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Domenico34 - LA FEDE NELLE EPISTOLE DI PAOLO -

Ultimo Aggiornamento: 24/11/2011 00:07
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30/10/2011 00:04

O. Cullmann, per esempio,
«vede in [ phoboumenos ] qualcosa di più di una reazione psicologica di Pietro; per lui il «timore» è segno di una dipendenza amministrativa di Pietro dall’autorità gerosolimitana, più precisamente dal fratello del Signore, Giacomo, al quale nel frattempo sarebbe stato trasferito il primato nella chiesa» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 235; O. Cullmann, GLNT, Vol. X. col. 152,153, nota 56. «Il maggiore argomento con cui gli studiosi cattolici cercano di sminuire la posizione preminente di Giacomo riguarda l’espressione phoboumenos di Galati 2:12. Secondo loro, phoboumenos significherebbe qui che Pietro temeva delle difficoltà (da parte, in questo caso, di un’inferiore). Ma tale interpretazione è in contraddizione con l’uso costante del verbo che, negli altri passi, indica sempre il timore verso un superiore o di un’istanza superiore»].

La cosa che preoccupa Paolo, davanti all’atteggiamento di Pietro, non è tanto che egli si sia ritirato e separato dagli etnicocristiani, quanto che egli con quel suo comportamento, oltre a creare un serio problema nella vita della Comunità per ciò che riguarda l’unità della chiesa, trascina anche Barnaba dietro questa ipocrisia, tutto a scapito della verità dell’evangelo, dato che essi non stanno camminando rettamente secondo questa verità (v. 14).

In vista di quello che si prospetta davanti a Paolo, il rispetto della posizione e della persona di Pietro, passano in secondo piano, dato che il rimanere saldi alla verità dell’evangelo, vale più di ogni altra cosa Perciò, Paolo dice a Pietro, ( il greco ha Cefa): «Se tu, che sei Giudeo, vivi alla gentile e non alla giudaica, perché costringi i gentili a giudaizzare?» (v. 14).

STORIA DELL’ESEGESI DI GALATI 2:11-14

La storia dell’esegesi di Galati 2:11-14, tratta chiaramente della venuta di Pietro ad Antiochia e, da parte di Clemente d’Alessandria, (prima del 215) si dice che «il Cefa di Galati 2:11 non è l’Apostolo Pietro, ma un omonimo, facente parte della schiera dei 70 discepoli di Gesù» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 246. Si dovrebbe inoltre ricordare che non è solamente il v. 11 che parla di Kēfa, ci sono anche: 1:18; 2:9,14].

Se la tesi di Clemente d’Alessandria fosse esatta, si dovrebbero considerare sullo stesso piano anche: 1:18; 2:9,14, dato che il greco ha per questi testi Kēfa. Se poi si considerano: (Giovanni 1:42; 1 Corinzi 1:12; 3:22; 9:5; 15:5) in cui il greco ha ancora Kēfa, testi che indiscutibilmente parlano dell’Apostolo Pietro, non vediamo come la tesi di Clemente possa reggere. Dato per certo che il N.T. non conosce altri con questo soprannome, i riferimenti di 2:11, come anche 1:18; 2:9,14, sono da attribuirsi indiscutibilmente all’Apostolo Pietro.

Anche Girolamo, Crisostomo e Gregorio Magno assunsero una posizione critica nei riguardi di questa opinione. Per Tertulliano (160-220), quando considera il caso antiocheno, si esprime nel seguente modo: «Non fu Pietro a fare in Antiochia un passo falso, ma Paolo, che era privo di esperienza cristiana, ipersensibile (a causa degli attacchi alla sua dignità apostolica) un neoconvertito, eccessivamente zelante». Tertulliano, giudicando Paolo un «neofita», aveva dimenticato che al tempo dell’incidente di Antiochia era già cristiano da circa 14 anni [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 246, note, 12,16].

Giovanni Crisostomo (344/54-407) dedicando all’episodio una predica particolare, osò dire che i due apostoli in Antiochia, per il bene degli spettatori, organizzarono addirittura un conflitto apparente, così che Pietro svolse la parte del biasimato e tace a ragion veduta di fronte ai rimproveri di Paolo; con questa tattica egli non ha bisogno di rimproverare i giudeocristiani, ma lascia che ciò sia fatto da Paolo. Giustamente l’Overbeck, osserva:

«Che con simile trattamento del testo paolino le figure degli apostoli appaiano come marionette mosse dalle funi intrecciate coi concetti astratti dei dogmatici, è senz’altro vero. Solo che qui questo rimprovero non va rivolto particolarmente o addirittura esclusivamente all’esegesi di Origene, ma in generale a tutta l’esegesi ecclesiastica del suo tempo» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 247, nota 18]. Agostino (354-430), il comportamento di Pietro «era veramente riprensibile» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 251-252]. Per Lutero, infine, l’ipocrisia di Pietro ad Antiochia fu ancor più di un «errare»; essa fu un peccato grave [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pagg. 251-252].

Per gli autori moderni che si sono interessati per la vicenda antiochena, possiamo riassumerli nel seguente modo. Secondo lo Zahn il rimprovero di Paolo a Pietro si riferisce direttamente solo a questo: «egli costringerebbe i pagani ad adottare un’usanza giudaica. Separandosi dalla commensalità con loro, Pietro, benché da parte sua non ne avesse l’intenzione e la relativa conseguenza ancora non apparisse, esercitò sugli etnicocristiani una costrizione morale che in definitiva li doveva indurre ad adottare usanze giudaiche... Che Pietro, forse senza volerlo e senza saperlo, tendesse a questo scopo, è indicato come qualcosa di quasi incomprensibile già dalla formulazione della domanda [«come fai tu a costringere i pagani a giudaizzare?»], e ancor più dalla protasi [«Se tu, pur essendo un giudeo, vivi in modo pagano e non giudaico»]... Può anche darsi che Pietro abbia cambiato il suo atteggiamento solo per ciò che concerneva il mangiare coi pagani, e che, per il resto, continuasse — trattando con loro — a lasciar da parte qualche scrupolosità giudaica. Ma poiché Pietro di propria iniziativa e radicalmente... per motivi superiori si era emancipato dagli usi giudaici, lo colpisce sia il rimprovero dell’inconcepibile incoerenza sia quello della deplorevole ipocrisia» [Cfr.F. Mussner, La lettera ai Galati, pag. 258].

Si continuerà il prossimo giorno...
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