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Domenico34 - La Fede - XI. La fede di Mosè

Ultimo Aggiornamento: 30/12/2010 13:41
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25/12/2010 13:28

Inoltre, crediamo di dover suggerire di non spingere troppo le applicazioni spirituali, ma di mantenerle in un giusto equilibrio, in modo che la verità, relativa alla fede, che il capitolo 11 della lettera agli Ebrei presenta, non sia motivo di far cadere nel “ridicolo”, questa meravigliosa e fondamentale verità biblica.

Tutto quello che esamineremo della vita di Mosè, dovrà portarci principalmente a considerare seriamente il valore di una decisione e di una scelta, viste dal punto di vista di Dio e a proposito della persona stessa che decide e che sceglie, per indurci ad una maggiore consapevolezza delle nostre precise responsabilità.

A) MOSÈ RIFIUTA DI ESSERE CHIAMATO FIGLIO DELLA FIGLIA DI FARAONE

Quando il nostro testo precisa che Mosè all’età di uomo “adulto” rifiutò di essere chiamato figlio della figlia di Faraone, non solo ci permette di conoscere quello che si verificò nella vita di quest’uomo, da quel preciso momento, ma c’induce anche a pensare alla sua esistenza, prima di quell’attimo decisivo.

Quanti anni avrà avuto Mosè quando rifiutò di essere chiamato figlio della figlia di Faraone? Da quello che leggiamo in Esodo 2:11

In quei giorni, quando Mosè si era fatto grande, avvenne che egli uscì a trovare i suoi fratelli e quello che dice Stefano: Ma, quando giunse all’età di quarant’anni, gli venne in cuore di andare a visitare i suoi fratelli; i figli d’Israele (Atti 7:23),

si può supporre con ogni probabilità che aveva l’età di quarant’anni. Anche se il testo Sacro non precisa esattamente che all’età di quarant’anni Mosè rifiutò di essere chiamato figlio della figlia di Faraone, i due termini: “Grande” e “adulto” che la Scrittura adopera, sono a favore dell’età che indica Stefano.

Stabilire l’età esatta che Mosè aveva quando rifiutò, non ha tanta importanza; la cosa che maggiormente bisogna considerare è il fatto che il rifiuto avvenne all’età di uomo adulto, e non agli anni della fanciullezza.
Se si accetterà l’età dei quarant’anni, come probabile data di rifiuto di farsi chiamare figlio della figlia di Faraone, ciò non toglie di pensare che per tanti anni Mosè l’accettò.

Come fece Mosè a sapere che la figlia di Faraone non era sua madre, non ci viene chiaramente specificato dalla Scrittura. Ciò nonostante, pensando soprattutto al tempo del suo allattamento e il fatto che colei che gli diede il latte per diversi anni era la sua vera madre, non c’impedisce, almeno di pensare, che l’avrà saputo direttamente da quella nutrice.

La cosa che ha valore ai fini del nostro esame e della nostra riflessione, non è tanto sapere da chi seppe che la figlia di Faraone non era sua madre, quanto il fatto che all’età di uomo adulto, rifiutò di farsi chiamare figlio della figlia di Faraone. Per tanti anni la figlia di Faraone, quando si rivolgeva a Mosè, sia quando era sola e quando si trovava assieme ad altre persone della corte e fuori di essa, chiamò sempre Mosè: “Figlio mio”.

Si può benissimo immaginare cosa avrà provato la figlia di Faraone quando Mosè, con voce ferma e decisa disse: “Da oggi in poi, non chiamarmi più tuo figlio; se l’ho accettato per tanti anni, adesso ho deciso di rifiutarlo”!

La cosa più bella della nuova situazione di Mosè, è costituita dal fatto che quest’uomo agì di propria iniziativa, dopo una sicura crisi di coscienza che lo avrà indotto a fare approfondite e ponderate riflessioni, e, come conseguenza, lo portò alla svolta decisiva della sua vita.

Infatti, da quel preciso momento che Mosè rifiutò, non solo si aprì un nuovo capitolo nella vita di quest’uomo, ma iniziò un nuovo corso di esistenza, soprattutto a proposito di quello che era la volontà di Dio per lui.

È sempre stato vero e sempre sarà, che le svolte decisive per una persona cominciano quando ci sono serie decisioni personali e fermi propositi, ed è allora che si dà a Dio la possibilità di cominciare l’opera Sua nella vita umana.

A che valgono le imposizioni che i genitori fanno nella vita dei loro figli, quando cercano di far comprendere loro che certe cose che il mondo offre bisogna rifiutarle? Tutto diventa però più facile ed ha valore davanti a Dio, quando è la persona che decide di rifiutare certe cose.

Per Mosè, rifiutare di farsi chiamare figlio della figlia di Faraone, non significava solamente privarsi di un nobile titolo, ma significava principalmente, il rifiuto di un futuro luminoso, di una carriera piena di gloria, di ricchezza e di potere. Dato che Mosè era diventato figlio della figlia di Faraone, era candidato al regno, e in previsione di Mosè c’era la grandezza e il potere, come sicura meta. Ma dal momento che Mosè rifiuta il titolo di figlio, rifiuta anche tutto quello che è incluso in esso, circa il suo futuro, di conseguenza, appare inesorabilmente incerto davanti agli occhi umani.

La stessa cosa si può dire di tutti quelli che sanno fare ferme decisioni per il loro Signore. Sarebbe pazzesco e con conseguenze incalcolabili, se dovessimo insegnare, sotto forma di una proibizione, sulla scorta di quest’episodio, di rifiutare impieghi e carriere che la vita può offrire.

Ma se viene fatto nella libertà di una decisione personale e con la piena consapevolezza che un simile rifiuto comporta, l’atto di rifiuto acquista la sua importanza, per il motivo che l’ha suggerito e lo scopo perciò che è stato compiuto.

B) MOSÈ SCEGLIE DI ESSERE MALTRATTATO COL POPOLO DI DIO

Dal momento che Mosè decide di rifiutare di farsi chiamare figlio della figlia di Faraone, c’è anche una scelta che si impone davanti a quest’uomo. Come la decisione di rifiuto è stata presa da Mosè, così anche la scelta doveva essere fatta da lui, per avere davanti a Dio, l’una e l’altra, importanza e valore.

Il termine greco helomenos, impiegato nel verso 25, significa: “la scelta preferenziale tra due possibilità”. Mosè scelse di essere maltrattato col popolo di Dio, anziché di godere per breve tempo i piaceri del peccato.

Questa scelta non era dettata da una situazione disperata, come se Mosè si trovasse sotto la pressione di una minaccia, ma dalla coerenza della sua coscienza e dalla consapevolezza che quel popolo di Dio che in quel tempo era maltrattato, erano “i suoi fratelli”, quindi anche lui faceva parte di quella popolazione.

Se Mosè non avesse avuto la consapevolezza che quel popolo schiavo e maltrattato in Egitto era la sua gente, forse non avrebbe mai fatto quella scelta. Ma dal momento che, nella mente e nel cuore di Mosè c’era la certezza che quelle persone maltrattate erano i suoi fratelli, appariva chiara l’incoerenza se rimaneva fuori di quella situazione, avvalendosi del privilegio di essere il figlio della figlia di Faraone. No! Io non sono un egiziano, e tanto meno un figlio della famiglia reale; sono un ebreo, al pari di quegli israeliti palesemente conosciuti come tali.

Anche se davanti agli ebrei potrei apparire uno della famiglia reale, io non mi considero tale, perciò, in accordo con la mia coscienza e con la consapevolezza di essere un vero ebreo, di nascita e non di adozione, non posso fare un’altra scelta. È mirabile a questo punto notare e mettere in risalto la coerenza che Mosè manifestò, allorquando scelse di essere maltrattato col popolo di Dio, anziché godere per breve tempo i piaceri del peccato.

Da un punto di vista umano, per la posizione in cui si trovava Mosè, si affermerebbe che quest’uomo non facesse una buona scelta, anche perché, se avesse voluto, avrebbe potuto evitare quei maltrattamenti ai quali andava incontro il popolo ebreo. E poi, cosa più significativa, la scelta di Mosè non fu per il meglio ma per il peggio.

Si continuerà il prossimo giorno...
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