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Domenico34 – Nehemia... – Sommario, Presentazione, Introduzione e Capitoli 1-10

Ultimo Aggiornamento: 21/02/2012 00:43
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14/02/2012 00:13

Quanto poi, nell’ambito di coloro che sono conosciuti come “servitori del Signore”, cioè di quelli che sono stati chiamati a svolgere un lavoro nel ministero, ci sono antagonismi e rivalità, sentimenti ed atteggiamenti di superiorità, come se stessero compiendo un lavoro di concorrenza l’uno contro l’altro, questo non è certamente lavorare nell’opera del ministero, (come Paolo lo definì (Efesini 4:12), né servire il Signore e tanto meno avere di mira il bene degli altri.

Avere uno spirito polemico, in vista del raggiungimento di una posizione di superiorità, non è certamente mettere in pratica il principio divino secondo Filippesi 2:3, e quando si agisce in questa maniera, non si stà seguendo colui che svuotò se stesso, prendendo la forma di servo (cioè Gesù) (Filippesi 2:7), ma la propria carne, le proprie ambizioni, la propria posizione di prestigio e di rispettabilità, a danno della stima degli altri.

L’IMPORTANZA DI ESSERE UN LAVORATORE

Mettere in evidenza l’importanza di essere un lavoratore, non solo rientra nella logica delle cose, di cui Nehemia 3 parla chiaramente, ma ci porta principalmente a ricollegarci alle parole di Gesù, contenute nel vangelo di Matteo [Si veda D. Barbera, Il Grande mandato di Gesù Cristo, pagg. 120-123].

Allora egli disse ai suoi discepoli: la mèsse è veramente grande, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il Signore della mèsse che spinga operai nella sua mèsse (Matteo 9:37-38).

A dire il vero, quando i termini: “Lavorarono, lavorava, lavorò”, impiegati in Nehemia 3, vengono collegati con le parole del Signore, secondo il testo summenzionato, si apre davanti a noi un panorama, che ci permette maggiormente di valorizzare i termini in questione, e cercare nello stesso tempo di capire l’importanza di essere un lavoratore, rispetto soprattutto nell’opera del ministero, senza peraltro negare l’interesse dell’esistenza di altri lavori che vengono svolti nell’attività del Signore, da semplici credenti che non sono catalogati nel corpo ministeriale.

Le parole di Gesù


Meditando le parole di Gesù, si capisce subito quanto sia importante il lavoro del mietitore, in tempo di raccolta, se non si vuole che l’attività di chi ha preparato il terreno e vi ha sparso il seme, risulti vana.

Il seminare e il mietere sono due lavori diversi l’uno dall’altro, anche se possono essere fatti da una stessa persona. Se poi si pensa a due persone che compiono separatamente questo lavoro, si capisce subito che la sorte dell’attività dell’uno, dipende dalla laboriosità dell’altro. Se il primo fa il suo lavoro, cioè quello di preparatore e di seminatore, e l’altro, quello di mietitore non viene fatto, non solo ci sarà la perdita del raccolto, ma le stesse lagrime di colui che sparge il seme, non saranno ricompensate dalla gioia dei canti durante la raccolta (Salmo 126).

Si racconta di un agricoltore che aveva un sacco di grano nel suo magazzino, destinato al fabbisogno suo e della sua famiglia. Quando arrivò il tempo della semina, il padre disse al figlio di spandere il seme nel campo che in precedenza era stato preparato. Il figlio, chiese al padre: “Dove prenderò il seme?” “Dal sacco che è in magazzino”, rispose fermamente il genitore. Il figlio ribatté: “Il sacco di grano che abbiamo in magazzino, serve per il nostro fabbisogno, e se lo prenderò per spargerlo nel campo, che cosa mangeremo”, rincalzò il figlio. Al che il padre, precisò: “Se il seme che abbiamo in magazzino non viene seminato, domani non avremo nessuna speranza di raccolta, e la nostra stessa sopravvivenza, si troverà in seria difficoltà”.

Si ricorda che quando il figlio spargeva il seme nel campo, egli andava piangendo, per il semplice fatto che compiva quel lavoro a pancia vuota, dato che in casa non c’era niente da mangiare, e il grano che avevano in magazzino, non potevano toccarlo, perché si doveva spargerlo nel campo, dietro l’ordine perentorio che il padre aveva dato.

Questa è una bell'illustrazione che ci aiuta a capire meglio le parole del Salmista:

Ben va piangendo colui che porta il seme da spargere, ma tornerà con canti di gioia portando i suoi covoni (Salmo 126:6).

La gioia del lavoratore non sarà manifestata nel momento in cui spargerà il seme, bensì quando arriverà il tempo della raccolta. È in quel tempo che tutte le fatiche del lavoratore-seminatore saranno ricompensate! I covoni, segno evidente della raccolta, saranno quelli che recheranno gioia al cuore, non solo di chi li porta, ma di tutta la famiglia e di tutti chi avrà lavorato in fase preparatoria, affrontando difficoltà di ogni genere.

Il comando di Gesù di pregare il Signore della mèsse

Le parole di questo comando sono rivolte ai discepoli del Cristo, e non alle folle che andavano dietro a Gesù. Per le folle, il testo precisa che Gesù, vedendole,
ne ebbe compassione perché erano stanche e disperse come pecore senza pastore (Matteo 9:36).

Ai discepoli viene fatto notare che la mèsse è veramente grande, ma gli operai sono pochi (v. 37), e la preghiera che si deve innalzare al Signore della mietitura del grano, è perché Egli invii degli operai nella sua mèsse.

La parola greca usata nel v. 38 è ergatas, e significa: “Lavoratore, operaio, contadino, pastore”, ma che la quasi totalità dei traduttori, si è orientata a renderlo “operaio”.

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15/02/2012 00:10

Se consideriamo attentamente le parole di Gesù nel suo contesto, non è il senso di una qualifica di un comune manuale che deve essere evidenziata, ma piuttosto il valore aggettivale che il termine ha, cioè: “Laborioso, attivo”. Se poi si tiene presente la differenza che esiste sul piano pratico tra “lavoratore” e “operaio”, rispetto a chi non ha intenzione e volontà di lavorare, appare più evidente del termine “lavoratore”, è da preferire a quello di “operaio”

Dio, nel suo campo, non sa cosa farne di quelle persone che hanno la sola qualifica di operai; Egli vuole dei lavoratori, perché sono queste gli individui di cui la mèsse ha bisogno, ed Egli invia nella sua mietitura del grano lavoratrice che sappiano poi raccogliere il frutto della fatica dei tanti lavoratori-seminatori.

La prova scritturale per ciò che riguarda essere un lavoratore


Consideriamo alcuni testi biblici che parlano chiaramente di lavorare, tutto quello che fin qui abbiamo detto, acquista più significato, e le ulteriori riflessioni che faremo, daranno più peso e ci permetteranno di capire meglio la Parola del Signore. In (Proverbi 21:25), leggiamo:

I desideri del pigro lo uccidono, perché le sue mani rifiutano di lavorare.

Per un comune operaio che ha la caratteristica di un pigro, le sue mani rifiuteranno di lavorare, non perché il lavoro che gli viene offerto non si addice a lui, ma perché in lui non c’è quella necessaria volontà che lo renderà disponibile al lavoro.

Il pigro non è chi è menomato e privo di forze fisiche, ma piuttosto chi è dominato da una volontà ostile al lavoro. Anche se gli viene offerto del lavoro, quello meno impegnativo, il pigro troverà sempre la maniera di rifiutarlo, perché appunto ha la caratteristica della pigrizia, del fannullone. Ecco perché Salomone afferma che la povertà del pigro

verrà come un ladro, e la sua indigenza come un uomo armato (Proverbi 6:11).

Inoltre, quello che poi il savio costatò, a proposito del pigro, è più che verità:

Sono passato presso il campo del pigro e presso la vigna dell’uomo privo di senno; ed ecco, dovunque crescevano le spine, i rovi ne coprivano il suolo e il muro di pietre era crollato (Proverbi 24:30,31).

Gesù, nelle sue parabole, mise abbastanza in evidenza l’importanza di avere una buona disposizione a lavorare.

Nella parabola dei due figli, ci viene detto che il padre, rivolgendosi la primo disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella mia vigna (Matteo 21:28).

L’importanza di questo riferimento biblico non risiede tanto nel fatto che ci viene parlato di lavorare, quanto di lavorare “oggi”, cioè quando ci viene chiesto di farlo. Tutti i rimandi ad un tempo migliore (così si esprimono alcuni), non servono a niente; servono solamente a mettere in risalto l’indisponibilità della persona a lavorare. Giustamente Gesù conclude che, la volontà di quel padre, venne fatta, non da quel figlio che con le parole disse:
Sì, lo farò signore, ma non vi andò, ma dell’altro che pur avendo detto prima: Non voglio; più tardi però, pentitosi, vi andò (Matteo 21:28-30).

Tutti i rimandi ad un tempo migliore (come abbiamo detto), non servono a nulla: né alla persona alla quale viene detto di andare a lavorare e tanto meno a chi offre la possibilità di lavoro.

Dal punto di vista della Suprema volontà di Dio, se Egli ci chiede di lavorare “oggi” nella sua vigna, bisogna farlo oggi e non domani. Il domani, che si trova facilmente nella bocca di chi non ha volontà di lavorare, spessissimo si traduce in: “Mai”.

Nella parabola degli operai delle diverse ore, ci viene affermato che il padrone di casa uscì da buon mattino per prendere a giornata dei lavoratori (ergatas). L’accordo che venne preso per ciò che riguardava la paga lavorativa di una giornata, venne fatto con i lavoratori (ergatōn). L’ordine di pagare di sera fu: Chiama i lavoratori (ergatas) e paga loro il salario... (Matteo 20:1-8).

Questa parabola c'insegna almeno tre cose:

1) Il padrone andò a cercare dei lavoratori e non semplici operai per mandarli nella sua vigna.
Non sarebbe servito a niente se questo padrone avesse mandato nel suo campo comuni operai che non aveva avuto la volontà di lavorare. La sua vigna aveva bisogna di persone che sin dall’inizio, erano ben intenzionate a svolgere il lavoro assegnato.

2) L’accordo della paga, venne raggiunto con i lavoratori, cioè, non con i loro rappresentati, con i sindacati, (come si direbbe oggi), ma con le persone interessate. Era in vista del loro impegno di lavorare, che veniva offerta una paga adeguata.

3) La paga venne data alla fine della giornata lavorativa. Pretendere di essere pagato prima di iniziare a lavorare, è un voler chiedere troppo (per non parlare d'incoerenza per chi fa simile richiesta) e rappresenta un’incognita per chi dovrà usufruire del beneficio del lavoro. Ricevere una giusta paga, dopo aver fatto il proprio dovere nel fare il lavoro che è stato assegnato, ciò rientra nel diritto del lavoratore e nel dovere di chi lo ha pattuito. Ma richiederla prima di iniziare, significa avere sentimenti egoisti e di poca stima verso il datore di lavoro.

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16/02/2012 00:07

Di Timoteo, si dice che fu un collaboratore di Paolo (Atti 19:22); un compagno d’opera dell’apostolo (Romani 16:21); un fedele nel Signore (1 Corinzi 4:17); un predicatore del Figlio di Dio, Gesù Cristo (2 Corinzi 1:19); un servo di Gesù Cristo (Filippesi 1:1); un ministro di Dio e compagno d’opera nell’evangelo di Cristo (1 Tessalonicesi 3:2).

L’apostolo Paolo, l’esortò a rimanere in Efeso
per ordinare ad alcuni di non insegnare dottrine diverse, e di non occuparsi di favole e di genealogie senza fine... (1 Timoteo 1:3);

a condurre un buon combattimento, in virtù delle profezie che gli erano state fatte in precedenza nei suoi riguardi (1 Timoteo 1:18; 6:12); ad applicarsi alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento (1 Timoteo 4:13); a non fare le cose con parzialità (1 Timoteo 5:21); a custodire il deposito che gli era stato affidato (1 Timoteo 6:20); a non vergognarsi della testimonianza del Signor Gesù Cristo, né di Paolo quale suo prigioniero (2 Timoteo 1:8); di ritenere il modello delle sane parole (2 Timoteo 1:13); di sopportare sofferenze, come un buon soldato di Gesù Cristo (2 Timoteo 2:3); di ricordarsi della risurrezione di Gesù Cristo (2 Timoteo 2:8); di esporre rettamente la parola della verità (2 Timoteo 2:14); di perseverare nelle cose che aveva imparato (2 Timoteo 3:14); di riprendere, rimproverare, esortare con ogni pazienza e dottrina (2 Timoteo 4:2) e di fare l’opera di evangelista (Timoteo 4:5).

Di tutto quello che abbiamo elencato sopra, circa Timoteo, crediamo che la cosa più bella e significativa che viene detta di lui, è quella che si trova in (1 Corinzi 16:10):

Ora se viene Timoteo, guardate che stia fra voi senza timore, perché lavora nell’opera del Signore come faccio anch’io (La Nuova Riveduta).

Ecco un “lavoratore”, attivo ed impegnato nell’opera del ministero, che con il suo esempio, il suo zelo, il suo entusiasmo e la sua dedizione, può insegnare a noi tutti, con la sua vita e con il suo esempio, com'essere dei buoni e fedeli lavoratori per la causa del regno di Dio!

La diversità di lavoro nell’opera del Signore


Il lavoro nel campo di Dio, è vario e abbondante, nel senso che non è uguale per tutti e tutti possono trovare posto, purché ci sia la volontà di lavorare.

Abbiamo notato che, nonostante Gesù avesse ordinato ai suoi discepoli di pregare il Padre della mèsse di inviare lavoratori nella sua mèsse, resta sempre fermo il fatto che colui che sceglie e invia è Dio, cioè: il Padre il Figlio e lo Spirito Santo (Vedi Giovanni 17:18; Matteo 28:19; Atti 13:4). Poiché questa facoltà di scelta e di inviare, è una prerogativa divina, pensare che possa essere delegata a qualcuno di questa terra, significa ragionare secondo l’uomo e non secondo le Scritture. Nonostante ciò, il discepolo del Signore viene coinvolto in questa attività divina con il suo chiedere e pregare. Inoltre, se Gesù avesse detto di pregare il Padre per fare la scelta degli inviati, ciò sarebbe equivalso a mettere i discepoli in una posizione arbitrale, cosa che non sarebbe stata certamente conforme alla Suprema volontà di Dio.

Restando sempre fermo l’onore che il discepolo del Cristo ha nel poter chiedere al Padre di inviare lavoratori nella sua mèsse, è importante tener sempre presente che chi viene scelto e inviato, non dovranno pensare di fare tutti gli stessi lavori. Quando questo pensiero è chiaro nella nostra mente, come conseguenza più immediata, siamo portati ad accettare il lavoro che c'è stato assegnato per svolgerlo nella maniera più completa e con la massima dedizione.

Dal momento che, la Scrittura richiede che ognuno sia trovato fedele (1 Corinzi 4:2), ne consegue che ogni lavoratore non dovrà preoccuparsi di copiare quello che fanno gli altri, o impegnarsi in ciò che non gli è stato assegnato.

Possiamo prendere com'esempio l’apostolo Paolo. Quest’uomo sapeva, non solo, di essere un apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio (1 Corinzi 1:1); un ministro di Cristo (1 Corinzi 4:1), ma realizzava anche di essere uno che “piantava” e conosceva Apollo come uno che “annaffiava” (1 Corinzi 3:6). Chi sia più importante colui che “pianta o colui che annaffia, non sta a noi uomini di stabilirlo. L’importante per ogni lavoratore impegnato nel campo di Dio, è di tener presente, quello che il Signore ha dato a ciascuno (v.5).

Avendo ben compreso l’importanza di queste Scritture valide anche per noi che viviamo nel ventesimo secolo non c’è bisogno di rammaricarsi o di addolorarsi, se non facciamo il lavoro che altri fanno. La sola preoccupazione che ogni singolo lavoratore deve avere costantemente davanti a se, è quello dell’impegno e della perseveranza, caratteristiche che lo renderanno fedele ed approvato agli occhi di Dio, per l’opera alla qual è stato chiamato.

Non dire mai che il lavoro che sta facendo nell’opera del Signore, non è importante, sol perché non è spettacolare come certi altri attività. Se è un lavoro che ti è stato assegnato da Dio, ricordati sempre che esso è importante davanti a Lui, anche se non ricevi apprezzamenti da chi ti sta vicino.

Non tutti sono chiamati a viaggiare il mondo per annunciare l’evangelo di Cristo, come non tutti vengono inviati dal Divino Direttore delle missioni, nelle Indie, nell’Africa, o tra gente selvaggia. Tutti però possono impegnarsi a divulgare la buona notizia dell’amore di Dio e della salvezza in Cristo, anche se per tanti questo lavoro si svolge col vicino di casa, col compagno di attività, col conoscente.

Come non viene dato a tutti di svolgere l’attività di predicatore, d'insegnante o di scrittore, il volere imitare questi lavori, è pura presunzione e un danno che si fa alla propria vita spirituale.

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17/02/2012 00:13

Lavorare alla restaurazione di una persona disfatta da Satana, a causa del suo peccato, o di una famiglia logorata e frantumata dai roventi litigi, o di una coppia sull’orlo del disfacimento del loro matrimonio, o tra una Comunità dilaniata dal fuoco della discordia e delle divisioni, è come se si lavorasse in mezzo alla polvere o sotto un sole cocente.

Ma se è un lavoro al quale sei stato chiamato, e senti profondamente dentro di te che Dio ti vuole in quel posto, fallo con tutto il tuo impegno, con tutto il tuo zelo, con tutto il tuo entusiasmo e con tutta la tua dedizione, ricordando sempre quello che dice la Scrittura:

fratelli miei carissimi, state saldi, irremovibili, abbondando del continuo nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore (1 Corinzi 15:58).

PS: Se al termine del capitolo 9 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura

Capitolo 10




SI RESTAURA LA PORTA VECCHIA




Jehoiada, figlio di Paseah, e Meshullam, figlio di Besodeiah, restaurarono la porta Vecchia; ne fecero l’intelaiatura i vi misero i suoi battenti, le serrature e le sbarre (Nehemia 3:6).

IL SIGNIFICATO ETIMOLOGICO DI JEHOIADA E DI MESHULLAM

Il nome di Jehoiada, significa: “Il Signore ha conosciuto, ha preso cura di”; mentre quello di Meshullam, significa, “Amico”. Questi due uomini, appartenenti a due famiglie diverse, si misero insieme per restaurare la porta Vecchia.

Dal significato etimologico che hanno i nomi di questi due uomini, possiamo fare qualche breve considerazione, che certamente sarà di nostro beneficio e nello stesso tempo ci aiuterà a capire il lavoro che fecero queste due persone.

Il significato del nome di Jehoada

Come abbiamo detto sopra, Jehoiada significa: “Il Signore ha conosciuto, ha preso cura di”. Davanti a questo significato etimologico, siamo portati a chiedere: che cosa ha conosciuto il Signore? Di che cosa ha preso cura? Anche se il tempo del verbo conoscere è al passato, non vuol dire niente, dato che la conoscenza di Dio, abbraccia i tre periodi del verbo: passato, presente e futuro. Lo stesso dicasio per ciò che riguarda del “prendere cura di”.

Alle due domande, si può rispondere tranquillamente e con fermezza: il Signore conosce tutto; le cose che riguardano il creato, il mondo degli uomini e delle cose, come anche il cielo e tutto ciò che c’è in lui.

Quando si pensa all’attributo dell’Onniscienza che Dio possiede, possiamo affermare che non c’è cosa che Egli non conosca.

Dire anche solamente che il Signore conosce tutto, ciò è di per se stesso oltremodo grande; ma pensare al fatto che Egli conosca tutto quello che si passa sulla terra e chi l’abita, come anche tutto ciò che concerne il cielo, cioè tutto ciò che ha a che fare con l’eternità, prima ancora della loro esistenza, questo oltrepassa ogni limite della conoscenza umana.

Aveva perfettamente ragione Davide, quando diceva:

La tua conoscenza è troppo sublime per me, talmente alta che non posso raggiungerla (Salmo 139:6).

Isaia 46:10, ce ne dà una piccola prova:
Io annuncio la fine fin dal principio, e molto tempo prima dico le cose non ancora avvenute: il mio piano sussisterà e farò tutto ciò che mi piace.

Se il Signore annuncia la fine fin dal principio, questo prova che Egli non ha bisogno dell’evolversi delle cose per poterne parlare. La fine delle cose, è davanti a Lui chiara e presente nella stessa maniera come lo è il principio della loro esistenza.

La conoscenza del Signore, per chi ha fede il Lui, è stata e sarà sempre fonte d'ispirazione e di fiducia.

Se io ho la certezza che Dio, in conseguenza della sua conoscenza totale, prende cura di ogni mia situazione, questo equivale ad affermare che Dio, non è soltanto sovrano, non si mantiene lontano e non resta indifferente davanti ai tanti bisogni che l’uomo può avere, Egli è presente e vicino al bisognoso per aiutarlo nel momento opportuno

Per un credente, una simile certezza, equivale a tirarlo su da un possibile abbattimento, gli dona coraggio e forza, lo preserva dallo scoraggiamento nelle tante avversità della vita e gli dà nuova speranza per farlo continuare a camminare nel sentiero dell'esistenza.

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18/02/2012 00:05

Il significato del nome di Meshullam

Come abbiamo detto sopra, ripetiamo ancora una volta, il nome di Meshullam, significa: “Amico”. Il significato etimologico di questo nome, è anch’esso di stimolo e d'incoraggiamento.

Se sai che vicino a te hai un amico cui può rivolgerti, sia per chiedergli consigli, come anche per raccontargli le tue cose, specie quando si tratta di difficoltà, puoi aspettarti comprensione e stima.

Se poi pensiamo a quello che dice la Bibbia che, c’è un amico ch’è più affezionato di un fratello (Proverbi 18:24), (La Nuova Riveduta), e alle parole di Gesù.

Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa ciò che fa il suo padrone; ma io vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udito dal Padre mio (Giovanni 15:15),

possiamo maggiormente apprezzare il valore dell’amicizia, intesa come un legame che ci unisce, e non com' elemento che ci separa.

Ecco, la bella verità che si può insegnare dall’etimologia dei nomi di Jehoiada e Meshullam: uno c'ispira fede in Colui che conosce tutto e che si prende cura di noi, cioè il Signore, e l’altro ci fa sentire a nostro agio e ci circonda di affezione e di premura, di attaccamento e di simpatia.

Due persone con queste caratteristiche che si trovano insieme in un campo di lavoro, possono incoraggiarsi a vicenda, quando si presenteranno le difficoltà nelle molteplici manifestazioni; possono spronarsi a guardare verso il Signore,chie immancabilmente prenderà cura di ogni situazione in cui possono venirsi a trovare; possono sostenersi reciprocamente a proseguire nel cammino e nell’attività intrapresa, con la certezza che tutto andrà bene, e, soprattutto, tutto riuscirà per il bene comune.

COMINCIANO I LAVORI PER LA RESTAURAZIONE DELLA PORTA VECCHIA

La porta Vecchia, come tutte le altre aperture che si trovavano nelle mura di Gerusalemme, era stata danneggiata. I due uomini che la restaurarono, gli fecero l’intelaiatura e vi misero i suoi battenti, le serrature e le sbarre.

Delle undici porte che vennero menzionate nel capitolo 3 di Nehemia, solo per due di loro vennero messa l’intelaiatura: la porta dei Pesci e la porta Vecchia. Ciò vuole affermare che queste due porte furono maggiormente danneggiate dal fuoco, da richiedere un simile lavoro.

Inoltre, alla porta delle Pecore, vennero messi i soli battenti, mentre alle aperture della Valle, del Letame e a quella della Sorgente, vennero messe: battenti, serrature e sbarre. Per le rimanenti porte, cioè: l'uscio della casa di Eliashib, la porta delle Acque, la porta dei Cavalli, la porta Orientale e la porta di Mifkad, non viene fatto alcun cenno, dell’intelaiatura, dei battenti, delle serrature e delle sbarre. Questo significa che questi elementi non furono danneggiati, da richiederne le riparazioni.

Si osserva la porta Vecchia

La prima cosa che si è portati a pensare, è il fatto che, gli esecutori materiali di questi lavori, avranno sicuramente guardato attentamente la condizione della porta prima di iniziare, per sapere esattamente quello che dovevano fare.
Dall’esame che venne fatto, risultò chiaramente che la porta Vecchia aveva bisogno di essere restaurata nella sua intelaiatura, nei suoi battenti, nelle sue serrature e nelle sue sbarre. Anche se il testo sacro precisa che Jehoiada e Meshullam restaurarono la porta Vecchia, sottolinea anche che questi due uomini, ne fecero l’intelaiatura e vi misero i suoi battenti, le serrature e le sbarre.

Davanti a questa precisazione, si può dire con tutta certezza che gli elementi che vennero danneggiati dal fuoco, non furono riparati, vale a dire abbandonati, ma rimpiazzati.

A lavori terminati, la porta Vecchia ritornò ad essere quella di prima, non cambiò niente del suo aspetto, niente della sua forma, dato che non venne demolita, ma solamente restaurata.

Di che cosa ci parla la porta Vecchia

Per dare una spiegazione di che cosa ci parla la porta Vecchia, dal punto di vista spirituale, possiamo prendere come base e partenza delle nostre riflessioni, Geremia 6:16, che dice,

Così dice il Signore: fermatevi sulle vie e guardate, e domandate quali siano i sentieri antichi, dove sia la buona strada, e camminate in lei; così troverete riposo per le anime vostre.

Anzitutto, Dio ci ordina di fermarci. Fermarsi è la prima cosa che si richiede, per guardare con attenzione e maggiore concentrazione. Una persona che cammina, difficilmente può guardare attentamente per scorgere una cosa, specie quando quello che vede non è comune. Con la fermata, la persona può occupare coscienza del posto in cui si trova, quali sono le cose che lo circondano, e può con maggiore facilità individuare quello che cerca.

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19/02/2012 00:09

Ai nostri tempi la vita è troppo movimentata, chi corre a destra e chi corre a sinistra; chi fa una cosa e chi ne fa un’altra. Non è solamente il semplice correre che si nota nella vita degli uomini che caratterizza e condiziona quasi tutte le attività umane, c’è una specie di disorientamento nell'esistenza di molte persone, che non permettere loro di sapere cosa devono fare e in quale direzione andare. Questi non sono solamente fenomeni che investono la vita sociale delle persone, nelle loro svariate manifestazioni, sono anche seri problemi che investono l’uomo per ciò che riguarda le cose religiose, le cose di Dio, in modo particolare, le cose che hanno a che fare con la salvezza dell’anima, con l’eternità. L’uomo si deve fermare per riflettere, per considerare, per ascoltare, e, soprattutto, si deve fermare, per aprirsi davanti alle realtà divine ed eterne, per cercare di capire in quale stato si trova, in quale direzione sta camminando, per non correre il rischio di dover fare naufragio.

Una volta che l’uomo si ferma, Dio aggiunge: “Guarda e domanda quali siano i sentieri antichi”. Non basta il semplice guardare, perché a volte pur osservando, da posizione di fermi, non si vede quello che si vuole vorrebbe, perché probabilmente quella cosa non è in quel posto. In questo caso bisogna domandare.

Ma a questo punto, sorge la domanda: a chi domandare? Dal momento che si tratta di domandare dei “sentieri antichi”, può darsi che il giovane non li conosca, mentre la persona anziana conoscendoli li può anche additare. Così, la persona che si è fermata, avendo guardato e domandato, può sapere quali sono i “sentieri antichi”.

Se Dio ha ordinato di fermarsi, di guardare e di domandare dei “sentieri antichi”, ciò vuol ricordare che il Signore pensa ed è interessato a loro, tanto da additarli al suo popolo. Inoltre, ci chiediamo: dov'’è la strada buona, per camminare in lei? Questa strada buona nella quale Dio vuole che il suo popolo cammini, ha attinenza e affinità con i sentieri antichi? Ovviamente, per dare una giusta risposta a queste due domande, bisogna realizzare quale importanza e quale senso si danno ai “sentieri antichi”.

Nei tempi in cui viviamo oggi, tutto è proteso verso il nuovo, verso il moderno; e, difficilmente si pensa alle cose antiche, anzi addirittura spesse volte le giudichiamo come idee del passato, da non ricordarle più, essenze che non hanno più senso e valore.

Sì, è vero che certe cose del passato sarebbero meglio di non ricordarle, e dimenticarle per sempre, come capitoli che sono stati definitivamente chiusi; questo ovviamente, non è vero per tutte le cose.

Ci sono cose dell’antichità che non dobbiamo dimenticare, perché racchiudono un patrimonio culturale d'inestimabile valore. Che cosa dire dei tanti monumenti dell’antichità, di certe opere d’arte di eccezionale valore? Non solo non si dimenticano, ma si fa del tutto per conservarle nello stato originale, spendendo enorme quantità di denaro in lavori di restauri e di preservazioni, affinché il soggetto ritorni quello di una volta.

Quando si passa ad analizzare certi aspetti della vita cristiana, (la condotta per esempio) si manifesta una forte tendenza a farla rientrare nel contesto del modo di vivere moderno. A volte addirittura si arriva al punto di dare un senso di ripudio, o di vergogna, a certi principi divini, con il pretesto che non si può uscire del mondo, cioè dalla vita che si vive ogni giorno.

È vero che Gesù pregò il Padre, nella gran preghiera contenuta nel capitolo 17 del Vangelo di Giovanni: Io non ti chiedo che tu li tolga dal mondo... (v. 15); ma è anche vero che Egli aggiunse: Essi (i miei discepoli, quelli che hanno creduto in me ed hanno accettato la parola che io ho dato loro) non sono del mondo, come me non sono del globo terrestre (v. 16).

Che dire di quello che disse l’apostolo Giovanni:
Non amate il mondo, né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui, perché tutto ciò che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la passionalità degli occhi e l’orgoglio della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno? (1 Giovanni 2:15-17).

Davanti a questa chiara parola dell’apostolo, non c’è nessuna giustificazione che possa cambiare il senso dell’esortazione. Quando non si accetta la Parola di Dio nella sua interezza, non solo si cerca di giustificare la propria condotta, ma si finisce col rigettare ogni saggio consiglio che ci viene dato.

Non amare il mondo né le cose che sono nel mondo, sono sentieri antichi che Dio stesso ha tracciato per i suoi figli, ed è la “strada buona” nella quale Egli vuole che noi camminiamo.

Se Dio chiama il suo popolo all’attenzione a guardare e a domandare dei sentieri antichi, non è solamente perché egli non cammina più in loro, ma è soprattutto perché una buona percentuale del popolo li ha persi addirittura di mira, o forse non li ha mai imboccati.

Dalla buona reputazione che ogni figlio di Dio dovrebbe avere in mezzo all’umanità, essendo stato fatto luce e sale della terra, si è passati alla vergogna, al disonore e all’immoralità, manifestazioni di condotta che, oltre ad offuscare la buona testimonianza cristiana, hanno fatto quasi scomparire la scrupolosità e la sensibilità di una sana coscienza.

Si continuerà il prossimo giorno...
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21/02/2012 00:43

Il nemico ha seriamente danneggiato la porta Vecchia, per non farla riconoscere per quella che è, e per farla dimenticare per sempre, come qualcosa del lontano passato, qualcosa che non ha nessun valore e nessun'importanza. Ecco perché questa porta deve essere restaurata nella sua intelaiatura, nei suoi battenti, nelle sue serrature e nelle sue sbarre.

L’intelaiatura serve per mantenere la porta nella sua forma originale; i battenti e le serrature per chiudere le fessure, e le sbarre per non fare entrare il nemico.

Un confronto tra le parole di Geremia e quelle di Gesù


Ritornando a Geremia 16, notiamo che questo testo contiene una bella promessa: così troverete riposo per le anime vostre. Facendo un confronto tra le parole del profeta e quelle di Gesù, che nella forma sono identiche notiamo: Geremia fa dipendere il riposo per l’anima, dal camminare sulla buona strada, mentre Gesù lo fa dipendere dal prendere il suo giogo e dall’imparare da lui. Sostanzialmente, però, non esiste nessuna notevole differenza. Infatti, il significato del camminare sulla buona strada, concorda perfettamente con l’auto definizione di Gesù, quando dice: Io sono la via... (Giovanni 1:6).

Profeticamente parlando, non è forse Gesù, la buona strada, che Dio indica affinché camminiamo in lei, per avere riposo nell’anima? Certamente! E quando prendiamo il giogo di Gesù e impariamo da lui, non stiamo forse camminando sulla buona strada che ci conduce a Dio? Certamente! Sotto quest'aspetto, allora, possiamo affermare che l’uomo, qualunque esso sia, per avere riposo nell’anima, ha assolutamente bisogno di ascoltare Dio, seguendo la giusta direzione che Egli gli indica nell’invitarlo a camminare sulla buona strada. A volte Gesù, rivolgendo la sua parola all’uomo, gli dice: questa buona strada che ti è stata indicata dal profeta Geremia, sono io stesso. Infatti, io sono: la via, la verità e la vita, e nessuno va al Padre senza di me.

Gesù, non è soltanto la via (non una strada), ma l’unica che conduce a Dio, ma è anche mezzo, per il quale, si può ricevere il riposo dell’anima. Dal punto di vista di Dio, non ci sono tante alternative: o si va a Gesù, l’unico che può capirci, dato che Egli si è fatto uomo, non soltanto per morire per lui, ma principalmente per capirlo nelle sue distrette e nei suoi svariati bisogni, o si rimane nel travaglio e nell’inquietitudine.

Per i travagliati e per chi è carico di pesi e nella vita dell’uomo di oggi come in quello di tutti i tempi ci sono tanti fardelli invisibili all’occhio umano, che solo andando al Calvario, possono cadere. Quando l’uomo viene scaricato dai suoi pesi, allora potrà verificare la veracità della promessa di Dio, contenuta in Geremia 16 e l’esattezza dell’invito di Cristo a prendere il suo giogo e da imparare da Lui.

PS: Se al temine del capitolo 10 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura. Inoltre, per chi volesse continuare a leggere i restanti 9 capitoli del libro, potrà rivolgersi presso l’Editrice Kilkia, dove porà comprare il libro a un modestissimo prezzo di 3,00 euro. Grazie!.
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