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Quanto poi, nell’ambito di coloro che sono conosciuti come “servitori del Signore”, cioè di quelli che sono stati chiamati a svolgere un lavoro nel ministero, ci sono antagonismi e rivalità, sentimenti ed atteggiamenti di superiorità, come se stessero compiendo un lavoro di concorrenza l’uno contro l’altro, questo non è certamente lavorare nell’opera del ministero, (come Paolo lo definì (Efesini 4:12), né servire il Signore e tanto meno avere di mira il bene degli altri.

Avere uno spirito polemico, in vista del raggiungimento di una posizione di superiorità, non è certamente mettere in pratica il principio divino secondo Filippesi 2:3, e quando si agisce in questa maniera, non si stà seguendo colui che svuotò se stesso, prendendo la forma di servo (cioè Gesù) (Filippesi 2:7), ma la propria carne, le proprie ambizioni, la propria posizione di prestigio e di rispettabilità, a danno della stima degli altri.

L’IMPORTANZA DI ESSERE UN LAVORATORE

Mettere in evidenza l’importanza di essere un lavoratore, non solo rientra nella logica delle cose, di cui Nehemia 3 parla chiaramente, ma ci porta principalmente a ricollegarci alle parole di Gesù, contenute nel vangelo di Matteo [Si veda D. Barbera, Il Grande mandato di Gesù Cristo, pagg. 120-123].

Allora egli disse ai suoi discepoli: la mèsse è veramente grande, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il Signore della mèsse che spinga operai nella sua mèsse (Matteo 9:37-38).

A dire il vero, quando i termini: “Lavorarono, lavorava, lavorò”, impiegati in Nehemia 3, vengono collegati con le parole del Signore, secondo il testo summenzionato, si apre davanti a noi un panorama, che ci permette maggiormente di valorizzare i termini in questione, e cercare nello stesso tempo di capire l’importanza di essere un lavoratore, rispetto soprattutto nell’opera del ministero, senza peraltro negare l’interesse dell’esistenza di altri lavori che vengono svolti nell’attività del Signore, da semplici credenti che non sono catalogati nel corpo ministeriale.

Le parole di Gesù


Meditando le parole di Gesù, si capisce subito quanto sia importante il lavoro del mietitore, in tempo di raccolta, se non si vuole che l’attività di chi ha preparato il terreno e vi ha sparso il seme, risulti vana.

Il seminare e il mietere sono due lavori diversi l’uno dall’altro, anche se possono essere fatti da una stessa persona. Se poi si pensa a due persone che compiono separatamente questo lavoro, si capisce subito che la sorte dell’attività dell’uno, dipende dalla laboriosità dell’altro. Se il primo fa il suo lavoro, cioè quello di preparatore e di seminatore, e l’altro, quello di mietitore non viene fatto, non solo ci sarà la perdita del raccolto, ma le stesse lagrime di colui che sparge il seme, non saranno ricompensate dalla gioia dei canti durante la raccolta (Salmo 126).

Si racconta di un agricoltore che aveva un sacco di grano nel suo magazzino, destinato al fabbisogno suo e della sua famiglia. Quando arrivò il tempo della semina, il padre disse al figlio di spandere il seme nel campo che in precedenza era stato preparato. Il figlio, chiese al padre: “Dove prenderò il seme?” “Dal sacco che è in magazzino”, rispose fermamente il genitore. Il figlio ribatté: “Il sacco di grano che abbiamo in magazzino, serve per il nostro fabbisogno, e se lo prenderò per spargerlo nel campo, che cosa mangeremo”, rincalzò il figlio. Al che il padre, precisò: “Se il seme che abbiamo in magazzino non viene seminato, domani non avremo nessuna speranza di raccolta, e la nostra stessa sopravvivenza, si troverà in seria difficoltà”.

Si ricorda che quando il figlio spargeva il seme nel campo, egli andava piangendo, per il semplice fatto che compiva quel lavoro a pancia vuota, dato che in casa non c’era niente da mangiare, e il grano che avevano in magazzino, non potevano toccarlo, perché si doveva spargerlo nel campo, dietro l’ordine perentorio che il padre aveva dato.

Questa è una bell'illustrazione che ci aiuta a capire meglio le parole del Salmista:

Ben va piangendo colui che porta il seme da spargere, ma tornerà con canti di gioia portando i suoi covoni (Salmo 126:6).

La gioia del lavoratore non sarà manifestata nel momento in cui spargerà il seme, bensì quando arriverà il tempo della raccolta. È in quel tempo che tutte le fatiche del lavoratore-seminatore saranno ricompensate! I covoni, segno evidente della raccolta, saranno quelli che recheranno gioia al cuore, non solo di chi li porta, ma di tutta la famiglia e di tutti chi avrà lavorato in fase preparatoria, affrontando difficoltà di ogni genere.

Il comando di Gesù di pregare il Signore della mèsse

Le parole di questo comando sono rivolte ai discepoli del Cristo, e non alle folle che andavano dietro a Gesù. Per le folle, il testo precisa che Gesù, vedendole,
ne ebbe compassione perché erano stanche e disperse come pecore senza pastore (Matteo 9:36).

Ai discepoli viene fatto notare che la mèsse è veramente grande, ma gli operai sono pochi (v. 37), e la preghiera che si deve innalzare al Signore della mietitura del grano, è perché Egli invii degli operai nella sua mèsse.

La parola greca usata nel v. 38 è ergatas, e significa: “Lavoratore, operaio, contadino, pastore”, ma che la quasi totalità dei traduttori, si è orientata a renderlo “operaio”.

Si continuerà il prossimo giorno...