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Domenico34 – Giona... Un uomo che non ha pietà dei Niniviti – Capitoli 2. GIONA NEL VENTRE DI UN PESCE

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    Domenico34
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    00 24/06/2011 00:08

    Capitolo 2




    GIONA NEL VENTRE DI UN PESCE




    Il testo

    Il SIGNORE fece venire un gran pesce per inghiottire Giona: Giona rimase nel ventre del pesce tre giorni e tre notti.
    Dal ventre del pesce Giona pregò il SIGNORE, il suo Dio, e disse:
    «Io ho gridato al SIGNORE, dal fondo della mia angoscia, ed egli mi ha risposto; dalla profondità del soggiorno dei morti ho gridato e tu hai udito la mia voce.
    Tu mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare; la corrente mi ha circondato, tutte le tue onde e tutti i tuoi flutti mi hanno travolto.
    Io dicevo: "Sono cacciato lontano dal tuo sguardo! Come potrei vedere ancora il tuo tempio santo?"
    Le acque mi hanno sommerso; l’abisso mi ha inghiottito; le alghe si sono attorcigliate alla mia testa.
    Sono sprofondato fino alle radici dei monti; la terra ha chiuso le sue sbarre su di me per sempre; ma tu mi hai fatto risalire dalla fossa, o SIGNORE, mio Dio!
    Quando la vita veniva meno in me, io mi sono ricordato del SIGNORE e la mia preghiera è giunta fino a te, nel tuo tempio santo.
    Quelli che onorano gli idoli vani allontanano da sé la grazia;
    ma io ti offrirò sacrifici, con canti di lode; adempirò i voti che ho fatto. La salvezza viene dal SIGNORE».
    E il SIGNORE diede ordine al pesce, e il pesce vomitò Giona sulla terraferma
    (Giona 2:1-11).

    Nel capitolo precedente abbiamo affermato che il Signore non fece venire la tempesta sul mare per fare affondare la nave, sulla quale c’erano tante persone, compreso Giona, profeta del Signore, e farle morire tutte, ma per punire Giona e fargli comprendere la gravità della sua disubbidienza al comando divino.

    Se Giona è stato gettato in mare, è stato essenzialmente perché lui stesso ha autorizzato i marinai a farlo. L’autorizzazione che Giona diede fu, principalmente, perché egli riconobbe la sua colpevolezza e che la causa di quella terribile tempesta era proprio lui. La sua disubbidienza al comando di Dio e la sua fuga lontano dalla presenza del Signore, erano gli elementi che avevano causato quel furioso temporale. Questo perché Giona si trovava a bordo della nave diretta a Tarsis.

    Se Giona, invece di prendere la nave, si fosse diretto a Tarsis via terra, o usando altri mezzi, non ci sarebbe stata nessuna tempesta in mare e le persone che si trovavano a bordo non sarebbero incorse in alcun pericolo.
    Tenuto conto di come si svolsero le cose, era pertanto necessario che Giona fosse gettato in mare. Infatti, se Giona non fosse stato gettato in mare la tempesta non si sarebbe calmalta, la nave sarebbe affondata e le persone che si trovavano a bordo sarebbero perite.

    Siccome quella tempesta aveva solo lo scopo di impartire una lezione a Giona e non farlo annegare, Dio agì mandando un gran pesce che lo inghiottì. È certo che Giona, quando diede l’autorizzazione a gettarlo in mare, aveva davanti a sé la morte per annegamento e non pensava che ci sarebbe stato un salvacondotto che l’avrebbe tenuto in vita per tre giorni e tre notti, dentro il ventre di un pesce. Ma Dio, che vigilava sulla vita di Giona e che aveva il controllo di quella particolare situazione, doveva manifestare il suo potere miracoloso, cosa che Egli fece per mezzo del gran pesce.

    Se Dio non avesse fatto venire quel gran pesce, Giona sarebbe sicuramente morto per annegamento. Con la morte, infine, non ci sarebbe stato nessun beneficio per Giona, in quanto non avrebbe imparato la lezione, cioè non sarebbe stato corretto dal suo errore, cioè la sua disubbidienza al comando di Dio.

    L’esperienza di Giona nel ventre del pesce

    Che cosa ha provato Giona nel ventre del pesce, non è facile descriverlo. Dalle parole che egli rivolse al suo Dio, nella preghiera che fece, possiamo avere qualche idea, non tanto sul piano fisico, quanto su quello spirituale. Il testo sacro precisa che Giona rimase nel ventre del gran pesce tre giorni e tre notti. Che quest'affermazione bisogna intenderla alla lettera, non c’è nessun dubbio.

    Anche se Gesù applicò a sé stesso la storia di Giona quando, come risposta a una precisa richiesta rivoltagli, precisò:

    Allora alcuni scribi e farisei presero a dirgli: «Maestro, noi vorremmo vederti fare un segno».
    Ma egli rispose loro: «Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
    Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell’uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti
    (Matteo 12:38-40),

    questo però non significa che Gesù volle spiritualizzare quella storia, definendola un segno, per annullare la storicità di quell’evento. Se Giona non fosse rimasto tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, materialmente parlando, Gesù non avrebbe potuto parlare di quell’evento applicandolo alla durata della sua morte nel cuore della terra.

    A questo punto sorge una domanda: i tre giorni e le tre notti di permanenza di Giona nel ventre del gran pesce sono stati occasionali, nel senso che il caso volle che il profeta vi rimanesse quel tempo, oppure che Dio lo aveva stabilito prima dell’evento? Se si accetta che quel pesce, che avrebbe dovuto inghiottire Giona, fu inviato da Dio a trovarsi nel luogo preciso e nel momento esatto che il profeta fu gettato in mare, non è fuori della logica pensare che il Signore aveva anche stabilito la durata della permanenza nel ventre di quel mammifero.

    Perché tre giorni e tre notti e non due giorni e due notti o un giorno e una notte? Era essenziale quel determinato periodo? Se si pensa che Giona avrebbe dovuto servire come un “tipo” per quanto riguardava la durata della permanenza di Gesù nella tomba, non poteva essere di un giorno o due giorni; doveva necessariamente essere di tre giorni e di tre notti, perché tanto sarebbe stato il tempo che Gesù sarebbe rimasto nelle mani della morte.

    Infine, se tutto si inquadra nel disegno divino, prima che i due eventi si adempieranno non c’è niente che si opponga e non c’è nessuna difficoltà per la fede di accettarlo, soprattutto pensando all’onniscienza di Dio che tutto conosce anticipatamente.

    Non si conosce il giorno e il momento in cui Giona pronunciò quella preghiera che il testo sacro ci ha tramandato. Se Dio avesse ritenuto opportuno farcelo conoscere avrebbe ispirato lo scrittore a metterlo per iscritto. Quello, però, che ha importanza di questa storia, Dio l’ha fatto scrivere nel Suo libro.

    La preghiera di Giona

    Certamente Giona non conosceva né il tempo che sarebbe rimasto nel ventre del pesce e neanche se sarebbe stato salvato. Rivolgendosi al Suo Dio, Giona sapeva che la sua preghiera sarebbe stata ascoltata. Le parole:

    «Io ho gridato al SIGNORE, dal fondo della mia angoscia, ed egli mi ha risposto; dalla profondità del soggiorno dei morti ho gridato e tu hai udito la mia voce (v. 3),

    Si continuerà il prossimo giorno...


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    Domenico34
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    00 25/06/2011 00:07
    non solo ci fanno conoscere la scomoda nuova residenza del profeta, ma ci rivelano anche lo stato d’animo in cui si trovava quando pregò il suo Dio. Le parole: Dal fondo della mia angoscia, parlano appunto dello stato d’animo in cui si trovava Giona.

    Spesso si afferma che quando una persona si trova nell’angoscia non è facile pregare e rivolgersi a Dio. Di solito, le persone che si trovano in simile stato d’animo, facilmente si lasciano prendere dallo sconforto e dalla disperazione. Giona, in quella circostanza, anche se appariva in preda dello sconforto e della disperazione, seppe trovare in sé quel momento prezioso per scaricare tutta la sua tensione nel rivolgersi al suo Dio. Materialmente parlando, egli si trovava nel fondo del mare e dentro un abitacolo scomodo e insolito. Nella preghiera che innalzò a Dio non fa riferimento a ciò, ma menziona la sua angoscia. Che significa ciò? E soprattutto, che cos’è l’angoscia? Ecco la definizione linguistica.

    «Senso di soffocamento, oppressione che genera agitazione, affanno; difficoltà di respiro, ansito. Per estensione e al figurativo: sofferenza, fisica o morale, acuta, tormentosa, in cui l’uomo teme di soccombere; preoccupazione assillante che non dà respiro; inquietitudine, ansia ossessiva» [S. Battaglia, Grande Dizionario della lingua italiana, Volume 1, pag. 473].

    È ammirevole che, nello stato d’animo in cui si trovava, Giona seppe rivolgersi al suo Dio. Dall'altra parte, visto che era solo, con chi avrebbe potuto parlare e a chi avrebbe avuto la forza di invocare? Sapendo che, se si trovava in quello stato, era la conseguenza della sua disubbidienza al comando divino, realizzò il bisogno, nella sua angoscia, di pregare il suo Dio, sperando che Egli l’avrebbe perdonato e salvato.

    Giona si comportò nella stessa maniera, come si erano comportati altri, trovandosi nella medesina condizione. Ecco alcuni testi biblici.

    Nella mia angoscia invocai il SIGNORE, gridai al mio Dio. Egli udì la mia voce dal suo tempio, il mio grido giunse a lui, ai suoi orecchi. È Davide che si esprime in questo modo (Salmo 18:6).

    Nell’angoscia gridasti a me e io ti liberai; ti risposi nascosto in mezzo ai tuoni, ti misi alla prova presso le acque di Meriba. È il Signore che ricorda quello che fece Israele (Salm 81:7).

    Ma nella loro angoscia gridarono al SIGNORE ed egli li liberò dalle loro tribolazioni.
    Gridarono al SIGNORE nella loro angoscia ed egli li salvò dalle loro tribolazioni;
    Salgono al cielo, scendono negli abissi; l’anima loro vien meno per l’angoscia.
    Ma nell’angoscia gridano al SIGNORE ed egli li libera dalle loro tribolazioni
    . È il salmista che ricorda quello che ha fatto Israele durante il suo pellegrinaggio (Salmo 107:6,13,26,28).

    Nella mia angoscia invocai il SIGNORE; il SIGNORE mi rispose e mi portò in salvo. È il salmista che ricorda come si è comportato nella sua angoscia (Salmo 118:5).

    Nella mia angoscia ho invocato il SIGNORE, ed egli mi ha risposto. È l’esperienza del pellegrino (Salmo 120:1).

    Anche se Giona sapeva che erano stati i marinai che lo avevano gettato in mare, dietro la sua autorizzazione, ora, però, riconosce che, in effetti, è stato Dio a farlo: Tu mi hai gettato nell’abisso (v. 4).

    Dopo aver confessato di essere stato sprofondato fino alle radici dei monti e di essere chiuso nelle sbarre della terra per sempre, la luce divina lo illumina per fargli proclamare: Ma tu mi hai fatto risalire dalla fossa, o Signore, mio Dio (v. 7).

    La preghiera di Giona si concludeva nel mettere in risalto il suo pentimento e la promessa di offrire al suo Dio, sacrifici, con canti di lode; adempierò i voti che ho fatto, e la consapevolezza che la salvezza viene dal Signore (v. 10).

    Davanti al cambiamento di atteggiamento che Giona assunse in quella sua preghiera, la sua riabilitazione venne assicurata da parte di Dio, talché Egli, il Signore, ordinò al pesce, e il pesce vomitò Giona sulla terra ferma (v. 11).

    Tenuto presente che quel gran pesce tenne nel suo ventre per tre giorni e tre notti un corpo umano senza poterlo digerire, alla fine, fu sicuramente colpito da un'indigestione che gli procurò forti dolori allo stomaco e, non essendo in grado più di resistere, fu costretto e sollevarsi e uscire dalle acque per vomitare sulla terra ferma quel corpo.

    Infine, formuliamo la seguente domanda: perché il pesce vomitò Giona sulla terra ferma? Se l’avesse fatto in mare si sarebbe liberato di quel malessere che lo aveva colpito, ma Giona sarebbe perito per annegamento. Questo non poteva avvenire perché c’era Dio che controllava la situazione. Dal momento che Giona venne vomitato in terra ferma, cioè fuori delle acque, la sua vita era assicurata, cioè salva. La salvezza di Giona fu opera esclusiva di Dio, mentre il pentimento del profeta lo favorì enormemente.

    Riflessioni

    1. La consapevolezza di Giona di essere il vero responsabile della tempesta che si era scatenata in mare e che minacciava seriamente la nave e il suo equipaggio è una considerazione che va approfondita. Non è facile assumersi certe responsabilità quando la vita degli altri è seriamente minacciata. Di solito, c’è la tendenza, nell’essere umano, a scaricare sugli altri la responsabilità. Il classico esempio dei nostri progenitori, Adamo ed Eva, è abbastanza eloquente.

    2. Quando Dio chiamò Adamo, dopo che questi aveva mangiato il frutto proibito, e gli chiese dove sei? e questi gli rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino e ho avuto paura, perché ero nudo, e mi sono nascosto». La risposta che seguì subito da parte di Dio fu: «Chi ti ha mostrato che eri nudo? Hai forse mangiato del frutto dell’albero, che ti avevo comandato di non mangiare?».

    Adamo, invece di riconoscere che aveva sbagliato a mangiare il frutto proibito e confessare apertamente, trovò il modo di evadere dalla sua responsabilità adducendo la scusante: «La donna che tu mi hai messa accanto, è lei che mi ha dato del frutto dell’albero, e io ne ho mangiato». Dio chiede alla donna: «Perché hai fatto questo?», la risposta fu: «Il serpente mi ha ingannata e io ne ho mangiato» (Genesi 3:10-13).

    3. Come si poteva vedere chiaramente, Adamo scaricò la sua responsabilità su Eva ed Eva sul serpente. In effetti, sia l’uno che l’altra non hanno avuto il coraggio di assumer la propria responsabilità per aver disubbidito al comando divino. Questo loro modo di agire, però, non li esonererà dal ricevere la punizione per quello che hanno fatto. Infatti, alla donna Dio dice:

    «Io moltiplicherò grandemente le tue pene e i dolori della tua gravidanza; con dolore partorirai figli; i tuoi desideri si volgeranno verso tuo marito ed egli dominerà su di te».
    A Adamo: «Poiché hai dato ascolto alla voce di tua moglie e hai mangiato del frutto dall’albero circa il quale io ti avevo ordinato di non mangiarne, il suolo sarà maledetto per causa tua; ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua vita.
    Esso ti produrrà spine e rovi, e tu mangerai l’erba dei campi; 19. mangerai il pane con il sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra da cui fosti tratto; perché sei polvere e in polvere ritornerai»
    (Genesi 3:16-19).

    4. Una volta che Giona riconosce la sua responsabilità e non ha vergogna di confessarlo davanti a tutti pubblicamente, sì, è vero che venne gettato in mare, ma il gran pesce, mandato da Dio lo prese in custodia per salvargli la vita. È sempre vero il detto della Scrittura: Chi copre le sue colpe non prospererà, ma chi le confessa e le abbandona otterrà misericordia (Proverbi 28:13).

    5. Dal fondo della sua angoscia, Giona trova il modo di rivolgersi a Dio con la certezza che la sua preghiera verrà esaudita dal suo Signore. Quando veramente c’è reale pentimento per avere disubbidito a Dio, anche se si dovrà raccogliere il frutto di quanto si è seminato (Galati 6:7), la salvezza sarà la risposta più efficace per l’uomo.

    6. Quei tre giorni e quelle tre notti che Giona rimase nel ventre del pesce, fu un tempo transitorio, per fargli comprendere l’importanza di non fuggire dalla presenza del Signore, ma di ubbidirgli pienamente. Che la lezione che Giona imparò da quella triste e amara esperienza possa servire come un serio monito per ciascun di noi!

    PS: Se ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura