della dottrina cristiana) e indirizzarlo a dei credenti che non conosce di faccia, la cui conversione per altro non è attribuita al suo ministero, ma ad altri (ignoti).

Il fatto che la fede dei credenti di Roma, sia pubblicata in tutto il mondo, spinge Paolo, non solo a rendere grazie a Dio e a scrivere loro, ma anche ad esprimere sentimenti di congratulazione per la condizione in cui si trova questa fratellanza, e, nello stesso tempo fa oggetto di incessanti richieste di preghiera a Dio, perché si possa concretizzare il suo desiderio di andare a Roma per conoscere questa fratellanza. Infine, la fede, oggetto di questo preambolo epistolare, rappresenta anche un legame che unisce le due parti col vincolo fraterno, protesi entrambi verso una stessa meta e traguardo: la proclamazione del vangelo di Gesù Cristo e il servizio che si può dare l’uno all’altro, in vista soprattutto della comune salvezza. Inoltre, la fede nella vita di un credente, non rimane nascosta nell’intimo del cuore, ma si manifesta in modo tale che anche gli altri la possono vedere, nella vita pratica di ogni giorno e servirà anche come sprone ed incoraggiamento nell’esperienza cristiana.


2) Romani 1:12:


E questo è per essere in mezzo a voi consolato insieme mediante la fede pistes che abbiamo in comune, vostra e mia.

L’ardente desiderio che Paolo ha di recarsi a Roma per conoscere quella fratellanza, ha principalmente un doppio scopo: Comunicare qualche dono spirituale per la loro fortificazione e nello stesso tempo per essere lui stesso consolato (v. 11). Questo naturalmente avviene mediante la fede, che fa da legame ed è di supporto per conseguire simili risultati. Se la fede (non importa se è grande o piccola) è vista e valutata sotto questo aspetto, il beneficio che arreca, è indiscutibile. Infine, la fede non porta le persone ad agire egoisticamente, cioè pensando solo a sé stessi, ma si muove in senso altruista; non si crede e si considera autosufficiente, come non avendo bisogno degli altri, ma è aperta a ricevere volentieri quello che verrà dato da altri. Agendo in questo modo, le persone che hanno fede, contribuiscono vicendevolmente ad ammaestrarsi, a incoraggiarsi, a edificarsi e a consolarsi.

3) Romani 1:17:

Perché la giustizia di Dio è rivelata in esso di fede pistis in fede pistin, come sta scritto: Il giusto vivrà per fede pistes.

Nella parte introduttiva, l’Apostolo Paolo, oltre ad elogiare la fede dei credenti di Roma, rivelare il suo ardente desiderio di recarsi da loro per conoscerli di persona; rivela a questi credenti di essere debitore ai Greci e ai barbari, ai savi e agli ignoranti (v. 14) e nello stesso tempo dichiara la sua disponibilità ad evangelizzare anche loro che abitano a Roma. Prima però che l’Apostolo entri in tema, cioè, cominci a parlare della giustizia per la fede, che è il soggetto dell’epistola, oltre ad essere consapevole di essere servo di Gesù Cristo, chiamato ad essere apostolo, appartato per l’evangelo di Dio (v. 1), sente anche un dovere di dire a questa fratellanza che egli non si vergogna dell’evangelo di Cristo perché sa che esso è la potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco (v. 16).

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Domenico34
00domenica 9 ottobre 2011 02:37
Siccome l’Apostolo sa molto bene che cosa può fare l’evangelo nella vita di chiunque crede, deve anche rivelare che la giustizia di Dio, — che è l’elemento essenziale di tutto quello che egli esporrà in breve —, viene rivelata nel vangelo di fede in fede. Quindi, appare chiaro, fin dalle prime battute, il ruolo che ha la fede e l’importanza che essa riveste, in questa esposizione teologica che verrà fatta.

«Negli scritti di Qumran si trova una anticipazione assai rimarchevole di questo duplice significato della giustizia di Dio; a) la sua propria giustizia, b) la giustizia con cui Egli giustifica i peccatori sulla base della fede. «Per la Sua giustizia il mio peccato è cancellato... Se inciampo a causa di una iniquità della carne, la sentenza contro di me si trova nella giustizia di Dio che dura in eterno... Per la Sua misericordia Egli ha fatto sì che potessi avvicinarmi, e per la Sua amorevole benevolenza Egli avvicina a Sé la sentenza contro di me. Per la Sua vera giustizia Egli mi giudica e per la Sua immensa bontà Egli fa l’espiazione di tutte le mie iniquità. Per la Sua giustizia Egli mi purifica dalle impurità dell’uomo mortale e dal peccato dei figli degli uomini, così che io possa lodare Dio per la Sua giustizia e l’Altissimo per la Sua gloria» [Cfr. F. F. Bruce, L’epistola di Paolo ai Romani, pagg. 94, 95].

La frase: giustizia di Dio, greco [ dikaiosun theou ] che poi è una formula prediletta di Paolo, specialmente nell’epistola ai Romani, ha il suo particolare e profondo significato, specialmente quando viene inquadrata nel contesto della salvezza. Poiché il concetto stesso di giustizia greco. [ dikaiosun ] ha un posto rilevante nella teologia biblica, specie nel N.T. che ricorre 91 volte, di cui 57 negli scritti paolini (in particolare 33 in Romani), e, poiché questo tema non rientra nello scopo di questo libro, rimandiamo il lettore alle opere specifiche, per un maggiore approfondimento [Cfr. G. Schrenk, GLNT, Vol. 2, col. 1236-1289; K.Kertelge, Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, col. 861-874; H. Seebass, Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, pagg. 799-808; Dizionario di teologia biblica, pagg. 427-437]. Siccome nell’evangelo che Paolo predica, viene rivelata la giustizia di Dio, ne consegue la piena giustificazione della maggiore insistenza nell’epistola ai Romani, poiché è in essa che viene trattato specificatamente il soggetto della giustizia di Dio.

La fede, ovviamente, in questo processo di rivelazione, nel senso cioè di mettere in evidenza, far conoscere, svolge un ruolo primario e fondamentale, ragione per cui, la stessa citazione che viene addotta di Habacuc 2:4, serve essenzialmente all’Apostolo a mettere maggiormente in risalto il valore della fede, poiché il giusto vivrà per la fede. Concepire infatti il ‘vivere’ del giusto senza la fede, significa, non solamente svuotare la vita della sua vera essenza, ma anche e soprattutto farla apparire in una diversa dimensione di come Dio l’ha tracciata e l’ha stabilita. La vita di una persona in genere, non è scevra di pericoli e difficoltà, — e quella del giusto non è diversa —, ragion per cui, per superare facilmente questi sbarramenti, il giusto, in maniera particolare, non può fare affidamento alle sue capacità umane, deve necessariamente appellarsi alla fede, la sola che può garantirgli il superamento di ogni pericolo e difficoltà)


4) Romani 3:22:


cioè la giustizia di Dio mediante la fede pistes in Gesù Cristo verso tutti e sopra tutti coloro che credono, perché non c’è distinzione.

Stabilito come punto fermo che la giustizia di Dio viene rivelata nel vangelo di Cristo, (1:17) e che alla stessa rendono testimonianza la legge e i profeti (3:21), e, visto che l’Apostolo nel tratto 3:9-20 ha dimostrato, tramite le Scritture, precisamente: (Salmo 14:3; 53:1-3; 5:9; 140:3; Proverbi 1:16; Isaia 59:7 e Sal 36:1) che tutti gli uomini, tanto Giudei quanto Greci sono tutti sotto peccato (3:9), e, premettendo che:

nessuna carne sarà giustificata davanti a lui (cioè davanti a Dio) per le opere della legge perché la legge dà soltanto la conoscenza del peccato (N. Riveduta 3:20),

gli si impone la necessità di chiarire e specificare come tutti gli uomini, essendo peccatori, privi della gloria di Dio (3:23), possono essere beneficati dalla giustizia di Dio al punto di essere addirittura giustificati, cioè dichiarati giusti. Questo cambiamento di ‘stato’, naturalmente, non può avvenire nella vita del peccatore per le opere della legge, ma solamente mediante la fede in Gesù Cristo.

A questo punto lo Schlier, nel suo commento scrive:

«Ma di che natura è questa giustizia? E come viene elargita? La prima risposta l’abbiamo da questo versetto. Il [ de ] ha valore esplicativo e indica un contrasto. La [ dikaiosun theu ] = (giustizia di Dio) è una particolare giustizia di Dio e la specialità sua consiste nel modo in cui si diviene partecipi di essa Si tratta infatti di una [dikaiosun theu dia ts pistes Xristou ]» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pagg. 188,189], (la giustizia di Dio mediante la fede in Cristo).

È solamente in virtù o ‘mediante’ la fede che si può essere giustificati. Onde evitare che le parole dell’Apostolo possano essere fraintese o mal comprese, si precisa e si specifica che questa fede, deve essere in Gesù Cristo. Cosa vuol dire Paolo con questa precisazione dogmatica? La giustizia di Dio può essere applicata nella vita del peccatore ai fini della sua giustificazione, solamente attraverso Gesù Cristo, il divino Mediatore tra Dio e l’uomo (1 Timoteo 2:5), e ciò avviene in virtù di quello che Egli ha fatto. La fede in Lui, non è solamente l’anello di congiunzione tra il divino e l’umano, ma è soprattutto l’appropriazione del ‘merito’ che Gesù Cristo ci ha acquistato con la sua morte. Appare quindi abbastanza chiaro che, senza la fede in Gesù Cristo, la giustizia di Dio non può beneficare nessun peccatore.

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Domenico34
00lunedì 10 ottobre 2011 00:09
5) Romani 3:25:

Lui ha Dio preordinato per fare l’espiazione mediante la fede [ pístes ] nel suo sangue, per dimostrare così la sua giustizia per il perdono dei peccati, che sono stati precedentemente commessi durante il tempo della pazienza di Dio.

Dal momento che tutti gli uomini sono peccatori e privi della gloria di Dio (v. 23) (nel senso universale cioè senza esclusione di nessuno), e, siccome la giustificazione del peccatore è gratuita e avviene solamente per la grazia divina, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù (v. 24), la portata teologica del verso 25 per ciò che riguarda la morte di Gesù, come sacrificio espiatorio per l’intera umanità, è di una portata imparareggiabile.

Questo testo paolino è stato oggetto di lunghe discussioni per cercare di comprendere e stabilire alcuni punti fondamentali che il testo presenta; di conseguenza, la stessa interpretazione del testo, non è stata unanime. Il fatto stesso che il testo in questione non è stato unanimemente tradotto, mette in chiaro queste diversità di intendere la parola dell’Apostolo. Anche se lo scopo di questo nostro lavoro mira a trattare il soggetto della fede, tuttavia, non possiamo esimerci dal presentare le diverse valutazioni che sono state fatte attraverso gli anni, riguardante l’interpretazione del testo paolino in questione, che poi essenzialmente verte su due direzioni, convinti che la stessa fede di cui ci stiamo occupando, lungi dall’essere sminuita nel suo valore, apparirà maggiormente valorizzata nel suo insieme.

Le parole greche su cui gli studiosi hanno maggiormente concentrato la loro discussione interpretativa, verte essenzialmente su tre termini: [ protheto, Hilastērion e páresin ]. Queste tre parole sono state tradotte nel seguente modo:

a) pro–theto:

G. Diodati Innanzi ordinato;
G. Luzzi; N. Riveduta; CEI; G. Bonaccorsi, G. Castoldi, G. Giovannozzi, G. Mezzacasa, F. Ramorino, G. Ricciotti, G. M. Zampini; L. Dettori prestabilito
N. Diodati; A. Martini preordinato;
Paideia stabilito;
Marietti destinò;
AV. dichiarato;
Conc. esposto;
N.A.S. esposto pubblicamente;
N.I.; N.I.V. presentato;
P.M.E.; J.B; N.E.B stabilito o designato.

Lo Schlier presenta i seguenti significati del termine in questione: a) «esporre in pubblico»; b) «affiggere pubblicamente», «notificare» e sim.; c) «riferire», «drizzare pubblicamente»; d) «erigere», «porgere», «mettere fuori» e sim. Nel commento scrive:

«Nel nostro contesto non si tratta tanto di «rendere noto pubblicamente», quanto di «esporre in pubblico». «presentare», «offrire», ossia di una generica accezione intermedia fra a), c) e d). Qui, infatti, non si parla dell’evangelo (come Galati 3:1), bensì dell’evento che l’evangelo rende presente. E l’evento consiste per l’appunto nell’avere Dio pubblicamente esposto, presentato, mostrato Cristo Gesù come [ Hilastērion» ] [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pag. 195].

Il Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, dal canto suo, dà la seguente definizione del termine [ protithemai ]: esporre (in pubblico), proporsi, prefissarsi, prefissare, prestabilire. Nel commento scrive: «Nel N.T. è usato solo al med.: in Romani 3:25 (in una formulazione probabilmente da Paolo adottata) in riferimento alla morte espiatrice di Cristo: [hon pro–theto ho thes Hilastērion. Stando al contesto (cfr. 3:21), si tratta di un’azione di Dio riguardante Cristo; si propone quindi la traduzione «che Dio ha esposto / ha mostrato pubblicamente come mezzo di espiazione» [Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, Vol 2, col. 1182]. Dal canto suo, C. Maurer, dice:

«Per Romani 3:25 (hon proetheto ho thes Hilastērion) due sono le interpretazioni possibili. La prima parte dalla considerazione che in Paolo il verbo [ protithemai ] ed il sostantivo [ prothesis ] indicano normalmente una decisione presa, e quindi Romani 3:25 significherebbe «che Dio ha predestinato, ha scelto quale mezzo di espiazione». Questa interpretazione è sostenuta dalla Pescitta, Origene, Crisostomo, l’Ambrosiaster. Ma si può obbiettare che la costruzione col doppio accusativo richiede un verbo d’azione e non di decisione; inoltre il contesto non parla del progetto, bensì dell’attuazione della nuova giustizia di Dio (cfr. Romani 3:21-27). Per tali ragioni e nonostante la varietà semantica di [ Hilastērion il favore va in genere alla seconda interpretazione: «che Dio ha esposto pubblicamente quale mezzo di espiazione» [Cfr. C. Maurer, GLNT, Vol XIII, col. 1262].

Come si può benissimo notare da quanto esposto, nonostante che le due interpretazioni siano diverse, e che la semantica del temine greco può consentire sia l’una che l’altra, nondimeno, preferire la prima interpretazione: «preordinato» o «prestabilito», almeno ha il merito, non solo di trovarsi in piena armonia con l’affermazione dell’Apostolo Pietro, che dice:

sapendo che non con cose corruttibili, come argento od oro, siete stati riscattati dal vostro vano modo di vivere tramandatovi dai padri, ma col prezioso sangue di Cristo, come di Agnello senza difetto e senza macchia, preordinato prima della fondazione del mondo, ma manifestato negli ultimi tempi per voi (1 Pietro 1:18-20),

ma anche e soprattutto perché Gesù Cristo, come vittima per l’espiazione del peccato dell’umanità, è stato designato nell’eternità, prima della fondazione del mondo e prima della sua venuta sulla terra.

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Domenico34
00martedì 11 ottobre 2011 00:16
b) Hilastērion:

Anche questa parola greca non è stata unanimemente tradotta:
G. Diodati, l’ha tradotta: per purgamento;
G. Luzzi; L. Dettori: come propiziazione;
N. Riveduta: come sacrificio propiziatorio;
CEI: come strumento di espiazione;
G. Bonaccorsi, G. Castoldi, G. Giovannozzi, G. Mezzacasa, F. Ramorino, G. Ricciotti, G. M. Zampini: mezzo di propiziazione;
N. Diodati: per fare l’espiazione;
Paideia: strumento di espiazione;
Marietti: strumento di propiziazione;
A. Martini; K. J.; N.A.S.; P.M.E: propiziazione;
N.I.; N.I.V.: sacrificio di espiazione;
N.E.B: espiazione;
J.B: sacrificio.

Tutti gli esegeti fanno esplicito riferimento al termine ebraico kappret che i LXX, l’hanno reso in greco [ Hilastērion ], per parlare del «luogo dove i peccati sono cancellati», vale a dire del «propiziatorio», che era una lastra di oro messa a copertura dell’arca nel luogo santissimo» [Cfr. Frederick F. Bruce, L’epistola di Paolo ai Romani, pag. 126].

«La kappret è, secondo (Es. 25:17-22), l’oggetto di culto più importante nel Santo dei Santi del tabernacolo o del tempio, e precisamente una lastra d’oro posta sull’arca del patto, sulla quale stanno, d’ambo i lati, i Cherubini che coprono con le loro ali il luogo della presenza invisibile di Jahvé. Come tale, essa è anche il luogo in cui, per ordine di Jahvé, nel gran giorno della riconciliazione viene fatta l’espiazione per tutta la comunità d’Israele: il sommo sacerdote spruzza il sangue di un giovane animale sulla kappret (Levitico 16)» [Cfr. J. Roloff, in Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, 1 col. 1733].

[ Hilastērion ] che ricorre due volte nel N.T. precisamente in Romani 3:25 e Ebrei 9:5, secondo C. Buzzetti, significa:

«Strumento per ottenere il perdono dei peccati (Rom); luogo dove si offre il sangue per il perdono (Eb)» [Cfr. C. Buzzetti, Dizionario base del Nuovo Testamento, pag. 76].

Siccome nei due passi in questione, pur trovandovi lo stesso termine [ Hilastērion ], esso non può intendersi nella stessa maniera, per il semplice motivo che in Ebrei 9:5 esso descrive il culto divino dell’AT, mentre in Romani 3:25 indica il coperchio posto sopra l’arca dell’alleanza.

«Gli esegeti più antichi, agganciandosi alla tradizione dei LXX, pensano si tratti del coperchio dell’arca dell’alleanza dell’AT e, di conseguenza, intendono Gesù crocifisso come il kappret spiritualizzato, «di rango superiore » (così Büchsel, GLNT, Vol IV, col. 1008). Questa interpretazione è stata messa in discussione da E. Lohse con valide motivazioni. Invece un passo parallelo più in linea con (Romani 3:25), si trova in 4 Mac. 17:21, (libro apocrifo) in cui la morte dei martiri viene indicata come sacrificio espiatorio dei peccati del popolo. Di conseguenza l’Hilastērion, di cui Romani 3:25, non deve essere inteso come l’indicazione di un posto (kappret; da Lutero tradotto con sede di grazia), bensì come evento dell’espiazione del peccato, e perciò tradotto con sacrificio di espiazione» [Cfr. H.G. Link, in Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, pagg. 1560,1561].

Lo Schlier, dal canto suo fa questo ragionamento:

«In primo luogo si afferma (v. 25a) che Dio ha fatto di Cristo Gesù un Hilastērion, il quale viene riconosciuto e afferrato mediante la fede... La kappret poi è il luogo sul quale Jahvé appare in una nube. Essa viene spruzzata col sangue espiatorio delle vittime, che in questo modo deve avvicinarsi il più possibile alla divinità (Levitico 16:14). Filone riprende l’uso del vocabolo in senso tecnico, mostrandosi così ben consapevole di usare un termine biblico. Ma non è questo l’unico significato di Hilastērion nel giudaismo ellenistico. G. Flavio, ad esempio, ignora Hilastērion come designazione tecnica di quel coperchio dell’arca dell’alleanza, ma parla una volta (ant. 16, 182), usa cioè Hilastērion con valore di aggettivo come avviene anche in 4 Mac. 17:21s: dia tou hilastriou thanatou «attraverso la morte espiatrice e sacrificale». Il significato di Hilastērion non è quindi vincolato alla kappret. Stando a queste testimonianze si dovrà intendere, a mio avviso, Hilastērion in Rom 3:25 nel senso generale di «mezzo di espiazione». Se proprio si vuol pensare alla kappret come tipo, il suo antitipo potrebbe essere la croce di Cristo, non Cristo stesso» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pagg. 196,197].

Quando si precisa che le epistole di Paolo sono «piene di citazioni e allusioni ai LXX» [Cfr. F. Büchsel, GLNT, Vol IV, col. 1009], è impensabile che l’Apostolo usi il termine [ Hilastērion ] con lo stesso significato che lo adoperarono i LXX, cioè per parlare di un ‘luogo’, precisamente del coperchio dell’arca dell’alleanza. Dato per certo che lo [ Hilastērion ] di cui Romani 3:25 è Gesù Cristo stesso e che Dio stesso lo ha prestabilito come tale, e, tenendo soprattutto conto della specifica teologia paolina che parla frequentemente della morte di Gesù, in termini di offerta, sacrificio (Galati 2:20; Efesini 5:2) e redenzione per il perdono dei peccati (Romani 3:24; 1 Corinzi 1:30; Efesini 1:7; Col. 1:14), non vediamo la coerenza che possa esserci tra l’uso e il significato che davano i LXX e lo scopo che Paolo si proponeva nell’usare il termine in questione.

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Domenico34
00mercoledì 12 ottobre 2011 00:02
Usando [ Hilastērion ], senza dubbio l’Apostolo Paolo aveva in mente il grande giorno dell’espiazione, quando il sommo sacerdote, una volta all’anno, entrava nel luogo santissimo e versava il sangue di un animale sul coperchio kappret dell’arca dell’alleanza, perché l’intera nazione israelita potesse ottenere il perdono dei loro peccati. Quello che compiva il sommo sacerdote israelita nel giorno dell’espiazione, aveva valore solo per il popolo d’Israele; mentre quello che avrebbe compiuto Gesù con la donazione della Sua vita come sacrificio espiatorio, oltre ad includere tutte le nazioni della terra, avrebbe anche raggiunto le sfere celesti (Ebrei 9:23). Davanti alla portata universale del sacrificio di Gesù Cristo, intendere l’Hilastērion di Romani 3:25 come «mezzo di espiazione», rappresenta la soluzione più felice e la conclusione più coerente in armonia con tutta la teologia del N.T.

«Paolo, quindi, per rendere giustizia alla pienezza dell’atto misericordioso di Dio in Cristo, ha reso e collocato nel contesto del proprio ragionamento parole tratte dal linguaggio dei tribunali (« giustificati »), del mercato degli schiavi (« redenzione ») e del tempio (« propiziatorio »). Perdono, liberazione, espiazione — tutti sono messi alla portata e a disposizione degli uomini per la sua iniziativa gratuita, e gli uomini possono appropriarsene per fede. La fede, in questo senso, non è una sorta di opera particolarmente meritoria agli occhi di Dio; è l’atteggiamento semplice e diretto verso Dio, che Lo prende in parola, e accetta con gratitudine la Sua grazia» [Cfr. Frederick F. Bruce, L’epistola di Paolo ai Romani, pag. 129].

c) paresis

Per quanto riguarda l’interpretazione di [ paresis ], che si trova una sola volta nel NT, e cioè in Romani 3:25, i traduttori si sono orientati su due fronti:
G. Diodati, A. Martini e la K. J. remissione;
N. Diodati e Marietti: perdono;
G. Luzzi, N. Riveduta, CEI, G. Ricciotti: tolleranza;
N.A.S., N. I., R.S.V.; N. E. V.: sopportazione.

Per C. Buzzetti, il termine [ paresis ] ha il significato di tolleranza [Cfr. C. Buzzetti, Dizionario base del Nuovo Testamento, pag. 121]; mentre per il ]Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, si tratta di: remissione, condono, perdono [Cfr Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, 2 col. 808]. Per il Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, i termini che Paolo adopera di aphi–mi, aphesis e paresis, hanno lo stesso significato di perdonare [Cfr. Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, pag. 1277].

Da parte sua, lo Schlier, chiede:

«Il problema è se paresis significhi «lasciare andare» nel senso di «lasciare correre, oppure voglia dire «condonare» e «perdonare». In altre parole: paresis è uguale ad aphesis o no?» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pag. 199].

Senza voler addentrare nei particolari, questo autore fa la seguente dichiarazione:

«Siamo d’avviso che in paresis il senso di «lasciare correre» ecc. prevalga su quello di «condonare», anche se talvolta nella sostanza i due significati vengono a coincidere». Ed ancora: «L’uso linguistico non consente, almeno per quanto riguarda paresis, di stabilire con sicurezza il significato, anche se, a mio avviso, paresis va inteso nel senso di «lasciar correre, «lasciare andare», piuttosto che in quello di «perdonare». Poi conclude: «Ma quando la dikaiosun theou si è rivelata in Cristo Gesù, il tempo della paresis è finito e ad esso è succeduto il tempo della decisione, sebbene in effetti la manifestazione della giustizia di Dio sia una dimostrazione di grazia, o meglio proprio perché è tale. Nel rapporto con la grazia si concreta anche il giudizio di Dio. Ora il rapporto personale con la grazia in quanto tale è la fede. La nostra frase (3:25) va perciò intesa così: Dio, senza alcun concorso della legge, ma in un modo predetto dalla Scrittura, ha manifestato nel cosmo la sua giustizia, che è poi la sua fedeltà, la sua verità e la sua gloria. Il cosmo, è vero, non reca più l’originario splendore della creazione, bensì è soggetto al peccato, ma la giustizia di Dio si manifesta come grazia che giustifica il credente. E il modo della manifestazione è questo: Dio presenta ed offre Gesù Cristo come strumento di espiazione, che in quanto tale viene conosciuto e riconosciuto solo dalla fede. E così la temporanea tolleranza dei peccati è giunta alla fine. Ora non è più il tempo in cui Dio si trattiene, ma il tempo in cui pronuncia la sua decisione» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pagg. 199-202].

6) Romani 3:26:


per manifestare la sua giustizia nel tempo presente, affinché egli sia giusto e giustificatore di colui che ha la fede [ pisteōs ] di Gesù.

La manifestazione della giustizia di Dio nel tempo ‘presente’, che è appunto il tempo della grazia, mediante l’opera che Cristo Gesù ha compiuto morendo sulla croce del Calvario, si concretizza nell’opera di giustificazione del peccatore, che Dio giusto compie, sulla base della fede che si ha in Gesù. Questo significa in parole più semplici che, nonostante che Cristo abbia fatto di sé stesso il sacrificio espiatorio per il perdono dei peccati, e che la giustizia divina sia stata pienamente soddisfatta, il peccatore non riceve il perdono dei suoi peccati e con esso la giustificazione in maniera automatica; occorre il suo concorso, che consiste semplicemente e solamente con la sua fede in Gesù, per potere largamente usufruirne del grande beneficio. La fede, quindi, in ultima analisi, facendo leva su quello che Gesù ha compiuto per il peccatore e credendo appieno che l’opera Sua è sufficiente per la salvezza, questi si appropria il beneficio della grazia divina.

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Domenico34
00giovedì 13 ottobre 2011 00:09
7) Romani 3:27:

Dov’è dunque il vanto? È escluso. Per quale legge? Quelle delle opere? No, ma per la legge della fede. pistes

«La giustificazione per la fede, quale procede dalla manifestazione della giustizia di Dio, non consente più alcun «vanto» umano né per i Giudei, né per i gentili» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pagg. 199-202].

Quando l’Apostolo chiede: Per quale legge? Quella delle opere?. Il riferimento è senza dubbio alla legge mosaica, che per i Giudei, in modo particolare, costituiva la fonte del loro vanto, una specie di opere meritorie. Siccome Paolo ha stabilito precedentemente, in maniera dogmatica che: nessuna carne sarà giustificata davanti a Dio per le opere della legge (v. 20), la sua domanda, non solo ha piena attinenza con la dottrina della giustificazione per fede, ma ne rappresenta anche un ulteriore chiarimento, in quanto che, la giustificazione del peccatore, non è basata su quello che egli compie, ma unicamente su quello che Gesù Cristo ha compiuto.

«Nella risposta alla domanda («no, mediante la legge della fede») questo significato formale nomos risulta ben chiaro, senza tuttavia perdere il suo carattere paradossale. nomos pistes è il nuovo regime di salvezza, la nuova legge salutare invalsa con la fede (cfr. Galati 3:23,25), la quale a sua volta è giunta con Cristo. La fede è la richiesta perentoria che si pone ora al mondo. Questa richiesta esclude l’antica legge, la quale esige le «opere» e attraverso le «opere» provoca il «vanto». Ora Dio ha stabilito la fede come via di salvezza ed è la legge della fede che regola il mondo» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pag. 204].

8) Romani 3:28:

Noi dunque riteniamo che l’uomo è giustificato mediante la fede [ pistei ] senza le opere della legge.

Avendo l’Apostolo saldamente stabilito in 3:27 che l’uomo, per la sua giustificazione non può fare ricorso al vanto delle opere della legge, perché ai fini di questa azione giuridica di Dio queste non hanno nessun valore, poiché la giustificazione non viene realizzata sulla base delle opere della legge, ma su quella della fede, in questo verso fa conoscere la sua convinzione su quello che ha affermato nei versetti precedenti. Il noi riteniamo, che è un plurale, non parla solo dell’Apostolo ma abbraccia anche tutti gli altri che sono sullo stesso piano di convincimento come lui. L’affermazione secca e categorica in senso conclusivo che la giustificazione dell’uomo avviene solamente mediante la fede senza le opere della legge, è valevole per tutti, Giudei e Gentili.

«Paolo non vuol intendere che le opere della legge non debbano essere rispettate e compiute, ma che anche quando un uomo le rispetti e compia sufficientemente bene, non pertanto è giustificato agli occhi di Dio. dicendo questo Paolo scava la terra sotto i piedi di quelli che dicono: «Ho sempre fatto come meglio ho potuto... Cerco di vivere in modo decente, irreprensibile... non imbroglio mai nessuno, che cos’altro vuole Dio da me?» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pag. 205].

9) Romani 3:30:

Poiché vi è un solo Dio, che giustificherà il circonciso per fede pistes, e anche l’incirconciso mediante la fede pistes.

Con l’affermazione che l’Apostolo fa che Dio giustifica il circonciso e l’incirconciso, — allusione chiaramente per il Giudeo e per il pagano —, Egli non fa nessuna differenza e non tiene conto a quale gruppo etnico si appartiene; l’unica cosa a cui Dio guarda, sia per il Giudeo che per il pagano è la fede, senza quale non è possibile ricevere la giustificazione.

10) Romani 3:31:

Annulliamo noi dunque la legge mediante la fede? pistes Così non sia; anzi stabiliamo la legge.

In vista delle precise affermazioni che Paolo ha fatto nei vv. 20,27-30, qualcuno potrebbe fraintenderlo, e comprendere che egli, insegnando la dottrina della fede, lo faccia a scapito della legge, nel senso di volerla abrogare. La domanda che l’Apostolo fa, mira appunto a precisare che la fede non annulla la legge, ma la stabilisce o la conferma. Si potrebbe chiedere: In che modo? Nel senso dell’adempimento della legge

«Romani 3:31 deve essere interpretato sulla base del v. 27b (contrapposizione di legge della fede e legge delle opere): la legge come volontà di Dio attestata nell’A.T. è una legge della fede e non delle opere e viene perciò adempiuta e valorizzata soltanto mediante la fede» [Cfr. Frederick F. Bruce, L’epistola di Paolo ai Romani, pag. 131].

11) Romani 4:5:

invece colui che non opera, ma crede in colui che giustifica l’empio, la sua fede [ pistis ] gli è imputata come giustizia.

La menzione di colui che non opera, ma crede in colui che giustifica, viene fatta per dimostrare che la giustificazione non avviene sulla base di quello che si fa, (opera) ma sulla base di credere in colui che compie una simile azione. Siccome Paolo ha preso in esempio il patriarca Abrahamo per sostenere le sue affermazioni intorno alla giustificazione per fede, è necessario che la sua tesi venga sostenuta con un passo scritturale. Or Abrahamo credette a Dio e ciò gli fu imputato a giustizia.

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Domenico34
00venerdì 14 ottobre 2011 00:05
Se si considera la Scrittura che l’Apostolo cita, che è (Genesi 15:6) in cui Dio fa una specifica promessa ad Abramo per quanto riguarda la sua discendenza, si può comprendere subito il valore della fede di Abramo, non attraverso un’opera che egli ha compiuto, ma credendo a tutto quello che Dio gli ha detto. Siccome Dio non si limitò solamente a promettere una discendenza al suo servitore, ma parlò di una abbondanza di progenie, si rendeva necessario far comprendere ad Abramo in quale dimensione Egli voleva guidarlo e in quali termini Abramo avrebbe dovuto pensare.

«Mira il cielo e conta le stesse, se le puoi contare», quindi aggiunse: «Così sarà la tua discendenza» (Genesi 15:5).

Se Abramo avesse dovuto compiere ‘un’opera’, — secondo che la logica umana avrebbe suggerito di fare, nel senso dell’argomentazione che fa Paolo — in quella specifica circostanza, l’opera sarebbe consistita nel contare le stelle del cielo; questo però Abramo non l’ha fatto, quindi, l’evidenza e la dimostrazione per l’Apostolo è chiarissima.

La seconda citazione che l’Apostolo adduce, (la prima l’ha tratta dalla Torà e la seconda da un salmo), si trova in armonia con un principio giudaico secondo cui la verità dev’essere confermata da due testimonianze, la seconda delle sette norme ermeneutiche di Hillel,

«la quale viene a dire che parole identiche (e di eguale terminazione) che si ritrovano in due luoghi diversi della Scrittura, si spiegano reciprocamente» [Cfr. M. Wolter, Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, 2 col. 1791].

Le due testimonianza scritturali che Paolo adduce, servono essenzialmente, non solo per provare che la giustizia ad Abrahamo non gli venne accreditata in base a quello che egli fece, ma unicamente sulla base della sua fede, credendo a quello che Dio gli aveva detto, ma serve anche e soprattutto come principio universale che la giustizia viene imputata, solamente a colui che crede in colui che giustifica l’empio e non a colui che opera.

12) Romani 4:9:


Ora dunque questa beatitudine vale solo per i circoncisi, o anche per gli incirconcisi? Perché noi diciamo che la fede [ pistis ] fu imputata ad Abrahamo come giustizia.

La beatitudine del Salmo 32:1,2, secondo l’interpretazione rabbinica, era un’esclusiva del popolo d’Israele all’infuori del quale non era pensabile che Dio perdonasse i peccati. Questa precisazione che i rabbini facevano nella spiegazione del Salmo in questione, senza dubbio Paolo la conosceva. Con la sua domanda se questa beatitudine vale solo per i circoncisi ( = Giudei) o debba estendersi anche agli incirconcisi ( = pagani), l’Apostolo dimostra di non condividere più quello che per un tempo credeva e sosteneva. Citando di nuovo (Genesi 15:6), l’Apostolo vuole ribadire quello che ha già detto al (v. 5), cioè che la fede fu imputata ad Abrahamo come giustizia.

Una risposta alla sua domanda, avrebbe eliminato un possibile equivoco di incomprensione; non facendolo però, l’Apostolo si esponeva a un possibile fraintendimento. Siccome nella mente di Paolo c’era la risposta alla sua domanda, egli non l’ha voluta dare senza prima fare una considerazione teologica, che contribuirà notevolmente a far comprendere ai suoi lettori quello che egli intendeva sulla vita del patriarca Abrahamo.

13) Romani 4:11:

Poi ricevette il segno della circoncisione, come sigillo della giustizia della fede pistes che aveva avuto mentre era ancora incirconciso, affinché fosse il padre di tutti quelli che credono anche se incirconcisi, affinché anche a loro sia imputata la giustizia.

Ritornando alla giustizia che venne imputata ad Abrahamo, all’Apostolo urge la necessità di sapere in che modo gli venne imputata. Ancora una volta chiede: Mentre era circonciso o incirconciso? La risposta è: Non mentre era circonciso, ma quando era incirconciso (v.10). Una volta che l’Apostolo risponde con certezza che la giustizia venne imputata ad Abrahamo quando egli era incirconciso, cioè pagano, tutto il resto della sua argomentazione, ha più senso e può dare anche la risposta alla sua domanda nel (v. 9). L’esattezza della risposta di Paolo,

«concorda in effetti col racconto dell’A.T., che la sinagoga interpretava nel senso che la circoncisione di Abramo, secondo Genesi 17:10s., sarebbe avvenuta 29 anni dopo la stipulazione dell’alleanza (Genesi 15:10). È chiaro quindi che Abramo ricevette la giustizia per fede quando era ancora un pagano incirconciso» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pag. 219, nota 17].

Stabilito questo punto importante, la conclusione che Paolo fa, ha più attinenza e può maggiormente chiarire come Abrahamo possa essere considerato il padre di tutti quelli che credono. Se il segno della circoncisione, come sigillo della giustizia della fede, Abrahamo lo ricevette dopo essere stato giustificato mentre era ancora incirconciso, quel sigillo, aveva lo scopo di elevare Abrahamo a padre di tutti quelli che credono anche se incirconcisi, affinché anche a loro sia imputata la giustizia.

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Domenico34
00sabato 15 ottobre 2011 00:08
Con questa considerazione teologica, la risposta alla domanda del (v. 9) se la beatitudine del Salmo 32:1,2 vale solo per i circoncisi, o anche per gli incirconcisi, è che gli uni e gli altri sono inclusi e che Abrahamo deve essere considerato il padre degli Ebrei e dei pagani, per ciò che riguarda la giustizia della fede.

14) Romani 4:12:


e fosse il padre dei veri circoncisi, di quelli cioè che non solo sono circoncisi, ma che seguono anche le orme della fede pistes del nostro padre Abrahamo, che egli ebbe mentre era incirconciso.

Paolo ha voluto mettere in evidenza che la fede di Abrahamo gli è stata messa in conto di giustizia quando egli era ancora incirconciso. Se egli è il padre dei circoncisi ( = Giudei), lo è non di quelli che hanno solamente il segno nella carne, ma di quelli che seguono la fede del patriarca, fede che ebbe mentre egli era incirconciso.

«Quel che Abramo ricevette da Dio, fu accordato alla sua fede, e quel che egli fece, fu prescritto dalla sua fede. In tal modo egli divenne modello e guida dei suoi figli, i quali divengono tali in quanto si collocano nella schiera dei credenti» (Schlatter). Posto dunque che Abramo fu giustificato per la fede, non si potrà obiettare che ciò avvenne a motivo della circoncisione, perché in realtà questa fu preceduta dalla fede e dalla giustificazione del patriarca. È quanto Paolo ha dimostrato» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pag. 222].

15) Romani 4:13:

Infatti la promessa di essere erede del mondo non fu fatta ad Abrahamo e alla sua progenie mediante la legge, ma attraverso la giustizia della fede. pistes

La prima osservazione che l’Apostolo fa per quanto riguarda la promessa di Dio fatta ad Abrahamo, è che essa non venne fatta in forza della legge La legge non aveva avuto parte alcuna in quella promessa nella cui accettazione consiste la fede di Abramo. La promessa rivolta ad Abramo consiste, secondo l’A.T.,

1. nella promessa che Sara avrebbe avuto un figlio (Genesi 15:5; 17:16,19);
2. nella promessa della presa di possesso di Canaan (Genesi 12:1,4; 13:14,15,17; 15:7,18-21; 17:8);
3. nella promessa di una discendenza innumerevole (Genesi 12:2; 13:16; 15:1; 17:5); 18:18; 22:17;
4. nella promessa di benedizione per tutti i popoli della terra (Genesi 12:2; 18:18;22:18).

Siccome questa promessa Dio non la fece ad Abramo in virtù della legge, ma unicamente attraverso la giustizia della fede, ne consegue quello che l’Apostolo afferma nel (v. 14)

16) Romani 4:14:

Poiché se sono eredi quelli che sono della legge, la fede [pistes ] è resa vana e la promessa annullata.

L’affermazione di rendere vana la fede e la promessa annullata, deriva dal fatto che, nella legge e nella fede, ci sono, da parte dell’uomo, due atteggiamenti diversi: Il primo coglie il vanto per quello che fa, il secondo invece, escludendo ogni forma di vanto, si aggrappa a quello che Dio dice e manifesta piena fiducia nella Sua parola. La fede inquadrata sotto questo aspetto, non solo viene vitalizzata nella sua funzione, ma ne risulta anche l’elemento fondamentale per ogni tipo di promessa divina.

17) Romani 4:16:

Perciò l’eredità è per la fede [ pistes ]; in tal modo essa è per grazia, affinché la promessa sia assicurata a tutta la progenie, non solamente a quella che è dalla legge, ma anche a quella che deriva dalla fede pistes di Abrahamo....

Nel proseguimento della sua valutazione teologica, l’Apostolo aggiunge un altro e un nuovo tassello nel mosaico della sua argomentazione: la grazia. Ed è proprio la grazia, = favore immeritato, che non solo dà più peso e valore a quello che egli sta dicendo, ma anche e soprattutto rende stabile o sicura la promessa per tutta la discendenza, cioè per tutti i credenti. Siccome nella prospettiva di questa promessa ci sono tutti, onde evitare qualsiasi fraintendimento, (dato che Paolo sta parlando della progenie) viene chiaramente detto: non solamente a quella che è dalla legge, ma anche a quella che deriva dalla fede, volendo così includere credenti Giudei e credenti pagani.

18) Romani 4:19:

E, non essendo affatto debole nella fede [ pistei ], non riguardò al suo corpo già reso come morto (avendo egli quasi cent’anni), né al grembo già morto di Sara.

Nel (v. 17) viene ricordata la promessa di Genesi 17:5 in base alla quale Abrahamo sarebbe diventato padre di molte nazioni e nel (v. 18) viene affermato che egli, sperando contro ogni speranza, credette per diventare padre di molte nazioni.

Davanti a simili affermazioni, si rendeva necessario che l’Apostolo parlasse dell’adempimento di questa promessa divina, e per fare ciò, parla della vita fisica di Abrahamo e di sua moglie Sara. Paolo usa un’espressione che allude al corpo del patriarca e lo definisce reso come morto, volendo con ciò significare che le funzioni sessuali di Abrahamo erano pressoché inesistenti e a quelle del grembo di sua moglie Sara morte, cioè fisiologicamente inattive. Ma siccome l’intenzione dell’Apostolo era di parlare della fede di Abrahamo, l’aspetto fisiologico che egli presenta, serve principalmente dimostrare come questa fede non venne meno.

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Domenico34
00domenica 16 ottobre 2011 00:18
Se Abrahamo avesse guardato e valutato il suo corpo e quello di sua moglie, dal punto di vista fisiologico, avrebbe detto: «Non è possibile che io, a questa età di novantanove anni, e, per giunta nella condizione fisiologica in cui mi trovo e mia moglie novantenne, con le mestruazioni che le sono terminate, (Genesi 18:11) possiamo avere figli». Se il patriarca avesse ragionato in quel modo, non solo la promessa di Dio sarebbe stata una semplice utopia, ma addirittura annullata e l’adempimento non avrebbe avuto luogo.

19) Romani 4:20,21:


Neppure dubitò per incredulità riguardo alla promessa di Dio, ma fu fortificato nella fede [ pistei ] e diede gloria a Dio, pienamente convinto che ciò che egli aveva promesso era anche potente da farlo.

La minaccia dell’incredulità era forte per Abrahamo, per i motivi suddetti (v. 19). Egli però, senza dubitare, volse lo sguardo a colui che aveva fatto la promessa, affermando che lo stesso Dio, era anche potente da farlo. La fede viene fortificata quando si guarda verso Dio e si tiene conto della Sua immutabile Parola. Anche se l’opera di portare alla luce un figlio, — dal punto di vista prettamente fisiologico sarebbe dipeso dall’unione sessuale di Abrahamo con Sara — nondimeno il patriarca sapeva con convinzione che Dio l’avrebbe operata. Con questa forte argomentazione che l’apostolo Paolo ha condotto sulla vita di Abrahamo, egli è riuscito a far comprendere che in ultima analisi quello che conta davanti a Dio, sia per l’appropriazione della giustizia come per le promesse divine, è la fede che, facendo affidamento su quello che Dio può fare e tenendo conto di quello che Egli ha detto, ci libera da ogni forma di incredulità, e realizza in noi i suoi piani e i disegni di Dio.

20) Romani 5:1:

Giustificati dunque per fede, [ pistes] abbiamo pace presso Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore.

La giustificazione per fede è stata ampiamente discussa e dimostrata nel capitolo 3; ora l’Apostolo tratta del risultato che produce nella vita di colui che gli è stata imputata la giustizia di Dio per la fede in Cristo Gesù. Questo risultato possiamo anche definirlo come una serie di benedizioni che accompagnano la vita del giustificato. «La prima di esse è la pace con Dio» .

«La «pace» non è lo «stato di equilibrio dell’animo nostro» e neppure una disposizione del nostro vivere. «Pace» non indica neppure primariamente il nostro comportamento pacifico. La pace è in primo luogo la pace di Dio intesa come la pace in cui ci troviamo, lo stato di pace che ci sorregge e del quale siamo divenuti partecipi in quanto giustificati per la fede» [Cfr. Frederick F. Bruce, L’epistola di Paolo ai Romani, pag. 144].

La preposizione [ pros ] che è stata resa presso, è meglio tradurla con, (come fanno la N. Riveduta, la CEI e tanti altri comprese le versioni inglesi), perché meglio risponde allo ‘stato’ in cui si trova colui che è stato giustificato davanti a Dio, di cui Paolo intende chiaramente parlare. Se poi il detto paolino si collega col detto del profeta Isaia: L’effetto della giustizia sarà la pace (Isaia 32:17), la verità che l’Apostolo intende proclamare, appare con maggiore incisività.

Parlare della pace con Dio, come primo risultato, significa in definitiva parlare del rapporto che intercorreva tra l’uomo e Dio prima della giustificazione. Si sa con certezza che l’uomo, a causa del suo peccato, viveva in uno stato di guerra con Dio; il suo rapporto con Lui, non era quello di un ‘amico’, bensì quello di un ‘nemico’. Paolo afferma chiaramente che
mentre eravamo nemici siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del suo Figlio (5:10).

Dio non è mai stato il nemico dell’uomo; è stato sempre l’uomo il nemico di Dio. Colui che ha operato la riconciliazione tra l’uomo e Dio, è stato Gesù Cristo, mediante la sua morte sulla croce del Calvario. Non ci sarebbe stata nessuna riconciliazione, se non fosse intervenuto un terzo (Gesù Cristo) che, fungendo da mediatore ( 1 Timoteo 2:5) raggiungesse quello scopo. Aggiungiamo anche che l’opera della riconciliazione non sarebbe stata raggiunta, se non ci fosse stato lo spargimento del sangue. Non del sangue di un animale, ma del sangue di un’innocente; dell’agnello di Dio, Gesù Cristo, preconosciuto prima della fondazione del mondo (1 Pietro 1:19).

Ora che quest’opera è stata portata a compimento, tutti coloro che sono giustificati per fede, ‘hanno’ pace con Dio. Il presente del verbo avere, è molto importante per sapere valutare quello che il credente possiede.

21) Romani 5:2:

per mezzo del quale abbiamo anche avuto, mediante la fede, [ pistei ] l’accesso a questa grazia nella quale stiamo saldi e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio.

In questo secondo versetto del capitolo cinque, sono menzionate altre benedizioni che l’uomo ha ricevuto mediante la giustificazione per fede. Il (v. 1) parla della pace con Dio, il (v. 2) presenta il privilegio di accesso a questa grazia e il vanto nella speranza della gloria di Dio. Tutto questo, naturalmente, per mezzo di Gesù Cristo. Come comprendere? Prima della giustificazione per fede, il peccatore viveva in uno stato di inimicizia con Dio, ragion per cui, oltre a non godere l’abbondanza della grazia divina, vedeva tutto distorto intorno a sé, cioè come se Dio fosse il suo più accanito nemico che lo perseguitava con la sua severità punitiva. Ma da quando però Gesù Cristo ha compiuto l’opera di riconciliazione tra l’uomo e Dio, mediante il sacrificio della Sua morte, il peccatore, non solo ha potuto vedere le cose nel modo giusto, cioè che non era vero che fosse Dio il suo nemico, ma era lui il nemico di Dio, costatando anche la differenza che è venuta a determinarsi tra lui e Dio, per ciò che riguarda il rapporto di comunione con Lui.

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Domenico34
00lunedì 17 ottobre 2011 00:07
Una volta che il peccato, oggetto di separazione e di discordia tra l’uomo e Dio è stato rimosso — e questo è avvenuto con la giustificazione per fede —, il peccatore giustificato, non solo si trova in pace con Dio, ma può accedere alla grazia, cioè a quel favore immeritato divino, a cui prima non aveva nessun diritto di partecipare, in virtù del merito acquistatogli da Gesù Cristo. Una volta che tutti gli ostacoli sono stati rimossi, il giustificato per fede, non solo gode pace con Dio e la ricchezza della grazia divina, ma può anche esprimere il suo vanto nella speranza della gloria di Dio. Un simile vantarsi, non è più quello di sé stesso o delle opere della legge, ma un prendere coscienza di uno stato, in cui tutto è diventato nuovo.

«Vantarsi è avere una fiducia radicale. Quando invece l’uomo si «vanta» di Dio, del Signore (cfr. 1 Corinzi 1:31; 2 Corinzi 10:17; Filippesi 3:3; anche Galati 6:13; 2 Corinzi 11:30; 12:9), allora al [ cauchasthai ] si lega il momento della gioia e del giubilo. In tal cosa «vantarsi» assume in qualche modo il senso di un riconoscimento e di lode» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pagg. 244,245]. «Pace e gioia sono due benedizioni gemelle del vangelo; come ha detto un vecchio predicatore scozzese, «la pace è la gioia che riposa; la gioia è la pace che danza» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pag. 248].

Infine, il vantarsi del giustificato, ha come scopo e finalità, la gloria di Dio. La speranza della gloria di Dio, riguarda essenzialmente il futuro, quando i credenti saranno portati nella casa del Padre (Giovanni 14:2), questo però non toglie che anche al presente si possa vedere e godere la gloria di Dio, se si crede (Giovanni 11:40).

22) Romani 9:30:


Che diremo dunque? che i gentili, che non cercavano la giustizia, hanno ottenuta la giustizia, quella giustizia però che deriva dalla fede. pistes

A differenza di Israele che cercava la legge della giustizia e non è arrivato alla legge della giustizia (v. 31), i gentili, che pur non cercando la giustizia, l’hanno però ottenuta. Non si tratta però, precisa l’Apostolo, della giustizia della legge, ma quella che deriva dalla fede. Per Paolo che ha fatto una lunga discussione nei capitoli 3 e 4 intorno alla giustizia della legge, quello che ha valore davanti a Dio, è la giustizia che Dio offre al peccatore, mediante la fede in Cristo Gesù, e non quella che si basa sulla legge Di conseguenza, ogni ricerca della giustizia al di fuori della fede, rappresenta un vano ricercare, senza ottenere quello che si cerca. Anche se questo ragionamento l’Apostolo lo fa per il popolo d’Israele, è valido per ogni persona che si muove su questo terreno.

23) Romani 9:32:

Perché? Perché la cercava non mediante la fede [ pistes] ma mediante le opere della legge; essi infatti hanno urtato nella pietra d’inciampo.

Alla domanda che Paolo pone per sapere perché Israele non ha ottenuto la giustizia che cercava, lui stesso fornisce la risposta e dice chiaramente perché la cercava mediante le opere della legge In tutta l’argomentazione che l’Apostolo ha condotto nei primi quattro capitoli della sua epistola ai Romani, egli ha dimostrato che le opere della legge portano l’uomo a vantarsi per quello che egli ha fatto. Siccome la giustizia di Dio è data per grazia = favore immeritato, mediante la fede, non c’è posto per nessuna forma di vanto che l’uomo potrebbe reclamare o avvalersi. Di conseguenza, agendo così Israele, è finito per imbattersi nella pietra d’inciampo.

24) Romani 10:6:

Ma la giustizia che proviene dalla fede [ pistes] dice così: «Non dire in cuor tuo: Chi salirà in Cielo?». Questo significa farne discendere Cristo.

Se si esamina la citazione del (Deuteronomio 30:12) che Paolo adduce, per sostenere la sua argomentazione, si vedrà facilmente che il testo del Deuteronomio parla del comandamento che Mosè stava per prescrivere al popolo d’Israele, comandamento che non sarebbe stato troppo difficile per comprenderlo e troppo lontano da lui. Non si trattava neanche di pensare che questo comandamento sarebbe stato in cielo, per cui chiedere: Chi salirà per noi in cielo per portarcelo e farcelo ascoltare, perché lo mettiamo in pratica? (Deuteronomio 30:12). A differenza di Mosè che parlava del comandamento, Paolo sta parlando della giustizia, non quella della legge naturalmente, ma quella mediante la fede. Ragion per cui, la fede che si appropria questa giustizia, non è portata a dire in cuor suo: Chi salirà in Cielo? Perché giustamente l’Apostolo conclude che questo significherebbe far discendere Cristo.

25) Romani 10:8:

Ma che dice essa? «La parola è presso di te, nella tua bocca e nel tuo cuore». Questa è la parola della fede, [ pistes] che noi predichiamo.

Il testo del (Deuteronomio 30:14) che Paolo cita, parla espressamente della parola che è molto vicina... nella bocca e nel cuore per metterla in pratica. Però, siccome l’Apostolo ha davanti a sé la fede e non il comandamento, egli dà giustamente alla parola del Deuteronomio, il senso spirituale della fede, che poi è quella che egli stesso predica. Vista e valutata in questa prospettiva l’argomentazione dell’Apostolo, la parola della fede, è proprio quella che esce dalla bocca.

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Domenico34
00martedì 18 ottobre 2011 00:13
Le parole di Gesù, contenute in Marco 11:22,23:
Allora Gesù, rispondendo, disse loro: «Abbiate la fede di Dio! Perché in verità vi dico che se alcuno dirà a questo monte: Spostati e gettati nel mare, e non dubiterà in cuor suo, ma crederà che quanto dice avverrà, qualunque cosa dirà gli sarà concesso,

non solo si trovano in armonia con quelle di Paolo, ma hanno anche lo stesso significato. Infine la parola della fede, secondo l’insegnamento dell’Apostolo Paolo, deve essere predicata nella stessa maniera come si predicano tutte le altre verità bibliche.

26) Romani 10:17:


La fede [ pistis ] dunque viene dall’udire, e l’udire viene dalla parola di Dio.

Il termine greco [ aco ] che da molti è stato tradotto udire, tranne alcuni che l’hanno reso predicazione (cfr. CEI; Marietti; L. Dettori; Jerusalem Bible), abbraccia i due significati. A rigore, quindi, non si può dire che il primo significato è da accettare e il secondo da respingere. Per quanto riguarda invece la frase terminale, che alcune traduzioni riportano parola di Dio ed altre parola di Cristo, tutto dipende dai codici di riferimento poiché è risaputo che ve ne sono di quelli che hanno parola di Dio e altri che hanno parola di Cristo.

Queste disquisizioni linguistiche, per ciò che riguarda la fede, di cui Paolo sta parlando, non hanno nessuna importanza fondamentale, per il fatto che non si tratta del semplice udire o della semplice proclamazione della parola umana; si tratta invece di udire e proclamare la parola divina. Siccome la parola di Dio o quella di Cristo, possiedono una virtù divina che possono produrre effetti nella vita umana, — che l’Apostolo chiama fede —, tutta l’importanza risiede nell’attitudine che l’uomo assume davanti al messaggio che si ascolta o che si predica.

Davanti all’affermazione paolina, unica nel suo genere in tutto il N.T., bisogna insistere per far comprendere alle persone quanto sia importante assumere un giusto atteggiamento davanti alla Parola di Dio. Ne consegue che più si ascolta o si predica questa Parola, il risultato sarà sicuro, allorquando la fede, di cui l’uomo ha assoluto bisogno, se vuole essere gradito a Dio (Ebrei 11:6), la si vedrà germogliare.

27) Romani 11:20:

Bene; essi sono stati troncati per l’incredulità e tu stai ritto per la fede; [ pistei ] non insuperbirti, ma temi.

In tutto il capitolo 11 dell’epistola ai Romani, Paolo affronta il grande problema del rigetto e dell’incredulità del popolo d’Israele, nei confronti di Cristo e del vangelo, e, nello stesso tempo pone il gentile davanti alla sua responsabilità, in modo da evitare di cadere nella superbia. Se Israele è stato troncato dall’ulivo, essendo ramo naturale, lo è stato unicamente per la sua incredulità; mentre i gentili, che sono per natura olivastri, se sono stati innestati, è per renderli partecipi della radice e della grassezza dell’olivo nonché della bontà di Dio (v. 17,22). Davanti a questa precisazione che Paolo fa, il credente gentile deve fare molta attenzione se non vuole cadere nel peccato della superbia e della vanagloria.

28) Romani 12:3:

Infatti, per la grazia che mi è stata data, dico a ciascuno che si trovi fra voi di non avere alcun concetto più alto di quello che conviene avere, ma di avere un concetto sobrio, secondo la misura della fede [ pistes] che Dio ha distribuito a ciascuno.

L’affermazione che contiene questo verso, unica nel suo genere in tutto il N.T., riguarda appunto la misura di fede, che Dio ha distribuito. Come abbiamo fatto notare precedentemente, la cosa che l’Apostolo vuole mettere in evidenza, è il fatto che ogni credente ha ricevuto da Dio una misura di fede, uguale per tutti. Se questa misura di fede, (non importa se è piccola o grande) non fosse uguale per tutti, oltre che i credenti potrebbero argomentare, Dio stesso sarebbe tacciato di parzialità. Siccome si sa con estrema certezza che Dio non agisce con parzialità, il credente deve prendere atto che Dio gli ha dato una misura di fede. Naturalmente questa fede, nell’esercizio della vita di tutti i giorni, potrà aumentare o scemare, a seconda del come il credente si comporterà davanti ad essa

29) Romani 12:6:

Ora, avendo noi doni differenti secondo la grazia che ci è stata data, se abbiamo profezia, profetizziamo secondo la proporzione della fede. [ pistes]

I doni che si ricevono, sono tutti secondo la grazia che ci è stata data. Questo significa che nessun dono viene dato all’uomo per merito personale, ma tutto viene dato per grazia. Secondo quello che dice Paolo nella (1 Corinzi 12:1-11), lo Spirito Santo è quello che distribuisce i doni per essere usati a beneficio del popolo di Dio, la Chiesa di Gesù Cristo, e mai a beneficio della persona stessa che li riceve. Questo perché i doni dello Spirito, sono destinati all’edificazione del corpo di Cristo. Per quanto riguarda il dono della profezia, a cui il nostro testo fa esplicito riferimento, bisogna dire che esso ha una funzione particolare, non perché sia il migliore rispetto agli altri doni, ma principalmente in vista delle aree che copre nel suo svolgimento.

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Domenico34
00mercoledì 19 ottobre 2011 00:11
Senza ricorrere all’A.T. per conoscere la funzione del profeta e del suo ministero, atteniamoci a quello che dice il N.T., per comprendere perché il profeta del N.T. svolge una diversa funzione rispetto a quella dell’A.T.

Il triplice scopo della profezia neotestamentaria, consiste nel parlare agli uomini per edificazione, esortazione e consolazione (1 Corinzi 14:3). Questa definizione bene circostanziata, non vuole assolutamente dire che il profeta nello svolgimento del dono ricevuto, non possa uscire fuori da queste aree, e predire un avvenimento futuro (Atti 11:28); 21: 10-11), o rivelare un segreto del cuore (1 Corinzi 14:25). Queste manifestazioni profetiche, non costituiscono gli elementi fondamentali del dono della profezia; gli elementi fondamentali del ministero profetico del N.T. rimangono quelli di (1 Corinzi 14:3). Se si tiene conto che la profezia non è per i non credenti, ma per i credenti (1 Corinzi 14:22), si potrà meglio valutarne la portata.

Riguardo all’attività profetica, secondo questo testo, alcuni hanno pensato che ciò coincide con quella pastorale, credendo che il pastore nello svolgimento del suo ministero, raggruppi queste tre funzioni di edificare, esortare e consolare. Lungi dal negare che il ministero pastorale tocchi queste specifiche aree, non si può tuttavia affermare che il ministero pastorale incorpori quello del profeta. Se così fosse, le specificazioni che l’apostolo Paolo fa, quando parla dell’uno e dell’altro, non avrebbero nessun valore e neanche un senso logico (cfr. 1 Corinzi 12:28-29; Efesini 4:11).

Dal momento che è certo che il ministero del pastore è ben diverso da quello del profeta, per il semplice fatto che per il primo c’è bisogno di una certa preparazione scolastica, di un certo impegno particolare nello studio e nella preparazione di quello che vorrà dire al popolo; per il secondo invece, tutto è imperniato nella ispirazione estemporanea che lo Spirito Santo dà nel momento in cui il profeta dovrà profetizzare. Detto questo a mo’ di chiarimento, cerchiamo di comprendere il testo di (Romani 12:6).

La prima cosa che si pone davanti alla nostra riflessione è la seguente:
1. Perché il profeta deve profetizzare, secondo la proporzione della fede?
2. Che c’entra la fede col profetizzare, dato che l’esercizio di questo dono dipende dall’ispirazione che si riceve dallo Spirito Santo?

Quando un profeta è portato all’esortazione, la sua fede, ha un ruolo importante in quello che dovrà dire, perché si sa generalmente che l’esortazione produce sempre un effetto nella vita di colui che ascolta: potrebbe aprire una ferita; causare lacrime, dolore, tristezza, costernazione. Colui che profetizza dovrà tener presente che queste manifestazioni sgradevoli, successivamente si cambieranno in bene.

Quando subentrerà la conversione, il ravvedimento e il pentimento, la persona dirà: Quello che ho provato quando sono stato esortato; le lacrime che ho versato, il dolore che ho avvertito, la tristezza che si è verificata e la costernazione che si è manifestata in me, mi hanno indotto a riflettere sul mio agire, come comportarmi, sulla maniera in cui conduco la mia vita. In conseguenza di tutto questo, ho potuto notare il bene che mi ha fatto quella esortazione, perché mi ha riportato sul sentiero diritto, mi ha avvicinato a Dio, mi ha reso più interessato per le cose di Dio, mi ha spronato ad essere più zelante e più fedele alla volontà di Dio.

Se il profeta però, avesse pensato solamente all’inquietudine creata nella vita della persona che è stata esortata, anziché pensare al bene successivo, certamente sarebbe stato indotto a non esortare. Ma con la porzione della sua fede, ha pronunciato la sua esortazione, con la piena certezza di vedere il risultato benevolo. La fede è sempre certezza di cose che si sperano, e dimostrazione di cose che non si vedono (Ebrei 11:1).

Un profeta che dovesse profetizzare, nell’esercizio del dono ricevuto, non importa se riguarda l’edificazione, l’esortazione o la consolazione, senza la necessaria proporzione di fede, sarebbe solamente un parlatore, e nient’altro; ma con la sua fede, il suo profetizzare acquista valore e significato e tutta la sua attività sarà coronata di successo e risulterà alla lode e gloria di Dio e al beneficio di quanti ascoltano.

30) Romani 14:1:


Or accogliete chi è debole nella fede, [ pistei ] ma non per giudicare le sue opinioni.

Con il capitolo 14, l’Apostolo inizia un nuovo argomento che, sotto il profilo della vita pratica, ha la sua enorme importanza. L’esortazione ad accogliere i deboli nella fede, non mette solamente in risalto l’esistenza di due gruppi di credenti, quelli forti e quelli deboli nella fede, e di conseguenza come considerare il gruppo dei credenti deboli, ma soprattutto vuole insegnare al gruppo dei forti, la giusta maniera come comportarsi con loro.

«La « fede » di un cristiano può essere sotto molti aspetti debole, immatura, disinformata; ma in quanto cristiano egli deve essere accolto con calore e non spinto immediatamente a sostenere una discussione su quegli aspetti della sua vita nei quali non è ancora arrivato all’emancipazione» [Cfr. Frederick F. Bruce, L’epistola di Paolo ai Romani, pag. 145].

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Domenico34
00giovedì 20 ottobre 2011 00:05
I deboli nella fede,

«non sono — diciamolo subito — persone che «pretendono di essere salvate e di diventare beate mediante le loro opere»; «essi vogliono vivere soltanto della loro fede, ma — per poterlo fare — vogliono prendere certi particolari provvedimenti; poiché essi non si sentono capaci di farlo senza servirsi di quel parapetto, di quei principi, e quegli esercizi, giacché senza questa piccola iniziativa personale temono di decadere dalla grazia» (Barth III) [Cfr. Frederick F. Bruce, L’epistola di Paolo ai Romani, pag. 297].

La questione dei deboli nella fede, riguardava su quello che si mangiava. Il credente forte mangiava di tutto, mentre quello debole, per paura di venir meno nella sua vita cristiana, si limitava a mangiare solo legumi. Il forte non aveva riguardo al giorno, dato che per lui non c’erano giorni particolari, mentre il debole faceva differenza tra un giorno e l’atro. Come si può vedere, c’era un problema nella comunità romana: le due parti di credenti non agivano secondo lo spirito cristiano, che è quello di essere tollerante l’uno verso l’altro, ma si comportavano a discapito dell’unità e peggio ancora giudicavano.

Senza dubbio, qualcuno avrà messo al corrente l’Apostolo che, nella Chiesa, c’era questo atteggiamento discordante. Paolo, rendendosi conto che i fratelli non stavano agendo secondo lo spirito cristiano, li esorta a cambiare atteggiamento nei riguardi dei deboli nella fede. Il debole, dice lui, non deve essere giudicato, per quello che egli fa e per come vede le cose; deve essere accolto con amore, con gentilezza e con tolleranza, onde evitare che prenda il sopravvento quello spirito di animosità, che crea senza dubbio disprezzo, l’uno verso l’altro. In altre parole l’Apostolo vuole dire questo: Il fratello debole nella fede, non ha tanta conoscenza per come valuta le cose e per come si comporta davanti ad esse; però è sempre un fratello, per il quale Cristo ha dato la Sua vita per lui, cioè è un fratello che è stato salvato per grazia, nella identica maniera come lo sono stati gli altri. Ragione per cui deve essere trattato senza fare dispute o giudicare le sue opinioni, ma come fratello in Cristo che, crescendo nella sua conoscenza e maturandosi nella sua esperienza cristiana, saprà vedere la sua debolezza, e, riconoscendola, potrà chiedere l’intervento di Dio nella sua vita per emanciparsi. Qualunque sia il giudizio che si formula nei confronti di un credente, abbiamo sempre bisogno di ricordarci delle parole di Gesù: Non giudicate, affinché non siate giudicati (Matteo 7:1).

31) Romani 14:22:


Hai tu fede? pistin Tienila per te stesso davanti a Dio; beato chi non condanna se stesso in ciò che approva.

La raccomandazione che l’Apostolo fa riguarda essenzialmente a non
porre intoppo o scandalo al fratello (v. 13), perché se il tuo fratello è contristato a motivo di un cibo, tu non cammini più secondo amore; non far perire col tuo cibo colui per il quale Cristo è morto (v. 15).

Siccome il regno di Dio non è mangiare e bere, ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo (v. 17), e poiché il credente deve perseguire le cose che contribuiscono alla pace e alla edificazione reciproca (v. 19), ne consegue che non bisogna distruggere l’opera di Dio per il cibo (v. 20). La fede, di cui parla il verso 22, è una fede personale, di cui non la si può imporre a nessuno.

32) Romani 14:23:

Ma colui che sta in dubbio, se mangia è condannato, perché non mangia con fede; [ pistes] or tutto ciò che non viene da fede [ pistes] è peccato.

Siccome la fede fa superare certi pregiudizi che potrebbero nascere circa il mangiare certi cibi e previene certi condizionamenti, e, poiché il dubbio porta alla condanna, perché non si mangia con fede, ne consegue che tutto ciò che non viene da fede è peccato. Davanti a questa categorica affermazione paolina, dobbiamo stare molto attenti per non cadere in questo pericolo, che porterebbe tragiche conseguenze all’anima.

33) Romani 16:26:

e ora manifestato e rivelato fra tutte le genti mediante le Scritture profetiche, secondo il comandamento dell’eterno Dio, per indurli all’ubbidienza della fede [ pisteōs ]

In base alla frase mediante le Scritture profetiche,

«Harnack riteneva queste parole come un’aggiunta ortodossa a una dossologia marcionita — ed anche un’aggiunta malfatta perché, se il mistero era stato «tenuto occulto fin dai tempi più remoti» (versetto 25) e solo ora era stato manifestato, come avrebbe potuto esser fatto conoscere mediante gli scritti dei profeti? Harnack non era l’unico a rilevare questa difficoltà; ma la soluzione che egli prospetta non è la sola possibile. «Per quanto i profeti avessero precedentemente insegnato tutto quello che Cristo e gli apostoli hanno spiegato, essi lo avevano insegnato in modo talmente oscuro, quando lo si paragoni con la splendente chiarezza che ha la luce del vangelo, da non doversi sorprendere se vien detto, delle cose ora rivelate, che prima erano state nascoste» (Calvino). Paolo, e gli altri apostoli con lui, si servivano abbondantemente delle «Scritture profetiche» nella loro predicazione del vangelo; ma potevano comprendere e spiegare quelle Scritture solo alla luce della nuova rivelazione in Cristo (cfr. 1 Pietro 1:10-12)» [Cfr. Frederick F. Bruce, L’epistola di Paolo ai Romani, pagg.345,346].

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Domenico34
00venerdì 21 ottobre 2011 00:15
Inoltre, c’è da rilevare che le Scritture profetiche, non tengono presente il solo popolo d’Israele, anche se lui fu il depositario degli ‘oracoli divini’ (Romani 3:2), si estendano a tutto il mondo e riguardano tutti i popoli. Giustamente lo Schlier afferma che:

«L’annuncio del mistero divino mediante le Scritture profetiche fu fatto anche eis hypakoēn pisteōs = per l’ubbidienza di fede (genitivo oggettivo; cfr. Romani 1:5), e gli scritti profetici o il segreto di Dio da essi rivelato acquistano un carattere missionario, anzi universale» [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pag. 725].

Infine, Paolo specifica chiaramente che lo scopo finale della ‘rivelazione del mistero’, secondo il comandamento dell’eterno Dio, è: indurre tutte le genti, all’ubbidienza della fede.


PRIMA EPISTOLA AI CORINZI


Nota preliminare


Dopo avere passato in rassegna tutti i riferimenti che ha l’epistola ai Romani riguardante la fede, ci accingiamo ad esaminare quei pochi che contiene la 1 Corinzi, sempre con il medesimo scopo di valutare e comprendere la fede nelle sue manifestazioni. Anche se il significato della fede nella 1 Corinzi è ben diverso da quello che ha nell’epistola ai Romani, è sempre utile conoscere i riferimenti che questo scritto paolino ha, soprattutto tenendo presente i contesti nei quali l’Apostolo l’adopera. Non si tratta quindi di tenere presente solamente il dato statistico, ma quello che maggiormente conta è il suo contenuto.

1) 1 Corinzi 2:5:

Affinché la vostra fede [ pistis ] non fosse fondata sulla sapienza degli uomini, ma sulla potenza di Dio.

Questo primo riferimento di Paolo intorno alla fede, riguarda appunto la predicazione che egli fa di Cristo e del vangelo. L’Apostolo non indugia a rivelare ai Corinzi che quando egli si recò da loro, non aveva altri scopi se non quello di proclamare la testimonianza di Dio, e di proporsi solamente di annunziare loro nient’altro che, Gesù Cristo e lui crocifisso. Poiché la sua predicazione non

consisteva in parole persuasive di umana sapienza, ma in dimostrazione di Spirito e di potenza (v. 4),

ci teneva a far conoscere a quei cristiani la sua premura per la loro fede. Sapendo che se la fede è fondata sulla sapienza umana, oltre a non avere nessun valore davanti a Dio, non può durare a lungo, col mutamento che fa continuamente l’uomo; invece, la dimostrazione di Spirito e di potenza, serve essenzialmente a far comprendere a quella fratellanza che la loro fede deve essere fondata sulla potenza di Dio. Questo contesto nel quale l’Apostolo adopera [ pistis ], non ha valore solamente per i Corinzi, riguarda anche tutti i cristiani di ogni tempo e di ogni luogo. Se la nostra fede è fondata sulla potenza di Dio, oltre a non venire mai meno, potrà sfidare qualsiasi resistenza e opposizione nemica ed essere sempre vittorioSalmo

2) 1 Corinzi 12:9:

a un altro fede, [ pistis ] dal medesimo Spirito; a un altro doni di guarigioni, per mezzo del medesimo Spirito; a un altro potere di compiere potenti operazioni; a un altro profezia; a un altro discernimento degli spiriti.

Questo testo è l’unico passo del N.T. in cui si parla specificatamente del dono della fede. Trattandosi di dono, che non si trova in tutti i credenti, deve essere una fede speciale, non tanto per quantità, quanto per qualità, poiché la fede della grandezza di un granel di senape, può spostare una montagna (Matteo 17:20). Non ci sentiamo di condividere la convinzione di alcuni secondo la quale tutti i credenti possiedono i nove doni dello Spirito, così come vengono elencati in (1 Con. 12:4-11). Se questo fosse vero, le due frasi che l’Apostolo adopera: A uno infatti è data... e: a un altro.. , (quest’ultima ripetuta per ben sei volte), non avrebbero nessun senso logico. Mentre, se le due frasi in questione vengono considerate nel loro ampio contesto, la conclusione più logica e coerente è quella che non tutti i credenti hanno i nove doni dello Spirito. Dato per certo che è lo Spirito Santo che

distribuisce i suoi doni a ciascuno in particolare come vuole (v. 11), quali criteri e per quali motivi fa questa selezione, non ci viene dato di sapere.

Ritornando al dono della fede, visto che viene presentato prima dei doni di guarigione e di potenti operazioni, non è fuori della logica se questo dono viene dato per effettuare guarigioni, potenti operazioni e manifestazioni miracolose di ogni genere che l’uomo, con le sue capacità naturali, non è capace di fare.

3) 1 Corinzi 13:2:

E se anche avessi il dono della profezia, intendessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede pistin da trasportare i monti, ma non ho amore, non sono nulla.

Anche se il nostro testo riporta la fede, non è certamente nell’intenzione dell’Apostolo parlare di essa, poiché la sta citando per mettere in risalto l’importanza dell’amore, che è al di sopra di ogni dono. Questo però non toglie che la fede possa trasportare i monti, secondo l’insegnamento di Gesù. Che qui l’accento sia posto sulla fede e non sul dono della fede, appare chiaro. Nonostante che la fede sia l’elemento essenziale nella vita cristiana, sia per piacere a Dio (Ebrei 11:6) e sia per vedere le manifestazioni miracolose divine, nondimeno, in mancanza dell’amore, il cristiano con tutta la sua fede, diventa nulla.

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Domenico34
00sabato 22 ottobre 2011 00:03
4) 1 Corinzi 13:13:

Ora dunque queste tre cose rimangono: fede, [ pistis ] speranza e amore; ma la più grande di esse è l’amore[/C[.

Lo scopo principale del capitolo 13 della 1 Corinzi non è quello di parlare dei doni dello Spirito (anche se nel (v. 2) si parla del dono della profezia, di intendere tutti i misteri e possedere tutta la scienza e di avere la fede che trasporta i monti), ma è quello di far comprendere l’importanza dell’amore, ch’è di gran lunga superiore a tutti i carismi.

Se poi si tiene conto che tutti i doni saranno aboliti, con la venuta della perfezione, mentre l’amore non viene mai meno (vv. 8-10), non si riesce a comprendere come mai al (v. 13) venga affermato che la fede, la speranza e l’amore rimangono. Anche se è vero che la speranza non è un dono, mentre la fede lo è ( 1 Corinzi 12:9). Per quanto riguarda la speranza, si sa con certezza che non è solo per il tempo presente, vale a dire per questa terra, ma è riposta nei cieliP/C] per i credenti, vale a dire nell’eternità, quindi destinata a rimanere per sempre. (cfr. Colossesi 1:5).

Pensare dell’amore destinato ad essere eterno, non è difficile a capirlo, non solo perché l’Apostolo lo afferma chiaramente nel (v. 8), ma soprattutto pensando al fatto che Dio stesso è amore (1 Giovanni 4:8). Per ciò che riguarda invece la fede, c’è da chiedere se nel (v. 13), Paolo faccia allusione al dono della fede, nel senso di (1 Corinzi 12:9). Se è assodato che con l’avvento della perfezione o parusia, tutti i carismi saranno aboliti, escludere il carisma della fede, non ci sembra coerente con quello che Paolo dice chiaramente. Ma se nel (v. 13), (come noi pensiamo debba intendersi) l’Apostolo vuole alludere a Romani 12:3, cioè alla misura di fede che Dio dona a tutti i credenti, allora la fede è destinata a rimanere nell’eternità, per il semplice fatto che le cose che Dio dona, non durano per un tempo, ma eternamente.

«Il permanere è caratteristica divina, a differenza della mutabilità e della caducità delle realtà terrene e umane. Tuttavia, qui non si tratta in alcun modo primariamente di un’esistenza sovrastorica di Dio, bensì si afferma che ci può abbandonare a lui nella storia. Così anche nel N.T. è citata la menzionata espressione men eis ton aina con Salmo 111.9 LXX (2 Corinzi 9:9) e Isaia 40:8 (1 Pietro 1:25): la giustizia o la parola di Dio «ha una stabilità irremovibile per l’eternità.». Tuttavia anche ciò che è stato dato all’uomo in virtù dell’evento salvifico in Cristo, rimane: così rimane il ministero della giustizia «in gloria»: 2 Corinzi 3:11; rimangono fede, speranza, amore: 1 Corinzi 13:13; «chi fa la volontà di Dio, rimane in eterno»: 1 Giovanni 2:17 [Cfr. H. Schlier, La lettera ai Romani, pagg. 645,646].

Qualcuno ha voluto aggirare l’ostacolo del termine [ menei ], che le traduzioni hanno reso: ‘durare’ o ‘rimanere’, dato che il significato etimologico è questo, nel modo seguente:

«Se si vuole mantenere questa traduzione bisogna sottintendere un pensiero speciale: la perfezione non significa certo l’abolizione di fede e speranza (v. 10), ma la rivelazione del giusto orientamento» [Cfr. H. Hübner, Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, 2, col. 333].

Alla obiezione che J. Weiss ha sollevato, cioè

«che la [ pistis ] = fede e la [ elpis ] = speranza «nella parusia sono superflue ed escluse», si deve rispondere che allora cessano bensì le funzioni del credere e dello sperare, ma che il significato di pistis e elpis nel N.T. include il contenuto della fede (per es. Galati 2:20) e, rispettivamente, della speranza (cfr. spec. Colossesi 1:5, dove pistis, agapé e elpis sono del pari giustapposte) e che questi beni resteranno in eterno» [Cfr. Il Nuovo Testamento annotato, Vol. III, Le epistole di Paolo, pag. 118].

5) 1 Corinzi 15:14:

Ma se Cristo non è risuscitato, è vana dunque la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede. [pistis ]

Una fede che non ha come fondamento la risurrezione di Cristo, è una fede vana, cioè non ha alcun valore. Anche la predicazione, che ha come punto di riferimento la risurrezione di Cristo, se questa non è vera, cioè non è avvenuta, è anch’essa vana, cioè priva di valore e d’importanza. Come si può benissimo notare in questo testo, l’Apostolo pone l’accento sul fondamento della fede, ch’è appunto la risurrezione di Cristo. Se la fede, — come diciamo spesso —, è certezza di cose che si sperano... (Ebrei 11:1), quale certezza potrebbe sussistere sulla stessa risurrezione dei morti?

Giustamente l’Apostolo precisa: Se alcuni di voi dicono che non c’è la risurrezione dei morti, neppure Cristo è risuscitato. E se Egli non è risuscitato, il messaggio che noi predichiamo, in virtù del quale, ascoltandolo, viene prodotta la fede (Romani 10:17), tutto quello che noi diciamo, è essenzialmente un’impostura, una falsità (vv. 12-14). Quale beneficio potrebbe ricavare una persona, per questa vita e principalmente per l’eternità, se la sua fede fosse basata sull’imbroglio e sulla falsità? Valutando l’insieme dall’argomentazione di Paolo, si può ben valutare il valore della fede, se ha come base l’evento straordinario della risurrezione di Cristo.

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Domenico34
00domenica 23 ottobre 2011 00:08
6) 1 Corinzi 15:17:

ma se Cristo non è stato risuscitato, vana è vostra fede; [ pistis ] voi siete ancora nei vostri peccati.

Continuando il discorso che l’Apostolo ha fatto nei (vv. 12-16), con il (v. 17) egli aggiunge qualcosa che ha a che fare con la salvezza. In senso concreto, non c’è salvezza senza il perdono dei peccati. Se uno è ancora nei suoi peccati, ciò significa che questi non sono stati tolti. I peccati del peccatore vengono perdonati, e col perdono vengono tolti dalla sua vita, mediante la fede in Cristo Gesù. Ma non di un Cristo morto, ma di un Cristo vivente, cioè risuscitato dai morti.

Se con la sua morte Gesù Cristo ha espiato i peccati del peccatore, con la sua risurrezione, ne ha garantito la giustificazione (Rom 4:25), cioè il peccatore è stato dichiarato giusto da Dio, come se egli non avesse mai commesso peccati preso in questo contesto teologico, si può meglio comprendere la portata del (v. 17).

7) 1 Corinzi 16:13:

Vegliate, state fermi nella fede, [ pistei ] comportatevi virilmente, siate forti.

Quest’ultimo riferimento alla fede, che la 1 Corinzi fa, riguarda una precisa esortazione in forma imperativa.

«State fermi nella fede si riferisce alla stabilità del cristiano fermamente radicato in Cristo, una stabilità vistosamente assente nei Corinzi» [Cf. G. Stählin, GLNT. Vol. VII, col. 1467, nota 28].

[DI,=16pt]SECONDA EPISTOLA AI CORINZI

Nota preliminare

«Dopo aver attentamente ascoltato i grandi maestri per penetrarne il pensiero» scriveva il Ruskin in Sesame and Lilies, «si deve andare oltre e penetrarne il cuore». Sono due doveri che l’arte dello scrivere impone a chi legge; con alcuni scrittori è più facile affrontare il primo di questi doveri, ma con altri il secondo riesce meno difficile. L’autore della II Corinzi dovrebbe essere posto in quest’ultima categoria, perché quel documento così personale e ricco di pathos lascia ben pochi lettori insensibile al battito accelerato del cuore di chi lo ha redatto anche se, a volte, li mette in difficoltà quando vogliono seguirne i ragionamenti. L’Apostolo si svela così apertamente ed esprime con tanta libertà il mutamento del suo umore e dei suoi sentimenti che nessun ostacolo impedisce di penetrare nell’intimo del suo cuore e di comprendere la grande tenerezza che esso alberga insieme con le gioie ed i timori. «La Seconda Epistola ai Corinzi è forse la lettera che rivela di più il carattere e il pensiero dell’Apostolo... Gloria e umiliazione; vita e morte; una visione di angeli che lo rinvigorisce; la spina nella carne che lo abbatte; una grandissima tenerezza, ma non priva di severità; un dolore smisurato, delle consolazioni smisurate; ecco alcune fra le contraddizioni che si conciliano nello stesso uomo» [Cfr. L. Morris, La prima epistola di Paolo ai Corinzi, pag. 288].

Per quanto riguarda le occorrenze che ha la 2 Corinzi intorno alla fede, sono esattamente sei, cioè una in meno rispetto alla 1 Corinzi. La 2 Corinzi non differisce rispetto alla prima solo per il numero di occorrenze; sono anche diversi i contesti nei quali appare la fede. L’esame di tutti i riferimenti che contiene questo scritto paolino, metterà in risalto le varie verità che vengono proclamate, valevoli anche per i cristiani dei nostri giorni.

1) 2 Corinzi 1:24:

Non già che dominiamo sulla vostra fede, [ pistes] ma siamo collaboratori della vostra gioia, perché state saldi per fede [ pistei ]

Il primo riferimento alla fede si trova in un contesto del comportamento dell’Apostolo nei confronti della fratellanza dei Corinzi. Poiché Paolo era stato colui che li aveva generati in Cristo (1 Corinzi 4:15), la fratellanza avrebbe potuto pensare che lui, in qualità di apostolo e di padre spirituale, si sarebbe avvalso della sua autorità per signoreggiare la loro vita, quindi agire nei loro confronti come un vero e proprio monarca. Se la fratellanza di Corinto avesse avuto simili convincimenti, l’Apostolo, con questa sua epistola dimostrava loro che non era nella sua intenzione agire come un comandante in prima, e considerare i fratelli come i suoi sudditi.

Non è un puro caso che questi sentimenti che rispecchiavano l’atteggiamento umile e comprensivo di Paolo, li abbia manifestati proprio all’inizio della sua epistola. Onde fugare ogni sospetto, l’Apostolo ci tiene a dire, con franchezza e fermezza che egli, in mezzo a loro, si era

comportato con la semplicità e sincerità di Dio, non con sapienza carnale, ma con la grazia di Dio (v. 12).

Se l’Apostolo aveva ritardato la sua visita a Corinto, come egli stesso aveva preannunciato, non l’aveva fatto per altri scopi, ma solamente per risparmiare quella fratellanza. Se Paolo non avesse aggiunto altre parole, avrebbe dato la più grande dimostrazione di essere un vero dittatore, uno che vuole tenere tutti sotto la sua autorità. Ma con le parole: Non già per dominare la vostra fede, fornisce la più ampia garanzia che in lui non c’è né il desiderio né la volontà di essere considerato un gerarca dispotico, «un tiranno che vuole dare ordini riguardo alla coscienza, ben deciso ad ottenere la loro sottomissione in tutte le cose» [R.V.G. Tasker, La seconda epistola di Paolo ai Corinzi, p. 60]; ma vuole essere semplicemente un collaboratore della loro gioia, con l’augurio che questi fratelli rimangano saldi nella loro fede.

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Domenico34
00domenica 23 ottobre 2011 00:11
6) 1 Corinzi 15:17:

ma se Cristo non è stato risuscitato, vana è vostra fede; [ pistis ] voi siete ancora nei vostri peccati.

Continuando il discorso che l’Apostolo ha fatto nei (vv. 12-16), con il (v. 17) egli aggiunge qualcosa che ha a che fare con la salvezza. In senso concreto, non c’è salvezza senza il perdono dei peccati. Se uno è ancora nei suoi peccati, ciò significa che questi non sono stati tolti. I peccati del peccatore vengono perdonati, e col perdono vengono tolti dalla sua vita, mediante la fede in Cristo Gesù. Ma non di un Cristo morto, ma di un Cristo vivente, cioè risuscitato dai morti.

Se con la sua morte Gesù Cristo ha espiato i peccati del peccatore, con la sua risurrezione, ne ha garantito la giustificazione (Rom 4:25), cioè il peccatore è stato dichiarato giusto da Dio, come se egli non avesse mai commesso peccati preso in questo contesto teologico, si può meglio comprendere la portata del (v. 17).

7) 1 Corinzi 16:13:

Vegliate, state fermi nella fede, [ pistei ] comportatevi virilmente, siate forti.

Quest’ultimo riferimento alla fede, che la 1 Corinzi fa, riguarda una precisa esortazione in forma imperativa.

«State fermi nella fede si riferisce alla stabilità del cristiano fermamente radicato in Cristo, una stabilità vistosamente assente nei Corinzi» [Cf. G. Stählin, GLNT. Vol. VII, col. 1467, nota 28].

SECONDA EPISTOLA AI CORINZI

Nota preliminare

«Dopo aver attentamente ascoltato i grandi maestri per penetrarne il pensiero» scriveva il Ruskin in Sesame and Lilies, «si deve andare oltre e penetrarne il cuore». Sono due doveri che l’arte dello scrivere impone a chi legge; con alcuni scrittori è più facile affrontare il primo di questi doveri, ma con altri il secondo riesce meno difficile. L’autore della II Corinzi dovrebbe essere posto in quest’ultima categoria, perché quel documento così personale e ricco di pathos lascia ben pochi lettori insensibile al battito accelerato del cuore di chi lo ha redatto anche se, a volte, li mette in difficoltà quando vogliono seguirne i ragionamenti. L’Apostolo si svela così apertamente ed esprime con tanta libertà il mutamento del suo umore e dei suoi sentimenti che nessun ostacolo impedisce di penetrare nell’intimo del suo cuore e di comprendere la grande tenerezza che esso alberga insieme con le gioie ed i timori. «La Seconda Epistola ai Corinzi è forse la lettera che rivela di più il carattere e il pensiero dell’Apostolo... Gloria e umiliazione; vita e morte; una visione di angeli che lo rinvigorisce; la spina nella carne che lo abbatte; una grandissima tenerezza, ma non priva di severità; un dolore smisurato, delle consolazioni smisurate; ecco alcune fra le contraddizioni che si conciliano nello stesso uomo» [Cfr. L. Morris, La prima epistola di Paolo ai Corinzi, pag. 288].

Per quanto riguarda le occorrenze che ha la 2 Corinzi intorno alla fede, sono esattamente sei, cioè una in meno rispetto alla 1 Corinzi. La 2 Corinzi non differisce rispetto alla prima solo per il numero di occorrenze; sono anche diversi i contesti nei quali appare la fede. L’esame di tutti i riferimenti che contiene questo scritto paolino, metterà in risalto le varie verità che vengono proclamate, valevoli anche per i cristiani dei nostri giorni.

1) 2 Corinzi 1:24:

Non già che dominiamo sulla vostra fede, [ pistes] ma siamo collaboratori della vostra gioia, perché state saldi per fede [ pistei ]

Il primo riferimento alla fede si trova in un contesto del comportamento dell’Apostolo nei confronti della fratellanza dei Corinzi. Poiché Paolo era stato colui che li aveva generati in Cristo (1 Corinzi 4:15), la fratellanza avrebbe potuto pensare che lui, in qualità di apostolo e di padre spirituale, si sarebbe avvalso della sua autorità per signoreggiare la loro vita, quindi agire nei loro confronti come un vero e proprio monarca. Se la fratellanza di Corinto avesse avuto simili convincimenti, l’Apostolo, con questa sua epistola dimostrava loro che non era nella sua intenzione agire come un comandante in prima, e considerare i fratelli come i suoi sudditi.

Non è un puro caso che questi sentimenti che rispecchiavano l’atteggiamento umile e comprensivo di Paolo, li abbia manifestati proprio all’inizio della sua epistola. Onde fugare ogni sospetto, l’Apostolo ci tiene a dire, con franchezza e fermezza che egli, in mezzo a loro, si era

comportato con la semplicità e sincerità di Dio, non con sapienza carnale, ma con la grazia di Dio (v. 12).

Se l’Apostolo aveva ritardato la sua visita a Corinto, come egli stesso aveva preannunciato, non l’aveva fatto per altri scopi, ma solamente per risparmiare quella fratellanza. Se Paolo non avesse aggiunto altre parole, avrebbe dato la più grande dimostrazione di essere un vero dittatore, uno che vuole tenere tutti sotto la sua autorità. Ma con le parole: Non già per dominare la vostra fede, fornisce la più ampia garanzia che in lui non c’è né il desiderio né la volontà di essere considerato un gerarca dispotico, «un tiranno che vuole dare ordini riguardo alla coscienza, ben deciso ad ottenere la loro sottomissione in tutte le cose» [R.V.G. Tasker, La seconda epistola di Paolo ai Corinzi, p. 60]; ma vuole essere semplicemente un collaboratore della loro gioia, con l’augurio che questi fratelli rimangano saldi nella loro fede.

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Domenico34
00lunedì 24 ottobre 2011 00:03
I pastori di comunità, i ministri del vangelo e tutti coloro che sono stati chiamati a svolgere ruoli di comando, hanno tanto da imparare da questo testo. Che lo Spirito Santo scolpisca queste parole nel nostro cuore!

2) 2 Corinzi 4:13:


Ma pure, avendo noi lo stesso spirito di fede, [ pistes] come sta scritto: «Io ho creduto, perciò ho parlato», anche noi crediamo e perciò parliamo.

Il riferimento che Paolo fa alla fede, riguarda se stesso in relazione ai tanti pericoli cui va incontro nell’esercizio del suo ministero. Le avversità di ogni genere che l’Apostolo affronta, sono chiaramente descritte nei (vv. 8-11). Egli però, non perdendosi d’animo (v. 1), fa sue le parole del Salmo 116:10, perché in esse vede lo spirito di fede che animava il salmista in mezzo alle sue tribolazioni. E se Paolo, davanti al pericolo di morte che lo minacciava ogni giorno, poteva trovare sollievo ed incoraggiamento dall’esperienza del salmista, ciò era perché anche lui aveva lo stesso spirito di fede. Come il salmista parlava, in virtù della sua fede in Dio, in mezzo ai pericoli dei legami della morte, della liberazione che aveva ricevuto dal Signore, allo stesso modo si comporta Paolo, quando dice: anche noi crediamo e perciò parliamo.

Parlare solamente delle angosce della vita, delle tribolazioni che si incontrano, delle afflizioni che ci circondano e dei pericoli a cui si va incontro, non è certo parlare secondo lo spirito della fede. Ma parlare in mezzo a quelle difficoltà dell’aiuto e della liberazione che si riceve dal Signore, questo, è veramente spirito di fede. Quelli che veramente hanno fede, non rimarranno muti, senza parole; e, se si trovano in quella condizione, è perché la loro incredulità li ha ridotti in quello stato (cfr. Luca 1:20).

Condividiamo in pieno le parole del Denney, quando commentando le parole del nostro testo scrive:

«Non tutti i credenti devono insegnare e predicare, ma tutti devono confessare. Chiunque ha fede, ha una testimonianza da portare a Dio» [Cfr. R. V. G. Tasker, La seconda epistola di Paolo ai Corinzi, pagg. 11,12].

3) 2 Corinzi 5:7:

Camminiamo infatti per fede, [ pistes] e non per visione.

Per comprendere in un modo coerente questo testo, è necessario inquadrarlo nell’ambito di tutto quello che Paolo ha detto nei versetti precedenti, cioè (vv. 1-6). Nel (v. 1) l’Apostolo considera il corpo umano, — ch’è l’abitazione terrena —, come una tenda che non sempre rimane piantata in un posto. Infatti, se una persona abita in una certa località sotto tenda, se dovesse trasferirsi in un’altra località, si rende necessario smontare quella tenda.

Quando Paolo parla del disfacimento della tenda, vuole riferirsi senza dubbio alla morte. È infatti con la morte che avviene il disfacimento della tenda, = abitazione terrena. Siccome con la morte avviene anche il trasferimento di residenza, si rende necessario che ci sia pronta una nuova dimora. Per Paolo che segue un ragionamento cristiano, cioè il ragionamento di colui che crede nel Signore per la vita futura e migliore, la nuova abitazione non sarà costituita dalla tenda smontata e ricomposta, ma dall’abitazione, non fatta da mano d’uomo, ma da Dio stesso, eterna nei cieli. Precisando che questa nuova abitazione è ben diversa della prima, non solo perché non è costruita dall’uomo, ma da Dio stesso, anche perché viene definita eterna, cioè una volta costruita, non è più soggetta ad essere disfatta: in altre parole non ci sarà più cambiamento di residenza.

Il gemito, di cui fanno riferimento i (vv. 2,4), è senza dubbio una chiara allusione a tutte le peripezie che si incontrano sulla terra, durante tutto il tempo della permanenza terrena. Avendo davanti a sé la prospettiva della nuova residenza celeste, esprime il desiderio di volere essere rivestito, non di un nuovo vestito terreno, o di un soprabito, che nasconda il vecchio, come il termine giustamente potrebbe suggerire, ma della sua abitazione celeste. Davanti a simili termini che l’Apostolo adopera, è naturale chiedere: A che cosa voleva alludere Paolo con questa metafora? Per vivere in una abitazione celeste, ci vuole anche un vestito adatto per quella residenza.

Il vestito adatto per l’abitazione celeste, è senza dubbio l’immortalità, l’incorruttibilità, che Dio stesso darà alla risurrezione. Ma perché l’Apostolo condiziona queste mete, col dire: se saremo trovati vestiti e non nudi? (v. 3). In altre parole questo vuol dire che se uno viene trovato nudo, non potrà entrare nell’abitazione celeste. Come è possibile che una simile eventualità possa accadere a un cristiano? Che cosa, insomma, voleva dire Paolo? Queste enigmatiche parole dell’Apostolo, trovano una soddisfacente risposta in quello che Gesù rivolse all’angelo della chiesa di Laudicea:

Poiché tu dici: Io sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di nulla; e non sai invece di essere disgraziato, miserabile, povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me dell’oro affinato col fuoco per arricchirti, e delle vesti bianche per coprirti e non far apparire così la vergogna della tua nudità, e di ungerti gli occhi con del collirio, affinché tu veda (Apocalisse 3:17,18).

Ed ancora:
Ecco, io vengo come un ladro; beato chi veglia e custodisce le sue vesti per non andare nudo e non lasciar così vedere la sua vergogna (Apocalisse 16:15).

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Domenico34
00martedì 25 ottobre 2011 00:07
La chiesa di Laudicea, dal punto di vista umano, era ben vestita, con abiti sontuosi, ma davanti a Gesù appariva nuda. Il suo vestito era quello della vanagloria e dell’auto sufficienza. Nonostante che ella fosse ricca e non avesse bisogno di nulla, Gesù la considerava: miserabile, povera, cieca e nuda. Per coprire la sua nudità, aveva bisogno di vesti bianche. Che cos’altro possono essere le vesti bianche, se non la giustizia di Cristo?

Essere trovati vestiti, quindi, significa avere addosso le vesti bianche della giustizia di Cristo; trovarsi nudi, invece, significa avere addosso il vestito della vanagloria, della superbia e dell’auto sufficienza.

C’è una bella cosa davanti a Paolo, in vista della dimora celeste: la caparra dello Spirito che Dio stesso ha dato, come pegno per la nuova residenza celeste (v. 5). Davanti a questa prospettiva, l’Apostolo non può ignorare che mentre dimora nel corpo, cioè nell’abitazione terrena, è lontano dal Signore (v. 6), perché ancora non lo può vedere faccia a faccia. Però, avendo fiducia in Dio, Colui che ha costruito la dimora celeste, che quello che Egli ha fatto è vero, può dire con fermezza, assieme ad altri credenti come lui: Camminiamo per fede, e non per visione.

Il suo camminare, che equivale al modo di vivere cristianamente, è basato sulla fede, certezza delle cose che egli spera (e tra le cose che egli spera c’è la dimora celeste e l’incontro faccia a faccia con il suo Gesù, Colui per il quale sta dedicando la sua vita e tutte le attività ministeriali connesse alla sua chiamata), e non come un visionario, che si basa su ciò che può costruire con la sua immaginazione.

4) 2 Corinzi 8:7:


Ma come abbondate in ogni cosa, nella fede, [ pistei ] nella parola e nella conoscenza, in ogni premura e nel vostro amore verso di noi, cercate di abbondare anche in quest’opera di grazia.

L’elogio che Paolo rivolge ai Corinzi perché abbondino in vari settori della vita cristiana, ha lo scopo di invogliarli ad abbondare anche nella colletta per i cristiani poveri della Giudea. Questo non è un elogio adulatorio, nel senso di volere carpire l’attenzione dei destinatari, solamente per raggiungere uno scopo, ma vuole essere una sincera testimonianza per quello che l’Apostolo vede nella vita dei Corinzi. Poiché a noi interessa l’argomento della fede, ogni elemento che raccogliamo nel suo contesto, deve contribuire a farci meglio comprendere la fede ed apprezzarla nel suo modo di manifestarsi.

Anche se l’elogio che Paolo fa ai Corinzi, ha uno scopo ben preciso: incentivare la raccolta di fondi a favore dei cristiani poveri della Giudea, questo però non toglie il merito che realmente la fede di questi credenti abbondi, cioè cresca. Non sono i Corinzi che vanno dicendo che la loro fede abbonda, è Paolo che lo afferma. Questo significa, in altre parole, che l’Apostolo notava un progresso spirituale nella vita dei suoi fratelli. Quando ciò avviene veramente, sono gli altri a renderne testimonianza.

5) 2 Corinzi 10:15:

E non ci vantiamo oltre misura delle fatiche altrui, ma nutriamo la speranza che, crescendo la vostra fede, [ pistes] noi saremo maggiormente considerati tra di voi secondo i nostri limiti.

Come abbiamo visto in (2 Corinzi 8:7) Paolo rende testimonianza che la fratellanza dei Corinzi, abbonda nella fede, nella parola e nella conoscenza. In questo testo l’Apostolo formula l’augurio che la fede possa crescere. Se egli augura e nutre una simile speranza, lo fa con una precisa motivazione: lui stesso e i suoi collaboratori, unitamente al loro ministero, possono essere maggiormente considerati.

Questo parlare, Paolo lo porta avanti, in considerazione del fatto che in questo tratto della sua epistola, difende l’autorità apostolica, davanti a quelli che si son levati contro di lui, cercando di denigrare la sua attività ministeriale. La crescita della fede dei Corinzi, rappresenta una seria garanzia, non solo per lo sviluppo spirituale, ma anche per un maggiore apprezzamento dell’attività missionaria di Paolo.

Siccome l’Apostolo ha dato prova che egli non vuole ]C]signoreggiare
la fede della fratellanza, ma vuole essere semplicemente un collaboratore della loro gioia (1:24), con l’augurio che la loro fede cresca, i Corinzi possono comprendere meglio Paolo ed apprezzarlo maggiormente in quello che sta facendo, anziché porgere l’orecchio a quelli che si sono schierati contro di lui. Tutto questo, naturalmente, perché in Paolo, non c’è quel sentimento di vantarsi delle fatiche altrui.

Se di vanto si può parlare, sotto l’aspetto umano, naturalmente, (che poi in fin dei conti è un certo alimentare la propria vanagloria e non torna mai alla gloria di Dio), ciò riguarda quello che ognuno fa nel proprio campo di lavoro e non quello che compiono gli altri. Se poi si deve considerare seriamente l’opportunità di vantarsi, è meglio attenersi a quello che Paolo dice chiaramente, servendosi di una citazione di (Geremia 9:23,24):

Chi si gloria si glori nel Signore, poiché non colui che raccomanda se stesso è approvato, ma colui che il Signore raccomanda (v. 17,18).

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Domenico34
00mercoledì 26 ottobre 2011 00:37
6) 2 Corinzi 13:5:

Esaminate voi stessi per vedere se siete nella fede; [ pistei ] provate voi stessi. Non riconoscete voi stessi che Gesù Cristo è in voi? A meno che non siate riprovati.

In quest’ultimo riferimento alla fede, Paolo ritornando a difendere la sua autorità apostolica, avverte la fratellanza del pericolo che vanno incontro, se continueranno ad ascoltare i calunniatori e i diffamatori dell’Apostolo. La prova che questi credenti indagano nella vita di Paolo, riguarda il Cristo che parla in lui. Se l’Apostolo ha scritto la presente lettera, l’ha fatto tenendo presente quelli che hanno peccato e tutti gli altri, che egli non intende risparmiare, una volta che sarà venuto a Corinto.

Con l’invito ad esaminare voi stessi per vedere se siete nella fede, Paolo non vuole insinuare nella mente di quei credenti, come se fossero scaduti dalla grazia; vuole solamente esprimere la sua preoccupazione e indurli a fare una certa verifica per conoscere se Cristo è ancora in loro. Se la prova dovesse portare alla constatazione che Cristo non è più in loro, significherebbe in pratica che sono riprovati.

Anche se l’Apostolo ha usato un tono severo e forte con i Corinzi, non l’ha fatto sicuramente per giudicarli e scoraggiarli, ma per far loro comprendere che l’autorità che il Signore gli ha data, egli l’ha usata per la loro edificazione e non per la loro distruzione (v. 10).

EPISTOLA AI GALATI

Nota preliminare

Delle 19 occorrenze che l’epistola ai Galati contiene per quanto riguarda la fede, come contenuto e significato si avvicinano a quelle dell’epistola ai Romani, che sotto alcuni aspetti e per alcuni di essi, si trovano sullo stesso piano. Con l’esame che ne faremo, non solo metteremo in evidenza tutti gli elementi che possono maggiormente arricchire la nostra conoscenza, ma anche e soprattutto per farci notare come l’Apostolo inquadrava la fede, quale peso da ad essa e come la colloca nelle varie situazioni che si determinano davanti al suo ministero e in riferimento alla dottrina cristiana che egli insegna.

1) Galati 1:23:

ma esse udivano soltanto dire: «Colui che prima ci perseguitava, ora annunzia quella fede pistin che egli devastava».

Questo primo riferimento alla fede, si trova in un ampio contesto in cui si parla della conversione di Paolo e del come egli si comportò subito dopo la sua conversione a Gesù Cristo. La testimonianza della sua conversione l’Apostolo la racconta ai Galati, non solo per far loro conoscere quello che egli era prima dell’evento sulla via di Damasco, che segnò la svolta decisiva nella sua vita, ma anche per rivendicare l’autorità divina del suo apostolato e della sua dottrina, di fronte agli avversari che erano riusciti a penetrare con le loro eresie nella comunità dei Galati, producendo un certo sbandamento nella loro vita, pronti a lasciarsi prestamente convincere da quelli che predicavano un altro evangelo, rispetto a quello che Paolo predicava, evangelo che essenzialmente si concretizzava nella proclamazione della grazia di Cristo, mediante la quale quei cristiani erano stati chiamati. Siccome però l’Apostolo sa che in effetti non si tratta di parlare di un altro evangelo, ma solamente di pervertire l’evangelo di Cristo, (perché tale è in effetti l’opera degli eretici) e turbare la coscienza tranquilla dei Galati (vv. 6,7).

Davanti a questa tragica realtà che si delinea chiaramente davanti Paolo, egli che sa molto bene che l’evangelo che predica, non viene dall’uomo, né l’ha imparato da nessun uomo, ma l’ha ricevuto per rivelazione da Gesù Cristo (v. 12), egli può rivolgere una ferma e autorevole parola ai suoi fratelli e dir loro:

Anche se noi o un angelo dal cielo vi predicasse un evangelo diverso da quello che vi abbiamo annunziato, sia maledetto. Come già detto, ora lo dico di nuovo: Se qualcuno vi predica un evangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia maledetto (vv. 8,9).

Davanti a queste precise e categoriche parole, — che poi rappresentano una chiara evidenza della sua divina autorità apostolica —, Paolo passa a raccontar loro la sua testimonianza, quando era nel giudaismo, dicendo: voi avete udito

come perseguitavo con grande ferocia la chiesa di Dio e la devastavo. ... Ma quando piacque a Dio, che mi aveva appartato fin dal grembo di mia madre e mi ha chiamato per la sua grazia, di rivelare in me suo Figlio, affinché l’annunziassi fra i gentili, io non mi consultai subito con carne e sangue, né salii a Gerusalemme da quelli che erano stati apostoli prima di me, ma me ne andai in Arabia e ritornai di nuovo a Damasco (v. 13-17).

In questo resoconto che Paolo fa della sua conversione, ci sono tre cose che vengono messe in evidenza, dopo l’evento di Damasco.

1. Non mi consultai subito con carne e sangue;
2. non salii a Gerusalemme da quelli che erano stati apostoli prima di me;
3. me ne andai in Arabia…

Su questa puntualizzazione che l’Apostolo fa, i commentatori hanno cercato di comprendere e spiegare, perché Paolo si comportò in quel modo.

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Domenico34
00giovedì 27 ottobre 2011 00:08
La cosa più naturale, dopo l’evento di Damasco, sarebbe stata che Paolo fosse tornato indietro a Gerusalemme e avesse cercato di mettersi in contatto con la protocomunità o per lo meno con la comunità cristiana di Damasco.

Secondo Atti 9:6, Gesù diede un ordine a Saulo: Alzati ed entra nella città, e ti sarà detto ciò che devi fare. Inoltre si precisa che, dopo i tre giorni, durante i quali egli non vide, non mangiò né bevve (Atti 9:9), riacquistata la vista e recuperate le forze fisiche,

Saulo rimase alcuni giorni con i discepoli che erano a Damasco. E subito si mise a predicare il Cristo nelle sinagoghe, proclamando che egli è il Figlio di Dio (Atti 9:19,20).

A questo punto, lo Mussner, si chiede: «Ma allora non ricevette un insegnamento più preciso sulla dottrina cristiana?» [Anche se quello che seguirà non è attinente al soggetto della fede, tuttavia ne parliamo, non solo per conoscere come sono stati interpretati e spiegati dai commentatori questi eventi, ma anche e soprattutto perché il primo riferimento alla fede che si trova nell’epistola ai Galati, ha come contesto la storia della conversione di Paolo al cristianesimo, con le sue svolte e le sue decisioni, che ebbero un punto fermo nell’espletamento del ministero apostolico, tra il popolo gentile come in quello giudaico].

La frase: rimase alcuni giorni con i discepoli che erano in Damasco, suggerisce l’idea che Paolo avrebbe ricevuto qualcosa che riguardasse l’evangelo da quei cristiani di Damasco. Considerando però le parole di (Galati 1:16), per ciò che riguarda il non consultarsi subito con carne e sangue, l’Apostolo vuole fare una precisazione di prima mano che Luca non ha fatto, per ribadire ancora una volta che, l’evangelo che egli predica, non deve essere considerato il risultato di quello che gli uomini avrebbero potuto dirgli in quei pochi giorni che rimase con loro.

«In Galati 1:16 e Matteo 16:17 si designa l’uomo in quanto tale, che può trasmettere opinioni teologiche, esperienze religiose o tradizioni ecclesiastiche. Anche in questo caso il contrapposto è Dio stesso quale rivelatore. Manca completamente l’aspetto di realtà soggetta a peccare» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 162].

«Se si tiene conto dello scopo dell’argomentazione di Paolo, in concreto con «carne e sangue» possono essere indicati solo dei cristiani; eppure egli sceglie un’espressione (semitica) di portata universale per sottolineare che dopo la sua conversione non andò assolutamente dagli uomini a cercare consigli; dunque non poteva neppure aver ricevuto da loro dei chiarimenti sulla natura dell’evangelo» [Cfr. E. Schweizer, GLNT, Vol. XII, col. 1339].

«Per lo Schlatter (Der Evangelist Matthäus 505) carne e sangue si trovano «là dove l’uomo viene caratterizzato come diverso da Dio»; il Bonnard, fa queste considerazioni: «Nelle parole sarchi kai aimati... = (carne e sangue) si è vista un’allusione sia a vincoli di parentela (non cercai consiglio dai miei parenti stretti), sia a vincoli coniugali (non mi lasciai trattenere da mia moglie, rimasta giudea), sia ai vantaggi personali dell’Apostolo (non mi lasciai impressionare dalla considerazione della mia salute, del mio avvenire, della mia reputazione), sia ai membri della chiesa di Damasco (non consultai nemmeno i miei confratelli di Damasco). Queste interpretazioni non si escludono fra loro. L’espressione può indicare assieme Paolo stesso, i suoi parenti, gli amici, il suo ambiente e gli apostoli di Gerusalemme. Questo senso generale si adatta benissimo alla tesi enunciata nei vv. 11, 12. Dopo aver mostrato che Dio solo fu all’origine del suo apostolato, Paolo mette in evidenza che Dio solo fu pure il garante delle sue prime iniziative apostoliche» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 162-166].

Dopo aver detto con chiarezza che non si consultò con carne e sangue, dopo la sua conversione, ora Paolo aggiunge, con altrettanta chiarezza e fermezza che, non salì neanche a Gerusalemme da quelli che erano stati apostoli prima di lui. Perché non fece ciò, non lo sappiamo; allora che cosa voleva dire con ciò?

«L’Apostolo afferma semplicemente che fu così, e per la sua argomentazione questo fatto risulta naturalmente assai opportuno, benché egli con tale constatazione non voglia di certo svalutare la dignità e il rango dei protoapostoli, come dimostrano le sue successive dichiarazioni nel cap. 2.» «In questo non salire a Gerusalemme non c’era il disconoscimento della dignità apostolica degli altri e neppure la negazione della loro autorità apostolica ed ecclesiastica in riguardo all’evangelo, ma soltanto la consapevolezza della sua personale parità di rango apostolico ed ecclesiastico» (Schlier; similmente anche Bonnard). «L’obiezione degli avversari di Paolo era proprio questa, che egli non era dello stesso rango dei protoapostoli. E questo è il punto su cui deve polemizzare. Secondo il Bonnard la formulazione tous pro emou apostolous vuol dire: 1. Paolo attribuisce agli apostoli «prima di lui» l’autorità apostolica; 2. rivendica per sé la medesima autorità, ma non dal punto di vista cronologico ( = pro emou; cfr. anche Romani 16:7: Andronico e Giunia, oi kai pro emou gheghonasin en Crist) = (essi sono stati in Cristo prima di me); 3. nella priorità temporale egli non vede alcuna motivazione per un più alto diritto apostolico. Certo non appare chiaro, «quali criteri si applicassero a un ‘apostolo’ a Gerusalemme», come giustamente osserva lo Schnackenburg; le lettere stesse di Paolo mostrano anche che «Paolo conosce diversi ‘apostoli’ operanti nella prima chiesa, per i quali non c’erano criteri univoci ed unitari. Questa mancanza nella prima chiesa, di un unitario «concetto d’apostolo» può essere stato uno dei motivi per i quali Paolo agli occhi di certa gente non era un «apostolo» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, nota 58].

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Domenico34
00venerdì 28 ottobre 2011 00:05
Chiariti i primi due punti, resta il terzo, cioè l’andata in Arabia. Si è voluto sapere per quali motivi Paolo si recò in quella località e per quanto tempo vi rimase. L’ipotesi secondo la quale l’Apostolo si recò in Arabia per svolgervi un’attività missionaria allo scopo di fondare chiese, è totalmente sconosciuta dal libro degli Atti e dallo stesso epistolario paolino. Se fosse stata questa la sua intenzione, anche se Paolo nelle sue epistole non fa nessun cenno a questa ventilata attività missionaria, ma a Luca che descrive le svariate attività missionarie dell’Apostolo, certamente non gli sarebbe sfuggita.

Pensare poi che l’Apostolo sia rimasto in Arabia da due anni e mezzo a tre, come un tempo di solitudine monacale durante la quale nella meditazione egli si sia addestrato alla sua successiva attività, è un puro quadro fantasioso, dipinto con intenti edificanti sul modello dell’anacronismo veteroecclesiastico. Giustamente lo Mussner chiede:

«Come avrebbe potuto Paolo, che si aspettava come imminenti la fine del mondo e la venuta di Cristo, rimandare così a lungo il compimento della sua missione?» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 165, note 63,64].

Dal momento che si è pensato che Paolo sia andato in Arabia per scopi evangelistici, il suo ritorno in Damasco, lo si è fatto dipendere dall’insuccesso e da una serie di ostacoli, compresa la persecuzione, che egli avrebbe incontrato in quella regione. Andare dietro a queste ipotesi che poi non si possono dimostrare, significa in definitiva girovagare nel campo dell’immaginazione, con la pretesa di raccogliere nuovi elementi. Se si deve obbiettivamente valutare perché Paolo ricorda la sua andata in Arabia, ciò è solamente per dimostrare che egli, dopo la sua conversione, non ritornò a Gerusalemme per allacciare rapporti con la protocomunità e farsi istruire da essa Questa è in fondo la prima preoccupazione dell’Apostolo espressa in questa parte della sua epistola ai Galati.

Quando poi si arriva al (v. 18), il testo afferma che Paolo dopo tre anni salì a Gerusalemme per andare a vedere Pietro e rimase con lui quindici giorni, si apre una parentesi di interpretazioni che non sempre vede tutti unanimi nel valutare questo avvenimento. Non ha tanta importanza stabilire da dove fare partire il conteggio dei tre anni: dalla sua conversione o piuttosto dal suo ritorno dall’Arabia? Il punto su cui i commentatori non sono tutti concordi, riguarda invece l’interpretazione del termine historsai, comunemente tradotto ‘visitare’, che la CEI addirittura traduce ‘interpellare’, facendo così intravedere lo scopo della visita di Paolo a Pietro. Che la CEI rifletta il pensiero della chiesa Cattolica Romana, è ben noto per il contenuto teologico che dà a questo avvenimento.

Tenendo però presente il significato etimologico che ha il termine greco historsai, non si può sostenere l’interpretazione teologica che la Chiesa Cattolica Romana ha costruito sul primato di Pietro. Infatti, historsai, «l’unico passo nel N.T.» viene presentato «come spesso nel greco ellenistico, col senso di frequentare per conoscere [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 166, nota 66]. Sullo stesso piano si colloca G. Schneider, quando dice: «Questo verbo indica un visitare, tra l’altro allo scopo di conoscere, fare la conoscenza» [Cfr. F. Büchsel, GLNT, Vol. IV, col. 1210-1211].

Aggiungere a questa visita lo scopo di fare la conoscenza, di «qualcosa di noto e illustre», come la pensavano Crisostomo, Teodoreto, Girolamo ed Agostino, significava per questi esegeti della chiesa antica, riconoscere che Pietro era il «capo supremo, conosciuto e riconosciuto, dalla chiesa e onorato come tale». Si esce dal contesto quando si pretende di ricavare troppo da historsai, come fanno il Kilpatrick «ricevere informazioni da Cefa», sulla vita e l’insegnamento di Gesù, e il Roloff: che afferma: «Paolo si è coscienziosamente preoccupato di avere accesso a tradizioni attendibili su Gesù e sulla sua attività terrena. Sicché la visita a Pietro (Galati 1:18) è sicuramente servita allo scambio di paradosis» = (tradizione). A giudizio di Mussner, anche se la visita di Paolo avesse avuto quello scopo, non si può dedurre questo dal termine historsai. Quando si tiene conto della durata della visita di Paolo che fu di appena due settimane, lo Schlier, giustamente annota:

«un tempo assai breve, troppo breve per un indottrinamento che potesse influire sull’annuncio dell’evangelo paolino». «Ovviamente si ebbero dei colloqui fra Paolo e Pietro durante questi giorni, ma purtroppo non sappiamo su quale argomento». Inoltre, «Se Paolo in questa visita a Gerusalemme avesse sottoposto il suo evangelo all’approvazione di Pietro, sarebbe stato superfluo che nella sua seconda visita esponesse ai ‘notabili’ l’evangelo che egli ‘annunciava ai gentili, per non correre o per aver corso invano’ (Galati 2:2)» [Cfr. G. Schneider, Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, col. 1792; cfr. anche Alan Cole, l’Epistola di Paolo ai Galati, pag. 68].

Il fatto che Paolo ricordi che dopo la sua visita a Pietro, se ne va nelle regioni della Siria e della Cilicia, e vi rimase per parecchi anni svolgendo la sua attività missionaria, dà maggior peso al v. 23. Il v. 22 afferma che Paolo era sconosciuto personalmente dalle chiese della Giudea. Secondo quello che dice Luca in Atti 9:22-28, Paolo venne messo in salvo dalla minaccia di morte che i Giudei avevano ideato. Giunto a Gerusalemme, egli voleva unirsi ai discepoli, ma non fu possibile per la paura che tutti avevano, non potendo credere che egli fosse un discepolo. Ci volle la mediazione di Barnaba, per dissipare ogni dubbio e paura, nel raccontar loro come Paolo aveva visto il Signore, sulla strada di Damasco, e come in seguito aveva parlato con franchezza nel nome di Gesù. Davanti ad una simile assicurazione, gli apostoli non ebbero nessuna difficoltà ad accoglierlo, così che egli

rimase con loro a Gerusalemme, andando e venendo, e parlava con franchezza nel nome del Signore Gesù (v. 28).

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Domenico34
00sabato 29 ottobre 2011 00:15
La fede che Paolo annunziava, e che prima egli stesso devastava, non aveva altro significato se non quello di ‘religione cristiana’, la cui natura, in contrasto con la religione giudaica legalistica, si esprime appunto come pistis (cfr. anche 3:23; 6:10; Atti 3:16; 6:7; 13:8; 14:22; 16:5; Col. 1:23).

2) Galati 2:16:


sapendo che l’uomo non è giustificato per le opere della legge ma per mezzo della fede [ pistes] in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù, affinché fossimo giustificati mediante la fede di Cristo e non mediante le opere della legge, poiché nessuna carne sarà giustificata per mezzo della legge.

Il secondo riferimento alla fede, si trova in un contesto polemico tra Paolo e Pietro, circa la ferma e decisa posizione che il primo prese nei confronti del secondo, quando lo riprese pubblicamente in occasione della sua venuta in Antiochia per non aver camminato rettamente secondo la verità dell’evangelo (v. 14). Per meglio valutare la fede, di cui parla chiaramente il (v. 16), si rende necessario ricordare, anche criticamente, tutta la storia dell’avvenimento di Anticohia.

I vv. da 11-14, sono stati oggetto di lunghe discussioni tra i vari commentatori, antichi e moderni, per cercare di spiegare, l’incidente’, come viene definito, che sorse tra Pietro e Paolo nella città di Antiochia. Le valutazioni che sono state fatte, ovviamente, hanno messo in evidenza punti di vista diversi, specie quando si è toccato il punto polemico intorno alla supremazia di Pietro, come principe degli apostoli, e da vicino l’infallibilità del papato, specie ad opera di M. Lutero. F. Mussner, nel suo Commentario Teologico all’Epistola ai Galati, in un EXCURSUS, ha tracciato la storia dell’esegesi di Galati 2:11-14. In esso vengono elencati, tra i più significativi, quelli che sono intervenuti, a cominciare dalla chiesa antica per finire agli esegeti più recenti. Poiché non tutti hanno sottomano il commentario in questione, daremo un succinto resoconto, perché ognuno sappia come sono andate le cose e come il testo di Galati 2:11-14 è stato interpretato, in modo che si possono fare le dovute riflessioni per accettare o rifiutare quello che è stato detto.

Si comincia col chiedersi se «l’incidente antiocheno sia avvenuto prima dell’accordo geresolimitano. Lo Zahn ritiene che quell’incidente sia avvenuto prima dell’accordo stipulato a Gerusalemme. Egli argomenta:

«È impensabile che Pietro si recasse in un territorio di missione tra i pagani senza un’urgente necessità e che Paolo, se Pietro avesse fatto ciò, non lo accusasse di violazione del trattato e non lo giudicasse alla stregua di quei simpatizzanti di Giacomo (v. 12), venuti ad Antiochia subito dopo, assimilandolo ai falsi fratelli e spie del v. 4. Anche il giudizio più benevolo non avrebbe potuto cambiar nulla in un fatto: Pietro con la sua venuta indesiderata ad Antiochia avrebbe provocato nella comunità locale quegli abusi preoccupanti, la cui prevenzione era lo scopo primario dell’accordo sulla reciproca indipendenza dei due settori della chiesa»; perciò lo Zahn pensa che la visita di Pietro alla capitale siriana debba «collocarsi nel tempo anteriore al concilio apostolico e al primo viaggio missionario di Paolo», quando «Paolo e Barnaba con altri maestri giudaici erano a capo della comunità antiochena». È proprio vero (sostiene il Gaechter) che noi non sappiamo né quando né perché Pietro si recò ad Antiochia; al riguardo le fonti non dicono nulla. Anche Paolo non è interessato a queste questioni, ma soltanto a ciò che accadde ad Antiochia con la venuta di Pietro. Un’unica cosa si può dire, cioè che Paolo in quel tempo «è ancora in rapporto con Barnaba e con la comunità antiochena» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 169-171, note 85, 88].

Il testo precisa che quando Pietro venne in Antiochia, io gli resistei in faccia, perché era da riprendere (v.11).

[ kata prospon ] non significa secondo le apparenze, quasicché si debba concludere che vi sarebbe stato un litigio apparente, che Paolo e Cefa avrebbero inscenato ad ammaestramento della comunità, ma nel senso di presente di persona, a faccia a faccia [E. Lohse, GLNT, XI col. 430; F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 229, nota 15].

Perché Paolo assume un atteggiamento severo e fermo nei confronti di Pietro, viene subito specificato.

Infatti prima che venissero alcuni da parte di Giacomo, egli mangiava con i gentili; ma quando giunsero quelli, egli si ritirò e si separò, temendo quelli della circoncisione (v. 12).

Quel mangiare di Pietro con i gentili, (si intende con gli etnicocristiani) non si sa esattamente per quanto tempo venne fatto. Non pensiamo che quel mangiare, si riferisca alla Cena del Signore (così intendono ad es. Lietzmann, Schlier), cosa che G. Kittel obietta (secondo noi giustamente) contro questa ipotesi: «Se in questa [nella Cena del Signore] si tratta di spezzare e mangiare il pane, la situazione è diversa da quella di un pasto in cui si mangia carne» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 231, nota 19].

Anche se il testo biblico non specifica di che cosa si trattasse, è più coerente pensare alla comunione e partecipazione di mensa, dove si potevano benissimo mangiare cibi che non era permesso a un giudeo di mangiare, secondo le norme della legge di Mosè. Paolo non trova niente da obiettare e tanto meno da rimproverare a Pietro per questa sua partecipazione a mangiare con gli etnicocristiani; trova invece validi motivi per richiamarlo severamente, perché l’ha fatto in vista di quelli di Giacomo, cioè, se Pietro non avesse visto quei giudeocristiani proveniente da Gerusalemme, non solo non avrebbe cessato di mangiare con gli etnicocristiani, ma neanche avrebbe temuto quelli della circoncisione. Il fatto che egli abbia avuto timore dai confidenti di Giacomo arrivati nella Comunità di Antiochia alla sua insaputa, questo ha portato diversi a riflettere.

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Domenico34
00domenica 30 ottobre 2011 00:04
O. Cullmann, per esempio,
«vede in [ phoboumenos ] qualcosa di più di una reazione psicologica di Pietro; per lui il «timore» è segno di una dipendenza amministrativa di Pietro dall’autorità gerosolimitana, più precisamente dal fratello del Signore, Giacomo, al quale nel frattempo sarebbe stato trasferito il primato nella chiesa» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 235; O. Cullmann, GLNT, Vol. X. col. 152,153, nota 56. «Il maggiore argomento con cui gli studiosi cattolici cercano di sminuire la posizione preminente di Giacomo riguarda l’espressione phoboumenos di Galati 2:12. Secondo loro, phoboumenos significherebbe qui che Pietro temeva delle difficoltà (da parte, in questo caso, di un’inferiore). Ma tale interpretazione è in contraddizione con l’uso costante del verbo che, negli altri passi, indica sempre il timore verso un superiore o di un’istanza superiore»].

La cosa che preoccupa Paolo, davanti all’atteggiamento di Pietro, non è tanto che egli si sia ritirato e separato dagli etnicocristiani, quanto che egli con quel suo comportamento, oltre a creare un serio problema nella vita della Comunità per ciò che riguarda l’unità della chiesa, trascina anche Barnaba dietro questa ipocrisia, tutto a scapito della verità dell’evangelo, dato che essi non stanno camminando rettamente secondo questa verità (v. 14).

In vista di quello che si prospetta davanti a Paolo, il rispetto della posizione e della persona di Pietro, passano in secondo piano, dato che il rimanere saldi alla verità dell’evangelo, vale più di ogni altra cosa Perciò, Paolo dice a Pietro, ( il greco ha Cefa): «Se tu, che sei Giudeo, vivi alla gentile e non alla giudaica, perché costringi i gentili a giudaizzare?» (v. 14).

STORIA DELL’ESEGESI DI GALATI 2:11-14

La storia dell’esegesi di Galati 2:11-14, tratta chiaramente della venuta di Pietro ad Antiochia e, da parte di Clemente d’Alessandria, (prima del 215) si dice che «il Cefa di Galati 2:11 non è l’Apostolo Pietro, ma un omonimo, facente parte della schiera dei 70 discepoli di Gesù» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 246. Si dovrebbe inoltre ricordare che non è solamente il v. 11 che parla di Kēfa, ci sono anche: 1:18; 2:9,14].

Se la tesi di Clemente d’Alessandria fosse esatta, si dovrebbero considerare sullo stesso piano anche: 1:18; 2:9,14, dato che il greco ha per questi testi Kēfa. Se poi si considerano: (Giovanni 1:42; 1 Corinzi 1:12; 3:22; 9:5; 15:5) in cui il greco ha ancora Kēfa, testi che indiscutibilmente parlano dell’Apostolo Pietro, non vediamo come la tesi di Clemente possa reggere. Dato per certo che il N.T. non conosce altri con questo soprannome, i riferimenti di 2:11, come anche 1:18; 2:9,14, sono da attribuirsi indiscutibilmente all’Apostolo Pietro.

Anche Girolamo, Crisostomo e Gregorio Magno assunsero una posizione critica nei riguardi di questa opinione. Per Tertulliano (160-220), quando considera il caso antiocheno, si esprime nel seguente modo: «Non fu Pietro a fare in Antiochia un passo falso, ma Paolo, che era privo di esperienza cristiana, ipersensibile (a causa degli attacchi alla sua dignità apostolica) un neoconvertito, eccessivamente zelante». Tertulliano, giudicando Paolo un «neofita», aveva dimenticato che al tempo dell’incidente di Antiochia era già cristiano da circa 14 anni [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 246, note, 12,16].

Giovanni Crisostomo (344/54-407) dedicando all’episodio una predica particolare, osò dire che i due apostoli in Antiochia, per il bene degli spettatori, organizzarono addirittura un conflitto apparente, così che Pietro svolse la parte del biasimato e tace a ragion veduta di fronte ai rimproveri di Paolo; con questa tattica egli non ha bisogno di rimproverare i giudeocristiani, ma lascia che ciò sia fatto da Paolo. Giustamente l’Overbeck, osserva:

«Che con simile trattamento del testo paolino le figure degli apostoli appaiano come marionette mosse dalle funi intrecciate coi concetti astratti dei dogmatici, è senz’altro vero. Solo che qui questo rimprovero non va rivolto particolarmente o addirittura esclusivamente all’esegesi di Origene, ma in generale a tutta l’esegesi ecclesiastica del suo tempo» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 247, nota 18]. Agostino (354-430), il comportamento di Pietro «era veramente riprensibile» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 251-252]. Per Lutero, infine, l’ipocrisia di Pietro ad Antiochia fu ancor più di un «errare»; essa fu un peccato grave [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 251-252].

Per gli autori moderni che si sono interessati per la vicenda antiochena, possiamo riassumerli nel seguente modo. Secondo lo Zahn il rimprovero di Paolo a Pietro si riferisce direttamente solo a questo: «egli costringerebbe i pagani ad adottare un’usanza giudaica. Separandosi dalla commensalità con loro, Pietro, benché da parte sua non ne avesse l’intenzione e la relativa conseguenza ancora non apparisse, esercitò sugli etnicocristiani una costrizione morale che in definitiva li doveva indurre ad adottare usanze giudaiche... Che Pietro, forse senza volerlo e senza saperlo, tendesse a questo scopo, è indicato come qualcosa di quasi incomprensibile già dalla formulazione della domanda [«come fai tu a costringere i pagani a giudaizzare?»], e ancor più dalla protasi [«Se tu, pur essendo un giudeo, vivi in modo pagano e non giudaico»]... Può anche darsi che Pietro abbia cambiato il suo atteggiamento solo per ciò che concerneva il mangiare coi pagani, e che, per il resto, continuasse — trattando con loro — a lasciar da parte qualche scrupolosità giudaica. Ma poiché Pietro di propria iniziativa e radicalmente... per motivi superiori si era emancipato dagli usi giudaici, lo colpisce sia il rimprovero dell’inconcepibile incoerenza sia quello della deplorevole ipocrisia» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 258].

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Domenico34
00domenica 30 ottobre 2011 23:17
Secondo il Lagrange il termine hupocrisis in Galati 2:13 non si deve tradurre «con ‘ipocrisia’, dove s’insinua un’idea spregevole: fingere un sentimento che non si prova per trarne un vantaggio. Questo non è il movente di Pietro» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 259]. Resta tuttavia il fatto che Pietro non ha conformato la sua prassi alle proprie convinzioni. Egli si credeva affrancato dalla legge, poiché mangiava con i gentili, e Paolo non suppone minimamente che lo abbia fatto contro la sua coscienza. Dunque egli aveva preso una risoluzione e non ha il coraggio di difendersi. Se ora si ritira, fa credere di non aver agito a ragion veduta, si ritratta di fatto e la conclusione era naturalmente sottolineata dai giudeocristiani di stretta osservanza che, senz’alcun dubbio, non tralasciarono di contribuire al mutamento repentino allegando presso i ritardatari l’autorità di Pietro... Ai gentili convertiti non rimaneva che Paolo... Solo Paolo era rimasto incrollabile» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 263-265].

Secondo lo Schlier
«nella persona di Pietro ora Paolo affrontò un avversario simile a quelli che si trovavano nelle comunità galate e in Gerusalemme. Solo così si capisce l’accentuazione dell’asprezza e dell’energia nell’opposizione... Pietro condivideva la medesima dottrina di lui, almeno per ciò che riguardava i principi fondamentali. Ma ora nella prassi egli voleva una chiesa di giudeocristiani che fosse separata dalla chiesa dei pagani nella visibilità della mensa comune. Così, praticamente, o negava che il Cristo Gesù avesse infranto la legge che divideva il cosmo e che i giudei e pagani vivessero totalmente e pienamente grazie al suo sacrificio, o — ciò che qui è più probabile — negava che la realtà della croce e della risurrezione di Cristo Gesù si renda presente nell’unità visibile di coloro che partecipano al suo corpo e quindi sono il suo corpo. Contro una tale negazione pratica e oggettiva della verità interviene Paolo. Pertanto si giunge a un dibattito pubblico, o meglio a una pubblica accusa di Paolo contro Pietro. Nella chiesa lo scandalo pubblico dev’essere biasimato ed eliminato pubblicamente» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 265-267].

Per il Gaechter, che cerca anzitutto di determinare il genere letterario di Galati 2:11-14 e vorrebbe chiamarlo «accusa eccitata». «Ovviamente Paolo era consapevole, benché probabilmente non con tutta lucidità, di scrivere in stato di eccitazione, e per questo supponeva anche di essere interpretato in modo corrispondente». Questo autore constata «tre qualità» nell’accusa di Paolo: «L’incompletezza dell’accusa, l’unilateralità della sua esposizione e la colorazione che l’accusa riceve dal suo temperamento». Il fatto poi che anche Barnaba partecipi alla simulazione assieme ad altri giudei, per il Gaechter «oltrepassa ogni verosimiglianza; qui parla l’accusatore stizzito, che non pondera le sue parole». Poi aggiunge: «È impensabile che tutto questo gruppo di uomini potesse essere globalmente accusato della medesima debolezza morale e della stessa scarsezza d’intelligenza, e così viene anche il giudizio su Pietro, giacché egli agì non diversamente da loro».

A questo punto, giustamente il Mussner chiede:
«Ma qui l’accusa non viene ritorta? Infatti, chi ha indotto «gli altri ad unirsi alla simulazione», se non Pietro col suo comportamento?». Secondo il Gaechter, anche le dichiarazioni di Paolo in Galati 2:15-21 «non sono espressioni di vittoria..., ma una prova che la sua sconfitta aveva lasciato nella sua anima una piaga ulcerosa». Se Paolo scrisse ai Galati parecchi anni dopo dell’evento antiocheno, sostiene il Gaechter, era dovuto dal fatto che Paolo allora stava attraversando «evidentemente un periodo d’irritazione nervosa». Davanti a queste precise affermazioni che fa il Gaechter, Mussner, risponde: «La ragione per cui Paolo allora, in Antiochia, ebbe «un cuore soltanto per gli etnicocristiani e non anche per i giudeocristiani» (per riportare letteralmente le parole del Gaechter), stando alla testimonianza di Galati non propana sicurissimamente da «irritazione nervosa», ma dal fatto che Paolo aveva compreso che ad Antiochia era in gioco la verità dell’evangelo (cfr. 2:14). È poi molto dubbio che ciò si possa designare come implicazione «nella logica delle sue premesse». Non era la logica delle sue premesse, ma la «logica» dell’evangelo quella a cui Paolo doveva obbedire, affinché l’evangelo non venisse «stravolto» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 259].

Secondo il Munck (anche se egli non contesta che i tinas apo Iakbou di Galati 2:12 fossero «alcuni giudeocristiani di Gerusalemme e che essi costituissero il motivo «per il quale Pietro si ritrasse dai pasti»), nondimeno pensa che i giudaizzanti, cioè quelli che contestavano l’autorità apostolica di Paolo e che erano e veri oppositori dell’Apostolo, erano gli etnicocristiani. «I giudaizzanti invece sono «etnicocristiani e — dal loro erroneo punto di vista giudaico — esigono che tutti i pagani che si fanno accogliere nella chiesa siano circoncisi e tenuti ad osservare la legge.. Dunque la differenza fra Pietro e i giudaizzanti consiste sostanzialmente in questo, che Pietro non pone alcuna esigenza — solo indirettamente il suo contegno ha l’aspetto di una costrizione (2:14) —, ma partecipa il più possibile alla vita comunitaria degli etnicocristiani, mentre i giudaizzanti non riescono a riconoscere la chiesa dei gentili come cristianesimo e perciò pretendono che all’evangelo paolino vengano ‘aggiunte’ tanto la circoncisione e l’osservanza della legge, quanto altre usanze. Nell’esegesi questa differenza ci può servire come criterio per distinguere esattamente ciò che viene detto a Pietro e ciò che in realtà è diretto ai giudaizzanti». Se si pensa però al discorso che Pietro tenne al concilio apostolico di Gerusalemme, Paolo in Galati 2:14, cita veramente Pietro. In Galati 2:17 si enuncia «qualcosa che ha validità generale per il giudeocristiano che cerca la giustizia in Cristo [come fa anche Pietro]: anch’egli risulta peccatore». Se s’intende il v. 17 così, «allora a partire da questo versetto non si pensa più a Pietro. Paolo non pensa più all’episodio di Antiochia. Esiste invece la possibilità che qui egli abbia presenti i giudaizzanti». Tenuto conto del contesto, pensa il Munck, «non vi può esser dubbio che il v. 18 sia rivolto agli etnicocristiani giudaizzanti, dei quali però non si può dire che proprio loro abbiano ricostruito ciò che prima avevano distrutto».

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Domenico34
00lunedì 31 ottobre 2011 13:04
Facendo le sue considerazioni su quello che Munk ha detto, giustamente il Mussner scrive:
«Gli etnicocristiani, quand’anche dovessero giudaizzare, non ricostruiscono ciò che prima hanno «abbattuto»; convertendosi, essi non avevano bisogno anzitutto di «demolire» la legge, proprio perché in qualità di pagani non avevano vissuto secondo la legge Qui si rivela tutta la fragilità delle costruzioni del Munck, che portano anche a una completa minimizzazione del conflitto antiocheno fra Paolo e Pietro. Inoltre, da Galati 2:12 risulta chiaramente che i «giudaizzanti» erano di fatto giudeocristiani che indussero Pietro a lasciare, temporaneamente e contro la sua migliore convinzione, la retta via che conduce alla verità dell’evangelo. Il destinatario principale del «discorso» di Paolo in Galati 2:14-21 è Pietro, come risulta inequivocabilmente dalla precisazione del v. 14b (su = Pietro!)» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 263-265].

Secondo lo Schmithals (che esprime diversamente le cose), precisa che «noi veniamo a conoscere quegli «effettivi avvenimenti d’Antiochia... solo nell’ambito di una relazione molto finalizzata». Benché i giudeocristiani continuassero a vivere in conformità della legge, il «comportamento di Pietro... non contraddiceva del tutto alla lettera dell’accordo di Gerusalemme; ma contrastava con la sua intenzione», perché questo accordo comportava effettivamente anche certe implicazioni riguardanti il comportamento concreto dei giudeocristiani e degli etnicocristiani («noi ai pagani, essi invece alla circoncisione»). Che in modo particolare Pietro, il capo della missione ai giudei fedeli alla legge, fosse coinvolto in questi fatti e che questi accadessero nella famosa metropoli di Antiochia, dev’essere apparso particolarmente preoccupante ai gerosolimitani», soprattutto anche per le conseguenze che eventualmente dalla comunione di mensa dei giudeocristiani con gli etnicocristiani in Antiochia sarebbero derivate per le comunità giudeocristiani di Giudea, dove si potevano temere rappresaglie da parte del giudaismo.

I messaggeri di Giacomo vennero ad Antiochia a causa di questi timori — e anche Pietro li condivise (phoboumenos tous ek peritoms = (camminare rettamente) secondo lo Schmithals significa «per timore dei giudei», non dei giudeocristiani). «Ciò considerato, non si potrà contestare a Pietro l’onestà e coscienziosità della sua decisione». Davanti a questa visuale che lo Schmithals ha voluto tracciare, la domanda di Mussner, è più che pertinente: «Ma allora, perché Paolo affronta così aspramente Pietro, non gli uomini di Giacomo e gli altri giudeocristiani?». «Di qualunque genere possano essere i motivi personali della condotta di Pietro, Paolo teme evidentemente che il suo ritorno sotto la legge possa essere inteso dai pagani come una decisione teologica in favore della giustizia acquisibile con la legge.. solo in vista delle conseguenze temute per le sue comunità l’incoerenza nel comportamento di Pietro provocò la sua critica. Ciò premesso, si spiegano facilmente anche gli altri particolari dell’argomentazione paolina».

La conclusione che fa lo Schmithals è: «Quantunque Paolo in Galati 2:11 si mostri soprattutto interessato a riferire sulla controversia con Pietro, non si può tuttavia mettere in dubbio che l’argomento vero e proprio di quell’incidente in Antiochia fu il suo disaccordo con Barnaba. L’irritazione contro Pietro fu provocato in gran parte dalla conseguenza alla quale il suo comportamento costrinse proprio Barnaba. Non a caso Luca riferisce soltanto del conflitto fra Paolo e Barnaba; questo è il conflitto che nell’episodio antiocheno è rimasto impresso nella memoria della cristianità».

Che Paolo, sostiene lo Mussner, in effetti consideri colpevole anche Barnaba, si deduce dal plurale orthopodousin in 2:14, nel quale è incluso anche Barnaba; ciononostante riuscirebbe strano che poi tutta l’indignazione di Paolo si sfoghi soltanto su Pietro e che di Barnaba personalmente non si faccia il minimo cenno. Per questo, conclude Mussner, «l’ultima tesi dello Schmithals dovrà essere contrassegnata da un punto interrogativo» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 265-267].

L’ultimo punto, sul quale ritengo importante conoscere, è costituito dal modo di intendere dello Lönning, il quale vede nel testo di Galati 2:11 il «problema fondamentale di teologia controversistica». Dopo un esame accurato della storia dell’esegesi di Galati 2:11, il Lönning passa a considerazioni di fondo. Egli capisce assai bene che la storia dell’interpretazione di Galati 2:11 spesso offre pure la risposta attualizzante alle questioni di fronte alle quali si vede posta un’epoca nella sua problematica teologica. Ovviamente questo giudizio vale in particolare per il periodo dell’«insurrezione» riformatoria contro la chiesa papale. L’esegesi cattolica mirò più volte, fino ai nostri giorni, a giustificare Pietro nei confronti dell’attacco di Paolo.

Il Lönning riconosce che il problema fondamentale di Galati 2:11 è questo: qual’è l’essenza dell’«apostolicità»? Egli osserva: «Nel nostro caso il quadro viene drasticamente complicato dal fatto che il testo apostolico parla di una controversia fra due apostoli, in un contesto in cui si sviluppa il tema dell’apostolato. Ancor più: la controversia apostolica coinvolge proprio le due persone che nella storia della chiesa — l’uno in forza della sua posizione centrale nella Scrittura apostolica, l’altro per il predominio della Tradizione apostolica — figurano per così dire come prototipi». Si potrebbe col Crisostomo obbiettare che un dissidio isolato non si può davvero intendere come un «conflitto duraturo», che dia avvio a una permanente posizione di problemi. Ma lo stesso Crisostomo non avverte che, essendo quel celebre conflitto diventato Scrittura in una graf che per la chiesa ha valore canonico, anche la problematica di fondo che emerge è divenuta nella chiesa oggetto di continua meditazione; vale a dire: una simile situazione conflittuale può nella chiesa ripetersi. Richiamato questo principio, come si deve interpretare il conflitto antiocheno? Secondo il Lönning esso riguarda questa problematica: continuità e discontinuità nella vita della chiesa-Salmo. Allora tutta l’argomentazione dell’Apostolo in Galati 1 e 2 mostrerebbe che la «continuità della chiesa è inclusa in h altheia tou euaggeliou (2:14)». «Col nostro testo — cioè col testo considerato nella storia dei suoi effetti — si ha un possibile punto d’incrocio. La chiesa non è direttamente accessibile né alla considerazione empirica né alla deduzione speculativa.

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Domenico34
00martedì 1 novembre 2011 00:10
Ma alla ‘verità dell’evangelo’ come continuità della chiesa corrisponde l’interpretazione della Scrittura come nota ecclesiae». Ma se alle notae ecclesiae appartiene anche l’interpretazione della Scrittura, allora chiesa in senso specifico si ha sempre là dove viene applicata la «verità dell’evangelo». Ciò significa: «Non è la chiesa che rende evangelo l’evangelo, ma è l’evangelo che rende chiesa la chiesa». «Quand’anche tutte le Scritture bibliche e l’intero corpus degli scritti confessionali vengano recitati con la massima fedeltà al testo, la chiesa non sta in piedi se attivamente o passivamente, parlando o tacendo, in concreto si rinnega la verità dell’evangelo...».

Il testo di Galati 1 e 2 dev’essere continuamente calato nella rispettiva situazione della chiesa perché possa svolgere la sua funzione critica, eventualmente nei confronti di tutte le semplici traditiones humanae esistenti nella chiesa-Salmo Così per il Lönning Galati 1 e 2 può essere il testo che nella chiesa ha la funzione di una permanente critica della tradizione e proprio per questo può anche essere un ausilio sulla via che conduce all’Una Sancta.

In questo modo d’intendere Galati 1 e 2 l’evangelo, che per Paolo è un’entità indipendente dall’autorità umana, assume un compito che relativizza le persone, siano esse Pietro o Paolo. Per quanto istruttiva e interessante sia la storia dell’esegesi di Galati 2:11, la conseguenza da trarne dovrebbe essere quella che Paolo stesso ha dedotto da tutta la polemica con i suoi avversari: quale sia la persona interessata, al di sopra di tutte sta l’evangelo di Cristo; perché Dio non bada al prestigio personale (Galati 2:6).

È servitore dell’evangelo colui che valorizza la verità evangelica. Visto così, Galati 2:11, contiene effettivamente un «problema fondamentale di teologia controversistica», che dev’essere ripensato in egual modo da tutte le chiese. Dall’evangelo, quale lo intende Paolo — come kerygma della morte salvifica e della risurrezione salvifica di Gesù dai morti —, non si può deviare né verso «destra» né verso «sinistra». Un deviamento verso «sinistra» sarebbe ad es. una rinuncia al Kerygma in favore d’una semplice «solidarietà umana», un deviamento verso «destra» potrebbe essere un culto delle persone di chiesa a tutto svantaggio dell’evangelo. Nella chiesa dev’essere sempre possibile «opporsi in faccia all’uomo-roccia», quand’egli non «procede per via diretta verso la verità dell’evangelo». Proprio il coraggio dell’Apostolo Paolo ha salvato allora l’unità della chiesa e l’ha preservata dal pericolo di snaturarsi. Tale coraggio deve permanere» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 267-269].

Dopo aver riferito sulla storia dell’esegesi di Galati 2:11-14, analizziamo attentamente il v. 16 del quale ancora non abbiamo parlato, per meglio comprendere e valorizzare la fede. L’Apostolo Paolo comincia col dire di sapere (gr. eidotes) che l’uomo non è giustificato per le opere della legge ma per mezzo della fede in Gesù Cristo. Il suo modo di esprimersi però non è singolare, come per es.:

«Io so che...», ma un collettivo che include anche Pietro, Barnaba e tutti gli altri giudei diventati cristiani. Appare chiaro quindi che questo sapere, non si riferisce a tutti i giudei, perché di fatto il giudeo che non è diventato cristiano, questo non lo «sa». Dunque il participio eidotes esprime qui la «conoscenza di fede». «In ogni caso, per l’Apostolo la fede comporta un (nuovo) sapere. Fede significa per lui anche conoscenza di fede! Quindi questo «sapere» «non è l’accesso a una verità generica, per principio disponibile a chiunque, ma una conoscenza resa possibile storicamente, ossia rivelata per la prima volta solo nell’avvenimento-Cristo» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 269-272].

Quello che Paolo disse a Pietro con estrema fermezza e determinazione, (più tardi lo scriverà nella lettera ai Romani, precisamente in (Romani 3:20,28), cioè che l’uomo è giustificato solamente per la fede in Cristo Gesù e non per lo opere della legge, prova quanto sia giustificante il suo intervento, non per difendere la sua persona e con essa la sua apostolicità, (anche se indirettamente tendeva a provare l’autorità del suo apostolato divino, contestato dai giudaizzanti) ma perché la verità dell’evangelo che egli stesso proclamava, non avesse a subire nessun danno ma che rimanesse ferma e incrollabile davanti ad ogni forma di deviazione.

Per Paolo, che aveva ben compreso quest’aspetto della teologia cristiana, non c’è nessuna differenza di parlare del giudeo o del pagano in questa prospettiva globale. Infatti, il termine anthropos che egli adopera, è adatto in effetti a riferirsi a tutti gli uomini e a metterli sullo stesso piano, anche se gli uomini non appartengono allo stesso strato sociale e non hanno la stessa forma religiosa che praticano.

Queste affermazioni l’Apostolo le può fare ora, e non parla come il vecchio fariseo imbottito delle rigide convinzioni basate sull’osservanza della legge mosaica e delle tradizioni dei suoi padri, ma come persona che si è convertita a Gesù Cristo, dal quale gli è stata rivelata questa importante e fondamentale verità evangelica. Dal tono che l’Apostolo usa, sembrerebbe che egli dia sfogo al suo carattere forte considerandosi superiore a Pietro in materia di dottrina. Ma se si considera il discorso dell’Apostolo in relazione al comportamento poco coerente di Pietro, che aveva assunto davanti agli etnicocristiani quando si era separato da loro e non partecipava più alla comunione di mensa, si capisce subito che lo scopo di Paolo non è quello di ergersi su Pietro, ma bensì di far vedere allo stesso Pietro quanto egli fosse incoerente, sia con la sua stessa convinzione e sia soprattutto con la verità dell’evangelo.

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Domenico34
00mercoledì 2 novembre 2011 00:02
Dal testo che abbiamo esaminato, risulta chiaramente che per un certo tempo, (non si sa esattamente per quanto) Pietro non ebbe nessuna difficoltà a mangiare assieme con gli etnicocristiani di Antiochia, dimostrando apertamente sia a Paolo che agli atri, giudeocristiani e etnicocristiani, che lui in qualità di giudeocristiano, non aveva niente in contrario a condividere con questi cristiani il loro modo di vivere. Questo naturalmente perché Pietro l’aveva capito chiaramente in precedenza, cioè con l’evento della casa di Cornelio (Atti 10).

Se poi il discorso si sposta su quello che egli sostenne al concilio apostolico di Gerusalemme (Atti 15:7-11), diventa più chiaro che l’Apostolo non condivideva l’opinione dei giudaizzanti, che avrebbero voluto un taglio netto col modo di vivere degli etnicocristiani, a meno che quest’ultimi non fossero stati disposti ad accettare la pratica della circoncisione e l’osservanza della legge di Mosè. Si nota subito che la posizione di Pietro era uguale a quella di Paolo. Però, quando nella chiesa di Antiochia arrivarono alcuni da parte di Giacomo, Pietro ebbe paura di loro, e, facendo un voltafaccia con la sua stessa convinzione, si ritirò dagli etnicocristiani e non si unì più alle loro mense. Anche se questo atteggiamento fu visto da tutti e lo stesso Barnaba venne trascinato dalla loro ipocrisia, non tutti però si resero conto che Pietro, (in qualità di capo per la missione dei giudeocristiani) non stava comportandosi secondo la verità dell’evangelo. Fu Paolo che vide questo e fu lui che ebbe il coraggio di rimproverare Pietro davanti a tutti. Quindi, le parole del (v. 16), non sono indirizzate ai giudeocristiani, come qualcuno suggerisce, ma a Pietro.

Quando Paolo fa riferimento alle opere della legge, per ottenere la giustificazione, giustamente afferma che per tali opere, l’uomo, sia giudeo che pagano, non può mai concquistarsi la giustificazione. Il non mangiare assieme ai gentili convertitesi al cristianesimo, era appunto l’osservanza di quello che diceva la legge intorno a certi cibi che i gentili mangiavano liberamente e che ai giudei era proibito. Ma che cosa s’intende precisamente con queste opere della legge che non procurano la giustificazione? Considerando il contesto di Galati 2:16 e anche altri passi della lettera, quali (3:2,5,10)

«si ricava che come opere di tal genere non si vogliono affatto indicare soltanto le prescrizioni rituali del giudaismo, compresa la circoncisione, ma le opere dell’uomo deducibili dalla totalità del nomos, dalla torà (cfr. specialmente 3:10-12 con l’espressione del v. 11: en mon [ ! ] oudeis dikaioutai para the) = (mediante la legge, nessuno è giustificato davanti a Dio). Questa constatazione è confermata dalla lettera ai Romani (cfr. specialmente 3:20,27; 4:2; 9:11,31; 11:6). «Le opere della legge» contengono per Paolo un principio religioso, che viene annullato dalla norma della grazia e della fede instaurata escatologicamente in Cristo. Solo un’esegesi ingenua potrebbe negare questi risultati e limitare «le opere della legge» ai precetti rituali giudaici.

La giustificazione avviene per fede: ciò è valevole per sempre (presente acronico dikaioutai in Galati 2:16a) e — secondo l’esegesi scritturistica di Paolo — è già stato valido da sempre, come mostra l’esempio di Abramo (cfr. Galati 3:6-12; Romani 4:2,23). Al posto del principio della legge, che comunque non portava alla giustificazione (cfr. Galati 3:11), subentra il principio della fede (dia pistes Christos Isuo). Qui la preposizione dia qualifica la fede come la via alla giustificazione per l’uomo, col che però la pistis non dev’essere intesa a sua volta come (nuova) «opera», e lo dimostra la netta antitesi «fede» / «opere della legge». La fede è la risposta appropriata a una concreta offerta di grazia da parte di Dio, espressa mediante il genitivo oggettivo Christou Isou che segue pistes. La fede giustificante ha il suo fondamento oggettivo in quell’evento salvifico che è inscindibilmente congiunto con la persona e con l’opera redentrice di Gesù Cristo; essa perciò non è una fede qualsiasi, ma, detto in forma pregnante, «fede in Cristo Gesù», come l’Apostolo si affretta a precisare» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 274, nota 6].

La seconda parte del (v. 16), mette in evidenza, sia per la vita di Paolo come anche per quella di Pietro (per non parlare di tutti gli altri giudei convertitisi) che essi hanno creduto in Cristo Gesù, affinché fossero giustificati mediante la fede di Cristo. È chiaro quindi, dove vuole arrivare l’Apostolo con queste sue parole: mettere Pietro davanti alla realtà della sua salvezza. In altre parole Paolo voleva dire a Pietro: Se tu sei salvato = giustificato, lo sei solamente per la fede in Cristo Gesù e non in virtù delle opere della legge. Questa è una verità che deve essere ribadita continuamente da ogni predicatore del vangelo, per non deviare dalla verità dell’evangelo.

A questo punto non ci resta altro che fare qualche osservazione sulla vita di Pietro per ciò che riguarda la polemica che ci fu tra lui e Paolo. Dall’epistola ai Galati come del resto di tutte le altre epistole paoline, non si dice niente della possibile reazione che avrebbe potuto avere Pietro nei confronti di Paolo. Ha capito Pietro il valore e il significato dell’intervento di Paolo? Ha conservato nel suo cuore risentimenti nei suoi confronti? Se non ci fosse niente nel N.T. che potesse rispondere alle due domande, non sapremmo veramente proprio nulla di come andarono le cose tra Pietro e Paolo. Però, un riferimento nella (2 Pietro 3:15), che parla specificatamente di Paolo, dicendo addirittura: il nostro caro fratello Paolo, questo potrebbe essere la chiave per dare una risposta alle nostre due domande.

A questo punto si presenta il problema della paternità, cioè se la 2 Pietro sia stata scritta dall’Apostolo o sia stato un’altro a farlo, usando il suo nome. Siccome il nostro scopo non è quello d’intrattenerci su questo dibattuto problema, possiamo rimandare il lettore alle opere specifiche [Cfr.Karl Hermann Schelkle, Le lettere di Pietro e di Giuda, pagg. 288-294 e di Everett F. Harrison, La Parola del Signore, Vol. 2 pagg. 423-434].

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00mercoledì 2 novembre 2011 00:03
Dal testo che abbiamo esaminato, risulta chiaramente che per un certo tempo, (non si sa esattamente per quanto) Pietro non ebbe nessuna difficoltà a mangiare assieme con gli etnicocristiani di Antiochia, dimostrando apertamente sia a Paolo che agli atri, giudeocristiani e etnicocristiani, che lui in qualità di giudeocristiano, non aveva niente in contrario a condividere con questi cristiani il loro modo di vivere. Questo naturalmente perché Pietro l’aveva capito chiaramente in precedenza, cioè con l’evento della casa di Cornelio (Atti 10).

Se poi il discorso si sposta su quello che egli sostenne al concilio apostolico di Gerusalemme (Atti 15:7-11), diventa più chiaro che l’Apostolo non condivideva l’opinione dei giudaizzanti, che avrebbero voluto un taglio netto col modo di vivere degli etnicocristiani, a meno che quest’ultimi non fossero stati disposti ad accettare la pratica della circoncisione e l’osservanza della legge di Mosè. Si nota subito che la posizione di Pietro era uguale a quella di Paolo. Però, quando nella chiesa di Antiochia arrivarono alcuni da parte di Giacomo, Pietro ebbe paura di loro, e, facendo un voltafaccia con la sua stessa convinzione, si ritirò dagli etnicocristiani e non si unì più alle loro mense. Anche se questo atteggiamento fu visto da tutti e lo stesso Barnaba venne trascinato dalla loro ipocrisia, non tutti però si resero conto che Pietro, (in qualità di capo per la missione dei giudeocristiani) non stava comportandosi secondo la verità dell’evangelo. Fu Paolo che vide questo e fu lui che ebbe il coraggio di rimproverare Pietro davanti a tutti. Quindi, le parole del (v. 16), non sono indirizzate ai giudeocristiani, come qualcuno suggerisce, ma a Pietro.

Quando Paolo fa riferimento alle opere della legge, per ottenere la giustificazione, giustamente afferma che per tali opere, l’uomo, sia giudeo che pagano, non può mai concquistarsi la giustificazione. Il non mangiare assieme ai gentili convertitesi al cristianesimo, era appunto l’osservanza di quello che diceva la legge intorno a certi cibi che i gentili mangiavano liberamente e che ai giudei era proibito. Ma che cosa s’intende precisamente con queste opere della legge che non procurano la giustificazione? Considerando il contesto di Galati 2:16 e anche altri passi della lettera, quali (3:2,5,10)

«si ricava che come opere di tal genere non si vogliono affatto indicare soltanto le prescrizioni rituali del giudaismo, compresa la circoncisione, ma le opere dell’uomo deducibili dalla totalità del nomos, dalla torà (cfr. specialmente 3:10-12 con l’espressione del v. 11: en mon [ ! ] oudeis dikaioutai para the) = (mediante la legge, nessuno è giustificato davanti a Dio). Questa constatazione è confermata dalla lettera ai Romani (cfr. specialmente 3:20,27; 4:2; 9:11,31; 11:6). «Le opere della legge» contengono per Paolo un principio religioso, che viene annullato dalla norma della grazia e della fede instaurata escatologicamente in Cristo. Solo un’esegesi ingenua potrebbe negare questi risultati e limitare «le opere della legge» ai precetti rituali giudaici.

La giustificazione avviene per fede: ciò è valevole per sempre (presente acronico dikaioutai in Galati 2:16a) e — secondo l’esegesi scritturistica di Paolo — è già stato valido da sempre, come mostra l’esempio di Abramo (cfr. Galati 3:6-12; Romani 4:2,23). Al posto del principio della legge, che comunque non portava alla giustificazione (cfr. Galati 3:11), subentra il principio della fede (dia pistes Christos Isuo). Qui la preposizione dia qualifica la fede come la via alla giustificazione per l’uomo, col che però la pistis non dev’essere intesa a sua volta come (nuova) «opera», e lo dimostra la netta antitesi «fede» / «opere della legge». La fede è la risposta appropriata a una concreta offerta di grazia da parte di Dio, espressa mediante il genitivo oggettivo Christou Isou che segue pistes. La fede giustificante ha il suo fondamento oggettivo in quell’evento salvifico che è inscindibilmente congiunto con la persona e con l’opera redentrice di Gesù Cristo; essa perciò non è una fede qualsiasi, ma, detto in forma pregnante, «fede in Cristo Gesù», come l’Apostolo si affretta a precisare» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 274, nota 6].

La seconda parte del (v. 16), mette in evidenza, sia per la vita di Paolo come anche per quella di Pietro (per non parlare di tutti gli altri giudei convertitisi) che essi hanno creduto in Cristo Gesù, affinché fossero giustificati mediante la fede di Cristo. È chiaro quindi, dove vuole arrivare l’Apostolo con queste sue parole: mettere Pietro davanti alla realtà della sua salvezza. In altre parole Paolo voleva dire a Pietro: Se tu sei salvato = giustificato, lo sei solamente per la fede in Cristo Gesù e non in virtù delle opere della legge. Questa è una verità che deve essere ribadita continuamente da ogni predicatore del vangelo, per non deviare dalla verità dell’evangelo.

A questo punto non ci resta altro che fare qualche osservazione sulla vita di Pietro per ciò che riguarda la polemica che ci fu tra lui e Paolo. Dall’epistola ai Galati come del resto di tutte le altre epistole paoline, non si dice niente della possibile reazione che avrebbe potuto avere Pietro nei confronti di Paolo. Ha capito Pietro il valore e il significato dell’intervento di Paolo? Ha conservato nel suo cuore risentimenti nei suoi confronti? Se non ci fosse niente nel N.T. che potesse rispondere alle due domande, non sapremmo veramente proprio nulla di come andarono le cose tra Pietro e Paolo. Però, un riferimento nella (2 Pietro 3:15), che parla specificatamente di Paolo, dicendo addirittura: il nostro caro fratello Paolo, questo potrebbe essere la chiave per dare una risposta alle nostre due domande.

A questo punto si presenta il problema della paternità, cioè se la 2 Pietro sia stata scritta dall’Apostolo o sia stato un’altro a farlo, usando il suo nome. Siccome il nostro scopo non è quello d’intrattenerci su questo dibattuto problema, possiamo rimandare il lettore alle opere specifiche [Cfr.Karl Hermann Schelkle, Le lettere di Pietro e di Giuda, pagg. 288-294 e di Everett F. Harrison, La Parola del Signore, Vol. 2 pagg. 423-434].

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Domenico34
00giovedì 3 novembre 2011 00:09
Considerando la 2 Pietro come scritto di Pietro, la sua composizione risalirebbe verso il 65,66, cioè poco prima di morire, circa una decina di anni dopo l’epistola ai Galati, (non sapendo esattamente l’evento antiocheno quando si verificò). Col chiamare Paolo il nostro caro fratello Paolo, anche se nella mente dell’Apostolo Pietro non c’era presente l’evento antiocheno, per uno che legge queste parole e tiene presente la disputa di Antiochia, non può fare a meno di pensare che l’Apostolo, riflettendo sulle parole che Paolo gli disse ad Antiochia, abbia riconosciuto lo sbaglio che fece in quella circostanza, e, come prova di aver capito e valutato nella sua giusta portata l’intervento di Paolo nei suoi confronti, ha voluto anche dimostrare, — contro coloro che probabilmente pensavano che Pietro sarebbe rimasto offeso —, che in lui non vi era rimasto nessun risentimento nei confronti di Paolo, altrimenti: il nostro caro fratello Paolo , non avrebbe nessun senso, parlerebbe soltanto di una messa in scena, di una semplice finzione, cosa che è impensabile sostenere una simile ipotesi.

3) Galati 2:20:


Io sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me; e quella vita che ora vivo nella carne, la vivo nella fede [ pistei ] del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me.

L’affermazione di questo versetto, riguarda esclusivamente la vita di Paolo. L’esperienza che egli ha fatto con la sua conversione a Gesù Cristo, ha prodotto un vero cambiamento di rotta, sia per quanto riguarda il suo modo di pensare e soprattutto per il suo modo di vivere. Non c’è nessun dubbio che la crocifissione a cui fa riferimento l’Apostolo debba intendersi in senso spirituale, il suo significato certo è quello che parla della sua morte, cioè del suo passato, del suo modo di vivere alla farisaica. La susseguente frase e non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me, vuole essere la dimostrazione che il vecchio Saulo che è stato crocifisso, non è rimasto nella tomba, è stato risuscitato; di conseguenza, la vita che egli ha ora è quella che ha ricevuto da Cristo, ragion per cui non ha nessun diritto di vivere a modo suo, ma la sua vita la vuole vivere nella fede del Figlio di Dio, che lo ha amato e ha dato se stesso per lui.

Questi due motivi che l’Apostolo adduce, non hanno solamente valore motivante per lui, sono anche un incitamento per ogni cristiano che voglia seguire l’esempio di Paolo. Se l’uomo effettivamente prende atto che Gesù lo ha amato e ha dato la sua vita per lui, sarà portato a vivere la sua vita nella carne, non più a se stesso, ma unicamente nella fede del Figlio di Dio.


1. UN APPELLO ALL’ESPERIENZA CRISTIANA DEI GALATI

4) Galati 3:2:

Questo solo desidero sapere da voi: avete ricevuto lo Spirito mediante le opere della legge o attraverso la predicazione della fede? pistes.

Cominciando a riflettere sul capitolo tre di questa epistola, bisogna subito dire che delle 19 occorrenze che si trovano in tutta la lettera intorno alla fede, ben 13 si trovano in questo capitolo. Questo vuol dire che la fede in questo capitolo, ha un’importanza particolare. Ma non è solo questo. Se nei primi due capitoli Paolo ha fatto largamente riferimento alla sua esperienza personale di convertito al cristianesimo, ora affronta i giudaizzanti, che poi sono i suoi avversari, con le prove scritturali per dare più peso e validità alle sue argomentazioni. [Cfr. Alan Cole, l’Epistola di Paolo ai Galati, pagg.. 107-109].

A dire il vero questo modo di procedere è oltremodo lodevole sotto ogni aspetto, non solo allora per Paolo, ma lo è anche per i nostri giorni, come lo è stato per tutti i tempi e lo sarà per sempre. Per l’Apostolo allora non fu solamente per mettere in evidenza la sua erudizione rabbinica che aveva acquistato nel giudaismo, ma la valorizzazione che ora può fare delle stesse Scritture, quando li può applicare alla vita e alla dottrina cristiana. Sotto questo aspetto, il valore e l’insegnamento che ci fornisce questo testo, è senza dubbio immenso. Inoltre, la fede, di cui ci stiamo occupando, deve essere sempre inquadrata e valutata tenendo presente il contesto in cui si trova menzionata. Questo naturalmente ci porterà a considerare, sia le persone che le varie situazioni a cui il testo biblico fa allusione. Con questa premessa, passiamo subito ad analizzare il testo biblico.

Anche se tutta l’argomentazione che l’Apostolo fa in questo capitolo terzo mira ad affrontare i giudaizzanti, nondimeno le sue parole sono rivolte alla fratellanza che ha vissuto una reale esperienza cristiana, ma che poi in un secondo tempo hanno anche subito l’influenza dei giudaizzanti, che poi sono gli avversari dell’evangelo che Paolo predica. Il termine [ anotoi ] che Paolo adopera, significa:

1. Irragionevole, insensato, stolto
2. incomprensibile, impensabile
3. inatteso, inaudito, straordinario
4. che non comprende, inetto a comprendere


e secondo C. Buzzetti: Stupido, ignorante, che non sa comprendere[/C[. Se Paolo apostrofa i Galati come [ anotoi ],

«con ciò viene loro attribuita non una scarsa intelligenza, ma una mancanza di discernimento, e precisamente per ciò che concerne l’essenza dell’evangelo e quindi del cristianesimo» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 327, note 3, e 4].

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