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Domenico34 - La Fede - VIII. La fede d'Isacco

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    Domenico34
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    00 10/12/2010 12:31

    Capitolo 8



    LA fede D’ISACCO



    Per fede Isacco benedisse Giacobbe ed Esaù, riguardo a cose future (Ebrei 11:20).

    Queste poche parole riferite ad una specifica azione d’Isacco, ci permettono di vedere e valutare la benedizione data a Giacobbe e ad Esaù, e considerarla soprattutto per quanto riguardava il futuro di questi due fratelli. Non è quindi fuori posto se affermiamo che la benedizione d’Isacco, va vista come una profezia, intesa come una predizione per quello che si verificherà nella vita di Giacobbe e di Esaù.

    Ovviamente, per conoscere la storia di questa benedizione, e la vita di questi due fratelli, dobbiamo rivolgerci al libro della Genesi, in modo particolare, anche se possiamo leggere di loro, in altri testi della Bibbia.

    1. NEL GREMBO MATERNO GIACOBBE ED ESAÙ SI’ SPINGEVANO L’UN L’ALTRO

    La madre Rebecca, anche se era amata da Isacco suo marito, era sterile; e perché Rebecca potesse concepire, fu necessario un intervento di Dio nella sua vita, a seguito di una particolare preghiera che Isacco fece all’Eterno (Genesi 25:21). I due bambini nel grembo di sua madre sì “spingevano uno all’altro” - o come dice un’altra versione “si urtavano”, (v. 22), tanto che la mamma, non potendo spiegarsi questo - e sicuramente i disturbi che provava non erano indifferenti - la indussero a “consultare l’Eterno”, il quale disse:

    Due nazioni sono nel tuo grembo, e due popoli separati usciranno dalle tue viscere. Uno dei due popoli sarà più forte dell’altro, e il maggiore servirà il minore (v. 23).

    Non abbiamo la minima idea come Rebecca, passava la gravidanza, pensando soprattutto alle parole che l’Eterno, gli aveva detto. Siccome la Bibbia non ci dice niente in merito, non si possono ignorare le sofferenze fisiche che affrontava quella mamma.

    Pensando alla “spinta” che i due fratelli si davano, nel grembo della madre, uno contro l’altro, senza peraltro rendersi conto - perché in quell’ambiente nel quale si trovavano non c’era in loro una minima conoscenza da renderli responsabili - tuttavia, noi che leggiamo queste parole, siamo portati a riflettere e a meditare, oltre che a pensare al fastidio e al disturbo che procuravano alla mamma.

    L’atteggiamento incosciente dei due fratelli, nello “spingersi uno all’altro” nel grembo materno, ci potrebbe suggerire l’idea che forse non ci fosse stato spazio abbastanza per loro. Qualunque era la condizione del grembo di Rebecca, per ciò che concerneva lo spazio per la vita dei suoi due figli, e dal momento che i due fratelli, nel grembo della madre, erano separati l’uno dall’altro, il corpicino dell’uno, poteva facilmente stringere l’altro, ed obbligarlo nel stesso tempo a stare scomodo nel suo ambiente.

    Qui non si tratta ovviamente di affrontare un problema ostetrico e spiegarlo alla luce della scienza medica, anche se l’atteggiamento dei due bambini nel grembo della madre, potrebbe spingerci a farlo.

    Non crediamo che questo particolare che lo scrittore sacro inserì nel racconto della Genesi - che poi è una parte del libro di Dio - avesse lo scopo di insegnarci una lezione di ginecologia. Ma se questo particolare, lo applichiamo nella vita pratica di noi persone grandi, possiamo vedere uno dei tanti atteggiamenti egoisti, e nello stesso tempo imparare una lezione importante per la vita di ogni giorno.

    2. UN’APPLICAZIONE PER LA VITA DI OGNI GIORNO

    1) Gli “spintoni”, che si danno l’uno all’altro, non sono certo gesta da enumerare nelle azioni “eroiche e gentili”; sono piuttosto atti grotteschi di un carattere poco gradevole e socievole.

    2) Lo “spingere” uno all’altro, usando il detto:
    Sta’ per conto tuo, non avvicinarti, perché sono più santo di te (Isaia 65:5),
    non è certamente una prova e una dimostrazione di alta “spiritualità”; al contrario, denota un’attitudine di arroganza e superbia, e, l’essenza spirituale, intesa nel senso biblico, è molto lontana da quella persona, per non affermare che è quasi assente.

    3) Dare “spintoni” l’uno contro l’altro, denota un’attitudine di “egoismo” e di “intolleranza”, pensando più a se stessi che agli altri. Quest’atteggiamento non è certamente consono con l’insegnamento della Scrittura che afferma:

    Non facendo nulla per rivalità o vanagloria, ma con umiltà, ciascuno di voi stimando gli altri più di se stesso (Filippesi 2:3).

    4) Dare uno “spintone”, non importa a chi, non è certamente una dimostrazione di interessamento e di premura, come per volerlo incitare ad amore e a buone opere (Ebrei 10:24); ma è piuttosto una dimostrazione di disprezzo e di molestia, e mette in risalto soprattutto le sosiddette “sottovalutazioni” che si fanno, per quanto riguarda quello che fanno gli altri.

    5) Quelli che sì “spingevano” uno all’altro, erano due fratelli, figli dello stesso padre e della stessa madre. In queste “spinte” che si davano, ora l’uno ora l’altro, senza accusare l’uno e giustificare l’altro, dimostravano - almeno per noi che leggiamo - di ignorarsi a vicenda, come se, in effetti, fossero due “estranei”, due “nemici”, anziché due fratelli.

    6) Infine, “spingersi l’un l’altro”, come per dire: “Stai prendendo il mio posto; ti sei spinto troppo sulle posizioni degli altri; non tieni nessun conto per me che sono “il capo”; mi ignori come se non fossi “nessuno”; non è certamente dimostrazione di “maturità spirituale”, ma piuttosto rivelazione di uno stato di uno che ancora sta nel grembo, e quindi di infantilismo, che agisce in una maniera quasi incosciente, a senso unico, come se non ci fosse nessun’altro.

    3. LA NASCITA DI GIACOBBE E DI ESAÙ

    Anche se dal punto di vista della narrazione biblica della nascita di questi due figli di Isacco, è detto chiaramente che il primo che vide la luce fu Esaù, li invertiamo nell’ordine, come se Giacobbe fosse nato il primo, non per ignorare il testo della Genesi, ma solamente per essere coerenti al testo di Ebrei 11:20, che nomina prima Giacobbe e poi Esaù.

    La nascita di questi due fratelli, dopo un periodo di gravidanza sicuramente infelice per Rebecca, - a causa dello “spingersi l’un l’altro”, nel suo grembo - fu certamente una vera sorpresa, non solo per la madre e il padre, ma probabilmente anche per altri. Non crediamo che la stessa Rebecca, si sarebbe aspettato un figlio dall’aspetto rosso, e tutto quanto come un mantello peloso (Genesi 25:25).

    Chi sa quali parole avrà detto Rebecca nel vedere suo figlio in quella maniera! Non poteva pensare né a sé né a suo marito, perché né l’uno né l’altra avevano un simile aspetto per giustificare quello del figlio e tanto meno che ci fosse qualcuno della loro famiglia che avesse quelle caratteristiche. Sarà stato per l’aspetto inaspettato del figlio Esaù, che Rebecca amava piuttosto Giacobbe anziché Esaù? O solamente per il fatto che Giacobbe era uomo tranquillo, che viveva nelle tende ed Esaù divenne un esperto cacciatore, un essere umano di campagna? (Genesi 25:27). Tutto è probabile oltre a quello che la Scrittura specifica chiaramente.

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    Domenico34
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    00 11/12/2010 12:17
    D’altra parte, l’atteggiamento di Giacobbe, che “con la sua mano teneva il calcagno di Esaù” - anche se si trovava in uno stato d’inconsapevolezza e d’innocenza -, oltre a lasciare perplessi il padre e la madre, sicuramente avrà indotto, specie i genitori, a chiedersi: perché mai questo e che cosa vorrà dire? Rebecca, a sua volta, poteva domandarsi: Chi dei due figli, sarà il “popolo più forte dell’altro?” Esaù, che è nato per il primo, è senza dubbio il “maggiore che servirà il minore”.

    Sin da quando i due fratelli stavano nel grembo della madre, “spingendosi uno all’altro”, e poi con la nascita, Giacobbe “tiene con la mano il calcagno” del fratello, c’è già una precisa prefigurazione, di quello che sarà, circa l’atteggiamento che assumeranno i due fratelli, una volta diventati grandi.
    Anche se queste cose si leggono nella Bibbia, resta sempre enigmatico il fatto come ha potuto fare Giacobbe, nel seno materno, a prendere il calcagno di suo fratello Esaù.

    4. LA CONDIZIONE DI GIACOBBE E DI ESAÙ

    La storia della benedizione di questi due fratelli da parte del loro padre Isacco, è narrata nel libro della Genesi nei minimi particolari. Giacobbe, da persona scaltra che è, - più tardi però si rivelerà “un soppiantatore, un imbroglione” - sfrutta una particolare situazione che si presenta davanti a lui, allorquando suo fratello Esaù, venendo dai campi tutto stanco, e vedendo che suo fratello Giacobbe aveva cucinato una zuppa rossa, chiede di dargli da mangiare quella pietanza.

    Al che, furbamente Giacobbe, risponde: Vendimi prima la tua primogenitura (Genesi 25:31). Esaù, senza pensarci due volte, - e qui manifesta un’atteggiamento e una valutazione negativa circa il suo diritto di primogenitura - risponde: Ecco io sto per morire; che mi giova la primogenitura? (Genesi 25:32).

    Con queste parole Esaù “sprezza la sua primogenitura”, e più tardi lo scrittore agli Ebrei, lo classificherà come un profano (Ebrei 12:16). Giova a questo punto analizzare l’agire di Giacobbe e quello di Esaù, per meglio capire il racconto e soprattutto vedere quali riflessioni possiamo fare. Anzitutto, diciamo subito, che sfruttare una qualsiasi situazione di disaggio, a scopo egoista, non è sicuramente raccomandabile e tanto meno rispecchia lo spirito cristiano. Qui non si tratta di sprezzare l’attività di esperto cacciatore di Esaù e di elogiare la condizione di “vivere nelle tende” di Giacobbe.

    Non è il tipo di “lavoro” che ognuno fa che dobbiamo condannare o elogiare; è piuttosto l’attitudine che si assume davanti ad una particolare situazione che rivela quello che noi siamo. Trovarci in uno stato di “bisogno materiale”, come per esempio non avere di che mangiare - e la frase di Esaù: ecco io sto per morire, (non morirò) facilmente si riferisce ad una situazione di bisogno, alla mancanza di cibo -, non dovrebbe meravigliare nessuno, perché possiamo trovarci tutti in una necessità qualsiasi.

    Se Esaù fu onesto e sincero nel dire a Giacobbe che non soltanto era stanco, ma era anche bisognoso di cibo, non lo fu Giacobbe nei confronti di suo fratello Esaù, quando gli diede del pane e della zuppa di lenticchie (Genesi 25: 34) ad una precisa condizione e con giuramento. Il cosiddetto “ricatto”, non è e non sarà mai raccomandabile e degno di essere elogiato.

    Chi fa valere la sua condizione favorevole rispetto a chi si trova nel disagio, non agisce spinto dall’amore; agisce piuttosto spinto dal proprio egoismo. La Parola di Dio ci insegna che l’amore è benigno (1 Corinzi 13:4), e tutte le azioni di aiuto e opere di soccorso che si compiono, dovrebbero essere spinte e motivate dall’amore.

    Se da una parte non possiamo elogiare l’atteggiamento egoista e senza scrupoli di Giacobbe, dall’altra parte, quella di Esaù, non si può esaltare, quando si nota il senso di sprezzare, un diritto e un privilegio che nessuno avrebbe potuto togliergli.

    I profanatori, vale a dire, chi non tiene conto di un certo privilegio, non solo finiscono col considerarlo di poco valore, ma addirittura nel fare ciò, fanno vedere che pensano soltanto alle cose presenti, non hanno nessuna percezione e prospettiva per la vita futura, per l’eternità. La frase Ed egli mangiò e bevve; poi si alzò e se ne andò (v. 14), descrive chiaramente qual’era la finalità di Esaù. A costoro, si può applicare con ragione quello che Paolo affermò:

    Se noi speriamo in Cristo solo in questa vita - o come dice Luzzi: per questa vita - noi siamo i più miserabili di tutti gli uomini (1 Corinzi 15:19).

    5. I PREPARATIVI PER LA BENEDIZIONE

    I preparativi per la benedizione di Giacobbe e di Esaù, sono descritti nei minimi particolari. Isacco è ormai vecchio e cieco, e presumendo che la sua morte è vicina, chiama

    Esaù suo figlio maggiore, e gli disse: Figlio mio!
    Egli disse: Eccomi! Allora Isacco disse: Ecco, io sono vecchio e non conosco il giorno della mia morte.
    Deh, prendi ora le tue armi, il tuo turcasso e il tuo arco, esci nei campi e prendi per me della selvaggina;
    poi preparami una pietanza saporita di quelle che mi piacciono, e portamela, perché io ne mangi e l’anima mia ti benedica prima che io muoia
    (Genesi: 27:1-4).

    L’ordine così dato viene accolto da Esaù, il quale, senza perdere tempo, si dirige verso i campi per procurare la selvaggina a suo padre, in vista di ricevere la sua benedizione. Ma mentre Isacco parla col suo prediletto figlio Esaù, c’è Rebecca che ascolta tutto quello che il marito dice al prediletto figlio.

    Siccome però per Rebecca, il figlio prediletto è Giacobbe, non perde tempo di informarlo della volontà di suo padre circa la benedizione che vuole dare a Esaù suo fratello. Questo stato di “predilezione”, il padre per Esaù e la madre per Giacobbe, non è certo segno e prova di maturità e “d’imparzialità”. I genitori dovrebbero fare molta attenzione nel trattare i figli; devono evitare, in un modo fermo e decisivo, le parzialità, fonte e causa di litigi e di rancori a non finire mai.

    Giacobbe, in un primo tempo, obbietta all’ordine di sua madre, vedendo chiaramente i rischi a cui va incontro, sia per la scoperta di falsità che il padre potrebbe fare e poi soprattutto pensando che invece di ricevere “una benedizione”, finirà col ricevere una “maledizione”; finisce però coll’acconsentire a sua madre quando questa lo rassicurò: [C[Questa maledizione ricada su di me, figlio mio! (Genesi 27:13).

    I consigli che la madre Rebecca dà a suo figlio Giacobbe, ai fini di ricevere la benedizione, sembrerebbero a prima vista, che tutto l’imbroglio e l’inganno di cui Giacobbe si rese colpevole, debba “tutto” pesare sulla sua responsabilità. Ma se soppesiamo e valutiamo attentamente la “forza” di persuasione che Rebecca esercitò sulla vita di Giacobbe suo figlio, è più onesto e corretto addebitarlo a Rebecca.

    Se dobbiamo essere obbiettivi e coerenti, non possiamo fare a meno di prendere atto che tutta la trama dell’imbroglio e dell’inganno, l’architettò Rebecca, anche se quest’ultima, probabilmente, non mise nella bocca le parole che Giacobbe disse a suo padre Isacco.

    Le mamme devono fare molta attenzione quando esercitano la loro forza di persuasione sui propri figli! Un consiglio o un ordine sbagliato, dato ai figli, potrebbe causare nella loro vita, tanti “dispiaceri” e “amarezze” di incalcolabile portata. Ora qui, non vogliamo insinuare “uno stato di allerta”, da parte dei figli, intorno a quello che dice loro la mamma, per rigettare in partenza e in blocco, tutto quello che viene detto loro.

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    Domenico34
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    00 12/12/2010 12:54
    Al disopra delle varie debolezze che una mamma potrebbe avere nei confronti dei propri figli, dando loro qualche consiglio e qualche ordine sbagliato, c’è sempre da mettere in risalto che ogni mamma - ad eccezione di qualcuna che va fuori dal seminato - pensano al bene dei loro figli.
    Quando i figli arrivano all’età di maggiorenne, le mamme dovrebbero misurare le loro parole in materia di consigli e di ordini, e ricordarsi sempre che una pressione sulla loro vita, potrebbe significare indurli a fare scelte sbagliate, con conseguenze catastrofiche ed incalcolabili.

    Rebecca, per usare la sua forza di persuasione nella vita di suo figlio Giacobbe, finì, non solo per causargli un grosso problema, ma anche fu responsabile dei tanti anni - venti per esattezza - di lontananza del figlio prediletto Giacobbe, dalla sua casa.

    Tutto ciò che avvenne nella vita di Giacobbe, la sua partenza dalla casa i tanti peripezie che incontrò, fu la diretta conseguenza dei consigli e degli ordini che Rebecca, nonché la forza di persuasione che esercitò nella vita di suo figlio (Giacobbe).

    Se abbiamo parlato un po’ della responsabilità di Rebecca, non l’abbiamo fatto per ignorare quella di Giacobbe. Infatti, qui di seguito, non solo cercheremo di esaminarla, per meglio valutare la responsabilità di quest’uomo, ma soprattutto la considereremo ai fini di fare una giusta applicazione per la nostra vita. Dopo che Giacobbe andò dal gregge per prendere due bei capretti, perché sua madre li preparasse nella maniera che piaceva a Isacco, e indossato i vestiti di Esaù suo fratello, si reca dal padre con la pietanza saporita in mano, e gli dice:

    Padre mio! Isacco. Eccomi; Chi sei tu, figlio mio?
    Allora Giacobbe dice a suo padre: Sono Esaù, il tuo primogenito. Ho fato come tu mi hai detto
    (Genesi 27:18-19).

    Da questo momento in poi, non solo ha inizio ua serie di bugie, ma entra in piena fase quella che noi chiamiamo la “responsabilità di Giacobbe”. A questo punto si potrebbe domandare: Una piccola bugia, potrebbe rappresentare una seria minaccia per l’integrità di una persona?

    Senza esitazione, rispondiamo, sì! Lo diciamo non solamente dal punto di vista di una coscienza cristiana, ma soprattutto in base al detto della Scrittura: Un abisso chiama un’altro abisso (Salmo 42:7). Così una bugia ne chiama un’altra, fino a tal punto da causare una vera valanga. Ecco la dimostrazione. Giacobbe non era Esaù, sia come persona e sia anche come carattere; ma in quel memorabile giorno, egli ha dovuto mentire a suo padre, che chiedeva: Chi sei tu, figlio mio?

    Si potrebbe chiedere se Giacobbe era già preparato a queste specie di domande precise del padre. Non serve a niente supporre se il figlio era preparato come rispondere ad una eventuale domanda. Giacobbe non è un ragazzino, che può essere trascinato qua e la senza sapere quel che fa; è un uomo che ha più di quaranta anni, e in base alla sua età, è in piena responsabilità di quello che dice.

    La bugia, era sua com’era anche la parola e la bocca dalla quale esce. In altre circostanze, Giacobbe, non avrebbe detto facilmente di essere Esaù, anche perché si rendeva bene conto che suo fratello, non aveva il suo stesso carattere, indipendentemente dal fatto che egli era “peloso”.

    Ma in quel giorno, come se tutto andasse per il giusto verso, dichiarò per la prima volta di essere Esaù, e ciò davanti a suo padre. Questa sua prima bugia, lo indusse a dirne un’altra: Ho fatto come tu mi hai detto.

    Anzitutto, Isacco, non aveva parlato a Giacobbe, ma a Esaù. Giacobbe non aveva ascoltato la voce del padre, aveva ascoltato invece quella della madre, che gli aveva fatto sapere quello che Isacco aveva detto ad Esaù. Ma qui, Giacobbe, non solo si camuffa per Esaù, ma si presenta addirittura come un figlio obbediente che fa esattamente quello che ha detto il padre.

    Al vecchio e cieco padre, non sembra che tutto vada bene; abbia sentito che suo figlio Esaù - così credeva almeno lui - fosse già davanti a sé con un bel piatto saporito.

    Figlio! Come hai fatto a trovarne così presto, figlio mio? Egli rispose: Perché l’Eterno, il tuo DIO, l’ha fatta venire a me (Genesi 27:20).

    Quest’altra bugia che Giacobbe pronuncia - forse non si aspettava da suo padre una simile domanda -, non è solamente “un’altra bugia”, è quella che chiama in causa l’Eterno. Pronunciare il nome di Dio, per far credere che la bugia è verità, è estremamente dannoso per l’integrità dell’anima. Dio ordina al suo popolo di non usare il nome dell’Eterno invano, perché l’Eterno non lascerà impunito chi usa il suo nome invano (Esodo 20:7).

    Da parte sua, Paolo, ammonisce:

    Ritraggasi dall’iniquità chiunque nomina il nome del Signore (2 Timoteo 2:19).

    A questo punto, Isacco, non potendo fare uso dei suoi occhi, perché cieco, per accertarsi se la persona che è davanti a sé è veramente suo figlio Esaù, dice:

    Avvilasciati e lasci che ti palpi, figlio mio, per sapere se sei proprio mio figlio Esaù, o no.
    Giacobbe dunque si avvicinò a Isacco suo padre; e, come questi lo ebbe palpato disse: la voce appartiene a Giacobbe, ma le mani di Esaù.
    Così non lo riconobbe, perché le mani di lui erano pelose come le mani di Esaù suo fratello; e lo benedisse.
    E disse: Sei tu veramente mio figlio Esaù? Egli rispose: Sì
    (Genesi 27:21-24).

    Davanti alla chiara manifestazione di incertezza che il vecchio padre manifesta, soprattutto quando dice: la voce appartiene a quella di Giacobbe, e poi quando chiede: - forse con un accento particolare – Sei tu veramente mio figlio Esaù? Giacobbe avrebbe dovuto tremare e fermarsi dal persistere nella menzogna. Ma ormai il cuore si è incallito, non avverte più i battiti sconvolti del cuore, e con ferma voce dice: . Qui termina la storia dei preparativi per la benedizione.

    Davanti a questa storia di Giacobbe, che parla eloquentemente della tenace persistenza di dire menzogne, fino ad usare il nome dell’Eterno, non solo dovremmo seriamente riflettere, ma soprattutto tremare, perché se un uomo potè essere ingannato, non si pensi di poter ingannare Dio. Non vi ingannate, Dio non si può beffare, perché ciò che l’uomo semina, quello pure raccoglierà (Galati 6:7)

    LA BENEDIZIONE DATA DA ISACCO A GIACOBBE E AD ESAÙ

    Dopo la triste constatazione che abbiamo fatto della persistenza menzognera di Giacobbe, arriviamo al momento in cui questo uomo viene benedetto. La benedizione che egli riceve da Isacco, non è certamente il frutto dei suoi “meriti”, ma la manifestazione della “misericordia di Dio”. L’uomo non riceve mai dalla mano di Dio una qualsiasi benedizione, basandosi sopra i propri meriti, ma sempre sulla base della bontà di Dio. La Scrittura è chiara a questo proposito, quando afferma:

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    [Modificato da Domenico34 12/12/2010 12:55]
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    Domenico34
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    00 13/12/2010 12:27
    Egli (l’Eterno) non ci tratta come meritano i nostri peccati, e non ci castiga in base alle nostre colpe (Salmo 103:10). Un’altra Scrittura dice: Ma dopo tutto quanto ci è venuto addosso a motivo delle nostre azioni malvagie e delle nostre grandi colpe, poiché tu, o DIO nostro, ci hai punito meno di quanto meritavano le nostre colpe e ci hai lasciato un residuo come questo (Esdra 9:13).

    Ed ancora si legge: Rivolgendosi alla gente dirà: Ho peccato e violato la giustizia, e non sono stato punito come meritavo (Giobbe 33:27). Infine si legge: Egli (il Signore) ci ha salvati non per mezzo di opere giuste che noi avessimo fatto, ma secondo la sua misericordia... (Tito 3:5). Ecco il momento in cui Giacobbe riceve la benedizione.

    Dopo che Isacco mangiò e bevve ed ebbe odorato il vestito che era addosso di Giacobbe, disse:

    Ecco, l’odore di mio figlio è come il profumo di un campo, che l’Eterno ha benedetto. Dio ti dia la rugiada dei cieli e la fertilità della terra e abbondanza di frumento e di vino.
    Ti servano i popoli e le nazioni si inchinino davanti a te. Sii padrone dei tuoi fratelli e i figli di tua madre si inchinino davanti a te.
    Maledetto sia chiunque ti maledice, benedetto sia chiunque ti benedice!
    (Genesi 27:27-29).

    La benedizione che Isacco pronunciò - nella sua intenzione era per Esaù, ma effetti andò a Giacobbe - non rispecchiava il desiderio e la volontà del padre, - come potrebbe sembrare da un punto di vista umano -, rispecchiava invece esattamente quello che Dio aveva già predetto, fin da quando i due fratelli si trovavano nel grembo della madre.

    Che l’uomo non possa modificare niente di tutto quello che l’Eterno ha stabilito nel Suo piano, appare chiaramente, non solo da questo racconto, ma anche da altri testi della Bibbia, come per esempio: Riconosco che puoi tutto, e che nessun tuo disegno può essere impedito (Giobbe 42:2).

    D’altra parte, conciliare la preconoscenza di Dio, con quello che l’uomo fa, - e quello che fa l’essere umano non è mai sufficiente per accaparrarsi i favori di Dio -, non è certo sempre facile, specie davanti all’agire negativo, quale fu quello di Giacobbe. Indipendentemente dal fatto che noi riusciamo a capire o meno la preconoscenza di Dio, resta sempre fermo il fatto che Dio tratta l’uomo, non secondo quello che egli merita, ma secondo la Sua misericordia e bontà.

    Come ebbe finito di benedire Giacobbe, e quest’ultimo si era appena allontanato dalla sua presenza, ecco che arriva Esaù, di ritorno dalla caccia, e, preparando la selvaggina che aveva preso, si presenta davanti a suo padre per ricevere la sua benedizione. Fu sbalordito e scioccato Isacco, quando venne a sapere che Giacobbe, agendo con inganno, aveva preso la benedizione di suo figlio Esaù.

    Esaù, da parte sua, non avendo il minimo sospetto che suo fratello avrebbe agito con inganno per prendersi la sua benedizione, reagisce con un grido forte ed amarissimo, dicendo a suo padre: Benedici anche me, padre mio!

    Ha dovuto con rammarico prendere atto, che è stato

    soppiantato già due volte; mi tolse la primogenitura ed ecco ora si è presa la mia benedizione (Genesi 27:36).

    Facendo una certa insistenza su suo padre perché benedicesse anche lui, Isacco pronuncia le seguenti parole:

    Ecco, la tua dimora sarà priva della fertilità della terra e della rugiada che scende dall’alto dei cieli.
    Tu vivrai della tua spada e sarai servo di tuo fratello; ma avverrà che, quando combatterai, spezzerai il suo giogo dal tuo collo
    (Genesi 27:39-40).

    Segue subito quanto appresso:

    Cominciò Esaù a odiare Giacobbe a motivo della benedizione datagli da suo padre, e disse in cuor suo: I giorni del lutto per mio padre si avvicinano; allora ucciderò mio fratello Giacobbe (v. 41).

    Non possiamo giustificare l’imbroglio e l’inganno di Giacobbe ai danni di Esaù - egli resterà con questo nome, fino al giorno in cui gli verrà cambiato: da Giacobbe in Israele (Genesi 32:28) -, ma neanche possiamo sorvolare e giustificare l’odio di Esaù nei confronti di Giacobbe.

    Anche se Giacobbe dovette allontanarsi dai suoi genitori, prendere la via di Paddan-Aram, quindi anche lontano da suo fratello Esaù, per ben venti anni, non per questo l’odio di quest’ultimo, non se ne andò dal suo cuore.

    Spesso si rimane di stucco, per non dire scandalizzati, come può l’uomo conservare nel proprio cuore e per tanti anni, l’odio verso qualcuno. Indipendentemente da quelli che potrebbero essere i “motivi” che causano l’odio, l’insegnamento della Scrittura rimane sempre identico, con la stessa fermezza e precisione:

    Chi dice di essere nella luce e odia il proprio fratello, è ancora nelle tenebre.
    Ma chi odia il proprio fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre gli hanno accecato gli occhi
    (1 Giovanni 2:9,11).
    Da questo si riconoscono i figli di Dio e i figli del diavolo: chiunque non pratica la giustizia non è da Dio, e neppure lo è chi non ama il proprio fratello (1 Giovanni 3:10).

    Ed ancora: Chi odia il proprio fratello è omicida; e voi sapete che nessun omicida ha la vita eterna dimorante in sé (1 Giovanni 3:15).
    Infine: Se uno dice: Io amo Dio e odia suo fratello, è bugiardo; chi non ama, infatti, il proprio fratello che vede, come può amare Dio che non vede? (1 Giovanni 4:20).

    Si afferma che il trascorrere degli anni, conduce l’uomo a riflettere, a ripensare. Non fu però così per Esaù. Nonostante fossero trascorsi venti anni, durante i quali, Esaù, non aveva rivisto una sola volta Giacobbe, quello che si legge nel libro della Genesi, non fu soltanto sconvolgente e preoccupante per Giacobbe, lo è anche per ogni anima sensibile.

    Giacobbe si trova sulla strada di ritorno, alla volta di Canaan, dopo aver trascorso venti anni presso Labano, in Paddan-Aram. Siccome non si sentiva l’animo in pace, per tutto l’inganno e l’imbroglio che aveva fatto a suo fratello Esaù,

    mandò davanti a sé alcuni messaggeri al fratello Esaù, nel paese di Seir, nella campagna di Edom.
    E diede loro quest’ordine: Direte così ad Esaù, mio signore: Così dice il tuo servo Giacobbe: Io ho soggiornato presso Labano e vi sono rimasto finora;
    ho buoi, asini, greggi, servi e serve; e lo mando a dire al mio signore, per trovare grazia ai suoi occhi.
    I messaggeri tornarono quindi da Giacobbe, dicendo: Siamo andati da tuo fratello Esaù; ed ora sta venendo egli stesso ad incontrarti e ha con lui quattrocento uomini
    (Genesi 32:3-6).

    I quattrocento uomini presi con sé per incontrare suo fratello Giacobbe, parlano da soli; ci fanno vedere chiaramente quali erano le sue reali intenzioni nei confronti di Giacobbe. Se Esaù non mise la sua mano addosso a suo fratello e su tutto quello che egli aveva, non fu perché il suo cuore venne “ammorbidito” dalle parole: Tuo servo Giacobbe, mio signore Esaù, ma fu perché Dio, rispondendo alla preghiera accorata di Giacobbe, aveva cambiato tutte le cose (Genesi 32:9-11).

    Tutto quello che si legge in questi due capitoli 32 e 33 della Genesi, è una chiara descrizione di quello che Dio fece in quel giorno, quando i due fratelli si riconciliarono, e non vi fu nessuno spargimento di sangue. Quello che ha valore nella nostra vita, non è tanto quello che noi “sappiamo fare” quanto quello che “sa fare “Dio”. A lui sia la gloria, nei secoli dei secoli! Tutto quello che abbiamo detto, descrivendo le varie scene della vita di Giacobbe e di Esaù, a partire da quando erano nel grembo della madre fino al giorno della loro riconciliazione, l’abbiamo fatto in accordo con Ebrei 11:20: Per fede Isacco benedisse Giacobbe ed Esaù, riguardo a cose future.

    Ps: Se ci sono domanda da fare, sentitevi liberi di farlo e sarà una gioia da parte nostra, rispondere ai vostri quesiti.