Domenico34 – Il cammino di un popolo – Dall’Egitto alla terra di Canaan. Sommario, Prefazione ed Introduzione. Capitoli 1-14

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Domenico34
00sabato 25 febbraio 2012 00:08
Capitolo 10




L’ARRIVO AL MONTE OR E LA MORTE DI AARONNE




Poi partirono da Cades e si accamparono al monte Or all’estremità del paese di Edom (Numeri 33:37).

Dopo la morte di Miriam e dopo la contesa alle acque di Meriba (e la relativa manifestazione d'incredulità), il popolo d’Israele lasciò Cades e si diresse verso il monte Or.

Quanto tempo passò prima di arrivare al monte Or, non ci viene detto. D’altra parte, non ha molta importanza, quello che ci interessa è ciò che accadde nella nuova tappa.

Il provvedimento disciplinare

Il SIGNORE parlò a Mosè e ad Aaronne al monte Or, ai confini del paese di Edom, e disse:
«Aaronne sta per ricongiungersi ai suoi padri, e non entrerà nel paese che ho dato ai figli d’Israele, perché siete stati ribelli al mio comandamento alle acque di Meriba…»
(Numeri 20:23-24).

Numeri 20:12 afferma che Mosè ed Aaronne non avevano creduto a Dio e non gli avevano dato gloria davanti agli occhi dei figli d’Israele; ora, al versetto 24, il Signore aggiunge un altro particolare, e cioè: vi siete ribellati al mio comandamento.
Questa nuova imputazione completa e aggrava notevolmente la situazione. Il peccato di ribellione, per la prima volta nella Bibbia viene applicato a Mosè e ad Aaronne, due eminenti servitori del Signore.

Il termine ebraico usato nel nostro brano è mârâh, che come primo significato ha: “amaro, sgradevole”. In senso figurato significa: “resistenza, provocazione, disubbidienza”.

Il verbo greco che lo traduce è apeitheo, che a volte può significare: “rifiutare di credere”; sovente significa “rifiutare di credere e di ubbidire”. Ribellione e incredulità, in effetti, non sono altro che disubbidienza a Dio. [Cfr. R. Bultmann, GLNT, (Grande Lessico del Nuovo Testamento), Vol IX, col. 1378-1382; P. Bläser, Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, Vol. I, col. 314-316].

Tenendo presente l’etimologia dei due termini usati qui, in ebraico e in greco, si può meglio valutare la gravità di questo peccato di ribellione e le conseguenze che produsse nella vita di Mosè e di Aaronne.

La sentenza divina che impedì ai due servitori di entrare nella terra promessa potrebbe essere considerata eccessiva o troppo severa. Però, se si considera la posizione occupata da Mosè e da Aaronne, davanti a Dio e alla comunità d’Israele, essa non è affatto dura.

Maggiore è la nostra responsabilità, più Dio si aspetta da noi. Come leggiamo nel Nuovo Testamento:

Fratelli miei, non siate in molti a far da maestri, sapendo che ne subiremo un più severo giudizio (Giacomo 3:1).

Il fatto stesso che i due in questione non fanno nessuna rimostranza contro quello che il Signore ha deciso, prova che ne sono pienamente consapevoli e lo accettano, senza addurre nessuna giustificazione.

Le giustificazioni che a volte tiriamo in ballo mirano a scaricare su altri la nostra responsabilità. Il classico esempio lo troviamo nei nostri progenitori, Adamo ed Eva.

L’uomo rispose: «La donna che tu mi hai messo accanto è lei che mi ha dato del frutto dell’albero e io ne ho mangiato».
Dio il SIGNORE disse alla donna: «Perché hai fatto questo?». La donna rispose: «Il serpente mi ha ingannata e io ne ho mangiato»
(Genesi 3:12,13).

In questa circostanza essi hanno cercato di scaricare la loro responsabilità e di non ammettere la propria colpa: l’uomo ha dato la colpa alla donna e la donna al serpente.
Lo sport dello “scaricabarile” è sempre molto praticato, a volte perfino nelle chiese.
Quanto è diverso l’atteggiamento che Daniele assunse davanti a Dio, secoli dopo, per la situazione negativa in cui si venne a trovare il popolo d’Israele:

Noi abbiamo peccato, ci siamo comportati iniquamente, abbiamo operato malvagiamente, ci siamo ribellati e ci siamo allontanati dai tuoi comandamenti e dalle tue prescrizioni.
Al Signore, che è nostro Dio appartengono la misericordia e il perdono; poiché noi ci siamo ribellati a lui
(Daniele 9:5,9).

Nelle Sacre Scritture la ribellione (a Dio o a chi Lo rappresenta è sempre stata duramente biasimata:

Condannali, o Dio! Non riescano nei loro propositi! Scacciali per tutti i loro misfatti, poiché si sono ribellati a te (Salmo 5:10).

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Domenico34
00domenica 26 febbraio 2012 00:04
Dunque, la decisione divina di privare Mosè ed Aaronne del privilegio di entrare nel paese di Canaan (alla testa del popolo), non è stata eccessiva ma adeguata alla responsabilità che essi avevano in mezzo alla comunità e per la gravità del peccato.

L’esclusione di Aaronne dalla terra promessa faceva parte del provvedimento disciplinare di Dio, ma la sua morte non può essere considerata come un’ulteriore conseguenza della sua ribellione.

Aaronne non morì perché disubbidì a Dio, ma semplicemente perché era arrivato il momento di essere riunito al suo popolo.

La morte di Aaronne e la successione


L’ordine che Dio dette a Mosè di salire sul monte Or, assieme a suo fratello e al nipote Eleazar, aveva a che fare con l’approssimarsi della morte di Aaronne e con il trasferimento del ministero di Aaronne.

Infatti, spogliare Aaronne dei suoi abiti e farli indossare dal figlio, sul monte Or, era simbolo del passaggio di consegna dell’ufficio di sommo sacerdote.

Notiamo che questa investitura del figlio come quella precedente del padre non vennero decretate dalla volontà dell’uomo, ma da Dio.

Più tardi, quando arriverà anche per Mosè il momento della morte, Dio gli ordinerà di salire sul monte Nebo per fargli guardare da lassù il paese di Canaan (che sarà dato in eredità al popolo d’Israel e per morirvi.

I due fratelli Aaronne e Mosè, quindi, morirono l’uno sul monte Or e l’altro sul Nebo; il primo alla presenza di suo fratello e di suo figlio, il secondo da solo (Deuteronomio 32:49,50).

L’invito a salire sopra il monte Or, assieme a suo fratello Mosè e al proprio figlio Eleazar, certamente non fu dato da Dio ad Aaronne per fargli vedere in lontananza la terra promessa, come avverrà per il fratello.

Il fatto poi che c’era suo fratello Mosè, il capo di tutta la comunità d’Israele, e il figlio di Aaronne, Eleazar, che avrebbe dovuto sostituirlo nell’ufficio di sommo sacerdote, questo spiega il motivo dell’ascesa al monte.

L’ufficio di sommo sacerdote era unico nel suo genere e non c’era livello religioso superiore, perciò la successione a quell’ufficio doveva necessariamente avvenire alla presenza di un capo supremo, come era appunto Mosè.

Più che di una pura formalità burocratica, si trattava di un atto ufficiale, voluto da Dio per confermare la validità e l’autorità di quell’alta carica.

Dunque, non c’è niente da eccepire circa l’investitura di Eleazar a successore di suo padre nell’ufficio di sommo sacerdote. Restano aperte un paio di questioni:

1) Perché la morte di Aaronne doveva avvenire sul monte Or?
2) Perché anche la successione all’ufficio di sommo sacerdote doveva ufficializzarsi in quel luogo?

Dal momento che la morte di Aaronne come il trasferimento del suo incarico furono decisi da Dio, senza la volontà dell’uomo, è evidente che questa scelta divina non avenne per caso.

Non fu casuale la persona scelta per la successione né il metodo; quindi, logicamente, ci doveva essere un particolare significato anche nella scelta del luogo.

In tutta la Bibbia, Dio ha chiamato solo due persone a salire su un monte per morirvi: Aaronne e Mosè.

«…la morte di Aaronne era inevitabile, dato che gli era stato precluso l’ingresso in Canaan per il fatto di Meriba (Numeri 20:12,24)» [Eugene H. Merrill, in Investigate le Scritture Antico Testamento, p. 254].

Non era però “inevitabile” che la sua morte avvenisse proprio sopra il monte Or. Prima di fare un tentativo per spiegare la questione è necessario avere un quadro preciso della posizione del monte Or, dal punto di vista geografico.

L’espressione biblica secondo cui Mosè, Aaronne ed Eleazar salirono sul monte Or: sotto gli occhi di tutta la comunità (v. 27), non significa che tutto quello che avvenne in quel luogo sia stato osservato dal popolo, ma è detto semplicemente che gli Israeliti li videro salire sul monte.

Perché questa precisazione? Per fornirci qualche indizio circa l’esatta ubicazione e l’identificazione del monte Or. Lo storico Giuseppe Flavio aggiunge che «Aaronne salì su un alto monte» [G. Flavio, Ant. IV,7].

«La tradizione lo identifica con il Djebel Harun (montagna d’Aaronn, con due vette, la cui altezza supera i 1400 m.
È il monte più alto e selvaggio di tutta la catena edomita. Dalla vetta di questa montagna, sulla quale si trova una tomba, considerata come quella di Aaronne, non si distinguono le vestigia della città. Questi dati tradizionali pongono tuttavia un problema: il Djebel Harun è al centro del paese di Edom e non ai confini, come invece doveva trovarsi la montagna di Or (Numeri 20:23).
Se Edom si estendeva fino al golfo d’Aqaba, gli Israeliti non avrebbero potuto raggiungere questa montagna senza attraversarne il territorio, cosa che era loro proibita (Deuteronomio 2:8). Il Djebel Madurah, a 24 Km. da Cades, sulla strada che collega direttamente Cades a Moab, dopo aver attraversato Moab, è una identificazione più probabile. Quanto è descritto in Numeri 20:22-29 potrebbe essere accaduto sul Djebel Madurah, mentre il Djebel Harun è troppo alto perché il popolo potesse vedere quello che avveniva» [R. Pache, Nuovo Dizionario Biblico, pp. 431-432].

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Domenico34
00lunedì 27 febbraio 2012 00:06
Quest’ultima affermazione che fa l’autore non la condividiamo per un semplice motivo.

Se lo scopo era di far “vedere” al popolo quello che vi avveniva non c’era bisogno di far salire Aaronne, Mosè ed Eleazar sul monte. Bastava una convocazione generale di tutto il popolo (magari davanti alla tenda di convegno), come era avvenuto altre volte, e la popolazione avrebbe assistito alla morte di Aaronne, allo spogliamento dei suoi paramenti e all’investitura del figlio Eleazar.

L’ascesa al monte ci suggerisce, come prima considerazione, la separazione dalla sfera terrena e in particolare da quell’ambiente peccaminoso che vide la grande ribellione di Core, Dathan e Abiram e la loro contestazione dell’autorità di Aaronne. L’episodio è raccontato in Numeri 16 e 17.

Dalla lettura di questi due capitoli sappiamo che la ribellione venne severamente punita e l’autorità del sacerdozio di Aaronne venne ribadita attraverso il miracolo della “verga” che in una sola notte aveva prodotto delle gemme, fatto sbocciare dei fiori e maturato delle mandorle (Numeri 17:23).

Attraverso questa prova, l’autorità dell’ufficio sacerdotale di Aaronne venne fortemente consolidata e anche la sua persona venne preservata e messa al sicuro. In virtù di questo speciale intervento divino Aaronne poté continuare lo svolgimento del suo ministero fino al giorno della sua morte.

Due scopi


La salita di Aaronne sul monte aveva due scopi ben precisi: la sua morte e lo spogliamento dei suoi paramenti sacerdotali.

La morte avrebbe messo termine alla sua vita terrena, lo spogliamento avrebbe posto fine al suo ufficio di sommo sacerdote.

La successione ovviamente doveva avvenire prima che sopraggiungesse la morte; ecco perché Dio ordina a Mosè di vestire Eleazar con i paramenti tolti a suo padre.

L’operazione di spogliamento e di rivestimento aveva il chiaro significato simbolico del passaggio del ministero sacerdotale da Aaronne ad Eleazar.

Salendo sulla montagna, Aaronne sa che Dio lo farà morire lassù, probabilmente per allontanarlo dall’ambiente ribelle in cui viveva il popolo.

Inoltre, su quest'altura, il passaggio all’altra vita è più agevole: i ricordi del passato, che facilmente lo avrebbero assillato se la sua morte fosse avvenuta nell’accampamento d’Israele, qui non lo sfiorano perché si trova in un ambiente diverso e più sereno.

Anche se davanti alla morte Aaronne non avrà la compagnia di tutti i membri della sua famiglia, egli sa con certezza che lo stesso Dio che lo ha fatto salire sulla montagna lo riceverà in gloria presso di Sé.

Egli sa anche che è stato Dio ad ordinare a suo fratello Mosè di spogliarlo dei suoi abiti sacerdotali e di rivestire suo figlio Eleazar, perciò non oppone nessuna resistenza e non chiede neppure perché deve morire senza paramenti addosso.

Se la successione del ministero di sommo sacerdote fosse avvenuta in mezzo al popolo, non sarebbe mancata qualche lamentela. Sicuramente i rivoltosi, avvezzi a questo tipo di mormorazioni, avrebbero commentato: “Hanno fatto tutto in famiglia, senza chiederci un parere”.

Dio, che conosce i cuori, ha voluto che la successione avvenisse sulla montagna, lontano da occhi indiscreti, per salvaguardare l’onorabilità e l’autorità del ministero.

In tal modo il successore avrebbe potuto svolgere serenamente il suo incarico a favore del popolo e per la gloria del santo Nome del Signore.

Finita tutta l’operazione, dopo che Aaronne viene “riunito al suo popolo”, Mosè ed Eleazar ritornarono all’accampamento dove iniziarono i giorni di lutto:

Quando tutta la comunità vide che Aaronne era morto, tutta la casa d’Israele lo pianse per trenta giorni (20:29).

PS: Se ala termine del capitolo 10 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura

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Domenico34
00martedì 28 febbraio 2012 00:07
Capitolo 11




IL SERPENTE DI RAME




Poi gli d’Israeliti partirono dal monte Or, andarono verso il mar Rosso, per fare il giro del paese di Edom; durante il viaggio il popolo si perse d’animo.
Il popolo parlò contro Dio e contro Mosè, dicendo: «Perché ci avete fatti salire fuori dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Poiché qui non c'è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo tanto leggero».
Allora il SIGNORE mandò fra il popolo dei serpenti velenosi i quali mordevano la gente, e gran numero d’Israeliti morirono
(Numeri 21:4-6).

Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il SIGNORE e contro di te; prega il SIGNORE che allontani da noi questi serpenti». E Mosè pregò per il popolo.

Il SIGNORE disse a Mosè: «Forgiati un serpente velenoso e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà morso, se lo guarderà, resterà in vita».
Mosè fece allora un serpente di rame e lo mise sopra un'asta; e avveniva che, quando un serpente mordeva qualcuno, se questi guardava il serpente di rame, restava in vita
(Numeri 21:4-9).

Dopo la morte di Aaronne e i relativi trenta giorni di lutto, il popolo continuò la marcia e, partendo dal monte Or, si diresse verso il Mar Rosso per poi aggirare il paese di Edom.

A questo punto il testo precisa che il popolo si perse d’animo, durante il viaggio (v. 4).

Lo scoraggiamento del popolo

Lo scoraggiamento è uno strano fenomeno che si manifesta spesso nella vita umana. I motivi sono molteplici.

Si può manifestare quando si incontrano problemi nello studio, nel lavoro, in attività commerciali di vario genere, ecc.; soprattutto quando, di fronte a un cospicuo impegno, non ci sono buoni risultati.

L’uomo è fatto così: al sorgere di una prova, di una difficoltà, di un pericolo o di un impedimento (specie quando le circostanze avverse si prolungano nel tempo), si fa prendere dallo scoraggiamento.

Questa iniziale sensazione, che poi si trasforma in un preciso atteggiamento, non investe solamente le persone di questo mondo, ma anche i credenti, i figli di Dio.
Lo scoraggiamento riguarda sia i fatti relativi alla vita terrena, che quelli relativi alla vita spirituale.

Per captare meglio il significato dello scoraggiamento, trascriviamo la definizione di un dizionario:

“Sentimento di sfiducia, di abbattimento morale, di avvilimento; perdita o mancanza di coraggio. Atteggiamento o comportamento che suscita sfiducia, sconforto, delusione” [S. Battaglia, GDLI, (Grande Dizionario della lingua italiana), Vol. XVIII, pag. 217].

Nel nostro testo di Numeri 21:4 è presente il termine ebraico qâtsar, che si può tradurre in italiano in diversa maniera:

* si fece impaziente (G. Luzzi);
* si perse d’animo (Nuova Rivedut;
* l’animo venne meno (G. Diodati);
* [C[si scoraggiò (Nuova Diodati);
* non sopportò il viaggio (CEI);
* cominciò ad annoiarsi (A. Martini);
* divenne impaziente (Marietti).

Dal punto di vista statistico è la prima volta che troviamo scritto nella Bibbia che il popolo si scoraggiò.
I testi successivi che parlano di scoraggiamento sono:

Perché volete scoraggiare i figli d’Israele dal passare nel paese che il SIGNORE ha loro dato?
Così fecero i vostri padri, quando li mandai da Cades-Barnea per esplorare il paese.
Salirono fino alla valle d’Escol; e, dopo aver esplorato il paese, scoraggiarono i figli d’Israele dall’entrare nel paese che il SIGNORE aveva dato loro
(Numeri 32:7,9);

Ecco, il SIGNORE, il tuo Dio, ha messo davanti a te il paese; sali, prendine possesso, come il SIGNORE, il Dio dei tuoi padri, ti ha detto; non temere e non ti spaventare» (Deuteronomio 1:21);

I miei fratelli, che erano saliti con me, scoraggiarono il popolo, ma io seguii pienamente il SIGNORE, il mio Dio (Giosuè 14:8);

Allora la gente del paese si mise a scoraggiare il popolo di Giuda, a molestarlo per impedirgli di fabbricare (Esdra 4:4);

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Domenico34
00mercoledì 29 febbraio 2012 01:31
Allora il più valoroso, anche se avesse un cuor di leone, si avvilirà, perché tutto Israele sa che tuo padre è un prode e che quelli che ha con sé sono valorosi (2 Samuele 17:10);

Egli non verrà meno e non si abbatterà finché abbia stabilito la giustizia sulla terra; e le isole aspetteranno fiduciose la sua legge» (Isaia 42:4);

Padri, non irritate i vostri figli, affinché non si scoraggino (Colossesi 3:21);

Vi chiedo quindi di non scoraggiarvi a motivo delle tribolazioni che io soffro per voi, poiché esse sono la vostra gloria (Efesini 3:13).

Vi esortiamo, fratelli, ad ammonire i disordinati, a confortare gli scoraggiati, a sostenere i deboli, a essere pazienti con tutti (1 Tessalonicesi 5:14).

In questi versetti incontriamo svariati motivi che possono suscitare lo scoraggiamento.

Nel testo di Numeri 21:4 leggiamo che è a causa del lungo viaggio, susseguente alla partenza dal monte Or, che il popolo si scoraggiò.

Sentiamo le osservazioni di alcuni commentatori:
«…la stanchezza d'Israele per la lunga marcia intorno alla terra di Edom, perché non hanno ottenuto il permesso di attraversarla (cfr. Numeri 20:14-21): [La citazione è nostra] il popolo si stancò a motivo del viaggio (v. 4).

Forse perché la strada era scabrosa e accidentata, oppure perché era impraticabile e sporca; o perché li obbligava a girare troppo alla larga e perché non avevano il permesso di passare in forza nel territorio degli Edomiti. Quelli che sono di spirito scontento e stizzoso, troveranno sempre qualcosa che li turbi» [M. Henry, Commentario Biblico, versione italiana, Vol. 2, p. 248].

«Ancora una volta Mosè dovette constatare l’impossibilità di entrare in Canaan da sud e sembra anche che egli avesse rinunciato al suo progetto di dirigersi verso nord attraverso l’Arabia. Questo spiegherebbe perché egli abbia condotto Israele dal monte Or... verso il mar Rosso (il golfo di Aqab » [Eugene H. Merril, Investigate le Scritture Antico Testamento, p. 255].

Il popolo mormora nuovamente


Gli Israeliti tendevano sempre a prendersela con Dio e con Mosè, ad ogni occasione sgradevole.

Se Mosè ha dovuto guidare la marcia del popolo in un percorso più lungo, fu essenzialmente perché il re di Edom non aveva permesso ad Israele di attraversare il suo territorio.

Mosè non aveva nessuna colpa e tanto meno Dio; invece il popolo se la prende con Dio e col Suo servitore.

Gli Israeliti addebitano ad entrambi il fatto di trovarsi in un deserto, dove non c’è né pane né acqua, e il cibo che Dio provvede ogni giorno lo considerano tanto leggero (o miserabile, N. Diodati) e ne sono addirittura nauseati (v. 5).

Questo linguaggio lascia trapelare il malcontento e perfino il disprezzo. Si trattava di un cibo che veniva dal cielo, cioè era provveduto da Dio; di conseguenza non gradirlo equivaleva a disprezzare il dono del Signore.

È terribile quando un popolo o un individuo sottovalutano o, peggio ancora, disprezzano le opere di Dio. Dio punì severamente Israele fargli comprendere che non poteva tollerare questo genere di atteggiamento. Pertanto, la lezione che Dio diede ai figli d’Israele, in quel lontano passato, costituisce un serio monito anche per noi cristiani:

…queste cose avvennero loro per servire da esempio e sono state scritte per ammonire noi (1 Corinzi 10:11)

Ogni presa di posizione ostile, tendente a disprezzare quello che Dio compie, è un'offesa alla Sua persona, alla Sua onnipotenza ed è anche una ribellione alla Sua autorità.

E questa non era la prima volta che essi assumevano una posizione simile: già altre volte avevano manifestato lo stesso sentimento ostile nei confronti del loro Dio misericordioso che li aveva tratti dalla dura schiavitù d’Egitto.

Dunque non erano animati da un leggero e comprensibile malcontento, ma da vera e propria ingratitudine verso Dio, Colui che si prendeva cura di loro ogni giorno.

L’ingratitudine può condurre l’uomo sul sentiero dell’oscurità, verso una condizione tenebrosa in cui la vivida luce divina non risplende più nel cuore dell’uomo.

Questo infausto atteggiamento è più che una mancanza d'intendimento: nasconde qualcosa di più serio e di più grave.

Se facciamo riferimento alle chiare parole di Gesù: «Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre ma avrà la luce della vita» (Giovanni 8:12), possiamo valutare la gravità della scelta di chi vuole camminare e vivere nelle tenebre.

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Domenico34
00giovedì 1 marzo 2012 00:03
Chi non segue il Signore (e seguirlo significa attenersi alla Sua Parola e al suo insegnamento) brancola nel buio del peccato e non realizza che sta sbagliando, né vede la via d’uscita.

La mancanza di luce non permette di scorgere e di valutare correttamente né le cose vicino a noi né (cosa più important ciò che riguarda Dio: le Sue vie e la Sua volontà.

Se il popolo d’Israele venne a trovarsi in questa condizione negativa è perché non stava seguendo Dio e, quindi, finì con lo scoraggiarsi a causa del viaggio e col considerare privo di valore il cibo che Dio mandava dal cielo ogni giorno.

I serpenti velenosi


Davanti alla loro posizione di aperta ostilità, Dio mandò in mezzo agli Israeliti dei serpenti che con i loro morsi ne fecero morire tanti (v. 6).
Fu una severa punizione quella che Dio dovette infliggere. Più tardi l’apostolo Paolo, prendendo spunto da quell’episodio, ammonirà la fratellanza con queste parole:

...non tentiamo il Signore, come alcuni di loro lo tentarono, e perirono, morsi dai serpenti (1 Corinzi 10:9).

Ai nostri giorni, forse, non ci sono serpenti velenosi come quelli che fecero morire gli Israeliti, ma ci sono altri tipi di serpi, altrettanto velenose, che con i loro morsi producono la morte spirituale, cioè l’allontanamento da Dio.

Queste serpi possono simboleggiare gli spiriti maligni o le tentazioni che si insinuano subdolamente nella mente e nel cuore di colui che non cammina nella luce del Signore e che, più o meno consapevolmente, apre la porta al nemico.

La porta d’ingresso in genere è sempre la stessa: disprezzare quello che Dio fa e rivoltarsi contro di Lui.

Il popolo riconosce il proprio peccato

Dopo le dimostrazioni di malcontento e di ribellione contro Dio e contro Mosè, e dopo che i serpenti velenosi hanno fatto morire tanti Israeliti, sorge un raggio di speranza.
Quella tragica situazione li spinge a prendere coscienza di aver peccato.

Il fatto poi che sono andati spontaneamente da Mosè a confessare il loro peccato è un chiaro segno di ravvedimento e di pentimento.

Quando in una persona si manifesta il vero ravvedimento, esso porta sempre a riconoscere e confessare il proprio peccato. Una cosa è ammettere dentro di noi di aver peccato, ben altro, invece, è quando lo si confessa con la propria bocca. La Scrittura infatti afferma:

Chi copre le sue colpe non prospererà, ma chi le confessa e le abbandona otterrà misericordia (Proverbi 28:13).

Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità (1 Giovanni 1:9).

Questo è vero in qualsiasi tempo e per qualunque individuo. Colui che sinceramente riconosce il proprio peccato e lo confessa, in pratica si apre all’azione della grazia, permettendo finalmente a Dio di operare nella sua vita (si confronti Luca 15, la parabola del Figliuol Prodigo, o Luca 18, il fariseo e il pubblicano).

Il peccato d’Israele, come abbiamo visto, consisteva nell’aver parlato contro il Signore e contro Mosè. Non è facile comprendere che quando si parla contro Dio e i suoi servitori si è commesso un peccato, cioè si è trasgredita la legge divina (1 Giovanni 3:4).

Ma, grazie a Dio, ci pensa lo Spirito del Signore ad aprire la mente e a convincere il mondo di peccato (Giovanni 16:8).

Gli Israeliti quindi confessarono a Mosè di aver peccato, e gli chiesero allo stesso tempo di pregare il Signore per loro, affinché i serpenti velenosi si allontanassero.

Mosè, da persona umile com’era, non esitò ad innalzare una preghiera d’intercessione perché Dio liberasse il popolo da quei serpenti che avevano fatto morire tanta gente.

E Dio, che è sempre benigno e misericordioso, non appena vede un segno chiaro di ravvedimento e di pentimento, non esita ad indicare il rimedio al peccatore.

Dobbiamo sempre ricordare che Egli non trova affatto piacere nella morte dell’empio, quanto piuttosto nella sua salvezza (cfr. Ezechiele 18:23).

Dio è tanto pietoso da offrire il perdono a tutti quelli che veramente riconoscono il loro peccato e lo confessano, e quindi rivela loro come trovare la salvezza.

Può sorprendere come mai Dio, pur esaudendo la preghiera d’intercessione di Mosè, non allontani subito i rettili velenosi dal campo degli Israeliti.
L’episodio deve essere attentamente considerato e approfondito, per captarne i vari aspetti.ù

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Domenico34
00venerdì 2 marzo 2012 00:06
Le due domande scontate sono dunque: (1) Perché i serpenti velenosi non furono allontanati? (2) A che serviva la loro permanenza?

1) Perché i serpenti velenosi non furono allontanati?



Che il popolo d’Israele si sia pentito di aver parlato contro Dio e contro Mosè, è un dato certo e l’esaudimento della preghiera di Mosè ne è la prova eloquente.

Il fatto stesso che il Signore comanda a Mosè di costruire un serpente di rame e di metterlo sopra un’asta, alla vista di tutti, rappresenta un’ulteriore conferma.

Quel serpente di rame, secondo il disegno divino, non doveva diventare oggetto di culto e di adorazione, come purtroppo avverrà più tardi (cfr. 2 Re 18:4), ma solamente un simbolo, un punto di riferimento verso cui rivolgere lo sguardo nel momento del pericolo.

Il SIGNORE disse a Mosè: «Forgiati un serpente velenoso e mettilo sopra un'asta; e avverrà che chiunque sarà morso e lo guarderà, vivrà».
Mosè fece allora un serpente di rame lo mise sopra un'asta; e avveniva che, quando un serpente mordeva qualcuno, se questi guardava il serpente di rame, restava in vita
(vv. 8,9)

Dio voleva insegnare qualcosa d'importante al Suo popolo attraverso quel serpente di rame.

Il serpente costruito da Mosè era il mezzo di salvezza per tutti gli Israeliti che venivano infettati dal veleno di quei rettili pericolosi.
Ma l’effetto benefico nella vita delle persone morse non si produceva in maniera automatica.

Quell’oggetto di rame, issato in alto sopra un’asta, come abbiamo detto era il mezzo di salvezza provveduto da Dio, ma solamente per chi lo guardava. Per chi non lo guardava non c’era scampo: subentrava la morte.

Dunque, dai due versetti riportati sopra, si può notare che Dio aveva esaudito la preghiera d’intercessione di Mosè, ma i rettili velenosi non furono allontanati e continuarono a muoversi in mezzo al popolo e a morderli.

La novità stava nel fatto che prima il popolo moriva, ora poteva sopravvivere, grazie al serpente di rame issato sull’asta, che garantiva l’incolumità a chiunque lo guardava.

2) A che serviva la loro permanenza?

La presenza dei rettili velenosi in mezzo all’accampamento serviva per verificare se il popolo avrebbe creduto o no a ciò che Dio aveva detto.

In base all’ordine dettagliato del Signore, per prima cosa Mosè doveva costruire un serpente di rame, poi doveva innalzarlo sopra un’asta e infine l’Israelita morso lo doveva guardare.
Nelle parole: se questi lo guardava, troviamo manifestata tutta la forza che scaturisce dal credere a Dio.

L’efficacia di un farmaco che il medico prescrive contro un male si può constatare solo se l’ammalato assume la medicina.

Nella stessa maniera, la veracità della Parola di Dio si può sperimentare solamente mettendola in pratica.

Quelli che non sono disposti a questa prova non avranno mai la certezza della veridicità di quello che il Signore afferma.

Il serpente di rame era stato posto in cima all’asta perché tutti lo potessero vedere e (volendo spiritualizzar perché lo sguardo fosse puntato verso l’alto, in direzione del mezzo di salvezza provveduto da Dio.

Se un Israelita, morso da un serpente, si guardava attorno o andava in cerca di rimedi umani per liberarsi dal veleno che era stato immesso nel suo corpo, non c’era nessuna speranza di sopravvivenza: la morte sarebbe stata certa.

L’insegnamento cristiano

«E, come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che il Figlio dell'uomo sia innalzato,
affinché chiunque crede in lui abbia vita eterna.
Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna
(Giovanni 3:14-16).

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Domenico34
00sabato 3 marzo 2012 00:04
Questo episodio, a cui si riferisce Giovanni nel suo vangelo, è molto importante perché è tratto dal testo di cui ci stiamo occupando e anche perché l’evangelista lo applica a Gesù, il Figlio dell’uomo che dev’essere innalzato. Il suo innalzamento è un ovvio riferimento alla croce.

Oltre a ciò il testo giovanneo ha grande importanza perché è direttamente riferito alla dottrina della salvezza.

Il testo dei Numeri afferma che se l’Israelita morso dal rettile velenoso guardava il serpente di rame veniva liberato dalla morte fisica.

Invece, il Nuovo Testamento ribadisce più volte che chi crede nel Figlio dell’uomo, innalzato sulla croce, non perirà ma avrà la vita eterna, e quindi sarà salvato dalla morte eterna.

Tra il concetto di “guardare” e quello di “credere” c’è una notevole differenza, sia nella forma che nella sostanza.

Che Giovanni abbia dato una notevole importanza teologica al concetto di “credere” nel suo evangelo è fuori discussione: basta ricordare le tantissime volte che lo impiega [Per l’esame di tutti i testi che riportano il concetto di ‘credere’, consigliamo la lettura della nostra trattazione su: “La fede nell’insegnamento della Bibbia”, pagg. 281-322].

L’insegnamento del Nuovo Testamento stabilisce in maniera dogmatica che non c’è salvezza, cioè vita eterna, all’infuori di Gesù Cristo (Atti 4:12; 1 Giovanni 5:11-12).

Il peccatore che vuole essere salvato deve credere in Cristo, il Messia che è stato inviato dal Padre per salvarci. Lo stesso Gesù, in tutto il tempo della sua permanenza sulla terra, ha invitato continuamente le persone a credere in Lui.

Anche gli apostoli hanno fatto lo stesso, predicando la fede in Cristo in tutti gli scritti che ci hanno lasciati.

Ma che significa credere in Gesù Cristo? Il testo che abbiamo riportato spiega che Gesù è venuto nel mondo ed è stato innalzato sulla croce (pur essendo del tutto innocent come l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (Giovanni 1:29).

La sua morte espiatoria sulla croce, lui santo al posto di noi peccatori, rappresenta la sola via della salvezza (Giovanni 14:6) per chiunque crede (Romani 1:16; 9:33; 10:11).

Nei serpenti velenosi che causarono la morte a tanti Israeliti possiamo intravedere anche le mortali conseguenze del peccato (…il salario del peccato è la morte, Romani 6:23).

Questa triste eredità, lasciata dai nostri progenitori Adamo ed Eva all’intera umanità, è qualcosa che sta sotto gli occhi di tutti.

Secondo le Scritture la morte fisica di ogni essere umano viene ricondotta al loro peccato originale (Romani 5:12) e nessuno dei loro discendenti è immune da questo mortale veleno.

Se in mezzo al popolo d’Israele non fossero intervenuti il ravvedimento e il pentimento, i serpenti velenosi avrebbero continuato a far morire la gente, e nulla glielo avrebbe potuto impedire.

Ma Dio, che è ricco in misericordia e in compassione, ha provveduto un mezzo di salvezza per Israele attraverso il serpente di rame.
Analogamente, Egli ha provveduto la salvezza per l’intera umanità per mezzo di Cristo Gesù che, spiritualmente parlando, era prefigurato dal serpente di rame.

A chi considerasse blasfemo questo accostamento ricordiamo prima di tutto che è stato fatto dall’evangelista Giovanni; in secondo luogo, l’apostolo Paolo sottolinea che il Padre ha fatto diventare Gesù peccato per noi (2 Corinzi 5:21).

In altre parole, Lui che era il Santo per eccellenza è stato caricato dei nostri peccati fino a diventare abominevole agli occhi santi di Dio, fino a diventare interamente peccato.

Ecco il perché del grido straziante: Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? (Matteo 27:46).

Notiamo inoltre che allora, come oggi, la salvezza del peccatore è gratuita, non viene richiesto nessun pagamento.
L’unica cosa che l’uomo deve fare affinché non perisca, ma abbia vita eterna, è credere in Gesù.

PS: Se al termine del capitolo 11 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura

Si proseguirà il prossimo giorno...
Domenico34
00domenica 4 marzo 2012 00:33
Capitolo 12




BALAC E BALAAM




Vittoria d’Israele

L’iniziativa di Balac, vòlta a maledire Israele, si trova descritta nei capitoli 22-24 del libro dei Numeri.

Tutta la faccenda è sicuramente scaturita dalle notizie che erano arrivate a Balac, re di Moab, circa le due vittorie precedenti d’Israele.
Prima di occuparci di Balac, consideriamo brevemente queste due vittorie che Israele conseguì su Sicon e su Og, il primo, re degli Amorei e il secondo, re di Basan.

Gli episodi in questione sono narrati in Numeri 21:21-35 e per meglio valutarne la portata è necessario esaminare il contesto in cui sono maturati.

Dopo la partenza dal monte Or il popolo d’Israele toccò diverse località prima di arrivare nella campagna di Moab, verso l’altura del Pisga che domina il deserto.

Questi luoghi sono menzionati in Numeri 21:10-20.

Dalla campagna di Moab Israele mandò ambasciatori a Sicon, re degli Amorei, per chiedergli il permesso di passaggio:

«Lasciami passare per il tuo paese; noi non ci svieremo per i campi né per le vigne, non berremo l'acqua dei pozzi; seguiremo la strada pubblica finché abbiamo oltrepassato i tuoi confini» (Numeri 21:22).

Il Deuteronomio aggiunge altri particolari che il libro dei Numeri non riporta:
Lasciami passare per il tuo paese; io camminerò per la strada maestra, senza girare né a destra né a sinistra.
Tu mi venderai per denaro contante i cibi che mangerò, e mi darai per denaro contante l'acqua che berrò; permettimi semplicemente il transito
(Deuteronomio 2:27-28)

La richiesta era sincera, nel senso che gli Israeliti non avevano intenzione di appropriarsi di quello che apparteneva agli Amorei; ma questi non lo credettero.

Non ci sarebbe stato niente di strano se il re degli Amorei, nel pieno diritto della sua sovranità e della sua autonomia, si fosse limitato a negar loro il permesso di transito sul suo territorio.

Il popolo d’Israele, da parte sua, non avrebbe avuto alcun diritto di pretenderlo, anche se il rifiuto poteva essere interpretato come un gesto di inimicizia e sfiducia.

Purtroppo il re degli Amorei prese una decisione provocatoria e infausta:

Sicon non permise a Israele di passare per il suo territorio; anzi radunò tutta la sua gente e uscì fuori contro Israele nel deserto; giunse a Iaas e affrontò Israele (Numeri 21:23).

Se gli Israeliti non avessero tenuto conto del rifiuto degli Amorei e avessero marciato sul loro territorio, la decisione di Sicon di attaccarli sarebbe stata giustificata. Invece, gli Israeliti non avevano nessuna intenzione di muover guerra agli Amorei ma, essendo stati attaccati, dovettero necessariamente difendersi.

Come risultato del combattimento, Israele vinse la battaglia e conquistò il paese dall’Arnon fino allo Jabboc, compiendo anche un massacro fra gli Amorei; infatti, come dice il sacro testo, vennero passati a fil di spada (v. 24).

Questo massacro si sarebbe potuto evitare se il re Sicon non avesse preso l’iniziativa di combattere contro Israele: si sarebbero risparmiate tante vite umane e il territorio degli Amorei non sarebbe andato a finire agli Israeliti (almeno per quel tempo, visto che più tardi, sotto la direzione di Giosuè, Israele avrebbe conquistato il loro territorio).

Una lezione per tutti

Agire con delicatezza e cortesia, soprattutto per le cose che non ci appartengono, è l’atteggiamento migliore che si possa assumere. Gli Israeliti hanno manifestato questo atteggiamento quando hanno chiesto il permesso di transitare per il territorio degli Amorei e si sono anche impegnati a pagare le vettovaglie e l’acqua che avrebbero consumato.

Si proseguirà il prossimo giorno...
Domenico34
00lunedì 5 marzo 2012 01:30
Non sempre però le richieste fatte con sincerità, in buona fede e con rispetto per gli altri, vengono comprese e accettate.
Il sospetto fa vedere e interpretare la realtà in maniera distorta, e induce a pensare che ci sia sempre sotto qualcosa di losco.
Ecco alcuni esempi di sospetti e atteggiamenti sbagliati, risalenti ai tempi di Davide.

Dopo queste cose, il re degli Ammoniti morì, e Canun, suo figlio, regnò al suo posto.
Davide disse: «Voglio usare a Canun, figlio di Naas, benevolenza, come suo padre ne usò verso di me».Davide mandò i suoi servitori a consolarlo della perdita del padre. Ma quando i servitori di Davide giunsero nel paese dei figli di Ammon,
i prìncipi dei figli di Ammon dissero a Canun, loro signore: «Credi tu che Davide ti abbia mandato dei consolatori per onorare tuo padre? Non ha piuttosto mandato da te i suoi servitori per esplorare la città, per spiarla e distruggerla?»
Allora Canun prese i servitori di Davide, fece loro radere la metà della barba e tagliare la metà delle vesti fino alle natiche, poi li rimandò.
Quando fu informato della cosa, Davide mandò gente a incontrarli, perché quegli uomini provavano grande vergogna. Il re fece dire loro: «Restate a Gerico finché vi sia ricresciuta la barba, poi tornerete»
(2 Samuele 10:1-5).

Da questo episodio realizziamo quali tristi conseguenze possono derivare da un atteggiamento sospettoso.
Se il re Canun non avesse accolto le insinuazioni dei suoi principi, non avrebbe fatto radere la barba e tagliare la veste degli uomini di Davide fino alle natiche.
Non ci sarebbe stata battaglia tra l’esercito di Davide e il suo e non ci sarebbe stata la conseguente sconfitta di Canun, con tutti i suoi alleati, da parte di Davide.

Il detto della Scrittura è verissimo: Un abisso chiama un altro abisso... (Salmo 42:7) e significa che il male non fa che produrre altro male, e mai del bene.

Anche l’iniziativa di Abner, che andò a parlare a Davide per riportare tutto Israele sotto il suo dominio, venne interpretato da Joab come se Abner fosse venuto per controllare le posizioni di Davide e non per unire Israele sotto un solo re.

Il sospetto portò Joab a uccidere a sangue freddo Abner, che era un guerriero migliore di lui (anche per vendicare la morte di Asahel, suo fratello, per mano di Abner: cfr. 2 Samuele 3:6-27).

Il sospetto può anche causare tragedie in seno alle famiglie; può facilmente inquinare l’equilibrio e rompere le amicizie più solide, producendo tensioni e ostilità che poi hanno terribili conseguenze.

Quando si sospetta il male, o si fraintende il bene, è facile intraprendere strade o decisioni sbagliate, senza ponderare a sufficienza le conseguenze che ne potrebbero derivare.

I diritti non si dovrebbero mai difendere a spada tratta e con atteggiamenti bellicosi (anche se a volte è quasi inevitabil, ma con lo spirito pacifico e misericordioso.

Il detto della Scrittura, valido per ogni situazione, ammonisce saggiamente: Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene (Romani 12:21).

Davanti a una provocazione, specie se ingiustificata, è difficile risolvere pacificamente una questione senza che si verifichino danni in entrambe le parti in causa.

Pensiamoci bene prima di rispondere male a chi ci chiede un favore e non ha secondi fini.

Una risposta sbagliata, oltre a condurre l’uomo sul sentiero della disfatta, può causare ferite profonde che difficilmente saranno rimarginate.

Vittoria su Basan


Archiviata la vittoria sugli Amorei, si aprì un altro fronte di ostilità per gli Israeliti.
Questa volta fu Og, il re di Basan, che uscì contro di loro con tutta la sua gente per dar loro battaglia a Edrei (Numeri 21:33).

Eppure Israele non gli ha fatto nessun affronto, non gli ha neppure chiesto di passare per l suo territorio, come aveva fatto con gli Amorei.

Forse, sentendo che Israele si era stabilito nel paese degli Amorei (v. 31) e che stava salendo per la strada di Basan, Og avrà pensato: “Sicuramente ora vengono da noi per assalirci e trattarci nella stessa maniera con cui hanno trattato gli Amorei.

Vengono a impossessarsi del nostro territorio”.
Con questa convinzione, il re pensò che l'unica cosa da fare era muovere una guerra preventiva contro Israele.

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Domenico34
00martedì 6 marzo 2012 00:09
Davanti alla minaccia che si profilava, Dio prese ancora una volta le difese del Suo popolo e gli fece un’incoraggiante promessa:

«Non lo temere, poiché io lo do nelle tue mani: lui, con tutta la sua gente e il suo paese; trattalo come hai trattato Sicon, re degli Amorei che abitava a Chesbon» (v. 34).

Rafforzato dalla Parola del Signore, Israele non si perdette d’animo, ma con coraggio e determinazione affrontò il re di Basan, vinse la battaglia e si impadronì del paese (v. 35).

Quando il popolo di Dio si affida alle attenzioni del suo Signore e crede soprattutto alla Sua Parola, nessuno può ostacolare o fermare la sua avanzata.

Nessun nemico potrà prevalere e adattando le parole di Gesù: le porte dell’Ades non potranno vincere (Matteo 16:18).

Balac convoca Balaam


Poi i figli d'Israele partirono e si accamparono nelle pianure di Moab, oltre il Giordano di Gerico.
Balac, figlio di Sippor, vide tutto quello che Israele aveva fatto agli Amorei;
e Moab ebbe una gran paura di questo popolo che era così numeroso; Moab ebbe grande paura di questo popolo, che era così numeroso; Moab fu preso dall’angoscia a causa dei figli d’Israele.
Perciò Moab disse agli anziani di Madian: «Ora questa moltitudine divorerà tutto ciò che è intorno a noi, come il bue divora l'erba dei campi. In quel tempo Balac, figlio di Sippor era re di Moab.
Egli mandò ambasciatori da Balaam figlio di Beor, a Petor che sta sul fiume, suo paese d’origine, per chiamarlo e dirgli: «Ecco, un popolo è uscito dall'Egitto; esso ricopre la faccia della terra e si è stabilito di fronte a me.
Vieni dunque, te ne prego, e maledicimi questo popolo poiché è troppo potente per me; forse così riusciremo a sconfiggerlo e potrò scacciarlo via dal paese; poiché so che chi tu benedici è benedetto e chi tu maledici è maledetto
(Numeri 22:1-6).

Prima di entrare nel vivo della storia di Balaam, così come viene presentata dalla Bibbia (non solo nei capitoli 22-24 dei Numeri), si impongono d’obbligo un paio di domande: (1) perché Balac mandò a chiamare Balaam e (2) com'era considerato a quel tempo questo strano personaggio?

Gli anziani di Moab e quelli di Madian, quando partirono alla volta di Balaam, avevano nelle loro mani la ricompensa per l’indovino (v. 7) e questo dimostra che Balaam era conosciuto come mago e indovino.

Ma in Numeri 24:1 viene affermato che Balaam non ricorse come le altre volte all’uso della magia.

Le due parole ebraiche qîr’âh (cercare; perseguire; chiedere; indagar enachash (incantesimo, magia, oracolo), che si trovano in 24:1, non sono state tradotte nella stessa maniera.

* G. Diodati le ha tradotte: andò… a incontrare auguri;
* G. Luzzi: ricorse alla magia;
* N. Diodati: ricorse all’uso di sortilegi;
* N. Riveduta: ricorse alla magia;
* CEI: rivolgersi alla magia;
* Martini: cercare augurio;
* Marietti: ricorse agli auguri.

Insomma, Balaam era un noto indovino e lo storico Giuseppe Flavio conferma che era «il più valente indovino di allora» [G. Flavio, Ant. IV, 104; Eugene H. Merrill, lo considera «un noto mago», cfr. Investigate le Scritture Antico Testamento, p. 256; M. Henry, lo definisce «mago famoso», Commentario Biblico, versione italiana, Vol. 2, p. 256].

Tra i tanti passi della Bibbia che trattano di questo personaggio misterioso ce ne è uno che lo definisce profeta:

…Lasciata la strada diritta, si sono smarriti seguendo la via di Balaam, figlio di Beor, che amò un salario di iniquità,
ma fu ripreso per la sua prevaricazione: un’asina muta, parlando con voce umana, represse la follia del profeta
(2 Pietro 2:15,16).

Come mai l’apostolo Pietro dà questa qualifica a Balaam? L’Epistola non lo chiarisce, quindi è necessario percorrere un’altra strada per scoprirlo.

Anche se l’apostolo lo definisce profeta non è possibile pensare che voglia classificarlo nel numero dei veri profeti del Signore, perché nessuno di loro, secondo quello che la Bibbia documenta, ha mai praticato la magia o la divinazione. Probabilmente Pietro faceva riferimento ai veggenti di Mari:

«Balaam proveniva da Petor, una città sul fiume, probabilmente l’Eufrate. È possibile che Petor non fosse troppo lontana dalla grande città di Mari, scoperta nel 1933 nella valle dell’Eufrate. La scoperta, iniziata appunto nel 1933, di un gran numero di tavolette cuneiformi a Mari, rivelò fra le altre cose l’esistenza di un complicato culto di profeti e veggenti, le cui attività sembrano proprio quelle attribuite a Balaam. Il fatto che egli era, senza dubbio, il principale rappresentante di tutte le usanze e le pratiche profetiche di Mari e dei luoghi vicini, aiuta a comprendere meglio questo episodio di Balaam del libro dei Numeri» [Eugene H. Merrill, cfr. Investigate le Scritture Antico Testamento, pp. 256-257].

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Domenico34
00mercoledì 7 marzo 2012 00:04
E allora, che tipo d’uomo era costui? Prima di passare in rassegna gli altri testi che ne parlano, esaminiamo il contenuto dei capitoli 22-24 dei Numeri.

Balac, re di Moab, mandò a chiamare Balaam perché ebbe paura nel vedere il popolo d’Israele così numeroso, accampato nelle pianure di Moab.
Avendo sentito della disfatta dei due re Amorei, Sicon e Basan, temeva che la stessa sorte toccasse anche a lui e al suo popolo.

Sapendo che le forze militari di cui disponeva non sarebbero bastate ad affrontare Israele e vincerlo, per fermare l’avanzata di questo temibile popolo decise di ricorrere ad un valente mago-indovino che c’era a quel tempo, il famoso Balaam.

Balac sapeva che se Balaam avesse pronunciato una maledizione contro Israele, questo popolo sarebbe stato maledetto e, di conseguenza, non avrebbe potuto sostenere l’attacco che lui gli avrebbe sferrato.

Gli anziani di Moab e quelli di Madian, arrivati da Balaam e consegnato il messaggio da parte di Balac, furono bene accolti ed esortati a passare la notte dal mago, che fece loro uno strano annuncio: …vi darò la risposta secondo quello che mi dirà il SIGNORE (Numeri 22:8; ricordiamo che nella versione originale ebraica qui compare il nome proprio di Dio: Jhwh).

«Questa dichiarazione da parte di un profeta pagano è sorprendente, ma se si considera la disposizione dei pagani a riconoscere altri dèi e la loro convinzione che gli dèi di un popolo avessero su di esso il più grande potere, sia nel bene che nel male, si comprende come Balaam cercasse di stabilire un contatto con il Dio d’Israele» [Ibidem, p. 257].

Il comando che Dio diede a Balaam: Tu non andrai con loro, non maledirai quel popolo, perché esso è benedetto (v. 12), rivela immediatamente la posizione del Signore al riguardo.

Se Dio impartisce la Sua benedizione sopra una persona o un popolo nessuno può rimuoverla o cambiarla in maledizione, a meno che gli interessati non si allontanino da Dio e si incamminino sul sentiero dello sviamento e della disubbidienza alla Sua legge e alla Sua Autorità (cfr. Deuteronomio 28:15-68).

A questo punto, Balac mandò di nuovo dei prìncipi in maggior numero e più importanti di quelli di prima (v. 15), per avanzare la stessa richiesta e con la promessa di dargli una maggiore ricompensa.

Questo lascia trapelare che, sotto sotto, in Balaam c’era il desiderio di accontentare la domanda del re di Moab e di rendergli il servizio desiderato.

Anche ai secondi messaggeri di Balac, Balaam riservò lo stesso trattamento dei primi: li esortò a passare la notte presso di lui, nell'attesa di quel che il Signore gli avrebbe detto (v. 19).

Può sorprendere il fatto che Dio entrò di nuovo in contatto con Balaam e, addirittura, lo autorizzò ad andare da Balac, pur con la precisazione: …soltanto, farai ciò che io ti dirò.

Il fatto però che, quando Balaam si mise in cammino per andare dal re di Moab, l’ira di Dio si accese (v. 22) denota che c’era qualcosa nelle intenzioni di Balaam che non si accordava con la volontà divina, nonostante il viaggio fosse stato autorizzato da Dio.

Se teniamo presenti le parole dell’apostolo Pietro (che afferma che Balaam amò un salario di iniquità; 2 Pietro 2:15), si rafforzerà ancor più in noi la convinzione che in quest’uomo si nascondeva qualcosa di losco, che però non era nascosto agli occhi di Dio.

La presenza dell’Angelo del Signore (che, generalmente, nei vari brani in cui la Bibbia lo nomina si identifica con il Signore stesso) sulla strada di Balaam, per contrastarlo, è molto significativa.

L’asina che Balaam cavalcava, nel vederlo con la spada sguainata, inizialmente andò fuori strada; poi, dopo essere stata percossa e rimessa in strada, schiacciò il piede di Balaam contro il muro, guadagnandosi una seconda percossa.

Infine, trovandosi in una strettoia dove non c’era spazio per muoversi né a destra né a sinistra, con la strada di fronte bloccata dall’Angelo del Signore, essa si sdraiò sotto Balaam.

A questo punto Balaam perse il controllo, si accese d’ira e percosse nuovamente la povera asina.

Allora il SIGNORE aprì la bocca dell'asina che disse a Balaam: «Che cosa ti ho fatto perché tu mi percuota già per la terza volta?».
Balaam rispose all'asina: «Perché ti sei fatta beffe di me. Ah, se avessi una spada in mano, ti ammazzerei all’istante».
L'asina disse a Balaam: «Non sono forse la tua asina che hai sempre cavalcato fino ad oggi? Sono forse solita farti così?». Ed egli rispose: «No»
(vv. 28-30).

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Domenico34
00giovedì 8 marzo 2012 00:10
«Balaam non sembrò mostrare molta sorpresa di fronte a questi straordinari eventi, forse perché, come indovino pagano, già altre volte era stato testimone di cose simili; gran parte del successo delle pratiche divinatorie occulte stava proprio nell'ispirazione demoniaca dei profeti stessi o delle vittime con cui essi avevano a che fare. Il serpente, per esempio, aveva potuto parlare, perché era l’incarnazione di Satana (Genesi 3:1).Gesù scacciò i demoni da un essere umano e li fece andare in un branco di porci; anche se non viene riportato che i demoni abbiano mai parlato attraverso i porci, spesso venivano identificati con un essere del mondo animale (Luca 8:26-39). È quindi probabile che Balaam, nella sua esperienza con il mondo degli spiriti, avesse avuto occasione di udire parlare gli animali. Questa volta, però, era il Signore e non Satana o un demone, che faceva parlare quell’asina» [Eugene H. Merrill, Investigate le Scritture Antico Testamento, p. 258].

La domanda che sorge spontanea è: Perché l’asina vide per tre volte l’Angelo del Signore e Balaam no? La risposta probabilmente sta nel fatto che i suoi occhi non erano aperti (cfr. v. 31) e questo è facilmente spiegabile.

L’asina che soleva cavalcare Balaam non era sotto l’influenza delle pratiche divinatorie come il suo padrone.

Una persona che muove i passi in questo mondo proibito (cioè quello dell’occulto) finisce, in pratica, sul territorio del diavolo che è il principe delle tenebre e che non permette ai suoi sudditi di essere raggiunti dalla luce divina, e perciò impedisce loro di vedere le cose di Dio.

Dio aprì gli occhi a Balaam (non quelli fisici, naturalmente, ma quelli della percezione spiritual, per fargli vedere l’Angelo del Signore, per fargli comprendere che la via che stava percorrendo era contraria al Suo volere, e per rivelargli che se l’asina non L’avesse visto e non L’avesse schivato per ben tre volte, egli sarebbe stato ucciso e l’asina sarebbe rimasta in vita (vv. 32,33). Alla fine dell’episodio:

…l'Angelo del SIGNORE disse a Balaam: «Va’ pure con quegli uomini; ma dirai soltanto quello che io ti dirò». E Balaam andò con i prìncipi di Balac (v. 35).

Così, per la seconda volta, viene raccomandato a Balaam di riferire solo quello che il Signore gli avrebbe detto.

Balac e Balaam


L’accoglienza che Balac riserva a Balaam è scontata: gli fa i complimenti per essere arrivato presso di lui e si mette anche a completa disposizione per eseguire gli ordini che il veggente gli impartirà.

Il primo ordine che Balaam dà a Balac concerne la costruzione di sette altari e la preparazione di sette tori e sette montoni da sacrificare su ciascun altare (23:1).

L’attento lettore noterà che quello che Balaam ordina di fare non è da parte di Dio. Nella Bibbia non è prescritto nessun rito di questo genere e quindi, presumibilmente, quei sacrifici facevano parte di un rituale pagano.

Il fatto poi che Balaam non ricorse come le altre volte all’uso della magia (24:1) [Cfr. p. 142], è una prova del fatto che, in passato, le azioni di questo personaggio consistevano essenzialmente in pratiche divinatorie, secondo gli usi degli indovini e dei maghi pagani di quel tempo.

Come viene affermato chiaramente all’inizio di questo racconto, Israele è un popolo benedetto dal Signore e perciò non può essere maledetto da nessuno, incluso lo stesso Balaam (22:12), quindi ora Dio lo spinge a ribadire questa verità:

Allora il SIGNORE mise delle parole in bocca a Balaam e gli disse: «Torna da Balac e parla così»
Balaam tornò da Balac, ed ecco che questi stava vicino al suo olocausto con tutti prìncipi di Moab.
Allora Balaam pronunciò il suo oracolo: «Balac, mi ha fatto venire da Aram, il re di Moab, mi ha chiamato dalle montagne d'Oriente.Vieni, disse, maledici Giacobbe per me! Vieni, impreca contro Israele!
Come farò a maledirlo se Dio non l’ha maledetto? Come farò a imprecare se il SIGNORE non ha imprecato?
Io lo guardo dalla sommità delle rupi e lo contemplo dall’alto dei colli; ecco, è un popolo che dimora solo e non è contato nel numero delle nazioni.
Chi può contare la polvere di Giacobbe o calcolare il quarto d'Israele? Possa io morire della morte dei giusti e possa la mia fine essere simile alla loro!»
(23:5-10).

Quando Balac conduce Balaam in un altro luogo, e precisamente sulla cima del Pisga (v. 14), sempre con lo scopo di maledire Israele, Balaam ordina ancora di costruire sette altari e offrire su ciascuno un toro e un montone.

Questa sua insistenza nell’offrire sacrifici per ingraziarsi il Signore viene spiegata da Giuseppe Flavio con queste parole, che egli immagina rivolte dallo stesso Balaam a Balac:

«…ma adesso siccome è mio vivo desiderio compiere cosa gradita a te e ai Madianiti le cui preghiere non intendo respingere, innalziamo ancora altri altari e offriamo sacrifici come quelli di prima per vedere se mai potrò persuadere Dio a concedermi di legare questi uomini con maledizioni» [G. Flavio, Ant. IV, 123].

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Domenico34
00venerdì 9 marzo 2012 00:05
Dio, servendosi nuovamente della bocca di Balaam, lo porta a proclamare la verità della Sua immutabilità.

Dio non è un uomo, da dover mentire, né un figlio d'uomo, da doversi pentire. Quando ha detto una cosa non la farà? O quando ha parlato non manterrà la parola? (v. 19).

Dio non si comporta come l’uomo, che cambia continuamente: quando ha affermato una cosa, la porta a compimento! Attraverso i secoli Dio ha sempre onorato la Sua Parola e la manterrà sempre; questo per effetto della Sua fedeltà e della Sua immutabilità.

In merito alla frase: …e lo Spirito di Dio fu sopra di lui (24:2), è stata fatta questa giusta precisazione:

«Questa discesa dello Spirito non prova che Balaam fosse un vero profeta, più di quanto la discesa dello Spirito su Saul (1 Samuele 10:6,10-11) o sui discepoli (Giovanni 20:22) e ne abbia fatto dei profeti del Signore.
Vi è differenza tra la discesa dello Spirito sulle persone allo scopo di conferire loro una particolare potenza soprannaturale e la sua discesa per dimorarvi (Giovanni 7:39)» [Eugene H. Merrill, Investigate le Scritture Antico Testamento, p. 259].

Dunque, Balaam non fu un vero profeta di Dio, tuttavia pronunciò delle meravigliose profezie riguardanti il futuro del popolo d’Israele, come quella riferita al Messia Gesù Cristo: …un astro sorge da Giacobbe, e uno scettro si eleva da Israele (24:17).

Anche il sommo sacerdote Caiafa non era un profeta di Dio, ma senza volerlo pronunciò una stupenda profezia:

…Caiafa, che era sommo sacerdote quell'anno, disse loro: «Voi non capite nulla;
e non riflettete come torni a vostro vantaggio che un uomo solo muoia per il popolo e non perisca tutta la nazione».
Or egli non disse questo di suo; ma, siccome era sommo sacerdote in quell'anno, profetizzò che Gesú doveva morire per la nazione,
e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire in uno i figli di Dio dispersi
(Giovanni 11:49-52).

Altri testi su Balaam


Terminata la descrizione della storia di Balaam in Numeri 22-24, ci accingiamo ad esaminare gli altri 10 testi che parlano di lui, seguiti da un breve commento:

1) Uccisero pure, con tutti gli altri, i re di Madian: Evi, Rechem, Sur, Cur e Reba, cinque re di Madian.Uccisero pure con la spada Balaam, figlio di Beor (Numeri 31:8).

Il contesto di questo versetto parla della vittoria che gli Israeliti riportarono sui Madianiti, a seguito dell’ordine che il Signore diede a Mosè di punirli per quello che avevano perpetrato.

Il fatto che fra le altre persone che vennero uccise venga nominato Balaam è un’altra prova che Israele non considerava Balaam un profeta di Dio, ma uno che aveva dato il suo appoggio in quell’episodio oscuro, quindi gli fu riservato lo stesso trattamento dei Madianiti.

2) …per suggerimento di Balaam, trascinarono i figli d'Israele all’infedeltà verso il SIGNORE, nel fatto di Peor, per cui il flagello scoppiò nella comunità del SIGNORE (Numeri 31:16).

Questo brano addita addirittura Balaam come il suggeritore che indusse a peccare i figli d’Israele.

La storia della fornicazione d’Israele con le figlie di Moab, è riportata in Numeri 25. I due versetti appena citati, cioè Numeri 31:8 e 16, confermano la seguente testimonianza di Giuseppe Flavio:

«Dopo aver detto che la stirpe degli Ebrei non andrà mai in rovina totale né per guerre, né per pestilenze, né per carestie, né per scarsità dei frutti della terra, né alcuna causa imprevista, [Balaam] ne causerà lo sterminio:
Se voi bramate di riportare per breve tempo una qualche vittoria su loro, l’otterrete comportandovi in questo modo.
Tra le vostre figlie scegliete le più avvenenti e le più adatte ad affascinare e conquistare con la bellezza l’animo casto di quanti le contemplano, accrescetele di nuova grazia, e lasciate che si accostino all’accampamento degli Ebrei, incaricatele di mostrarsi accondiscendenti ai giovani quando sollecitano i loro favori.
Quando poi vedono che questi giovani sono vinti dalla passione, li lascino mentre essi le supplicano di restare. Non acconsentano fino a quando non abbiano indotto i loro spasimanti a rinunciare alle leggi dei loro padri e al Dio al quale sono debitori, e venerare gli dèi dei Madianiti e dei Moabiti.
Così Dio si sdegnerà contro di loro» [G. Flavio, Ant. IV, 129, 130].

«Il tardo giudaismo vede nella narrazione di Numeri 31:16, il nocciolo della storia di Balaam e in base ad essa interpreta la versione più antica di Numeri 22-24: Balaam è colui che ha spinto Israele alla dissolutezza e all'idolatria» [C.G. Cuhn, GLNT, (Grande Lessico del Nuovo Testamento), Vol. 2, col. 29].

Si proseguirà il prossimo giorno...
Domenico34
00sabato 10 marzo 2012 00:10
Riguardo al duro versetto di Numeri 31:16, ricordiamo che il nome Balaam significa “distruzione del popolo” o “divoratore del popolo”.

3) L’Ammonita e il Moabita non entreranno nell’assemblea del SIGNORE; nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nell’assemblea del SIGNORE;
non vi entreranno mai, perché non vi vennero incontro con il pane e con l'acqua durante il vostro viaggio, quando usciste dall'Egitto, e perché assoldarono a tuo danno Balaam, figlio di Beor, da Petor in Mesopotamia, per maledirti
(Deuteronomio 23:4,5).

Questo brano si trova in un contesto in cui il Signore ordina al suo popolo di non accogliere nella comunità d’Israele l’Ammonita e il Moabita. Balaam viene nominato perché è stato assoldato dai Moabiti e dagli Ammoniti per maledire Israele.

4) I figli d'Israele fecero morire di spada, insieme con gli altri, anche l’indovino Balaam, figlio di Beor (Giosuè 13:22).

Questo testo conferma che Balaam era un indovino.

5) Poi Balac, figlio di Sippor, re di Moab, si mosse per combattere contro Israele; e mandò a chiamare Balaam, figlio di Beor, perché vi maledicesse;
ma io non volli dare ascolto a Balaam; egli dovette benedirvi e vi liberai dalle mani di Balac
(Giosuè 24:9-10).

6) …perché non erano venuti incontro ai figli d'Israele con pane e acqua, e perché avevano comprato a loro danno Balaam, perché li maledicesse; ma il nostro Dio convertì la maledizione in benedizione (Neemia 13:2).

Questi due brani di Giosuè e Neemia confermano quanto già detto nel commento di Deuteronomio 23:4,5.

7) Ricorda dunque, popolo mio, quel che tramava Balac, re di Moab, e che cosa gli rispose Balaam, figlio di Beor, da Sittim a Ghilgal, affinché tu riconosca la giustizia del SIGNORE (Michea 6:5).

Anche questo testo di Michea può essere usato come prova del fatto che egli non considerava certo Balaam un suo collega profeta, come invece fece Daniele quando citò il profeta Geremia (Daniele 9:2).

8) Lasciata la strada diritta, si sono smarriti seguendo la via di Balaam, figlio di Beor, che amò un salario d'iniquità (2 Pietro 2:15) [Per la qualifica di profeta, si veda quello che abbiamo chiarito nel capitolo 9 pagg. 103-104].

Questo versetto, già citato in precedenza, si trova in un contesto in cui l’apostolo Pietro parla dei falsi dottori e dei falsi profeti. Dopo aver messo in risalto le caratteristiche negative di queste persone abbiette, egli fa riferimento alla via di Balaam, che non è retta perché amò il salario d’iniquità.

9) Guai a loro! Perché si sono incamminati per la via di Caino e per amore di lucro si sono gettati nei traviamenti di Balaam, e sono periti per la ribellione di Core (Giuda 11).

In questo contesto l’apostolo Giuda sta parlando degli empi e dei falsi dottori, e Balaam viene incluso nel numero di coloro che vanno dietro al lucro e alla perversione.

10) Ma ho qualcosa contro di te: tu hai alcuni che professano la dottrina di Balaam, il quale insegnava a Balac di far cadere i figli d'Israele, inducendoli a mangiare carni sacrificate agli idoli e a fornicare (Apocalisse 2:14).

Questo testo è un chiaro riferimento a Numeri 31:16 (dove Balaam è accusato di aver istigato all’idolatri e a 25:1 (dove gli si imputa di aver indotto gli Israeliti a fornicare con le Moabit. Come osserva Ireneo:

«Egli è il tipo di quegli eretici che inducono a commettere i due peccati principali: quello di mangiare le carni sacrificate agli idoli (cfr. 1 Corinzi 8:10) e quello di darsi alla fornicazione (cfr. 1 Corinzi 6:12-20). I Nicolaiti ne imitano l’esempio. I seguaci di Balaam e i Nicolaiti non sono dunque due gruppi diversi, ma, come Balaam in passato sedusse gli Israeliti, così ora i Nicolaiti con le loro dottrine hanno guadagnato alla loro causa alcuni membri della comunità di Pergamo» [E. Lohse, L’Apocalisse di Giovanni, pp. 56,57].

Dunque non resta alcun dubbio: anche se Dio si è servito di lui per proclamare importanti profezie, sia sugli Israeliti che su avvenimenti futuri che avevano a che fare con il Messia, Balaam non era un profeta di Dio e Dio non ha approvato assolutamente le sue pratiche magiche.

Se qualcuno non ne fosse ancora convinto, lo rimandiamo a versetti chiarissimi come Deuteronomio 18:10-14:

Non si trovi in mezzo a te chi fa passare suo figlio o sua figlia per il fuoco, né chi esercita la divinazione, né astrologo, né chi predice il futuro, né mago,
né incantatore, né chi consulta gli spiriti, né chi dice la fortuna, né negromante,
perché il SIGNORE detesta chiunque fa queste cose; a motivo di queste pratiche abominevoli, il SIGNORE, il tuo Dio, sta per scacciare quelle nazioni dinanzi a te.
Tu sarai integro verso il SIGNORE Dio tuo; poiché quelle nazioni, che tu spodesterai, danno ascolto agli astrologi e agli indovini. A te, invece, il SIGNORE, il tuo Dio, non lo permette
.

In conclusione, notiamo come il Signore, nella Sua sovranità, sa trarre il bene anche dal male, al fine di compiere i Suoi piani e la Sua volontà.

Quindi si è servito di un’asina per parlare a Balaam, poi si è servito di un mago per dare una lezione a Balac. Ma, alla fine, ha colpito anche Balaam per le sue pratiche magiche e la sua corruzione.

PS: Se al termine del capitolo 12 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Si proseguirà il prossimo giorno...
Domenico34
00domenica 11 marzo 2012 00:16
Capitolo 13




GIOSUÈ, SUCCESSORE DI MOSÈ




Poi il SIGNORE disse a Mosè: «Sali su questo monte di Abarim e contempla il paese che io do ai figli d'Israele.
Quando l’avrai visto, anche tu sarai riunito ai tuoi padri, come fu riunito Aaronne tuo fratello,
perché vi ribellaste all’ordine che vi diedi nel deserto di Sin quando la comunità si mise a contestare, e voi non le deste testimonianza della mia santità, a proposito di quelle acque. Sono le acque della contestazione di Cades, nel deserto di Sin».
Mosè disse al SIGNORE:
«Il SIGNORE, il Dio che dà lo spirito ad ogni creatura, costituisca su questa comunità un uomo
che esca davanti a loro ed entri davanti a loro e li faccia uscire e li faccia entrare, affinché la comunità del SIGNORE non sia come un gregge senza pastore».
Il SIGNORE disse a Mosè: «Prendi Giosuè, figlio di Nun, uomo in cui è lo Spirito; imporrai la tua mano su di lui;
lo farai comparire davanti al sacerdote Eleazar e davanti a tutta la comunità, gli darai i tuoi ordini in loro presenza
e lo farai partecipe della tua autorità, affinché tutta la comunità dei figli d'Israele gli obbedisca.
Egli si presenterà davanti al sacerdote Eleazar, che consulterà per lui il giudizio dell'urim davanti al SIGNORE; egli e tutti i figli d'Israele con lui, e tutta la comunità usciranno all’ordine di Elezar ed entreranno all’ordine suo».
Mosè fece come il SIGNORE gli aveva ordinato; prese Giosuè e lo fece comparire davanti al sacerdote Eleazar e davanti a tutta la comunità;
impose su di lui le sue mani e gli diede i suoi ordini, come il SIGNORE aveva comandato per mezzo di Mosè
(Numeri 27:12-23).

In quel tempo, diedi anche a Giosuè quest’ordine: «I tuoi occhi hanno visto tutto quello che il SIGNORE, il vostro Dio, ha fatto a questi due re; il SIGNORE farà la stessa cosa a tutti i regni nei quali tu stai per entrare.
Non li temete, perché il SIGNORE, il vostro Dio, combatterà per voi».
In quel medesimo tempo io supplicai il SIGNORE, e dissi: «Dio, SIGNORE, tu hai cominciato a mostrare al tuo servo la tua grandezza e la tua mano potente; poiché, quale dio, in cielo o sulla terra, può fare opere e prodigi pari a quelli che fai tu?
Ti prego, lascia che io passi e veda il bel paese che è oltre il Giordano, la bella regione montuosa e il Libano!»
Ma il SIGNORE si adirò contro di me per causa vostra, e non mi esaudì. Il SIGNORE mi disse: «Basta così; non parlarmi più di questo.
Sali in vetta al Pisga, volgi lo sguardo a occidente, a settentrione, a mezzogiorno e a oriente, e contempla il paese con i tuoi occhi; poiché tu non passerai questo Giordano.
Ma da’ i tuoi ordini a Giosuè, fortificalo e incoraggialo, perché sarà lui che lo passerà alla testa di questo popolo e metterà Israele in possesso del paese che vedrai»
(Deuteronomio 3:21-28).

Era naturale che con l’approssimarsi della morte di Mosè, si pensasse al suo successore a capo della comunità d’Israele.

In questo contesto, il Signore ordina a Mosè di salire sul monte Abarim per contemplare la terra promessa ai figli d’Israele, poi gli ricorda l’episodio delle acque di Meriba dove, con suo fratello Aaronne, non ha santificato il nome del Signore e, invece di parlare alla roccia, l’ha percossa.

Come conseguenza, Dio aveva deciso fin da quel giorno di non fare entrare nel paese di Canaan né Aaronne né Mosè.

Mosè prega di poter passare il Giordano

Nonostante la decisione del Signore, che conosce bene, Mosè supplica il Signore di concedergli ugualmente di passare il Giordano e di vedere il bel paese che è oltre il Giordano, la bella regione montuosa e il Libano.
Ma il Signore non lo esaudisce, anzi, gli ordina di non tornare più sull’argomento (Deuteronomio 3:25-26).

Per Mosè, abituato ad essere esaudito nelle preghiere che innalzava al Signore, dev’essere stato duro accettare il secco rifiuto del Signore!
Perché ha fatto questa richiesta? Ha forse dimenticato la decisione del Signore di non farlo entrare in Canaan? Non è credibile!
Probabilmente l’ha fatto considerando che il Signore è benigno e misericordioso, lento all’ira e pronto a perdonare, nella speranza che Dio accontentasse il suo desiderio.

Ma questa volta (l’unica in tutta la sua vit Mosè ha dovuto prendere atto dell’inamovibilità di Dio.

Se la richiesta avesse riguardato la sua salvezza, la preghiera di Mosè sarebbe stata sicuramente esaudita e Dio avrebbe perdonato il suo peccato, anche se la sua mancanza era stata grave (più che per l’azione in se stessa, per la carica che egli rivestiva davanti al popolo e davanti a Dio).
Invece, visto che la richiesta si riferiva solo all’ingresso nella terra promessa, essa non venne esaudita.

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Domenico34
00lunedì 12 marzo 2012 00:32
Però, a differenza di suo fratello Aaronne che non poté vedere neppure in lontananza la terra di Canaan, a Mosè venne accordato il permesso di scorrere con lo sguardo a nord, ovest, sud ed est, per contemplare con i suoi occhi il paese che Dio avrebbe dato in eredità ai figli d’Israele.

Mosè prega per il suo successore


A differenza del Deuteronomio, che ignora totalmente la preghiera di Mosè per il suo successore, il libro dei Numeri la riporta nei minimi particolari.
La preghiera di Mosè, che abbiamo già riportato sopra, si riassume in questa richiesta:

«Il Signore, il Dio che dà lo spirito a ogni creatura, costituisca su questa comunità un uomo
che esca davanti a loro ed entri davanti a loro, e li faccia uscire e li faccia entrare, affinché la comunità del Signore non sia come un gregge senza pastore»
(vv. 15-17).

Mosè chiese al Signore di costituire sulla comunità d’Israele un uomo, perché ancora non sapeva chi sarebbe stato designato come suo successore e perché sapeva di trovarsi in punto di morte.

Questa preghiera denota il suo interessamento per il popolo, nonostante che per lunghi anni lo avesse fatto soffrire, specie quando si ribellava e mormorava. L’amore che Mosè aveva per il suo popolo era così grande che non cessava mai di intercedere per esso, soprattutto quando l’ira di Dio si accendeva e minacciava di distruggerlo.

Inoltre, la preghiera denota la sincera preoccupazione di Mosè per il fatto che la comunità del Signore si sarebbe venuta a trovare senza una guida, come un gregge senza pastore.

La risposta tempestiva di Dio che gli indica Giosuè, figlio di Nun, come suo successore, dimostra come il Signore ha saputo cogliere e soddisfare l’urgenza insita nelle parole di Mosè.

Dio, che sa sempre come fare bene le cose, dopo aver indicato Giosuè come l’uomo da Lui scelto per succedere alla guida del popolo, ordina a Mosè di posare la mano sopra di lui, davanti al sacerdote Eleazar e a tutta la comunità, per impartigli i suoi ordini e trasmettergli la propria autorità.

L’investitura non doveva avvenire in privato, tra Mosè e Giosuè, altrimenti il popolo avrebbe potuto asserire che l’aveva scelto perché gli era simpatico o perché gli stava sempre vicino ed era il suo attendente personale.

Facendo invece l’investitura nella maniera comandata da Dio, cioè davanti al sacerdote Eleazar e a tutta la comunità, diventava evidente che la scelta non era il risultato di una preferenza di Mosè, ma unicamente la volontà del Signore.

In tal modo l’autorità di Giosuè veniva equiparata a quella di Mosè e il popolo l’avrebbe considerato come un uomo scelto da Dio.

Il libro del Deuteronomio aggiunge all’episodio qualcosa di molto importante: Mosè fortifica e incoraggia Giosuè per l’impresa che lo attende (3:28).

Mosè, uomo di grande e consolidata esperienza, sa bene quali buoni consigli dare a Giosuè per sostenerlo davanti alle numerose difficoltà che dovrà incontrare. Chi altro avrebbe potuto incoraggiare il nuovo condottiero più di lui?

In sintesi, Mosè gli dice: Non aver paura degli ostacoli o dei nemici che ti si presenteranno davanti, perché come Dio ha aiutato me, durante tutto il tempo che sono stato a capo d’Israele, Egli aiuterà anche te! Tutta la vita di Mosè costituisce una sicura garanzia per il nuovo condottiero.

La morte di Mosè

Poi Mosè salì dalle pianure di Moab sul Monte Nebo, in vetta al Pisga, che è di fronte a Gerico. E il Signore gli fece vedere tutto il paese: Galaad fino a Dan,
tutto Neftali, il paese di Efraim e di Manasse, tutto il paese di Giuda fino al mare occidentale,
la regione meridionale, il bacino del Giordano e la valle di Gerico, città delle palme, fino a Soar.
Il SIGNORE gli disse: «Questo è il paese riguardo al quale io feci ad Abrahamo, a Isacco e a Giacobbe, questo giuramento: “Io lo darò ai tuoi discendenti”. Te l'ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!»
Mosè, servo del SIGNORE, morì là, nel paese di Moab, come il SIGNORE aveva comandato.
E il SIGNORE lo seppellì nella valle, nel paese di Moab, di fronte a Bet-Peor; e nessuno fino a oggi ha mai saputo dove è la sua tomba.
Mosè aveva centovent'anni quando morì; la vista non gli si era indebolita e il vigore non gli era venuto meno.
I figli d'Israele lo piansero nelle pianure di Moab per trenta giorni; si compirono così i giorni del pianto per il lutto per Mosè.
Giosuè, figlio di Nun, fu pieno dello spirito di sapienza, perché Mosè aveva imposto le mani sul suo capo; e i figli d'Israele gli ubbidirono e fecero quello che il SIGNORE aveva comandato a Mosè.
Non c’è più mai stato in Israele un profeta simile a Mosè, con il quale il SIGNORE abbia trattato faccia a faccia.
Nessuno è stato simile a lui in tutti quei segni e miracoli che Dio lo mandò a fare nel paese d'Egitto contro il faraone, contro tutti i suoi servi e contro tutto il suo paese;
né simile a lui in quegli atti potenti e in tutte quelle grandi cose tremende che Mosè fece davanti agli occhi di tutto Israele
(Deuteronomio 34:1-12).

Si proseguirà il prossimo giorno...
Domenico34
00martedì 13 marzo 2012 00:14
Archiviata la questione della successione e dell’investitura di Giosuè, Mosè si prepara al momento della morte.

Ma prima di lasciare definitivamente il suo ruolo di capo dei figli d’Israele e passare all’altra vita, sente il dovere di rivolgere al popolo alcune raccomandazioni ed esortazioni.

In Deuteronomio 28:1-14 egli spiega che le benedizioni che la comunità d’Israele riceverà da parte del Signore saranno strettamente subordinate all’obbedienza a Dio e alla sua legge; in caso contrario, si riverseranno inesorabilmente sul popolo le terribili maledizioni descritte in Deuteronomio 28:15-68.

Nel rinnovare il patto con il popolo, Mosè ricorda quello che il Signore ha fatto in loro favore durante i quaranta anni della sua leadership: li ha tirati fuori dal paese d’Egitto e ha mostrato a tutti i Suoi miracoli e i Suoi prodigi (cfr. Deuteronomio 29).

Inoltre, Mosè ricorda al popolo che quando sperimenterà le cose che egli ha predette, cioè la benedizione e la maledizione, e sarà sospinto in mezzo alle nazioni, l’unico modo per cambiare la situazione sarà di convertirsi al Signore e ubbidire alla Sua voce, perché solo a questa condizione saranno raccolti di nuovo (30:1-3).

Poi comanda agli Israeliti di amare il SIGNORE … di camminare nelle sue vie e di osservare i suoi comandamenti, facendo loro chiare promesse di benedizione e prosperità (cfr. 30:16).

Infine, pronunciando una benedizione per ciascuno dei dodici figli di Giacobbe, Mosè predice il futuro di ogni singola tribù (cfr. 33:1-29).

Terminate tutte queste prescrizioni ed esortazioni, Mosè è pronto ad essere raccolto col suo popolo. Il funerale e il seppellimento lo farà direttamente Dio, senza lasciare tracce, per evitare che il popolo individui la sua tomba e magari divinizzi o offra un culto alle sue reliquie.

Mosè aveva centovent’anni quando morì; la vista non gli si era indebolita e il vigore non gli era venuto meno (34:7).

Dopo i trenta giorni di lutto e di pianto dei figli d’Israele per la morte di Mosè, Giosuè fu pieno dello Spirito di sapienza, (34:9) per poter cominciare la sua carriera di nuovo capo di tutta la comunità Israelita.

Un insegnamento per noi


L’episodio della successione di Mosè alla guida del popolo ci offre spunti di riflessioni per la vita cristiana e per l’opera del ministero, in modo particolare.

Le persone che sono state costituite da Dio per condurre il Suo popolo devono tenere sempre presente che la loro carica non durerà per sempre: anche per loro arriverà il giorno della morte, che porrà termine ad ogni loro attività.

Pregare per chi dovrà succedere in incarichi ministeriali è molto importante e saggio, perché non dobbiamo scegliere secondo il nostro modo di vedere ma secondo il piano di Dio. Qualcuno ha detto: “Dio seppellisce i Suoi ministri, ma non i Suoi piani”.

Quello che Dio aveva promesso al popolo d’Israele (di dargli il paese di Canaan come eredità), anche dopo tanti anni non poteva essere cancellato con la morte del suo servitore Mosè, altrimenti la Sua Parola sarebbe stata considerata alla stregua di quella umana. Come ben precisa il profeta Isaia:

Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare,
così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l'ho mandata
(Isaia 55:10-11).

Anche la parola che fu pronunciata da Balaam merita di essere ricordata e messa in evidenza:

Dio non è un uomo, da dover mentire, né un figlio d'uomo, da doversi pentire. Quando ha detto una cosa, non la farà? O quando ha parlato, non manterrà la parola? (Numeri 23:19).

Dio non è tenuto a compiere cose, grandi o piccole, che Lui stesso non ha promesso; al contrario, Egli si impegna a portare a compimento tutto ciò che ha detto, per onorare il Suo nome e l’immutabilità della Sua eterna Parola.

Gli uomini si succedono l’uno dopo l’altro, nei vari ministeri, in vista del pieno adempimento dei piani e della volontà del Signore.
Ma ciò che più importa è la vita eterna con Dio, che va al di là e al di sopra del valore o della grandezza di un determinato ministero.
Ci sono promesse divine che riguardano la vita terrena (un aspetto che non deve essere trascurato dal popolo di Dio) e altre che concernono la gloria eterna (che è la cosa più importante.

Si proseguirà il prossimo giorno...
Domenico34
00mercoledì 14 marzo 2012 00:36
Dio non salva il peccatore per poi lasciarlo sulla terra, anche se a volte gli concede lunga vita, ma per portarlo con Sé nel Suo regno eterno. È a questo traguardo finale che i credenti devono rivolgere le loro supreme aspirazioni.
Dobbiamo fare molta attenzione a non lasciarci sedurre dai tanti allettamenti che ci vengono offerti dal mondo e dal nemico delle anime nostre.

Con lo sguardo fisso verso Gesù Cristo e con la mente rivolta al cielo (il punto d’arrivo definitivo della nostra esistenz dobbiamo studiarci di servirlo per tutta la vita e, con la grazia e la forza che Dio ci concede, perseverare nelle Sue vie per poter affermare, insieme all’apostolo Paolo:

Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede.
Ormai mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi assegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti quelli che avranno amato la sua apparizione
(2 Timoteo 4:7-8).

PS: Se al termine del capitolo 13 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 14




GIOSUÈ, IL NUOVO CONDUTTORE D’ISRAELE




La chiamata di Dio

Dopo la morte di Mosè, servo del SIGNORE, il SIGNORE parlò a Giosuè, figlio di Nun, servo di Mosè, e gli disse: «Mosè, mio servo, è morto. Alzati dunque, attraversa questo Giordano tu con tutto questo popolo, per entrare nel paese che io do ai figli d'Israele (Giosuè 1:1-2).

Anche se Giosuè era stato designato dall’Eterno a succedere a Mosè nella carica di capo supremo del popolo d’Israele e che lo stesso, mentre ancora Mosè era in vita, aveva ricevuto l’investitura, (cfr. Numeri 27:15; Deuteuteronomio 3:21; 31:3) tuttavia, Dio ha voluto ufficializzare il mandato, con un messaggio personale che gli rivolse.

Prima, però, di addentrarci nell’esame del nostro testo, credo sia utile riferire quello che lo stesso libro di Giosuè afferma, a proposito di Mosè e di Giosuè. La presente nota statistica mette in evidenza, quanto segue.
La frase: Mosè servo del Signore, è riportata 14 volte; per 2 volte, Dio lo chiama mio servo, un’altra volta viene definito suo servitore e una volta uomo di Dio.

Per quanto concerne Giosuè, 10 volte viene ripetuta la frase: Il Signore disse a Giosuè e 4, il Signore parlò a Giosuè. Infine, solo una volta, Giosuè viene definito Servo del Signore, precisamente in (24:29).

Il significato della chiamata di Dio

Si sa che prima di allora, cioè durante tutto il tempo in cui visse Mosè, il Signore non parlò mai direttamente con Giosuè.

Per la battaglia che venne fatta con gli Amalechiti, l’ordine e le varie istruzione inerenti a quella situazione, Giosuè li ricevette direttamente da Mosè (cfr. Esodo 17:8-16). A battaglia vinta, Dio ordinò a Mosè di
fare sapere a Giosuè che Egli cancellerà interamente sotto il cielo la memoria di Amalec (v. 14).

Perché questa comunicazione Giosuè la ricevette tramite Mosè e non direttamente da Dio? La risposta è semplice: se Dio l’avesse data direttamente a Giosuè, ciò sarebbe equivalso a mettere da parte Mosè, con la conseguenza che la sua carica e la sua persona, sarebbero state offuscate, davanti agli occhi di tutta la comunità d'Israele.

Tenendo presente che Dio considerava Mosè come il suo legale rappresentante in mezzo al popolo, e che la carica di capo supremo di tutto Israele era stato Lui a conferirgliela, non avrebbe mai potuto agire in quel modo, senza arrecare danno alla dignità del suo servo Mosè.

Mosè, infatti, non era il semplice rappresentante di Dio, era anche colui che manteneva nelle sue mani, tutto il potere amministrativo, civile, militare e religioso, degli Israeliti

Anche se è vero da una parte che, tutto ciò che riguarda la materia religiosa di tutte le funzioni del culto, era competenza dei sacerdoti, e che Aaronne, in qualità di sommo sacerdote, per certe ricorrenze speciali ne era il pieno responsabile; è altrettanto vero dall’altra che, tutte le direttive per il servizio sacro, venivano date da Dio, sempre per mezzo di Mosè.

Se si considerano giustamente e obbiettivamente gli elementi che abbiamo messo in evidenza in questa nostra argomentazione, non si potrà mai arrivare alla conclusione, che Dio abbia agito in maniera diversa di come effettivamente agì.

Si proseguirà il prossimo giorno...
Domenico34
00mercoledì 14 marzo 2012 00:36
Dio non salva il peccatore per poi lasciarlo sulla terra, anche se a volte gli concede lunga vita, ma per portarlo con Sé nel Suo regno eterno. È a questo traguardo finale che i credenti devono rivolgere le loro supreme aspirazioni.
Dobbiamo fare molta attenzione a non lasciarci sedurre dai tanti allettamenti che ci vengono offerti dal mondo e dal nemico delle anime nostre.

Con lo sguardo fisso verso Gesù Cristo e con la mente rivolta al cielo (il punto d’arrivo definitivo della nostra esistenz dobbiamo studiarci di servirlo per tutta la vita e, con la grazia e la forza che Dio ci concede, perseverare nelle Sue vie per poter affermare, insieme all’apostolo Paolo:

Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede.
Ormai mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi assegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti quelli che avranno amato la sua apparizione
(2 Timoteo 4:7-8).

PS: Se al termine del capitolo 13 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 14




GIOSUÈ, IL NUOVO CONDUTTORE D’ISRAELE




La chiamata di Dio

Dopo la morte di Mosè, servo del SIGNORE, il SIGNORE parlò a Giosuè, figlio di Nun, servo di Mosè, e gli disse: «Mosè, mio servo, è morto. Alzati dunque, attraversa questo Giordano tu con tutto questo popolo, per entrare nel paese che io do ai figli d'Israele (Giosuè 1:1-2).

Anche se Giosuè era stato designato dall’Eterno a succedere a Mosè nella carica di capo supremo del popolo d’Israele e che lo stesso, mentre ancora Mosè era in vita, aveva ricevuto l’investitura, (cfr. Numeri 27:15; Deuteuteronomio 3:21; 31:3) tuttavia, Dio ha voluto ufficializzare il mandato, con un messaggio personale che gli rivolse.

Prima, però, di addentrarci nell’esame del nostro testo, credo sia utile riferire quello che lo stesso libro di Giosuè afferma, a proposito di Mosè e di Giosuè. La presente nota statistica mette in evidenza, quanto segue.
La frase: Mosè servo del Signore, è riportata 14 volte; per 2 volte, Dio lo chiama mio servo, un’altra volta viene definito suo servitore e una volta uomo di Dio.

Per quanto concerne Giosuè, 10 volte viene ripetuta la frase: Il Signore disse a Giosuè e 4, il Signore parlò a Giosuè. Infine, solo una volta, Giosuè viene definito Servo del Signore, precisamente in (24:29).

Il significato della chiamata di Dio

Si sa che prima di allora, cioè durante tutto il tempo in cui visse Mosè, il Signore non parlò mai direttamente con Giosuè.

Per la battaglia che venne fatta con gli Amalechiti, l’ordine e le varie istruzione inerenti a quella situazione, Giosuè li ricevette direttamente da Mosè (cfr. Esodo 17:8-16). A battaglia vinta, Dio ordinò a Mosè di
fare sapere a Giosuè che Egli cancellerà interamente sotto il cielo la memoria di Amalec (v. 14).

Perché questa comunicazione Giosuè la ricevette tramite Mosè e non direttamente da Dio? La risposta è semplice: se Dio l’avesse data direttamente a Giosuè, ciò sarebbe equivalso a mettere da parte Mosè, con la conseguenza che la sua carica e la sua persona, sarebbero state offuscate, davanti agli occhi di tutta la comunità d'Israele.

Tenendo presente che Dio considerava Mosè come il suo legale rappresentante in mezzo al popolo, e che la carica di capo supremo di tutto Israele era stato Lui a conferirgliela, non avrebbe mai potuto agire in quel modo, senza arrecare danno alla dignità del suo servo Mosè.

Mosè, infatti, non era il semplice rappresentante di Dio, era anche colui che manteneva nelle sue mani, tutto il potere amministrativo, civile, militare e religioso, degli Israeliti

Anche se è vero da una parte che, tutto ciò che riguarda la materia religiosa di tutte le funzioni del culto, era competenza dei sacerdoti, e che Aaronne, in qualità di sommo sacerdote, per certe ricorrenze speciali ne era il pieno responsabile; è altrettanto vero dall’altra che, tutte le direttive per il servizio sacro, venivano date da Dio, sempre per mezzo di Mosè.

Se si considerano giustamente e obbiettivamente gli elementi che abbiamo messo in evidenza in questa nostra argomentazione, non si potrà mai arrivare alla conclusione, che Dio abbia agito in maniera diversa di come effettivamente agì.

Si proseguirà il prossimo giorno...
Domenico34
00giovedì 15 marzo 2012 00:30
L’insegnamento che Dio volle impartire a Giosuè

Non è un puro caso che Dio abbia parlato a Giosuè all’inizio della sua carriera ufficiale e che lo stesso libro che porta il suo nome, fin dalle prime battute, affermi che il Signore parlò con Giosuè.

Nel preambolo di questo primo capitolo, è delineato il disegno divino per la vita del nuovo capo e un preciso insegnamento per lui.

La precisazione che fa il testo, nell’affermare che Dio “parlò” e “disse a Giosuè”, dopo la morte di Mosè, non è affatto da considerarsi casuale, nel senso che non significhi proprio niente, appare in tutta chiarezza.

Essa mira a farci comprendere che il Signore aveva chiuso un ciclo con Mosè e ne aveva aperto un’altro con Giosuè.

Durante la vita di Mosè, dato che Giosuè era il suo attendente, rientrava nella logica che Mosè indicasse a Giosuè quello che doveva fare, e che lo stesso si sottoponesse alla sua autorità, con la sua obbedienza.

Siccome ora la situazione è decisamente cambiata, e cambiata per esplicita volontà divina, il Signore non poteva più trattare Giosuè come prima. Era necessario che, tra Dio e Giosuè, si instaurasse un nuovo rapporto personale d'intimità. In altre parole, Dio chiamava Giosuè ad una diversa esperienza, a salire in alto verso di Lui.

Per tanti anni, le direttive dei suoi movimenti, li riceveva da Mosè; ora dovrà riceverle direttamente dal suo Dio, dato che Egli stesso lo ha costituito capo supremo del popolo d’Israele.

Una buona lezione da imparare

In tutto questo, c’è una buona lezione da imparare per tutti, principalmente per i servitori del Signore, che sono impegnati nell’opera del ministero.

Costoro, in maniera particolare, devono imparare a dipendere dal Signore, per l’esercizio della loro missione. Il ministero, infatti, è una “missione” e non deve essere mai considerato come una comune professione.

È dalla relazione personale con Dio, che il ministero trae il proprio sviluppo, l’arricchimento spirituale e l’allargamento della visuale divina.

Nello stesso tempo, però, il ministro, farà molta attenzione a camminare nel sentiero della volontà del Signore, non lasciarsi intrappolare dagli allettamenti umani, che facilmente potrebbero condurlo verso lo sviamento e farlo allontanare dalla sorgente della vita.

Questa nostra affermazione non deve essere interpretata, come se volessimo spingere e incoraggiare l’anarchia, o peggio ancora: il disprezzo per gli altri.

Se è vero che, idealmente, tutti perseguiamo gli stessi obbiettivi, serviamo la stessa causa, miriamo a raggiungere gli stessi traguardi: cioè i peccatori con il messaggio evangelico; serviamo lo stesso Signore, crediamo nello stesso Gesù Cristo, quale salvatore del mondo (Giovanni 4:42); crediamo in una sola fede e in un solo battesimo (Efesini 4.5).

Dal punto di vista pratico, però, non è vero che tutti camminiamo, avendo un medesimo sentimento (Romani 12:16), uno stesso atteggiamento di umiltà, gli uni verso gli altri (Filippesi 2:3); crediamo di avere bisogno, gli uni degli altri (1 Corinzi 12:21-22); stimarci di essere abbastanza idonei a far da maestri (Giacomo 3:1); o di sentirci più santi degli altri (Isaia 65:5).

Questa diversità tra idealismo concettuale e vita pratica, dovrebbe portarci a riflettere seriamente, per indurci ad essere più coerenti tra quello che professiamo, con quello che viviamo nella nostra giornaliera esistenza.

PS: Se al termine del capitolo 14 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura. Infine, per quanti volessero leggere gli altri restanti 13 capitoli del libro in questione, potranno rivolgersi all’Editrice Hilkia, presso la quale è disponibile la presente pubblicazione, ad un prezzo veramente basso di 3,00 euro. Grazie per la vostra attenzione ed il vostro interessamento!
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