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D’altra parte, l’atteggiamento di Giacobbe, che “con la sua mano teneva il calcagno di Esaù” - anche se si trovava in uno stato d’inconsapevolezza e d’innocenza -, oltre a lasciare perplessi il padre e la madre, sicuramente avrà indotto, specie i genitori, a chiedersi: perché mai questo e che cosa vorrà dire? Rebecca, a sua volta, poteva domandarsi: Chi dei due figli, sarà il “popolo più forte dell’altro?” Esaù, che è nato per il primo, è senza dubbio il “maggiore che servirà il minore”.

Sin da quando i due fratelli stavano nel grembo della madre, “spingendosi uno all’altro”, e poi con la nascita, Giacobbe “tiene con la mano il calcagno” del fratello, c’è già una precisa prefigurazione, di quello che sarà, circa l’atteggiamento che assumeranno i due fratelli, una volta diventati grandi.
Anche se queste cose si leggono nella Bibbia, resta sempre enigmatico il fatto come ha potuto fare Giacobbe, nel seno materno, a prendere il calcagno di suo fratello Esaù.

4. LA CONDIZIONE DI GIACOBBE E DI ESAÙ

La storia della benedizione di questi due fratelli da parte del loro padre Isacco, è narrata nel libro della Genesi nei minimi particolari. Giacobbe, da persona scaltra che è, - più tardi però si rivelerà “un soppiantatore, un imbroglione” - sfrutta una particolare situazione che si presenta davanti a lui, allorquando suo fratello Esaù, venendo dai campi tutto stanco, e vedendo che suo fratello Giacobbe aveva cucinato una zuppa rossa, chiede di dargli da mangiare quella pietanza.

Al che, furbamente Giacobbe, risponde: Vendimi prima la tua primogenitura (Genesi 25:31). Esaù, senza pensarci due volte, - e qui manifesta un’atteggiamento e una valutazione negativa circa il suo diritto di primogenitura - risponde: Ecco io sto per morire; che mi giova la primogenitura? (Genesi 25:32).

Con queste parole Esaù “sprezza la sua primogenitura”, e più tardi lo scrittore agli Ebrei, lo classificherà come un profano (Ebrei 12:16). Giova a questo punto analizzare l’agire di Giacobbe e quello di Esaù, per meglio capire il racconto e soprattutto vedere quali riflessioni possiamo fare. Anzitutto, diciamo subito, che sfruttare una qualsiasi situazione di disaggio, a scopo egoista, non è sicuramente raccomandabile e tanto meno rispecchia lo spirito cristiano. Qui non si tratta di sprezzare l’attività di esperto cacciatore di Esaù e di elogiare la condizione di “vivere nelle tende” di Giacobbe.

Non è il tipo di “lavoro” che ognuno fa che dobbiamo condannare o elogiare; è piuttosto l’attitudine che si assume davanti ad una particolare situazione che rivela quello che noi siamo. Trovarci in uno stato di “bisogno materiale”, come per esempio non avere di che mangiare - e la frase di Esaù: ecco io sto per morire, (non morirò) facilmente si riferisce ad una situazione di bisogno, alla mancanza di cibo -, non dovrebbe meravigliare nessuno, perché possiamo trovarci tutti in una necessità qualsiasi.

Se Esaù fu onesto e sincero nel dire a Giacobbe che non soltanto era stanco, ma era anche bisognoso di cibo, non lo fu Giacobbe nei confronti di suo fratello Esaù, quando gli diede del pane e della zuppa di lenticchie (Genesi 25: 34) ad una precisa condizione e con giuramento. Il cosiddetto “ricatto”, non è e non sarà mai raccomandabile e degno di essere elogiato.

Chi fa valere la sua condizione favorevole rispetto a chi si trova nel disagio, non agisce spinto dall’amore; agisce piuttosto spinto dal proprio egoismo. La Parola di Dio ci insegna che l’amore è benigno (1 Corinzi 13:4), e tutte le azioni di aiuto e opere di soccorso che si compiono, dovrebbero essere spinte e motivate dall’amore.

Se da una parte non possiamo elogiare l’atteggiamento egoista e senza scrupoli di Giacobbe, dall’altra parte, quella di Esaù, non si può esaltare, quando si nota il senso di sprezzare, un diritto e un privilegio che nessuno avrebbe potuto togliergli.

I profanatori, vale a dire, chi non tiene conto di un certo privilegio, non solo finiscono col considerarlo di poco valore, ma addirittura nel fare ciò, fanno vedere che pensano soltanto alle cose presenti, non hanno nessuna percezione e prospettiva per la vita futura, per l’eternità. La frase Ed egli mangiò e bevve; poi si alzò e se ne andò (v. 14), descrive chiaramente qual’era la finalità di Esaù. A costoro, si può applicare con ragione quello che Paolo affermò:

Se noi speriamo in Cristo solo in questa vita - o come dice Luzzi: per questa vita - noi siamo i più miserabili di tutti gli uomini (1 Corinzi 15:19).

5. I PREPARATIVI PER LA BENEDIZIONE

I preparativi per la benedizione di Giacobbe e di Esaù, sono descritti nei minimi particolari. Isacco è ormai vecchio e cieco, e presumendo che la sua morte è vicina, chiama

Esaù suo figlio maggiore, e gli disse: Figlio mio!
Egli disse: Eccomi! Allora Isacco disse: Ecco, io sono vecchio e non conosco il giorno della mia morte.
Deh, prendi ora le tue armi, il tuo turcasso e il tuo arco, esci nei campi e prendi per me della selvaggina;
poi preparami una pietanza saporita di quelle che mi piacciono, e portamela, perché io ne mangi e l’anima mia ti benedica prima che io muoia
(Genesi: 27:1-4).

L’ordine così dato viene accolto da Esaù, il quale, senza perdere tempo, si dirige verso i campi per procurare la selvaggina a suo padre, in vista di ricevere la sua benedizione. Ma mentre Isacco parla col suo prediletto figlio Esaù, c’è Rebecca che ascolta tutto quello che il marito dice al prediletto figlio.

Siccome però per Rebecca, il figlio prediletto è Giacobbe, non perde tempo di informarlo della volontà di suo padre circa la benedizione che vuole dare a Esaù suo fratello. Questo stato di “predilezione”, il padre per Esaù e la madre per Giacobbe, non è certo segno e prova di maturità e “d’imparzialità”. I genitori dovrebbero fare molta attenzione nel trattare i figli; devono evitare, in un modo fermo e decisivo, le parzialità, fonte e causa di litigi e di rancori a non finire mai.

Giacobbe, in un primo tempo, obbietta all’ordine di sua madre, vedendo chiaramente i rischi a cui va incontro, sia per la scoperta di falsità che il padre potrebbe fare e poi soprattutto pensando che invece di ricevere “una benedizione”, finirà col ricevere una “maledizione”; finisce però coll’acconsentire a sua madre quando questa lo rassicurò: [C[Questa maledizione ricada su di me, figlio mio! (Genesi 27:13).

I consigli che la madre Rebecca dà a suo figlio Giacobbe, ai fini di ricevere la benedizione, sembrerebbero a prima vista, che tutto l’imbroglio e l’inganno di cui Giacobbe si rese colpevole, debba “tutto” pesare sulla sua responsabilità. Ma se soppesiamo e valutiamo attentamente la “forza” di persuasione che Rebecca esercitò sulla vita di Giacobbe suo figlio, è più onesto e corretto addebitarlo a Rebecca.

Se dobbiamo essere obbiettivi e coerenti, non possiamo fare a meno di prendere atto che tutta la trama dell’imbroglio e dell’inganno, l’architettò Rebecca, anche se quest’ultima, probabilmente, non mise nella bocca le parole che Giacobbe disse a suo padre Isacco.

Le mamme devono fare molta attenzione quando esercitano la loro forza di persuasione sui propri figli! Un consiglio o un ordine sbagliato, dato ai figli, potrebbe causare nella loro vita, tanti “dispiaceri” e “amarezze” di incalcolabile portata. Ora qui, non vogliamo insinuare “uno stato di allerta”, da parte dei figli, intorno a quello che dice loro la mamma, per rigettare in partenza e in blocco, tutto quello che viene detto loro.

Si continuerà il prossimo giorno...