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Domenico34 - La Fede - XI. La fede di Mosè

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    Domenico34
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    00 23/12/2010 12:54

    TERZA PARTE




    Uomini di fede: da Mosè ai profeti e di tutti quelli i cui nomi non figurano nell’elenco del capitolo 11 della lettera agli Ebrei





    Capitolo 11



    LA fede DI MOSÈ



    A differenza di tutti i personaggi elencati nel capitolo undici della lettera agli Ebrei, Mosè, indubbiamente, occupa un posto particolare nel pensiero dello scrittore di quest’epistola. La prova ne è data non solo dal modo come viene presentato e la trattazione che ne fa, ma anche per la menzione che ne fa in altre parti della stessa lettera. Lasciando da parte quei testi che parlano di Mosè in quest’Epistola, occupiamoci solamente di quello che viene detto da lui in questo capitolo undici. Lo schema che viene tracciato è il seguente:

    1) La nascita di Mosè
    2) La scelta e la decisione di Mosè
    3) Mosè lascia l’Egitto
    4) Mosè celebra la Pasqua
    5) Il passaggio del Mar Rosso.

    Tenendo presente il seguente schema, possiamo meglio seguire le varie fasi della vita di Mosè, e nello stesso tempo apprezzare la sua fede, elemento primario e fondamentale del capitolo undici della lettera agli Ebrei.

    1. LA NASCITA DI MOSÈ

    Per fede Mosè, quando nacque, fu nascosto per tre mesi dai suoi genitori, perché essi videro che il bambino era bello e non temettero l’ordine del re (Ebrei 11:23).


    Sarebbe più esatto parlare della fede dei genitori di Mosè, anziché di lui stesso, dato che in questo testo si parla chiaramente della sua nascita. Mettere in risalto la fede dei genitori di Mosè, contribuirà sicuramente a capire meglio lo stesso Mosè, in tutte le vicende della sua vita, e quello che egli più tardi fece come risposta ad un preciso piano divino.

    La reale situazione dei figli d’Israele al tempo della nascita di Mosè

    Al tempo della nascita di Mosè, la reale situazione dei figli d’Israele in Egitto era particolarmente tragica, in quanto che era in atto, da parte delle autorità egiziane, una tremenda repressione: oppressione, disprezzo, angherie, costringimento ai lavori duri e ad un servizio con accentuato sprezzo a tutti i livelli. Tutto ciò veniva fatto, in conseguenza soprattutto dell’enorme crescita di questo popolo, nonostante tutte le oppressioni e i disprezzi che subivano, e l’obbligo ad una severa servitù.

    Gli egiziani erano seriamente preoccupati a tal punto che addirittura pensassero che in caso di guerra, i figli d’Israele si sarebbero potuti uniti ai loro nemici, da costituire una minaccia e un serio pericolo per l’incolumità dell’intero paese d’Egitto. Il provvedimento che venne preso per frenare la crescita di questo popolo fu che

    il re d’Egitto parlò alle levatrici ebree, delle quali una si chiamava Scifrah e l’altra si chiamava Puah, e disse:
    Quando assisterete le donne ebree partorienti, e le vedrete sul sedile del parto, se è un maschio, uccidetelo; ma se è una femmina, lasciatela vivere
    (Esodo 1:15,16).

    Gli ordini impartiti in quella maniera, non ebbero però buon esito in quanto che le levatrici ebree, non fecero quello che venne detto loro. La legge che più tardi venne emanata, - e questa volta non si limitava ad una semplice raccomandazione -, diceva tassativamente:

    Allora il Faraone diede quest’ordine a tutto il suo popolo dicendo: Ogni maschio che nasce, gettatelo nel fiume; ma lasciate in vita le femmine (Esodo 1:22);

    e aveva lo scopo di impedire la crescita dei figli d’Israele, - a danno naturalmente di ogni sano principio di convivenza -. Un simile piano era talmente severo che non permetteva ai nascituri maschi di sopravvivere.

    La nascita di Mosè

    Dio che dirigeva e vegliava sopra i figli d’Israele, controllava minutamente le cose, nonostante la severa proibizione di fare sopravvivere tutti i maschi. Fu in questa situazione che la mamma di Mosè diede alla luce il suo secondo figlio, - che più tardi sarà chiamato Mosè -. Questo nascituro maschio, venne risparmiato, perché l’Esodo precisa:

    La donna concepì e partorì un figlio; e, vedendo che era bello, lo tenne nascosto per tre mesi (Esodo 2:2).

    A sua volta Atti 7:20, dice:

    In quel tempo nacque Mosè, ed era bello agli occhi di Dio; egli fu nutrito per tre mesi in casa di suo padre.

    Indubbiamente la bellezza di questo bambino non era comune, nel senso che non derivava dallo splendore dei genitori o dalla loro famiglia; era una bellezza straordinaria, tanto che Luzzi traduce: divinamente bello.

    Fu proprio in vista di questa bellezza particolare, che i genitori non si sentirono di gettarlo nel fiume, ma lo tennero nascosto per tre mesi, pensando probabilmente che Dio si sarebbe usato di lui per qualche missione particolare, anche se loro stessi non sapessero di che cosa si trattasse.

    La fede quindi di questi genitori, si manifesta nel fatto che sfidando le severe proibizioni delle autorità egiziane, ed esponendosi ad un serio pericolo, mettono in salvo, almeno per tre mesi, la vita di questo bambino, che ancora non si può chiamare Mosè. La fede, nella sua reale manifestazione, ha sempre sfidato le difficoltà e i pericoli, ed è riuscita sempre vittoriosa.

    Pensare alla fede che si manifesta solamente quando le cose vanno per il giusto verso o quando tutto è calmo, vuol dire svuotarla dell’elemento primario, che consiste nel rimanere fermo davanti a qualcosa che non si vede.

    Anche se dei genitori di Mosè, si legge che lo tennero nascosto per tre mesi, non vuol dire assolutamente che passato questo periodo, la loro fede svanì o cessò di essere in loro.

    Tutto quello che leggiamo in seguito, non solo ci conferma che la fede era ancora lì, ma ci permette di vedere come nel frattempo si accrebbe e sviluppata. La fede che si sviluppa, trova sempre nuove vie e nuovi modi di manifestarsi, allorquando si presentano nuove difficoltà.

    Si continuerà il prossimo giorno...
    [Modificato da Domenico34 23/12/2010 12:55]
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    Domenico34
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    00 24/12/2010 13:43
    Ma, quando non poté più tenerlo nascosto, prese un canestro di giunchi, lo spalmò di bitume e di pece e lo pose dentro il bambino e lo pose nel canneto sulla riva del fiume (Esodo 2:3).

    Se al termine dei tre mesi, l’intenzione della mamma fosse stata quella di disfarsi del suo bambino, certamente non l’avrebbe messo in quel canestro, accuratamente preparato per la sua sopravvivenza.

    Crediamo profondamente che quando la mamma di Mosè prese quel canestro, spalmandolo di bitume e di pece, reso impermeabile, e poi vi depose il suo figlioletto, sicuramente non l’avrà fatto per farlo morire.

    Se nella mente di quella donna ci fosse stato un simile pensiero, non solo non avrebbe cercato di procurarsi quel “canestro di giunchi”, non l’avrebbe spalmato di bitume e di pece, ma neanche l’avrebbe posato nel canneto, denotando un’azione gentile, a differenza di quella violenta cioè di gettare nel fiume, come aveva ordinato il re d’Egitto. In questo procedere, con una certa saggezza, scorgiamo indubbiamente una manifestazione più eloquente di una nuova strategia della fede.

    La fede non è cieca, nel senso che non sa vedere la cosa, né priva d’iniziative tendenti verso nuove soluzioni. Anzi, a dire il vero, quando sembra che tutto è spento, che non c’è una via d’uscita, trova il suo sbocco, risolvendo egregiamente le cose.

    Il fatto stesso poi, che il canestro contenente il bambino, venne posto nel canneto sulla riva del fiume, è un’altra prova di quanto era illuminata la fede di quella mamma e come nel frattempo si era sviluppata. Non crediamo che quella sia l’unica volta che la figlia di Faraone andò a farsi il bagno in quel fiume.

    Chissà quante altre volte sarà andata in quel posto, sia prima di quel giorno ed anche dopo.

    Supponendo che si sia recata il giorno primo con le sue ancelle, quando questa riferì la sua intenzione di voler ritornarvi il dì successivo, probabilmente avrà sentito dirsi: sei stata ieri al fiume per farti il bagno, quale bisogno c’è che ritorni di nuovo alla distanza di un solo giorno?

    In questo si può maggiormente apprezzare l’intervento di Dio e com’Egli vegliava sulla nuova situazione, che mise in cuore alla figlia di Faraone di recarsi al fiume, proprio in quello stesso giorno che la mamma di Mosè aveva posto il suo figlioletto nel canestro tra il canneto.

    Che la mamma di Mosè non sia stata mossa a compiere quell’azione perché sapeva che in quel giorno la figlia di Faraone sarebbe andata in quel posto a farsi il bagno, appare abbastanza chiaro.

    Tutto andava secondo un preciso piano divino, e soprattutto le azioni si compivano secondo la fede di quella mamma. Anche se all’inizio di un’opera di fede non tutto è chiaro, lo diventa, quando la fede viene premiata. Alla domanda della sorellina di Mosè, che chiede alla figlia di Faraone:

    Devo andare a chiamarti una balia tra le donne ebree che allatti questo bambino per te? (Esodo 2:7).

    E alla risposta:

    Va’. E la fanciulla andò a chiamare la madre del bambino. E la figlia di Faraone le disse: Porta via questo bambino, allattalo per me, e ti darò il tuo salario (Esodo 2:8,9),

    la fede della mamma venne doppiamente premiata: In primo luogo riebbe tra le sue braccia suo figlio, senza correre nessun pericolo, e poi perché fu pagata per tutto il tempo che lo allattò, che secondo un’antica usanza, durava tre anni. La fede ha sempre trionfato sulle varie avversità, e ha sempre trovato gli sbocchi, anche in quelle situazioni dove tutto sembrava incerto e buio.

    Non solo questo: ha ricevuto una certa ricompensa, che non è quella voluta e cercata dall’uomo, ma quella data da Dio. Al termine del periodo dell’allattamento, com’era stato pattuito, la figlia di Faraone riebbe quel bambino e lo considerò un suo “figlio” adottivo.

    Naturalmente, dato che si trattava della figlia di Faraone, e non gli mancavano possibilità economiche, quel bambino, che nel frattempo aveva ricevuto il nome Mosè, per essere stato “tratto dall’acqua”, fu

    istruito in tutta la sapienza degli Egiziani, ed era potente in parole ed opere (Atti 7: 22).

    Quest’ultimo particolare che Stefano ci fornisce, ci permette di affermare che Mosè, in Egitto, non solo acquisì un’elevata istruzione, secondo la sapienza degli Egiziani, ma divenne qualcuno, per la sua spiccata intelligenza e capacità operativa.

    È strano a questo punto notare come, sia il libro dell’Esodo come anche quello degli Atti, mantengono il massimo riserbo e non dicono niente della fanciullezza e della giovinezza di Mosè; quando ne riparlano, lo presentano all’età di quaranta anni, uomo già maturo, per prendere una qualsiasi decisione di una certa importanza e serietà.

    È un perdere tempo, lasciandosi andare alle svariate illazioni, per cercare di sapere come si comportò Mosè in tutti quegli anni di assoluto silenzio.

    2. LA SCELTA E LA DECISIONE DI MOSÈ

    Per fede Mosè divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia di Faraone,
    scegliendo piuttosto di essere maltrattato col popolo di Dio che di godere per breve tempo i piaceri di peccato, stimando il vituperio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori di Egitto, perché aveva lo sguardo alla ricompensa
    (Ebrei 11:24-25).

    Premessa

    Attraverso queste precise parole, l’autore dell’epistola agli Ebrei, traccia una sintesi molto significativa di quella che fu la vita di Mosè, da uomo adulto, e, nello stesso tempo ci fa osservare le varie fasi di sviluppo che seguirono.

    Tenendo presente quello che si narra di Mosè nel capitolo 2 dell’Esodo e quello che precisò più tardi Stefano, secondo Atti 7, non è difficile ricostruire le varie tappe della vita di quest’uomo, che la Bibbia, in tanti passi, definisce: “Servo dell’Eterno”.

    Crediamo che l’esame del testo summenzionato, non dovrebbe essere un pretesto per spingere a delle interpretazioni azzardate, e a stabilire una rigida regola per tutti e per ogni situazione. Se si dovesse procedere in questo senso, si rischierebbe di travisare lo scopo per cui questo episodio della vita di Mosè è stato scritto.

    Ma se invece, attraverso quest’episodio, si sa ricavare un’applicazione che si possa adattare obiettivamente alla vita di ogni singolo credente e per quelli che sono chiamati al ministero in un modo particolare, il nostro testo apparirà come un gioiello d’inestimabile valore, sia per quanto riguarda la nostra vita nei confronti di Dio e sia per quello che concerne l’esistenza associata.

    Crediamo opportuno anche precisare, prima che c’inoltriamo nell’esame del testo, che quello che fece Mosè, non necessariamente debba essere eseguito alla lettera, a meno ché lo Spirito Santo, in certe particolari situazioni, non intervenga per convincere una persona ad agire in una determinata maniera.

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    Domenico34
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    00 25/12/2010 13:28
    Inoltre, crediamo di dover suggerire di non spingere troppo le applicazioni spirituali, ma di mantenerle in un giusto equilibrio, in modo che la verità, relativa alla fede, che il capitolo 11 della lettera agli Ebrei presenta, non sia motivo di far cadere nel “ridicolo”, questa meravigliosa e fondamentale verità biblica.

    Tutto quello che esamineremo della vita di Mosè, dovrà portarci principalmente a considerare seriamente il valore di una decisione e di una scelta, viste dal punto di vista di Dio e a proposito della persona stessa che decide e che sceglie, per indurci ad una maggiore consapevolezza delle nostre precise responsabilità.

    A) MOSÈ RIFIUTA DI ESSERE CHIAMATO FIGLIO DELLA FIGLIA DI FARAONE

    Quando il nostro testo precisa che Mosè all’età di uomo “adulto” rifiutò di essere chiamato figlio della figlia di Faraone, non solo ci permette di conoscere quello che si verificò nella vita di quest’uomo, da quel preciso momento, ma c’induce anche a pensare alla sua esistenza, prima di quell’attimo decisivo.

    Quanti anni avrà avuto Mosè quando rifiutò di essere chiamato figlio della figlia di Faraone? Da quello che leggiamo in Esodo 2:11

    In quei giorni, quando Mosè si era fatto grande, avvenne che egli uscì a trovare i suoi fratelli e quello che dice Stefano: Ma, quando giunse all’età di quarant’anni, gli venne in cuore di andare a visitare i suoi fratelli; i figli d’Israele (Atti 7:23),

    si può supporre con ogni probabilità che aveva l’età di quarant’anni. Anche se il testo Sacro non precisa esattamente che all’età di quarant’anni Mosè rifiutò di essere chiamato figlio della figlia di Faraone, i due termini: “Grande” e “adulto” che la Scrittura adopera, sono a favore dell’età che indica Stefano.

    Stabilire l’età esatta che Mosè aveva quando rifiutò, non ha tanta importanza; la cosa che maggiormente bisogna considerare è il fatto che il rifiuto avvenne all’età di uomo adulto, e non agli anni della fanciullezza.
    Se si accetterà l’età dei quarant’anni, come probabile data di rifiuto di farsi chiamare figlio della figlia di Faraone, ciò non toglie di pensare che per tanti anni Mosè l’accettò.

    Come fece Mosè a sapere che la figlia di Faraone non era sua madre, non ci viene chiaramente specificato dalla Scrittura. Ciò nonostante, pensando soprattutto al tempo del suo allattamento e il fatto che colei che gli diede il latte per diversi anni era la sua vera madre, non c’impedisce, almeno di pensare, che l’avrà saputo direttamente da quella nutrice.

    La cosa che ha valore ai fini del nostro esame e della nostra riflessione, non è tanto sapere da chi seppe che la figlia di Faraone non era sua madre, quanto il fatto che all’età di uomo adulto, rifiutò di farsi chiamare figlio della figlia di Faraone. Per tanti anni la figlia di Faraone, quando si rivolgeva a Mosè, sia quando era sola e quando si trovava assieme ad altre persone della corte e fuori di essa, chiamò sempre Mosè: “Figlio mio”.

    Si può benissimo immaginare cosa avrà provato la figlia di Faraone quando Mosè, con voce ferma e decisa disse: “Da oggi in poi, non chiamarmi più tuo figlio; se l’ho accettato per tanti anni, adesso ho deciso di rifiutarlo”!

    La cosa più bella della nuova situazione di Mosè, è costituita dal fatto che quest’uomo agì di propria iniziativa, dopo una sicura crisi di coscienza che lo avrà indotto a fare approfondite e ponderate riflessioni, e, come conseguenza, lo portò alla svolta decisiva della sua vita.

    Infatti, da quel preciso momento che Mosè rifiutò, non solo si aprì un nuovo capitolo nella vita di quest’uomo, ma iniziò un nuovo corso di esistenza, soprattutto a proposito di quello che era la volontà di Dio per lui.

    È sempre stato vero e sempre sarà, che le svolte decisive per una persona cominciano quando ci sono serie decisioni personali e fermi propositi, ed è allora che si dà a Dio la possibilità di cominciare l’opera Sua nella vita umana.

    A che valgono le imposizioni che i genitori fanno nella vita dei loro figli, quando cercano di far comprendere loro che certe cose che il mondo offre bisogna rifiutarle? Tutto diventa però più facile ed ha valore davanti a Dio, quando è la persona che decide di rifiutare certe cose.

    Per Mosè, rifiutare di farsi chiamare figlio della figlia di Faraone, non significava solamente privarsi di un nobile titolo, ma significava principalmente, il rifiuto di un futuro luminoso, di una carriera piena di gloria, di ricchezza e di potere. Dato che Mosè era diventato figlio della figlia di Faraone, era candidato al regno, e in previsione di Mosè c’era la grandezza e il potere, come sicura meta. Ma dal momento che Mosè rifiuta il titolo di figlio, rifiuta anche tutto quello che è incluso in esso, circa il suo futuro, di conseguenza, appare inesorabilmente incerto davanti agli occhi umani.

    La stessa cosa si può dire di tutti quelli che sanno fare ferme decisioni per il loro Signore. Sarebbe pazzesco e con conseguenze incalcolabili, se dovessimo insegnare, sotto forma di una proibizione, sulla scorta di quest’episodio, di rifiutare impieghi e carriere che la vita può offrire.

    Ma se viene fatto nella libertà di una decisione personale e con la piena consapevolezza che un simile rifiuto comporta, l’atto di rifiuto acquista la sua importanza, per il motivo che l’ha suggerito e lo scopo perciò che è stato compiuto.

    B) MOSÈ SCEGLIE DI ESSERE MALTRATTATO COL POPOLO DI DIO

    Dal momento che Mosè decide di rifiutare di farsi chiamare figlio della figlia di Faraone, c’è anche una scelta che si impone davanti a quest’uomo. Come la decisione di rifiuto è stata presa da Mosè, così anche la scelta doveva essere fatta da lui, per avere davanti a Dio, l’una e l’altra, importanza e valore.

    Il termine greco helomenos, impiegato nel verso 25, significa: “la scelta preferenziale tra due possibilità”. Mosè scelse di essere maltrattato col popolo di Dio, anziché di godere per breve tempo i piaceri del peccato.

    Questa scelta non era dettata da una situazione disperata, come se Mosè si trovasse sotto la pressione di una minaccia, ma dalla coerenza della sua coscienza e dalla consapevolezza che quel popolo di Dio che in quel tempo era maltrattato, erano “i suoi fratelli”, quindi anche lui faceva parte di quella popolazione.

    Se Mosè non avesse avuto la consapevolezza che quel popolo schiavo e maltrattato in Egitto era la sua gente, forse non avrebbe mai fatto quella scelta. Ma dal momento che, nella mente e nel cuore di Mosè c’era la certezza che quelle persone maltrattate erano i suoi fratelli, appariva chiara l’incoerenza se rimaneva fuori di quella situazione, avvalendosi del privilegio di essere il figlio della figlia di Faraone. No! Io non sono un egiziano, e tanto meno un figlio della famiglia reale; sono un ebreo, al pari di quegli israeliti palesemente conosciuti come tali.

    Anche se davanti agli ebrei potrei apparire uno della famiglia reale, io non mi considero tale, perciò, in accordo con la mia coscienza e con la consapevolezza di essere un vero ebreo, di nascita e non di adozione, non posso fare un’altra scelta. È mirabile a questo punto notare e mettere in risalto la coerenza che Mosè manifestò, allorquando scelse di essere maltrattato col popolo di Dio, anziché godere per breve tempo i piaceri del peccato.

    Da un punto di vista umano, per la posizione in cui si trovava Mosè, si affermerebbe che quest’uomo non facesse una buona scelta, anche perché, se avesse voluto, avrebbe potuto evitare quei maltrattamenti ai quali andava incontro il popolo ebreo. E poi, cosa più significativa, la scelta di Mosè non fu per il meglio ma per il peggio.

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    Domenico34
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    00 26/12/2010 12:58
    Se Mosè fece quella scelta, - e lo scrittore agli Ebrei ci tiene a precisarlo - fu perché Mosè agì “per fede”. Senza la fede non solo non si può essere grati a Dio (v. 6), ma neanche si possono fare certe scelte, che impegnano seriamente la vita, non solo come singolo credente per ciò che riguarda la relazione con Dio, ma anche l’aspetto sociale, inteso come partecipazione assieme agli altri.

    Le riflessioni che abbiamo fatto sulla rinuncia e sulla scelta di Mosè, crediamo che siano valide anche ai nostri giorni e per ogni credente di qualsiasi generazione che si proclama, in privato o in pubblico, un figlio di Dio. Non c’è cosa più bella e più significativa, ai fini di una vera professione di fede, di essere coerenti con noi stessi, vale a dire con la nostra coscienza e con la consapevolezza di quello che siamo, e soprattutto di tenere alta la Parola della vita (Filippesi 2:15).

    C) LA VALUTAZIONE DI MOSÈ

    La terza cosa che lo scrittore agli Ebrei tiene a mettere in risalto, è il fatto che Mosè, in conseguenza della sua decisione e della sua scelta, fece anche la sua valutazione:

    Stimò il vituperio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori di Egitto, perché aveva lo sguardo rivolto alla ricompensa.

    Tutte le decisioni e le scelte, non quelle che altri fanno o che impongono, ma quelle che ognuno fa, implicano delle valutazioni, che giustifichino e mettano in risalto, gli atti stessi che si compiono. Le varie valutazioni, anche se derivate da decisioni e scelte, non tutte ovviamente possono essere considerate giuste, nel senso che sono esatte, specie quando vengono messe a confronto con le realtà della vita.

    Ma le valutazioni fatte e confrontate con le realtà spirituali, specie quando vengono messe riguardo a Cristo, il valore di quelle determinazioni è innegabile.

    Mosè aveva, da una parte “i tesori di Egitto”, dall’altra, “i maltrattamenti col popolo di Dio” = il vituperio di Cristo. Valutando il “vituperio di Cristo” come una ricchezza, e non come un obbrobrio, una sofferenza, concluse che quell’ignominia era maggiore, non come quantità ma come qualità, ai tesori di Egitto.

    Tutta l’operazione era vista e fatta a proposito di Cristo. La frase: “Il vituperio di Cristo”, è stata variamente spiegata dai vari commentatori. C’è chi afferma che “Mosè sopportò lo scherno per amor di Cristo”; c’è chi afferma che Mosè “subì da parte degli Egiziani lo stesso oltraggio che Cristo dovette subire al massimo grado da parte dei Giudei”; c’è chi sostiene che “ciò che l’autore intende è che Cristo, il reincarnato Figlio di Dio, partecipò attivamente agli eventi dell’Esodo, e che Mosè, quando prese la sua gran decisione, ipso facto accettò le sofferenze di Cristo e si identificò con Lui in loro”, e c’è infine chi ricorda che “Mosè subì gli oltraggi, prevedendo la venuta di Cristo”.

    Le diverse spiegazioni sono tutte possibili ed hanno in sé un aspetto della verità. Rimane comunque da vedere se lo stesso Mosè, ai suoi giorni, quando parlò e scrisse di Cristo, si rendeva conto di quello che diceva e se tutto era chiaro nella sua mente, nella stessa maniera come lo era per gli scrittori del N.T. La cosa che maggiormente deve essere tenuta in considerazione, è l’interpretazione che dà l’autore agli Ebrei.

    Per lui non c’è un’altra spiegazione: il maltrattamento e gli oltraggi che Mosè subì dagli Egiziani a causa della sua libera scelta, non erano altro che “il vituperio di Cristo”, e come tale può liberamente esortare i destinatari della lettera ad

    Uscire dunque fuori del campo e andiamo a lui portando il suo vituperio (Ebrei 13:13).

    Tutta la valutazione che Mosè fece, aveva una chiara specificazione: perché aveva lo sguardo rivolto alla ricompensa.

    Tutto quello che Mosè fece, nel condurre il popolo d’Israele fuori del paese di Egitto, nel guidarlo come capo e conduttore attraverso i lunghi anni nel deserto fino alla sua morte, e quello che diventò agli occhi di Dio, del grande onore e privilegio che l’Eterno gli accordò, trova e ha avuto la sua origine in quel preciso momento quando, da uomo adulto, seppe fare la decisione più audace che rifiutare di essere chiamato figlio della figlia di Faraone e la scelta più significativa che essere maltrattato col popolo di Dio.

    Tenendo presente l’insieme delle considerazioni che abbiamo fatto e l’equilibrata interpretazione del testo, crediamo di poter meglio capire le parole:

    Perciò noi non ci perdiamo d’animo; ma, anche se il nostro uomo esteriore va in rovina, pure quello interiore si rinnova di giorno in giorno.
    Infatti la nostra leggera afflizione, che è solo per un momento, produce per noi uno smisurato, eccellente peso eterno di gloria; mentre abbiamo lo sguardo fisso non alle cose che si vedono,
    ma a quelle che non si vedono, poiché le cose che si vedono sono solo per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne
    (2 Corinzi 4:16-18).

    3. MOSÈ LASCIA L’EGITTO

    Per quanto riguarda la frase: “Per fede lasciò l’Egitto”, i commentatori sono orientati verso due direzioni: gli uni sostengono che l’espressione si riferisce all’Esodo, gli altri pensano che si riferisca, sia alla fuga di Mosè in terra di Madian e sia all’Esodo. Queste due posizioni sono essenzialmente in evidente contraddizione tra l’affermazione della lettera agli Ebrei, che sostiene che Mosè lasciò l’Egitto senza temere l’ira del re e l’Esodo 2:14 che sostiene che Mosè ebbe paura.

    Anche se apparentemente potesse esserci una contraddizione tra i due testi citati, un esame approfondito, potrebbe conciliare le due affermazioni e quindi eliminare l’ostacolo. Noi siamo del parere che la frase: Per fede abbandonò l’Egitto, debba riferirsi alla fuga di Mosè nella terra di Madian, in accordo con Esodo 2:15, per almeno due motivi:

    1) Per la concatenazione che lo scrittore agli Ebrei fa della vita di Mosè, senza dover fare degli sbalzi in avanti;

    2) Perché l’azione di lasciare l’Egitto, a parte che è un atto personale, e implica anche la sua residenza, non s’accorda con l’ordine da parte del Faraone, che obbliga Mosè a lasciare l’Egitto (Esodo 11:28).

    Per quanto poi riguarda l’affermazione: senza temere l’ira del re, si pensi al potere che Faraone aveva nel far prendere Mosè anche in terra straniera per giustiziarlo, e subito la fede di Mosè risalta in tutta la sua evidenza.

    Anche se i due termini lasciare e fuggire, non sono sinonimi, e quindi essi potrebbero indurci a vedere due tempi nella vita di Mosè: uno per quanto riguarda la sua fuga e l’altro l’Esodo, tuttavia crediamo che i due termini servono per indicarci il pericolo che c’era per la vita di Mosè e l’impossibilità di poter rimanere ancora in Egitto.

    Chiarito questo punto, possiamo serenamente esaminare i testi che riguardano questo tempo particolare della vita di Mosè, per meglio capire, non solo come si svolsero le cose, ma soprattutto per conoscere il comportamento di quest’uomo.

    Per avere un quadro generale di come andarono le cose, e come si comportò Mosè in quel tempo, è necessario mettere a confronto i tre testi che parlano di lui per ciò che riguarda la sua uscita dall’Egitto.

    Ovviamente, i particolari che emergono dal confronto di questi testi, non devono essere usati per affermare che c’è contraddizione nello scritto biblico, ma interpretati come particolari che arricchiscano il racconto e lo completano.

    Intese in questo senso, le divergenze dei tre testi summenzionati, possono meglio farci capire la fede di Mosè, stando all’affermazione della lettera agli Ebrei. Ecco qui di seguito i tre testi che riguardano l’uscita di Mosè dal paese d’Egitto, in accordo con l’Epistola agli Ebrei.

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    00 27/12/2010 14:09
    Per fede lasciò l’Egitto senza temere l’ira del re, perché rimase fermo come se vedesse colui che è invisibile (Ebrei 11:27).

    E, vedendone uno che subiva un torto, lo difese e vendicò l’oppresso, uccidendo l’Egiziano.
    Or egli pensava che i suoi fratelli avrebbero capito che Dio stava per dar loro liberazione per mezzo suo, ma essi non compresero.
    Il giorno seguente egli comparve in mezzo a loro mentre litigavano e li esortò alla pace, dicendo: O uomini, voi siete fratelli, perché vi fate torto uno all’altro?
    Ma chi faceva torto al suo vicino lo respinse, dicendo: Chi ti ha costituito principe e giudice su di noi?
    Vuoi uccidere me, come ieri hai ucciso l’Egiziano?
    A queste parole Mosè fuggì e dimorò come forestiero nel paese di Madian, dove generò due figli
    (Atti 7:24-29).

    In quei giorni, quando Mosè si era fatto grande, avvenne che egli uscì a trovare i suoi fratelli e notò i loro duri lavori; e vide un Egiziano che percuoteva un uomo ebreo, uno dei suoi fratelli.
    Egli guardò di qua e di là e, visto che non c’era nessuno, uccise l’Egiziano e lo nascose poi nella sabbia.
    Il giorno seguente uscì e vide due uomini ebrei che litigavano; egli disse a quello che aveva torto: Perché percuoti il tuo compagno?
    Ma quegli rispose: Chi ti ha costituito principe e giudice su di noi? Vuoi uccidermi come hai ucciso l’Egiziano? Allora Mosè ebbe paura, e disse: Certamente la cosa è risaputa.
    Quando il Faraone sentì parlare dell’accaduto, cercò di uccidere Mosè; ma Mosè fuggì dalla presenza del Faraone e si stabilì nel paese di Madian; e si pose a sedere presso un pozzo
    (Esodo 2:11-15).

    Tra il resoconto che scrive il libro dell’Esodo e quello degli Atti, non c’è una notevole differenza, come si nota nelle poche parole della lettera agli Ebrei. Il particolare che rivela Stefano, nel ricordarci che Mosè, vedendo il torto che subiva l’ebreo da parte dell’Egiziano, lo difese e vendicò l’oppresso, c’induce a considerare e a riflettere, sul carattere di Mosè. In quel tempo Mosè, era ben lontano dall’essere definito:

    Or Mosè era un uomo molto mansueto, più di chiunque altro sulla faccia della terra (Numeri 12:20)

    Aveva un carattere troppo impulsivo: non tollerava facilmente un torto, un’offesa, un maltrattamento ingiusto; era insomma un uomo troppo violento. Difese l’oppresso, uccidendo l’aggressore.
    Mettendo in risalto la brutalità di Mosè, - anche se era giustificata da un senso di giustizia -, davanti all’insegnamento di Gesù e del N.T. in generale, riesce difficile a capire come ha fatto Dio a scegliersi un uomo di questo tipo, per costituirlo come capo e conduttore del Suo popolo Israele.

    Se però teniamo presente che Mosè venne chiamato da Dio ad essere lo strumento di liberazione di quel popolo disprezzato ed oppresso dagli Egiziani, dopo un periodo di quaranta anni trascorsi nel deserto, come pastore dietro un gregge, allora l’ostacolo del “carattere” di Mosè, viene superato facilmente. In poche parole possiamo dire: Dio, per usarsi di Mosè, dovette aspettare quaranta anni, per poi utilizzarlo, secondo il piano della Sua volontà.

    Se si pensa a Mosè, uomo di elevata cultura, idoneo ad assumere una cattedra Universitaria, e lo vediamo invece pascere un gregge, come se fosse un essere umano senza istruzione, degno di stare assieme al bestiame, siamo portati allora a riflettere su quello che Dio fece nella vita di quest’uomo, per addomesticare e addolcire il suo carattere, e per abbassare e polverizzare la sua grandezza umana. Il particolare che evidenzia l’Esodo, quando dice che Mosè:

    Guardò di qua e di là e, visto che non c’era nessuno, uccise l’Egiziano e lo nascose poi nella sabbia,

    è sufficiente per mettere in risalto l’accortezza di Mosè. Egli, da persona intelligente ed accorta che era, con quell’azione di nascondere nella sabbia il corpo dell’Egiziano, credeva che tutto l’affare fosse stato risolto, e che nessuno non avrebbe mai saputo del suo crimine. La cosa però non fu così, perché lo stesso Mosè, nel giro di un solo giorno, dovette prendere atto, che il suo crimine era già venuto a conoscenza degli altri. Si illudono molto, quelli che pensano e credono che possono tenere nascosti i loro malfatti, con il pretesto che nessuno li ha visti!

    Costoro, devono ricordarsi che, al disopra dell’uomo, c’è sempre però Dio che vede e sa ogni cosa; e, quanto meno se lo aspettano, le cose occulte, saranno predicate sopra i tetti.

    L’altro aspetto del comportamento di Mosè è costituito dalla sorpresa, quando, invitando alla “pace” i due ebrei che si litigavano, si vide respinto, con le parole:

    Chi ti ha costituito principe e giudice su di noi? Vuoi uccidere me, come ieri hai ucciso l’Egiziano?

    In questo suo intervento, Mosè, - a differenza del giorno precedente che aveva ucciso l’Egiziano e lo aveva nascosto nella sabbia -, dimostra un atteggiamento moderato e riconciliante, che mira a spegnere il litigio anziché a fomentarlo.
    Però, visto che i suoi fratelli lo avevano respinto, e che il suo crimine era stato scoperto, pensando soprattutto all’ira del re - che nel frattempo aveva già saputo del suo delitto, con la precisa intenzione di farlo morire -, e considerando che non c’era per lui altra alternativa, Mosè preferisce fuggire dal paese di Egitto e rifugiarsi nel territorio di Madian.

    In questa sua azione, Mosè, non deve essere giudicato come uno che venga meno nella sua fede; anzi deve essere valutato nel contesto della sua saggezza che vedendo un serio pericolo, cerca di evitarlo. Si può benissimo applicare a lui il testo del savio:

    La strada maestra degli uomini retti è evitare il male; chi vuol custodire la sua anima sorveglia la sua via (Proverbi 16:17).

    E che dire di Cristo, il quale vedendo che i Giudei lo volevano lapidare,

    ...si nascose e uscì dal tempo, passando in mezzo a loro, e così se ne andò? ( Giovanni 8:59).

    Nel paese di Madian, Dio ha un piano riservato per Mosè; ed è qui, che quest’uomo, viene preparato da Dio stesso per la gran missione che più tardi gli affiderà, mentre il suo carattere viene addomesticato e la sua vita preparata per il gran compito che lo attende.

    Tutto questo è chiaro nella mente di Dio, ma non è altrettanto chiaro nell’intelletto di Mosè, che ancora deve conoscere che l’Eterno lo ha scelto per una missione particolare. I metodi che Dio adopera per preparare una persona per l’opera che le vuole affidare, non sempre sono comuni, nel senso che Dio adopera mezzi e metodi che sono di là da ogni comprensione e valutazione umana.

    Quando una persona entra nelle officine di Dio per essere lavorato, non uscirà da quelle se il divino artefice, non abbia completato il suo lavoro, anche se per compierlo, ci vorranno lunghi anni, per Mosè ne occorsero quaranta.

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    00 28/12/2010 14:00
    4. MOSÈ CELEBRA LA PASQUA

    Per fede celebrò la Pasqua e fece l’aspersione del sangue, affinché colui che distruggeva i primogeniti non toccasse quelli d’Israele (Ebrei 11:28).

    Questo testo ci porta all’istituzione della Pasqua ebraica, alla vigilia della liberazione del popolo d’Israele dal paese di Egitto, e alla descrizione che venne fatta da Dio stesso intorno a tutte le regole cui gli Ebrei avrebbero dovuto attenersi per celebrarla e il suo relativo significato, sia per la generazione presente e anche per tutti quelli che sarebbero venuti in seguito. Più tardi la Pasqua, per il popolo Ebreo, sarà fissata come una solennità principale, assieme alle altre festività che il popolo celebrerà, di anno in anno, sempre con lo stesso scopo di ricordare la liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù del paese di Egitto.

    Mosè ormai, non è soltanto l’uomo che è stato chiamato da Dio ad una missione particolare, - anche se all’inizio fece una certa resistenza per accettare l’incarico che gli veniva dato da parte dell’Eterno -, ora si trova sotto la completa dipendenza di Dio, e fa esattamente tutto quello che l’Eterno gli dice di fare, anche se all’inizio l’Eterno non fa le cose come Mosè si aspettava.

    In tutta la lunga trattativa che Mosè conduce col Faraone, accompagnato da una serie di segni miracolosi, per indurre questo monarca a lasciare andare il popolo d’Israele dal paese di Egitto, Mosè dimostra una fermezza e un coraggio che gli derivava sicuramente dal mandato divino. Anche i figli d’Israele, ormai sono pienamente consapevoli che Mosè è l’uomo che Dio ha scelto come loro capo e liberatore, anche se quaranta anni prima, lo aveva respinto come il loro principe e giudice.

    Tutto è pronto per quell’evento memorabile, l’uscita del popolo d’Israele dal paese d’Egitto, che segnerà una svolta decisiva per questa popolazione Ebrea, e nello stesso tempo registrerà una pagina importante nella loro storia, che sarà tramandata di generazione in generazione, come testimonianza della potenza miracolosa di Dio in loro favore.

    Mosè riceve da Dio tutte le istruzioni e le modalità, intorno alla celebrazione della Pasqua, con l’obbligo di trasmetterle ai figli d’Israele, perché essa venga celebrata nella maniera come Dio ha ordinato. Anche se l’Epistola agli Ebrei parla chiaramente che la Pasqua venne celebrata da Mosè - come se l’avesse celebrata soltanto lui - sappiamo però dal capitolo dodici dell’Esodo, che la Pasqua venne celebrata da tutto il popolo, in obbedienza alla parola di Dio, data attraverso Mosè.

    Se la lettera agli Ebrei afferma che Mosè celebrò la Pasqua per fede, questo significa che egli per il primo, doveva aver fiducia, che in quella stessa notte in cui veniva celebrata la Pasqua, Dio avrebbe portato a compimento la liberazione del suo popolo, dalla schiavitù del paese d’Egitto. Valutata in questa maniera la celebrazione della Pasqua, si capisce subito quanto era importante la fede, in quella particolare circostanza.

    Inoltre, se Mosè, per il primo, non avesse avuto fede che proprio in quella notte che gli Ebrei celebravano la Pasqua nelle loro case in Egitto, Dio avrebbe posto fine alla dura schiavitù del suo popolo, come avrebbe fatto la gente ad aver fede, nella sua liberazione?

    Ecco perché il testo di Ebrei 11:28 parla di Mosè, e non del popolo, che celebra la Pasqua. Chiariti questi particolari, che sono fondamentali per la comprensione del testo in questione, possiamo esaminare il racconto relativo alla celebrazione della Pasqua, secondo il capitolo dodici dell’Esodo.

    L’Eterno parlò a Mosè e ad Aaronne nel paese d’Egitto dicendo: Questo mese sarà per voi il mese più importante, sarà per voi il primo dei mesi dell’anno.
    Parlate a tutta l’assemblea d’Israele e dite: Il decimo giorno di questo mese, ogni uomo prenda per se stesso un agnello, secondo la grandezza della famiglia del padre, un agnello per casa.
    Se poi la casa è troppo piccola per un agnello, ne prenda uno in comune col più vicino di casa, tenendo conto del numero delle persone; voi determinerete la quantità dell’agnello necessario, in base a ciò che ognuno può mangiare.
    Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, dell’anno; potrete prendere un agnello o un capretto.
    Lo conserverete fino al quattordicesimo giorno di questo mese, e tutta l’assemblea del popolo d’Israele lo ucciderà sull’imbrunire.
    Prenderanno quindi del sangue e lo metteranno sui due stipiti e sull’architrave delle case dove lo mangiarono.
    Ne mangeranno la carne arrostita al fuoco, quella stessa notte, la mangeranno con pane senza lievito e con erbe amare.
    Non ne mangerete niente di crudo o di lessato nell’acqua, ma sia arrostito al fuoco con la testa, le gambe e le interiora. Non ne lascerete alcun avanzo fino al mattino; e quel che sarà rimasto fino al mattino, lo brucerete col fuoco. Lo mangerete in questa maniera: coi vostri lombi cinti, coi vostri sandali ai piedi e col vostro bastone in mano; lo mangerete in fretta: è la Pasqua dell’Eterno
    (Esodo 12:1-11).

    La prima cosa che bisogna notare è che l’Eterno parlò a Mosè e ad Aaronne. Avrebbe potuto dare direttamente al popolo tutte le istruzioni relative alla celebrazione della Pasqua, senza trasmetterle attraverso Mosè ed Aaronne. Se Dio avesse fatto questo, sarebbe equivalso a non tenere conto degli uomini che Egli stesso aveva scelto.

    Dio non l’ha fatto, per rispettare appunto Mosè ed Aaronne, che erano suoi servitori e per dare insegnamenti al suo popolo, intorno al rispetto e all’ubbidienza che si deve a tutti i servi del Signore. L’agnello pasquale, doveva essere: senza “difetto”, “maschio” e “ucciso”. Perché queste precise disposizioni? In quell’agnello senza difetto, sappiamo che c’era la prefigurazione

    dell’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo! ( Giovanni 1:29; di quell’Agnello senza difetto e senza macchia, preordinato prima della fondazione del mondo... (1 Pietro 1:19-20), Gesù Cristo, il Figlio di Dio.

    Il sangue dell’agnello non doveva essere ingerito, né messo sul gradino della porta di casa, ma sui due stipiti delle porte e sull’architrave di ogni casa dove si mangiava l’agnello pasquale, e ciò serviva come “segnale” e “protezione”, nella notte che l’Eterno sarebbe passato per percuotere tutti i primogeniti del paese d’Egitto. La parola del Signore suonava in questa maniera:

    Poiché l’Eterno passerà per colpire gli Egiziani; quando però vedrà il sangue sull’architrave e sui due stipiti, l’Eterno passerà oltre la porta e non permetterà al distruttore di entrare nelle vostre case per colpirvi (Esodo 12:23).

    Se una casa veniva risparmiata dalla morte del primogenito, non era perché in quell’edificio abitavano gli ebrei, ma per il sangue dell’agnello che si vedeva sull’architrave e sui due stipiti della porta. Questo significava in termini inequivocabili che era il sangue, davanti agli occhi di Dio, che contava e che garantiva la famiglia, dal non subire il dolore della morte.

    Questo è vero soprattutto per quanto riguarda il sangue di Gesù, il solo che ci purifica dai nostri peccati e che ci risparmia dal severo giudizio di Dio. Oltre che la carne dell’agnello doveva essere mangiata arrostita al fuoco e non lessata nell’acqua, con erbe amare e pane senza lievito, testa, gambe e interiora, il popolo doveva avere i lombi cinti, i sandali ai piedi e il bastone in mano, denotando così che si era pronti per partire dal paese d’Egitto, come prova di liberazione da quella terra di schiavitù.

    La celebrazione di quella Pasqua, nonché tutte le modalità per celebrarla, richiedeva una scrupolosa attenzione e fede, sia da Mosè e sia da tutto il popolo d’Israele, non tanto per l’evento in se stesso, quanto per quello che si sarebbe dovuto verificare: l’uscita dei figli d’Israele dal paese d’Egitto.

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    Domenico34
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    00 29/12/2010 12:51
    Mentre in ogni casa Egiziana, compresa quella del re, regnava il dolore e il pianto, per la morte dei primogeniti, poiché non c’era casa dove non ci fosse un morto, per tutto il popolo d’Israele invece c’era esultanza e gioia.

    Questa è una storia che si ripete, a tutti i livelli, tra il popolo riscattato dal sangue di Gesù Cristo. Quando una persona viene liberata dalla schiavitù del peccato, vi sono tutte le ragioni per cantare ed esultare alla gloria di Dio. Quando si esperimenta la potenza liberatrice di Dio nella propria vita, si possono benissimo applicare le parole della Bibbia:

    Allora la nostra bocca si riempì di riso e la nostra lingua di canti di gioia, allora si diceva fra le nazioni: L’Eterno ha fatto cose grandi per loro (Salmo 126:2).

    5. IL PASSAGGIO DEL MAR ROSSO

    Per fede passarono il Mar Rosso come se attraversassero una terra asciutta; quando invece gli Egiziani tentarono di fare ciò, furono inghiottiti (Ebrei 11:29)

    1) Sotto il peso del dolore e del travaglio che gli Egiziani subirono in quella notte quando i loro primogeniti morirono, e soprattutto pensando che tutto il popolo sarebbe stato sterminato, essi stessi sollecitarono i figli d’Israele a lasciare l’Egitto, con tutto quello che apparteneva a loro.

    2) Mosè è a capo di un popolo “in numero di circa seicentomila uomini a piedi, senza contare i fanciulli” (Esodo 12: 37), da poco tirato fuori del paese d’Egitto, e sta marciando nel deserto, verso la località che aveva indicato a Faraone, per offrire all’Eterno il loro Dio, sacrifici di bestiame.

    3) Ma quando il dolore si placò e le autorità governative non potevano più usufruire della manodopera dei figli d’Israele, pensarono di inseguirli nel deserto, col preciso scopo di ricondurli in Egitto. In quel tempo il popolo d’Israele si era accampato nelle vicinanze del Mar Rosso. Colui che effettivamente stava dirigendo i Figli d’Israele, non era Mosè, capo visibile, ma l’Eterno, l’Iddio d’Israele.

    Perciò il popolo venne fatto accampare in quel luogo, perché l’Eterno aveva detto ciò a Mosè. Quando Faraone, con i suoi “seicento carri scelti” inseguirì il popolo d’Israele e li raggiunse nelle vicinanze del Mar Rosso, il racconto del libro dell’Esodo, precisa:

    Mentre il Faraone si avvicinava, i figli d’Israele alzarono gli occhi; ed ecco, gli Egiziani marciavano dietro di loro, per questo ebbero una gran paura; e i figli d’Israele gridarono all’Eterno,
    e dissero a Mosè: È perché non c’erano tombe in Egitto, che ci hai condotti a morire nel deserto? Perché hai fatto questo con noi, di farci uscire dall’Egitto?
    Non era forse questo che ti parlavamo in Egitto, dicendoti: Lasciaci stare, così potremo servire gli Egiziani? Poiché sarebbe stato meglio per noi servire gli Egiziani che morire nel deserto
    (Esodo 14:10-12).

    Davanti ad una simile scena, e soprattutto davanti al Mar Rosso che sbarrava loro la strada, i figli d’Israele non vedevano nessuna via di scampo, e la morte era la sicura realtà davanti ai loro occhi.

    Poiché era stato Dio che aveva ordinato di accamparsi nelle vicinanze del Mar Rosso, Mosè, come uomo di fede e servitore dell’Eterno, sa intravedere l’intervento di Dio in favore del suo popolo; perciò, non ha nessuna titubanza nel rispondere con fermezza, al grido disperato di una popolazione che pensa alla sua carneficina.

    Non temete, state fermi e vedrete la liberazione dell’Eterno, che egli compirà oggi per voi, poiché gli Egiziani che oggi vedete, non li vedrete mai più.
    L’Eterno combatterà per voi, e voi ve ne starete tranquilli
    (Esodo 14:13-14).

    Solo la fede si può esprimere in questa maniera e portare nello stesso tempo, tranquillità, in un ambiente dove le acque sono agitatissime. Non è col “darsi da fare” che le difficoltà e i pericoli che si incontrano nella vita cristiana, possono essere affrontati e risolti; ma solamente col “rimanere fermi” e guardare verso Chi opera la “liberazione” per il suo popolo.

    Questo significa aver fede, e fede in Chi è fedele, in Chi non verrà mai meno, cioè, l’Eterno. Non c’è da rimproverare Mosè o pensare che la sua fede sia venuta meno, quando leggiamo:

    Quindi l’Eterno disse a Mosè: Perché gridi a me? Di’ ai figli d’Israele di andare avanti.
    E tu alza il tuo bastone, stendi la tua mano sul mare e dividilo, affinché i figli d’Israele possano passare in mezzo al mare all’asciutto
    (Esodo 14:15-16).

    Queste parole dell’Eterno meritano un’approfondita considerazione e l’attenzione più devota per poterle capire e coglierne il valore del messaggio divino anche per i nostri giorni. Le parole del summenzionato testo, parlano di tre cose:

    a) Al popolo viene ordinato di andare avanti,
    b) A Mosè gli viene detto: Alza il tuo bastone,
    c) stendi la tua mano sul mare e dividilo

    Mosè deve dire al popolo di andare avanti. Questa parola dell’Eterno, non deve essere interpretata come una contraddizione a quella che Mosè diceva al popolo di stare fermi. Stare fermo, non significa “immobilità”, significa non essere preoccupati, rimanere fiduciosi in Dio e nel suo intervento.

    L’andare avanti, quindi, equivale a muoversi; esso significa essenzialmente mettere in pratica la fede, a dispetto della difficoltà presente. Una persona che va avanti in mezzo alle difficoltà, dimostra di aver fede in Dio e sperare in Chi tutto può, essendo egli anche la sorgente di ogni bene.

    Le prove e le difficoltà di solito fanno rallentare il passo, e inducono addirittura la persona a retrocedere. Dio vuole che andiamo avanti, cioè che non ci fermiamo e non indietreggiamo, ma proseguiamo nel nostro cammino, tenendo gli occhi, non sulle nostre difficoltà, ma su Dio e sulla Sua Parola.

    Quando diamo ascolto alla voce di Dio, che ci ordina di andare avanti, allora potremo esperimentare la Sua fedeltà e il Suo potere miracoloso nella nostra vita, su tutto ciò che potrà essere di ostacolo nel nostro cammino cristiano.

    A Mosè viene ordinato di alzare il suo bastone e di stendere la sua mano sul mare. Che cosa può fare un gesto di questo genere, davanti al serio pericolo dei carri di Faraone che minacciano da vicino la vita di un intero popolo?

    Il bastone deve essere alzato, non perché Mosè non l’avesse mai fatto, e neanche per farlo vedere ad un popolo che pensa alla sua disfatta; deve essere alzato essenzialmente, perché l’Eterno ha detto di fare ciò. Le gesta più insignificanti, umanamente parlando, hanno valore, quando vengono eseguite dietro ordine di Dio.
    A noi uomini e servitori di Dio, non incombe l’obbligo di spiegare certe cose che l’Eterno ci dice; è richiesta una completa obbedienza alla parola di Dio. È la nostra obbedienza alla Sua divina Parola che prepara e permette a Dio di manifestarsi con la Sua divina Onnipotenza.

    Quel bastone in mano di Mosè, anche se era un comune pezzo di legno, che i pecorai portavano, parlava però dell’autorità, che aveva ricevuto da parte di Dio.

    Alza il bastone della tua autorità, sembra dirgli Dio, non per farlo vedere agli uomini come prova della tua grandezza e della tua ambizione; ma alzalo per dimostrare a tutti, al popolo e anche alle forze dell’inferno, che la tua autorità non viene dall’uomo, ma da Dio che ti ha chiamato ad un nobile ministero, voluto e programmato da lui stesso.

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    Domenico34
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    00 30/12/2010 13:41
    Stendi la tua mano sul mare. Perché la mano di Mosè che si deve stendere sul mare, e non quella di Dio? Che cosa può fare una mano umana distesa sul mare, che rappresenta l’ostacolo insormontabile davanti a un popolo, la cui strada è stata sbarrata proprio da esso? Ma se si pensa che è Dio che ordina di fare ciò, quel gesto ha la sua importanza; permetterà a Dio di operare il miracolo, servendosi della strumentalità umana. Mosè, quale servitore di Dio, deve fare uso della sua fede e deve essenzialmente preoccuparsi di prestare attenzione a Dio, in tutto ciò che Egli gli ordina di fare.

    La cosa più sbalorditiva, - che lo stesso Mosè non si aspetta -, è quando si sente dire dall’Eterno: Alza il tuo bastone, stendi la tua mano sul mare e dividilo. Io devo dividere il Mar Rosso? Che cosa sono io per fare una simile prodezza? Da che mondo e mondo, non si è mai sentito affermare che un uomo abbia la capacità di “dividere il mare”.

    Questo non è il lavoro che rientra nelle facoltà di un essere umano; questa è prerogativa di Dio, dell’Onnipotente, che può tutto. No, Mosè! Devi essere tu, proprio tu, mio servitore, che io ho scelto, a dividere il mare, affinché i figli d’Israele possano passare in mezzo al mare all’asciutto.

    Dio chiama Mosè ad esercitare la sua fede con un miracolo straordinario, che non si era mai verificato, durante la storia dell’umanità. Dio che sa e vede tutta la situazione nella quale si trova il suo popolo, pensa come impedire ai carri di Faranoe di avvicinarsi alla popolazione d’Israele, nel suo accampamento, durante quella notte.

    La colonna di nuvola, che serviva per “illuminare” la notte ai figli d’Israele, fu di tenebre ai carri di Faraone, quando

    l’Angelo di Dio che camminava davanti all’accampamento d’Israele, si spostò e andò a mettersi dietro a loro (Esodo 14:19).

    Quando Dio terminò di sistemare le cose, leggiamo:

    Allora Mosè stese la sua mano sul mare; e L’Eterno fece ritirare le acque con un forte vento orientale tutta quella notte e cambiò l’acqua in terra asciutta; e le acque si divisero. Così i figli d’Israele entrarono in mezzo al mare all’asciutto; e le acque formavano come un muro alla loro destra e alla loro sinistra (Esodo 14:21).

    Le acque del Mar Rosso non si sarebbero aperte, se Mosè non avesse steso la mano sul mare. Anche se è detto chiaramente che l’Eterno fece ritirare il mare, non si può sottovalutare la mano stesa di Mosè sulle acque, gesto che causò la potente e straordinaria manifestazione miracolosa divina. Dio vuole essere obbedito in pieno, in tutto ciò che Egli dice, e dare piena importanza alle Sue parole, nei minimi particolari.

    Quando ciò viene fatto dall’uomo, e particolarmente da coloro che Dio ha costituiti al ministero, l’obbedienza completa alla sua Parola, farà muovere il potente braccio del Signore, e aprirà una via per il suo popolo, facendolo camminare all’asciutto. La via che l’Eterno aprì nel Mar Rosso, era stata aperta per i figli d’Israele e non per i carri di Faraone.

    Questi, pensando e credendo di usufruire di quell’inaspettata possibilità (camminare anche loro nella stessa via che l’Eterno aveva aperto per il suo popolo), si diedero all’inseguimento della gente d’Israele, con tutta la tenacia e la rabbia che avevano in corpo.

    Così facendo, e credendo di avere ottenuto lo scopo: la cattura d’Israele, dovettero fare, la più terrificante esperienza, quando, in un primo tempo, l’Eterno, fece staccare le ruote dei loro carri e rese la loro avanzata difficile (Esodo 14:25), e, successivamente, coperti e annegati in mezzo alle acque del Mar Rosso. Ma del popolo d’Israele è detto:

    Così, in quel giorno, l’Eterno salvò Israele dalla mano degli Egiziani, e Israele vide sul lido del mare gli Egiziani morti.
    Israele vide la gran potenza che l’Eterno aveva mostrato contro gli Egiziani, e il popolo temette l’Eterno e credette nell’Eterno e in Mosè suo servo
    (Esodo 14: 30-31).

    PS: Se ci sono domande da fare, fateli liberamente, e, per quanto riguarda noi, saremo felice di rispondere.