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Domenico34 – Nehemia... – Sommario, Presentazione, Introduzione e Capitoli 1-10

Ultimo Aggiornamento: 21/02/2012 00:43
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30/01/2012 00:09

APPLICAZIONE SPIRITUALE PER LA PORTA DELLE PECORE

L’ubicazione della porta delle Pecore


La porta delle Pecore, secondo una precisa topografia dei tempi di Nehemia, era situata nelle mura di Gerusalemme, nelle vicinanze del Tempio, all’estremità orientale della parete settentrionale, e quest'ubicazione, probabilmente, era con riferimento al fatto che gli agnelli e le pecore erano spesso offerti al Signore nel Tempio, e questo naturalmente facilitava enormemente il lavoro dei sacerdoti e dei leviti che scannavano queste bestie e le offrivano al Signore.

Dato che questa porta era stata devastata nella sua struttura muraria e bruciata dal fuoco nei suoi battenti, era necessario ripristinarla, in modo che le pecore potessero passare ed arrivare nel Tempio e i sacerdoti utilizzarle per i regolari sacrifici offerti a Dio.

Chi facesse una simile devastazione, era stato senza dubbio il nemico, e sperare che egli la riparasse, era oltremodo impensabile, per il fatto che l'avversario = il diavolo, non ha mai fatto lavori di restaurazione, ha sempre fatto quello di devastazione a tutti i livelli. Giustamente, Gesù, poteva dire di lui, paragonandolo ad un ladro:

Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; ma io sono venuto affinché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Giovanni 10:10.

Gesù, porta delle Pecore

Un giorno Gesù Cristo, parlando del buon pastore, disse di se stesso: In verità, in verità vi dico, io sono la porta delle Pecore (Giovanni 10:7).

L’apostolo Pietro, a sua volta, chiama Gesù: Il sommo pastore (1 Pietro 5:4), e l’Epistola agli Ebrei lo definisce sommo sacerdote.

Avendo dunque un gran sommo sacerdote che è passato attraverso i cieli, Gesù, il Figlio di Dio, riteniamo fermamente la nostra confessione di fede (Ebrei 4:14); e avendo un sommo sacerdote sopra la casa di Dio (Ebrei 10:21).

I sacerdoti restauratori della porta delle Pecore

Coloro che si levarono per riparare la porta delle Pecore, furono i sacerdoti nei cui cuori c’era il desiderio di fare un lavoro che fosse accetto al Signore e che nello stesso tempo esprimesse l’interessamento che questi servitori di Dio avevano per il servizio del Signore e per l’Opera del Signore in generale. Infatti, essere un sacerdote, non implicava solamente un privilegio per ciò che riguardava il rango, era essenzialmente una chiara dimostrazione di un ministero di origine divina che si eseguiva in favore degli uomini, dato che quest’ultimi venivano presentati al Signore e per i quali il sacerdote pregava ed intercedeva, presso il trono della grazia di Dio.

Considerando il sacerdote sotto l'aspetto del ministero e non come una comune professione, il lavoro che svolgono, è un continuo “servizio” per il bene delle anime, e nello stesso tempo non possono ignorare le parole del sommo pastore Gesù Cristo:

Io ho anche altre pecore che non sono di quest’ovile; anche quelle io devo raccogliere, ed esse ascolteranno la mia voce, e vi sarà un solo gregge e un solo pastore (Giovanni 10:16),

essendo Gesù Cristo stesso il Sommo Pastore, il buon Pastore, chi sacrifica la sua vita per le pecore (Giovanni 10:11).

Chi si leverà per riparare la porta delle Pecore, per riportarla nel suo stato originale? Allora furono i sacerdoti, assieme al sommo ecclesiastico Eliascib; oggi saranno una stirpe di persone, che hanno caratteristiche ben diverse da quelli del tempo di Nehemia.

Quando si parla della nuova stirpe di sacerdoti, il nostro pensiero non può fare a meno di ricordare le parole dell’apostolo Pietro:

Ma voi siete una stirpe eletta, un regale sacerdozio, una gente santa, un popolo acquistato per Dio, affinché proclamiate le meraviglie di chi vi ha chiamato dalle tenebre alla sua mirabile luce; voi che un tempo non eravate un popolo, ma ora siete la popolazione di Dio; voi, che non avevate ottenuto misericordia, ma ora avete ottenuto misericordia (1 Pietro 2:9,10).

Indubbiamente, le parole di questo testo, si riferiscono ai cristiani, cioè a quelli che hanno fatto un’esperienza nella loro vita, e che la fede in Cristo Gesù, ne rappresenta il solido fondamento. Se poi dobbiamo usare la stessa fraseologia di Pietro, dobbiamo affermare che sono persone che risiedono o vivono come stranieri o forestieri (1 Pietro 1:1) su questa terra.

Senza sminuire il valore del sacerdozio universale di tutti i credenti in Cristo, il testo su indicato è molto importante per un altro motivo: parla chiaramente di tutto ciò che questi fedeli hanno esperimentato nella loro vita e di quello che hanno ricevuto e ottenuto dal Signore. Le persone in questione, hanno le seguenti caratteristiche:

1) Sono una stirpe eletta;
2) un regale sacerdozio;
3) una gente santa;
4) un popolo acquistato per Dio;
5) un popolo chiamato dalle tenebre alla luce;
6) un popolo che è stato fatto popolazione di Dio;
7) un popolo che ha ottenuto misericordia.

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31/01/2012 00:10

La caratteristica di essere un regale sacerdozio, riferendoci al nostro caso denota la posizione in cui è stato messo il credente da un punto di vista generale, posizione che parla non di merito, ma di privilegio per la grazia ricevuta.

Che poi il concetto della grazia, venga sviluppato con ulteriori parole, appare chiaramente, quando si pensa che questo tipo di credente deve proclamare le meraviglie di chi l’ha chiamato dalle tenebre alla sua mirabile luce. In pratica, questo vuol assicurare che, la persona in questione, ha conosciuto uno stato di tenebre, non ipotetico ma reale, nella vita interiore, da portarlo a fargli fare una reale constatazione tra il buio di un tempo e la luce attuale.
Se poi si prendono in esame i concetti della santità, dell’essere stati acquistati per Dio, della realtà diventato popolo di Dio e della misericordia ottenuta, non si può negare che si ha a che fare con una persona, nella cui vita si è verificato qualcosa, da essere paragonato ad una reale esperienza di liberazione e di cambiamento.

Tutto questo, naturalmente, per affermare che, i sacerdoti che si leveranno per restaurare la porta delle Pecore, non saranno persone che avranno acquisito un privilegio di nascita o tramandatogli dai genitori; ma saranno invece degli individui il cui stato primiere è stato molto bene evidenziato, dato che sono stati acquistati dirà lo stesso Pietro.
Non con oro o argento...ma con il prezioso sangue di Cristo... (1 Pietro 1:18,19).

Insomma, non sono dei professionisti che hanno di mira il guadagno e l’esaltazione della propria personalità, ma delle persone realmente liberate e rinnovate, che hanno da raccontare e proclamare quello che Gesù ha fatto per loro e in loro.

Il significato spirituale della riparazione della porta delle Pecore


Prima di andare avanti nell’analisi del significato spirituale per ciò che riguarda la riparazione della porta delle Pecore, crediamo necessario rifarci a due testi bibliche, che servono come fondamento e, nello stesso tempo, riferimento a tutte le considerazioni che possono essere fatte. Le due testi sono: Isaia 53:7:

Maltrattato e umiliato, non aperse la bocca. Come un agnello condotto al macello, come una pecora muta davanti ai suoi tosatori non aperse bocca.
Il giorno seguente, Giovanni vide Gesù che veniva verso da lui e disse: ‘Ecco l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo!’
(Giovanni 1:29).

Del primo testo, si sa con certezza che, il profeta Isaia quando parlava dell’agnello condotto al macello e della pecora muta davanti ai suoi tosatori, si riferiva profeticamente al Messia, al servo del Signore, che nel N.T. aveva trovato il suo letterale adempimento nella persona di Cristo Gesù, nel giorno del suo processo e della crocifissione.

Il secondo testo, invece, parla dell’opera che Gesù Cristo avrebbe fatto, nel togliere il peccato del mondo, quando, come agnello di Dio, sarebbe stato offerto sull’altare = (la croce del Golgota) e avrebbe preso su di sé il peccato del mondo = (umanità) per procurare una salvezza eterna (Ebrei 5:9).

Davanti alla prospettiva di lavorare per la riparazione della porta delle Pecore, sorge spontaneo chiedere il significato che potrebbe avere questo lavoro, se è vero che ai nostri giorni questa Porta è stata danneggiata e in che consista la sua devastazione, dovendo farne una chiara applicazione.

Dato per scontato che Gesù è la porta delle Pecore, e che nessuno va al Padre se non per mezzo di Lui (Giovanni 14:6), e tenendo in debito conto come la persona di Gesù, Porta delle Pecore, è stata aggredita con estrema violenza dalle forze nemiche, è facile intravedere, in questo violento attacco, la devastazione operata dal nemico nei confronti della persona e dell’opera di Gesù, l’inviato del Padre. Nonostante che di lui hanno parlato, non solamente la letteratura cristiana e il N.T. in particolare ma anche quella profana si continua a martellare incessantemente che, questo personaggio è leggendario, cioè che non è mai esistito, storicamente parlando.

Dall’altro fronte (e qui non ci riferiamo agli atei e ai materialisti, ma ai religiosi che hanno tendenze diverse) il quale, pur credendo che Gesù è un personaggio storico, con una reale umanità, lo hanno spogliano della sua divinità, e del suo potere miracoloso, riducendolo alla stregua di un comune mortale, di un personaggio storico del lontano passato. Siccome questa specie d'invasione teologica, paragonata ad una spietata e accanita battaglia, si è protratta nel tempo, vale a dire ha avuto inizio già ai giorni degli apostoli e si è estesa fino al presente, non è difficile notare che intorno alla persona e all’opera di Gesù Cristo, si sono levate tante forze nemiche, da farlo apparire, non solo davanti all’umanità, ma anche in mezzo alla cristianità, come una Porta bruciata e devastata.

Se si riconosce che il maggiore attacco l’inferno l’ha sferrato contro la persona di Cristo Gesù per farlo scomparire dalla scena e sradicarlo dalla coscienza umana, si deve convenire, dato che questo personaggio non è un semplice uomo, ma Dio-uomo, che non è stato possibile eliminarlo e farlo scomparire. Nonostante ciò, non si può negare il danno che ha fatto le forze invadenti intorno alla persona del Cristo. La porta delle Pecore è stata bruciata dal fuoco di una prolungata polemica e devastata dalla lotta accanita della teologia liberale, per non parlare di certe tendenze teologiche che hanno dato man forte a quest’opera devastatrice.

Questa porta, seriamente danneggiata e devastata, deve essere riparata e riportata nel suo stato originale, in modo che tutti sappiano chi è veramente Gesù, per ciò che riguarda la sua persona e la sua natura, e quello che Egli ha fatto per l’intera umanità, e che la salvezza dell’uomo non dipende da quello che egli può fare, ma unicamente da quello che Gesù Cristo ha fatto, morendo sulla croce del Calvario come vittima propiziatoria:

...l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo (Giovanni 1:29).

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01/02/2012 00:10

Il lavoro dei sacerdoti si completa, quando il testo Sacro ricorda che
Meremoth, figlio di Uria, figlio di Kots, ne riparò un’altra parte, dalla porta della casa di Eliascib fino all’estremità della casa di Eliascib. Dopo di lui lavorarono alle riparazioni i sacerdoti che abitavano nei dintorni (Nehemia 3:21,22).

Al di sopra della porta dei Cavalli, i sacerdoti lavorarono alle riparazioni, ciascuno di fronte alla propria casa (Nehemia 3:28).

Si alzino, dunque, tutti insiemi, i sacerdoti, ministri dell’Iddio del cielo, dal più grande, ecclesiasticamente parlando al più piccolo?; uniscano le loro forze quelli che sono stati liberati da uno stato tenebroso, e, con rinnovato zelo e vita permeata dalla potenza del vangelo e santificati dallo Spirito Santo, portino a termine i lavori di riparazione e li consacrino alla lode e gloria di Dio!

PS: Se al temine del capitolo 5 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 6




LE QUATTRO TORRI




1,2. LE TORRI DI MEAH E DI HANANEEL

Terminato il lavoro di restauro alla porta delle Pecore, e la consacrazione che di lei se ne fece, il gruppo dei sacerdoti non si fermò, ma proseguì le riparazioni della muraglia fino alle due torri di: Meah e di Hananeel. Ci sono altre due torri menzionate in questo capitolo terzo di Nehemia: la Torre dei Forni e la Torre sporgente (vv. 11,25).

Meah, Ebrei mê’âh = un centinaio e Hananeel, Ebrei Chânan’êl = Dio è stato misericordioso [Cfr. René Pache, Nuovo Dizionario Biblico, pagg. 420, 543, Centro Biblico, Napoli 1987], erano due torri vicino alla porta delle Pecore.

Le torri, strutture sopraelevate che univano l’alto col basso, servivano generalmente come posti di osservazioni. In esse, le sentinelle potevano controllare situazioni, uomini e cose, e farne i dovuti rapporti (2 Re 9:17). In tempo di guerra si montavano macchine belliche e vari arnesi per meglio colpire il nemico (2 Cronache 26:15), e servivano anche come rifugio alla popolazione della città (Giudici 9:51).

Nel deserto si costruivano torri per meglio salvaguardare il bestiame da facili nemici (2 Cronache 26:10), e il proprietario di terre e di vigne vi costruiva una Torre per difendere la sua proprietà dai predoni (Isaia 5:2).

Davide, dal canto suo, poteva fare della Torre una bell'illustrazione, quando cantava:

perché tu sei stato un rifugio per me e una Torre fortificata davanti al nemico (Salmo 61:3,

e suo figlio Salomone poteva affermare:
Il nome del Signore è una forte Torre; a lui corre il giusto ed è al sicuro (Proverbi 18:10).

Se poi si pensa al Cantico dei Cantici che paragonano il collo della sposa alla Torre di Davide, o come una Torre d’avorio e il suo naso come la Torre del Libano (Cantico dei Cantici 4:4; 7:4), si hanno delle buone premesse per fare varie e significative applicazioni spirituali.

La Torre non ci parla solamente di fortezza, di rifugio, di protezione e di difesa, parla anche di superbia e vanagloria. (Genesi 11:4) è un testo che illustra molto bene questa verità.

Quando le persone pensano di elevarsi troppo in alto al disopra di tutti, con la scusa di voler conoscere di più, per raggiungere quella notorietà che è una facile esca per l’uomo di tutti i tempi, non solo si credono di essere migliore degli altri, ma finiscono col disprezzarli sottovalutandoli.

Un simile atteggiamento, causerà inevitabilmente quello che afferma la Scrittura:
...Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili (1 Pietro 5:5); Quando viene la superbia, viene anche il disonore; ma la sapienza è con gli umili (Proverbi 11:2); e, Prima della rovina viene l’orgoglio, e prima della caduta lo spirito altero (Proverbi 16:18

Dalle parole che si leggono nel primo versetto del capitolo tre, di Nehemia non si può stabilire con certezza se le due torri menzionate, si trovassero devastate e quindi bisognose di essere riparate. Dal momento che i sacerdoti compirono il lavoro di riparazione partendo dalla porta delle Pecore fino alle due torri di Meah e Hananeel, non è difficile pensare che se ce ne fu bisogno, l’avrebbero fatto senza dubbio.

Nell’eventualità che le due torri in questione sono state danneggiante, il lavoro di restauro acquista più importanza, soprattutto con riferimento alla vicinanza della porta delle Pecore. Avere un'efficiente Torre da dove si può guardare verso questa porta, sotto il profilo di un'eventuale presenza nemica o di lupi rapaci, che rappresentano seri pericoli e minacce per le pecore, animali che non sanno difendersi ciò è molto importante per la loro vita.

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01/02/2012 00:11

Il lavoro dei sacerdoti si completa, quando il testo Sacro ricorda che
Meremoth, figlio di Uria, figlio di Kots, ne riparò un’altra parte, dalla porta della casa di Eliascib fino all’estremità della casa di Eliascib. Dopo di lui lavorarono alle riparazioni i sacerdoti che abitavano nei dintorni (Nehemia 3:21,22).

Al di sopra della porta dei Cavalli, i sacerdoti lavorarono alle riparazioni, ciascuno di fronte alla propria casa (Nehemia 3:28).

Si alzino, dunque, tutti insiemi, i sacerdoti, ministri dell’Iddio del cielo, dal più grande, ecclesiasticamente parlando al più piccolo?; uniscano le loro forze quelli che sono stati liberati da uno stato tenebroso, e, con rinnovato zelo e vita permeata dalla potenza del vangelo e santificati dallo Spirito Santo, portino a termine i lavori di riparazione e li consacrino alla lode e gloria di Dio!

PS: Se al temine del capitolo 5 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 6




LE QUATTRO TORRI




1,2. LE TORRI DI MEAH E DI HANANEEL

Terminato il lavoro di restauro alla porta delle Pecore, e la consacrazione che di lei se ne fece, il gruppo dei sacerdoti non si fermò, ma proseguì le riparazioni della muraglia fino alle due torri di: Meah e di Hananeel. Ci sono altre due torri menzionate in questo capitolo terzo di Nehemia: la Torre dei Forni e la Torre sporgente (vv. 11,25).

Meah, Ebrei mê’âh = un centinaio e Hananeel, Ebrei Chânan’êl = Dio è stato misericordioso [Cfr. René Pache, Nuovo Dizionario Biblico, pagg. 420, 543, Centro Biblico, Napoli 1987], erano due torri vicino alla porta delle Pecore.

Le torri, strutture sopraelevate che univano l’alto col basso, servivano generalmente come posti di osservazioni. In esse, le sentinelle potevano controllare situazioni, uomini e cose, e farne i dovuti rapporti (2 Re 9:17). In tempo di guerra si montavano macchine belliche e vari arnesi per meglio colpire il nemico (2 Cronache 26:15), e servivano anche come rifugio alla popolazione della città (Giudici 9:51).

Nel deserto si costruivano torri per meglio salvaguardare il bestiame da facili nemici (2 Cronache 26:10), e il proprietario di terre e di vigne vi costruiva una Torre per difendere la sua proprietà dai predoni (Isaia 5:2).

Davide, dal canto suo, poteva fare della Torre una bell'illustrazione, quando cantava:

perché tu sei stato un rifugio per me e una Torre fortificata davanti al nemico (Salmo 61:3,

e suo figlio Salomone poteva affermare:
Il nome del Signore è una forte Torre; a lui corre il giusto ed è al sicuro (Proverbi 18:10).

Se poi si pensa al Cantico dei Cantici che paragonano il collo della sposa alla Torre di Davide, o come una Torre d’avorio e il suo naso come la Torre del Libano (Cantico dei Cantici 4:4; 7:4), si hanno delle buone premesse per fare varie e significative applicazioni spirituali.

La Torre non ci parla solamente di fortezza, di rifugio, di protezione e di difesa, parla anche di superbia e vanagloria. (Genesi 11:4) è un testo che illustra molto bene questa verità.

Quando le persone pensano di elevarsi troppo in alto al disopra di tutti, con la scusa di voler conoscere di più, per raggiungere quella notorietà che è una facile esca per l’uomo di tutti i tempi, non solo si credono di essere migliore degli altri, ma finiscono col disprezzarli sottovalutandoli.

Un simile atteggiamento, causerà inevitabilmente quello che afferma la Scrittura:
...Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili (1 Pietro 5:5); Quando viene la superbia, viene anche il disonore; ma la sapienza è con gli umili (Proverbi 11:2); e, Prima della rovina viene l’orgoglio, e prima della caduta lo spirito altero (Proverbi 16:18

Dalle parole che si leggono nel primo versetto del capitolo tre, di Nehemia non si può stabilire con certezza se le due torri menzionate, si trovassero devastate e quindi bisognose di essere riparate. Dal momento che i sacerdoti compirono il lavoro di riparazione partendo dalla porta delle Pecore fino alle due torri di Meah e Hananeel, non è difficile pensare che se ce ne fu bisogno, l’avrebbero fatto senza dubbio.

Nell’eventualità che le due torri in questione sono state danneggiante, il lavoro di restauro acquista più importanza, soprattutto con riferimento alla vicinanza della porta delle Pecore. Avere un'efficiente Torre da dove si può guardare verso questa porta, sotto il profilo di un'eventuale presenza nemica o di lupi rapaci, che rappresentano seri pericoli e minacce per le pecore, animali che non sanno difendersi ciò è molto importante per la loro vita.

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02/02/2012 00:16

Se poi si pensa alla parola di Gesù, quando parlando delle pecore, e rifacendosi a quelli che erano venuti prima di Lui li paragonò a ladri e briganti (Giovanni 10:8); ed ancora, Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere (Giovanni 10:10), svolgere un lavoro di vigilanza per difendere la vita della pecora, è qualcosa che rientra nel piacere e nel desiderio di Gesù, il Pastore Supremo delle pecore.

I lupi che assalgono il gregge, non vengono respinti dai mercenari (e di avventurieri, ai nostri giorni, ce ne sono tanti), perché Gesù dice chiaramente che il

mercenario, che non è pastore e cui non appartengono le pecore, (se) vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge; e il lupo rapisce e disperde le pecore. Or il mercenario fugge, perché è mercenario e non si cura delle pecore (Giovanni 10:12,13).

Infine, per quanto riguarda la torre di Hananeel, c’è da aggiungere due testi profetici: 1) Geremia 31:38; 2) Zaccaria 14:10. Questi testi dicono:

Ecco, verranno i giorni, dice il Signore, nei quali questa città sarà ricostruita per il Signore dalla torre di Hananeel alla porta dell’Angolo;
Tutto il paese sarà cambiato in pianura, da Gheba a Rimmon, a sud di Gerusalemme; e Gerusalemme sarà innalzata e abitata nel suo luogo, dalla porta di Beniamino, al posto della prima apertura, fino all'uscio dell’Angolo, e dalla torre di Hananeel ai torchi del re
.

3. LA TORRE DEI FORNI

Malkijah, figlio di Harim, e Hashshub, figlio di Pahath-Moab, ripararono un’altra parte delle mura e la torre dei Forni (v. 11).

Due uomini: Malkijah, che significava, “il Signore è Re” e Hashshub, oltre a riparare una parte delle mura, si presero l’impegno di riparare la torre dei Forni.

La parola Ebraica fannûwr, tradotta Forni, significa “recipiente di fuoco, forno”, e ci dà l’idea di un luogo dove si ammassavano legne per bruciarle, o per cuocere il pane, o anche come posto dove venivano gettate persone che trasgredivano un ordine di un monarca (Cfr. Daniele 3:13-21).

Dal momento che viene specificato che la torre dei Forni fu riparata, ne consegue che questo luogo, oltre ad essere stato danneggiato nella sua struttura, non era in condizione di funzionare come prima. In conseguenza di ciò, per dirla con altre parole aveva solamente la forma esteriore di essere un “recipiente di fuoco”, ma, in effetti, ne era sprovvisto.

RIFLESSIONI SULLA TORRE DEI FORNI

Un recipiente


La prima riflessione che balza alla nostra mente riguarda il termine “recipiente”. Non importa la sua grandezza o meno, se è fatto di argilla e d’altra materia, quello che conta e ha significato, ai fini della nostra riflessione è il fatto che il recipiente può contenere un determinato quantitativo di oggetti, preziosi o meno, che gli dà valore e importanza. Se a questo si aggiunge che nel recipiente vi possono essere delle screpolature che causerebbero inevitabilmente l’uscita delle sostanze liquide o gassose, appare più evidente quanto siano dannose quelle crepe e quali danni possono arrecare.

Il Signore, il Signore, per mezzo del suo servitore Geremia, faceva arrivare al suo popolo d’Israele, il seguente messaggio:

il mio popolo ha commesso due mali: ha abbandonato me, la sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne rotte, che non tengono l’acqua (Geremia 2:13).

Una cisterna è un recipiente destinato a mantenere l’acqua; ma se questo si rompe e si producono delle screpolature, liquido non potrà più rimanere, a causa di questo, la persona che dipende da lei per il suo fabbisogno giornaliero, si troverà in serio disagio. Scavare delle cisterne che hanno delle screpolature, e che poi non possono mantenere l’acqua, specialmente l’acqua viva (Giovanni 4:10,11) o acqua della vita (Apocalisse 21:6; 22:1,17) ci domandiamo: a che servono?

Il fuoco

Il fuoco, spesse volte nelle Scritture, ci parla dello Spirito Santo e del lavoro che compie nella vita di una persona. Come il fuoco brucia ciò che è legno, fieno e stoppia (1 Corinzi 3:12), allo stesso modo lo Spirito Santo compie un’opera purificatrice da ogni impurità e da ogni forma di contaminazione, di carne e di spirito (2 Corinzi 7:1), attraverso i tanti interventi nella vita di una persona.

Anche se il fuoco brucia tutto ciò che è infiammabile, (e da un punto di vista spirituale significa: ciò che non serve e rende nociva la vita interiore), esso agisce anche per riscaldare un ambiente freddo.

La vita umana, attraverso mille circostanze, spessissimo si raffredda nel suo fervore e nel suo entusiasmo, per ciò che riguarda il servizio del Signore e l’Opera Sua.

Le attività che una volta si svolgevano con interesse e premura, vengono facilmente accantonate come qualcosa di secondario, specialmente quando viene a mancare la dovuta priorità che le caratterizzava e tutto si riduce a forme e atti formalistici, che non hanno alcun valore davanti a Dio (anche se spessissimo vengono apprezzate e messe in risalto dagli uomini, con il preciso intento di attirare gli sguardi degli altri e il loro compiacimento).

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03/02/2012 00:52

Tutto quello che si fa nell’Opera e per l’Opera del Signore, senza il fervore spirituale che valorizza l’opera stessa, non solo può prendere facilmente l’aspetto del formalismo, ma può essere paragonato ad un “fuoco di paglia”, che getta solamente “fumo negli occhi”.

Una vita spenta e priva del fervore e del fuoco dello spirito di Dio, può avere anche una bell'apparenza: magari attirare gli sguardi degli uomini e diventare centro di attenzione e d'interesse, senza peraltro avere quella genuina e dovuta consacrazione che la rende interessante in tutte le sue attività, svolte all’insegna di una giusta causa e in accordo col piano divino che la giustifica.

La torre dei Forni, che il nemico ha seriamente danneggiato, (e anche ai nostri giorni in tanti cristiani e predicatori), ha bisogno di essere riparata in modo che possa ritornare, non solo ad avere il nome di “recipiente di fuoco”, ma contenere veramente la fiamma, sia per riscaldare e infervorare la vita nelle sue varie attività e nel ministero in modo particolare, e sia per bruciare e purificare tutto ciò che non è secondo Dio, la Sua Parola e la Sua volontà.

4. LA TORRE SPORGENTE

Palal, figlio di Uzai, fece riparazioni di fronte alla svolta e alla torre sporgente dalla casa superiore del re, che era vicino al cortile della prigione... (Nehemia 3:25).

Palal, il cui significato etimologico è: “Dio ha giudicato”, fu chi si interessò di riparare la torre sporgente, che era vicino al cortile della prigione.

Una torre vicino ad una prigione, a che serve? Si direbbe. Certamente per avere una buona visuale e sorvegliare i detenuti da un'eventuale rivolta, fuga o disordini che potrebbero facilmente verificarsi in questi luoghi.

UN’APPLICAZIONE SUL SIGNIFICATO DELLA “TORRE SPORGENTE”

Il giudizio di Dio


Prigione, luogo in cui sono rinchiusi persone che hanno commesso qualche crimine o sospettate di averlo commesso. Di solito le persone sono preoccupate dal giudizio umano, e non pensano che al disopra di quello dell’uomo, c’è quello di Dio, il Giudice Supremo, che conosce tutto e davanti al quale nessuna cosa può sfuggire.

Il giudizio dell’uomo comune in genere e quello della magistratura in particolare, non è sempre preciso e impeccabile, nel senso che non sempre il colpevole viene condannato e l’innocente assolto. Spesse volte i termini di “colpevolezza” e di “innocenza” vengono capovolti, talché il colpevole viene messo in libertà e l’innocente rinchiuso in prigione.

Quando invece Dio emana una sentenza e questo non solamente al Giudizio Universale, giorno della resa dei conti di tutta l’umanità, (anche se è vero in maniera inequivocabile) ma anche ai nostri dì non esiste autorità terrena, (o come si dice più precisamente appello al suo giudizio) che possa modificarla e dare così speranza alla persona giudicata.

Il caso di Belshatsar, narrato da Daniele, è un classico esempio molto eloquente:
...tu sei stato pesato sulle bilance e sei stato trovato mancante (Daniele 5:27). In quella stessa notte Belshatsar, re dei Caldei fu ucciso: e Dario, il Medo, ricevette il regno all’età di sessantadue anni (Daniele 5:30-31).

Quando poi pensiamo alle parole dell’apostolo Giovanni:
Chi crede in lui (Gesù) non è condannato, ma chi non crede è già condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. Ora il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno amato le tenebre più che la luce, perché le loro opere erano malvagie (Giovanni 3:18-19);

o a quelle parole di Gesù: ...il principe di questo mondo (il diavolo) è stato giudicato (Giovanni 16:11), appare chiaro che quando Dio giudica, la Sua parola ferma ed irrevocabile, non può essere cambiata da nessuno.

La casa del re

Ritornando alla torre sporgente, che si trovava vicino alla residenza reale e al cortile della prigione, senza dubbio questa era stata costruita da servire come osservatorio per la casa del re e anche per il carcere.

Il re, anche se in questo passo non ci viene fornito il nome è sempre una persona di autorità, che merita (almeno da parte dei suoi sudditi), un trattamento particolare e una sorveglianza meticolosa, non tanto quanto uomo particolare, quanto per l’autorità che personifica. Il fatto stesso che questa torre sporgente si trova nelle vicinanze della residenza reale, è di per sé una chiara indicazione per farci riflettere che, le persone in autorità devono essere custodite e protette, in maniera particolare, da eventuali pericoli.

Custodire e proteggere una persona in autorità, in pratica non significa solamente pensare e badare alla sua incolumità, ma anche pensare di salvaguardare il bene di tutti quelli che sono sotto quell'autorità.

Il tema “delle autorità costituite”, viene trattato chiaramente dall’apostolo Paolo, nel tredicesimo capitolo dell’Epistola ai Romani, con termini precisi ed inequivocabili. Paolo è molto dogmatico quando afferma:

Ogni persona sia sottoposta alle autorità superiori, poiché non c’è potere se non da Dio; e i poteri che esistono sono istituiti da Dio (Romani 13:1).

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04/02/2012 00:12

Che le autorità di cui parla l’apostolo non siano quelle “spirituali”, bensì quelle terrene, è fuori d’ogni dubbio. Infatti, quando Paolo menziona i “magistrati”, che “non portano invano la spada”, fa esplicito riferimento alle persone di legge, cioè a chi è stato investito dallo Stato, per amministrare la giustizia legale.

Indipendentemente dal fatto che in seno alla magistratura vi sarebbero potuti essere dei cristiani che oltre a praticare la giustizia, professano anche la fede in Cristo, non si dovesse pensare, tuttavia che, quelli che non la professano, non siano degni di rispetto e sottomissione.

Indipendentemente dall’ideologia che un magistrato può professare, per Paolo, l’autorità che ha questa persona, viene da Dio. Davanti alla dogmatica affermazione dell’apostolo:

chi resiste all’autorità, resiste all’ordine di Dio; e quelli che vi resistono attireranno su di sé la condanna (Romani 13:2),

non ci sono argomenti validi, che possono cambiare quello che l’apostolo insegnò. L’insegnamento di Paolo non era valido solo per quei tempi; esso è valido anche oggi, per il credente, e per tutti gli altri.

Il credente, quindi, in virtù della sua fede in Cristo, non deve ribellarsi né opporsi a simili autorità, senza trasgredire l’insegnamento della Parola di Dio (salvo il caso di un ordine contrario alla legge di Dio). (vedere a questo proposito Atti 4:15-20).

Il fatto poi che in questo capitolo tredici dell’Epistola ai Romani, nei vv. 1-7 i magistrati vengono chiamati, per tre volte, “ministri di Dio”, ciò giustifica in pieno l’esortazione dell’apostolo:

Rendete dunque a ciascun ciò che gli è dovuto: il tributo a chi dovete la tassa, l’imposta a chi dovete l’imposta, il timore a chi dovete il timore, l’onore a chi l’onore.

In quale maniera si può proteggere l’autorità costituita


Non è soltanto in virtù del “corpo di guardia”, appositamente istituito che si protegge un’autorità costituita, esistono altre possibilità, soprattutto dal punto di vista prettamente cristiana e scritturale. Le parole che leggiamo in (1 Tim 2:1-2):

Ti esorto dunque prima di ogni cosa che si facciano suppliche, preghiere, intercessioni e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che sono in autorità, affinché possiamo condurre una vita tranquilla e quieta in ogni pietà e decoro,

rappresentano un solido fondamento biblico ed un chiaro richiamo sul tema “dell’autorità costituita”.

Anche se l’apostolo motiva la sua esortazione: Affinché possiamo condurre una vita tranquilla e quieta in ogni pietà e decoro (che potrebbe farci pensare solamente al beneficio che ne ricavano i soli credenti), il fatto stesso però che si innalzino, suppliche, preghiere e intercessioni, per i re e per tutti quelli che sono in autorità, denota sufficientemente che le persone, oggetto di queste suppliche, preghiere e intercessioni (re e tutti quelli che sono in potere), usufruiscono immancabilmente di tale beneficio.

Il cristiano, in modo particolare davanti alla suesposta esortazione, che secondo noi è una norma divina da mettere in pratica alla lettera anche ai nostri giorni supplicando, pregando ed intercedendo davanti a Dio per le “autorità costituite”, rappresenta una sicura protezione per quelle persone, ed è come (spiritualmente parlando) se sale sopra una torre per svolgere un lavoro di vigilanza. Questo tipo di lavoro, naturalmente, che noi preferiamo specificatamente chiamare “pio esercizio” potrà farsi, se la “torre sporgente”, simbolo di suppliche, preghiere e intercessioni è stata restaurata.

Altre autorità costituite

Oltre alle “autorità costituite”, = re e magistrati, ci sono quelle spirituali, che hanno ricevuto la loro autorità direttamente da Gesù Cristo, in relazione al loro ministero (Efesini 4:11), nonché quello che Dio ha costituito nella chiesa (1 Corinzi 12:28).

Riconoscere un’autorità spirituale, nell’ambito di una chiesa o Comunità, in pratica significa riconoscere ciò che Dio ha fatto nella comunità dei credenti e ciò che Gesù Cristo ha dato ad una persona.

Tenendo presente quest'elemento fondamentale, chiaramente specificato nella Parola di Dio, si possono capire meglio le parole dell’Epistola agli Ebrei, e valutarle nella maniera come Dio vuole:

Ubbidite ai vostri conduttori e sottomettetevi a loro, perché essi vegliano sulle anime vostre, come chi ha da rendere conto, affinché facciano questo con gioia e non sospirando, perché ciò non sarebbe di alcun vantaggio (Ebrei 13:17).

A loro volta, quelli che sono stati posti in autorità da Dio, devono frequentemente ricordarsi (se non vogliono essere trascinati dal più potente e pericoloso nemico: L’orgoglio), le chiare parole degli apostoli Paolo e Pietro:

Non già che dominiamo (o “signoreggiamo”) (come dicono: G.Diodati, G. Luzzi e la Nuova Riveduta) sulla vostra fede, ma siamo collaboratori della vostra gioia, perché voi state saldi per la fede (2 Corinzi 1:24);

e non signoreggiando su coloro che vi sono affidati, (si intende da Dio) ma essendo i modelli del gregge (1 Pietro 5:3).

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05/02/2012 00:13

Dominare o signoreggiare, (nel senso dittatoriale: se non fai questo o quello sei scomunicato e non sei considerato uno di noi) è la nota caratteristica dei “sovrani”, secondo l’autorevole parola di Gesù,

...Voi sapete che i sovrani delle nazioni le signoreggiano e che i grandi esercitano il potere su di esse, ma tra voi non sarà così; anzi chiunque tra di voi vorrà diventare grande sia vostro schiavo (Matteo 20:25-26).

Qualunque sia il ministero che Gesù Cristo ti ha dato, (e dal ministero bisogna escludere categoricamente le cariche amministrative di: Presidente, Segretario, ecc. perché non fanno parte dei ministeri secondo l’insegnamento specifico del N.T.) ricordati sempre che nessun ministero degno di questa qualifica è dato per l’utilità della persona che lo riceve, ma sempre e specificatamente per il bene degli altri, cioè della collettività (Efesini 4:12).

Usare l’autorità del ministero per scopi e fini prettamente umani e personali, è pura disonestà e significa distorcere volutamente i voleri divini, e ridurli alla stregua di una comune professione, per reclamare alte paghe e nutrite ricompense. Inoltre, il ministero, è essenzialmente “servizio” e non “comando”; è dedizione e non rendere schiavi le persone, per farli apparire come sudditi e subalterni.

Puntualizzato l’aspetto e il valore del ministero, e con lui l’autorità costituita da Dio passiamo ad esaminare il dovere di chi è posto sotto un potere spirituale, per capire come devono comportarsi nei confronti delle persone che Dio hanno messo in autorità.

La migliore protezione che si può dare ad una persona posta in autorità, non è tanto quando gli si assegna un favoloso stipendio (e una doverosa ed equa paga, è necessaria ai fini del suo fabbisogno o sostentamento) quanto piuttosto di sapere supplicare, pregare e intercedere presso il trono della grazia per lei. Comportarsi in questa maniera è come un salire sulla “torre sporgente” ai fini di vedere se ci sono pericoli o minacce per la persona posta in autorità.

Una comunità o una chiesa che prega per il proprio conduttore o pastore (non solo quando il popolo si raduna per celebrare il culto al Signore, ma principalmente quando si trova nei propri case), è una Comunità o una chiesa che in pratica ha un’efficiente “torre sporgente”, debitamente riparata.

Crediamo che, in ogni Comunità o chiesa ci sia la “torre sporgente” che in origine è stata costruita come protezione per le persone in autorità, ma disgraziatamente spesse volte (specie ai nostri giorni) è inefficiente, perché è stata rovinata e devastata da pregiudizi e critiche inesorabili persistenti.
Si levino, dunque i vari “Palal” per fare opera di riparazione a questa importane struttura, che unisse l’alto col basso.

Il cortile della prigione


Come abbiamo detto all’inizio della nostra riflessione sulla “torre sporgente”, ripetiamo ancora una volta che detta torre era situata dal lato superiore della casa del re e vicino al cortile della prigione. Probabilmente questa torre serviva, sia per guardare la casa reale come anche la prigione.

Col termine “prigione” si vuole significare un luogo appositamente costruito per rinchiudere persone che hanno commesso qualche crimine, in parte grave o che sono sospettate di averlo commesso. Nonostante ciò, non si può negare che in questi luoghi ci possono andare a finire anche persone innocenti.

Citiamo qualche esempio dalla Bibbia: Giuseppe, il figlio di Giacobbe, andò a finire in carcere (e vi rimase per due anni) perché accusato ingiustamente da una donna, moglie di un nobile Ufficiale egiziano, per tentata violenza carnale (Cfr. il capitolo 39 della Genesi)

Geremia, un grande e coraggioso profeta del Signore che, per mantenersi fedele alla parola del Signore e dire con coraggio al popolo e ai regnanti, quello che Dio gli aveva ingiunto di comunicare loro, andò a finire in prigione (Cfr. Geremia 32:2; 37:21; 38:6; 39:14).

Giovanni Battista, colui che in un primo momento andò a finire in carcere e successivamente gli venne tagliata la testa, a seguito della ferma ed autorevole parola che spesso rivolgeva al re Erode: ... Non ti è lecito di convivere con lei! (Matteo 14:4) cioè con la moglie di suo fratello, con la quale conviveva in concubinaggio.

Anche se in prigione vanno a finire persone innocenti, non si può negare che la stragrande maggioranza sono individui che hanno infranto le leggi dello Stato, commettendo vari crimini che il codice penale punisce.

Le prigioni, da un punto di vista obbiettivo, dovrebbero servire non solo come luogo per punire i criminali, ma anche per insegnare loro una certa morale in modo che, una volta che è scontata la pena, il malvivente messo in libertà, non abbia a ritornarvi per gli stessi crimini. Questo però in pratica non accade, ammenoché la vita del criminale non venga cambiata dal di dentro, e questo naturalmente non è il lavorio che può fare una dura punizione in un'isolata ed oscura cella di un carcere, è unicamente l’opera di Gesù Cristo che, entrando nella vita del criminale lo fa diventare una “nuova creatura”.

Ora qui, abbiamo davanti a noi (ai fini di questa riflessione) una persona che si trova in prigione per avere commesso qualche crimine. Non serve a nulla tanto parlare della diversità della gravità di un crimine rispetto ad un altro. Sì, è vero che in prigione ci sono colpevoli che sono stati condannati a 10 anni di reclusione e quelli che sono stati condannati all’ergastolo; per i primi c’è speranza di uscire, mentre per i secondi la vita si consumerà in prigione senza nessun'aspettativa di rivedere la libertà.

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06/02/2012 14:07

Qual è l’applicazione che possiamo fare, per ciò che riguarda la “torre sporgente”, con riferimento alla prigione? Se è vero che questa torre serviva per la casa reale = “autorità costituita” (sia quell'umana che quella spirituale), e, dal momento che a questa torre, abbiamo dato un simbolo di: “Suppliche, preghiere e intercessioni”, che si elevano a Dio in favore dei re e dei magistrati come anche in benevolenza di tutti quelli che hanno ricevuto il ministero da Gesù Cristo, va da sé, (perché rientra in una logica conseguenza) che la stessa cosa si faccia, per gli abitanti delle prigioni, specialmente per chi hanno commesso veramente dei reati.

Questo discorso e quest'applicazione, forse risuonano stranamente alle orecchie della chiesa di oggi. Ma se si pensano e si valutano giustamente le due domande che Dio fa:

Provo forse piacere nella morte dell’empio, dice il Signore, il Signore, e non piuttosto che egli si converte dalle sue vie e vive? (Ezechiele 18:23),

allora le cose possono essere viste in modo diverso e i cristiani in modo particolare possono prendere un atteggiamento consone ai voleri divini e si possono innalzare suppliche, preghiere e intercessioni a Dio in favore dei criminali, dei colpevoli, di tutti quelli insomma che hanno recato danni morali e materiali irreparabili alla società, perché la loro vita sia raggiunta dalla potenza della grazia di Dio.

Ora, mi rivolgo a quei i cristiani, laici o predicatori, che si sono resi colpevoli di gravissime colpe (specie quei missionari che con i loro scandali hanno infangato la dignità del popolo di Dio e resa la testimonianza evangelica come un’arma offensiva nelle mani degli increduli.

Se la chiesa accetta questo messaggio, come veniente da Dio e comincia ad elevare suppliche, preghiere e intercessioni al Signore dei signori, nella maniera come faceva Mosè quando si gettava a terra e con digiuno e preghiera, prolungati otteneva l’assicurazione da Dio che il peccato del popolo era stato perdonato, si potranno allora vedere vite restaurate, sanate e liberate dalla disperazione e strappate dalla voragine del suicidio, e soprattutto ci saranno risultati di persone che saranno veramente perdonate e riabilitate per ritornare ad essere utile nell’opera del Signore, e nello stesso tempo infliggere una pesante sconfitta alle forze delle tenebre e dell’inferno, perché il glorioso nome di Cristo Gesù venga nuovamente esaltato, magnificato e lodato per come Lui ne è sommamente degno e i voleri divini del Signore, pienamente appagati. A Lui la gloria!

PS: Se al termine del capitolo 6 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 7




IL GRUPPO DEGLI UOMINI DI GERICO





Per quanto riguarda questo gruppo di lavoratori, il sacro testo dedica poche parole:

Vicino a Eliascib edificarono gli uomini di Gerico (Nehemia 3:2).

Questo scarno riferimento, costituito da otto parole, nessun'altra possibilità di altre notizie in questo libro di Nehemia per arricchire la nostra conoscenza su questi uomini, anche se non ha niente di spettacolare, serve ugualmente ad inserirlo nel numero di tutti quelli che lavorarono alle riparazioni, ponendolo nel frattempo allo stesso livello di tutti gli altri.

Il fatto poi, che gli uomini di Gerico senza nomi e qualifiche edificarono vicino ad Eliascib, è una prova storica della loro attività e un'eloquente testimonianza della loro laboriosità per la causa di una città e di un popolo seriamente danneggiati e ridotti allo stremo. Inoltre, il fatto stesso che viene menzionato subito dopo il gruppo dei sacerdoti, vale a dire nelle primissime posizioni di classifica, prova quanto sono stati solleciti e premurosi nel rispondere ad una precisa richiesta di lavoro.

Inizia la lunga seria dei “Vicino a lui, vicino a loro”

Come abbiamo detto in altra parte di questo libro, le due frasi: “Vicino a lui” e “vicino a loro”, vengono ripetute 38 volte nei 32 versi che compongono il terzo capitolo di Nehemia. Queste due frasi non servono solamente per indicare che tra un gruppo e l’altro di lavoratori c’era come un filo conduttore che li legava insieme, formando una catena, – non solo tra due gruppi, ma anche per ciò che riguardava due lavoratori di due differenti famiglie, dato che queste due frasi vengono ripetute con insistenza, anche per i singoli lavoratori –, ma anche per mettere in evidenza il valore della comunione che intercorreva tra l’uno e l’altro.

A parte la collocazione che la Scrittura fa degli uomini di Gerico quando li inserisce vicino al gruppo dei sacerdoti, è impensabile supporre che tra gli uni e gli altri, non ci fosse stata nessuna forma di comunione e che questi lavoratori si ignorassero a vicenda, nel senso di lavorare come se non ci fosse stato nessun altro. Se poi si terrà presente che il gruppo degli uomini di Gerico non cominciò a lavorare quando i sacerdoti terminarono il loro lavoro, ma mentre questi ultimi lo svolgano, la loro attività, si capisce ancor meglio quanto sia assurdo supporre che tra i due gruppi non ci sia nessun rapporto di comunione, inteso come mezzo di comunicazione tra l’uno e l’altro.

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07/02/2012 00:12

Anche se la Scrittura non ci afferma che il gruppo dei sacerdoti parlava amichevolmente con gli uomini di Gerico e viceversa, c’è tuttavia da supporlo per il semplice fatto che l’opera che gli uni e gli altri stavano svolgendo, non riguardava qualcosa di personale e di privato, ma era una prestazione comune nel senso che lo scopo degli uni e degli altri era di restaurare le rotture di una città e di aiutare nello stesso tempo un popolo che si trovava in miseria e in obbrobrio presso le altre popolazioni per uscirne.

Il valore di un impegno assunto per il bene degli altri


Quanto lavoro di riparazione abbiano potuto fare gli uomini di Gerico nelle mura di Gerusalemme, non ci viene dato da sapere, per il fatto che il testo non lo dice. Anche se non si può parlare in termini di “quantità”, cioè quante giornate lavorative e quante brecce abbiano potuto chiudere, si può comunque affermare che gli uomini di Gerico “lavorarono”.

Il fatto stesso che il testo precisi di loro, che “edificarono”, ciò è più che sufficiente non solo per affermarci che questi uomini non produssero altre rovine, ma si affaticarono per eliminare quelle esistenti.

A che vale avere una grande schiera di lavoratori, magari con splendide qualifiche e nomi altisonanti, quando il lavoro che viene svolto non risulta per il bene degli altri? Oppure: fare un lavoro che invece di “edificare” produce altre rotture e altri disastri? Ed ancora: a che serve avere persone che quando viene rivolto loro un appello, fa orecchie da mercante, e trovano mille giustificazioni per addossare su altro ogni forma di attività lavorativa?

Anche se per “gli uomini di Gerico”, viene solamente affermato che “edificarono”, senza nessun’altra specificazione; riguardante il loro numero; senza indicazioni delle loro famiglie, le loro posizioni sociali, la loro cultura e le loro qualifiche, è sempre un grande elogio che viene rivolto loro, elogio che echeggia con tutta la sua forza e che li distingue dai fannulloni e dai vagabondi.

Spessissimo si parla, con insistenza e accentuazione, delle grandi imprese, dei grandi programmi, dei molteplici impegni ad alto livello, delle spiccate qualifiche d'idoneità, atte a mettere in risalto l’uomo nelle sue iniziative e nei suoi obblighi. Ma si parla poco o quasi niente, delle piccole iniziative, delle modeste imprese, delle piccole attività missionarie, operosità che non hanno niente di spettacolare; eppure sono dei lavori che vengono fatti all’insegna e per il bene degli altri.

Come si potrebbero descrivere gli uomini di Gerico e il lavoro che fecero nelle mura di Gerusalemme? Non abbiamo elementi per sapere a quale rango sono appartenuti; se erano persone raffinate o rozze; se erano dotati di cultura o analfabeti; se avevano grandi capacità di programmazione; e, infine, se il loro lavoro poteva essere collocato nel numero degli impegni spettacolari di una certa risonanza.

Non si possono dire tante cose di queste persone, né si può fare una descrizione dettagliata del loro lavoro; l’unica cosa, che vale più di ogni altra espressione, è quella che “edificarono vicino ad Elisciab”. Questo prova che:

1) Erano persone impegnate, fin dal primo giorno di lavoro, a edificare (nel nostro caso a restaurare);
2) il lavoro lo fecero vicino ad altri operai che agivano per la stessa causa,
3) non ebbero nessuna difficoltà a svolgere il loro lavoro vicino a persone che avevano un differente ruolo rispetto a loro, ma che in quella condizione potevano “concatenarlo” a quello dei sacerdoti.
4) Questo serviva loro come di una chiara testimonianza, non solo per la loro laboriosità, (in virtù della quale potevano portare a compimento il lavoro prefissato), ma soprattutto nel portarlo a termine, non avevano né denigrato né criticato gli altri, né si erano ingeriti in quello degli altri.
5) Infine, erano consapevoli che a lavori terminati, quello che faceva l’uno e l’altro, aveva un solo scopo e una precisa finalità: portare sollievo e fare del bene ad un popolo che era stato danneggiato e ridotto al disprezzo dai nemici che avevano fatto tante brecce in quelle mura e bruciate col fuoco le sue porte.

PS: Se al temine del capitolo 7 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 8




IL GRUPPO DEI FIGLI DI SENAAH




SI' RIPARA LA PORTA DEI PESCI

Nota preliminare

Il terzo gruppo di lavoratori riguarda i figli di Senaah, i quali si occuparono della porta dei Pesci. Di questa porta, il testo sacro dice:

I figli di Senaah costruirono la porta dei Pesci, ne fecero l’intelaiatura e vi misero i suoi battenti, le serrature e le sbarre (v. 3).

Di questi lavoratori, si parla anche in due altri passi, precisamente in Esdra 2:35 e in Nehemia 7:38, dove si tratta del loro rimpatrio dalla cattività babilonese, sotto la guida di Zorobabel. L’unica differenza che esiste in questi due passi, consiste nel fatto che secondo Esdra 2:35 i figli di Senaah erano tremilaseicentotrenta, mentre secondo Nehemia 7:38 tremilanovecentotrenta.

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08/02/2012 00:11

Il nome Senaah, etimologicamente significa: “Spinoso, punta, puntura, pungolo, puntino” e può avere anche significato di luogo, “Eusebio e Girolamo l’hanno identificato con Magdalsenna, a 11 Km a Nord di Gerico” [Cfr. René Pache, Nuovo Dizionario Biblico, pag. 63, Centro Biblico, Napoli 1987].

Indipendentemente dalle considerazioni che si potrebbero fare per ciò che riguarda il significato del nome Senaah, - che poi potrebbero essere in parte giustificabile -, secondo il nostro modestissimo modo che vedere, non è tanto importante mettere in risalto il carattere “spinoso”, quanto quello di evidenziare che una numerosa famiglia si dedicò ad un nobile lavoro di costruzione, e precisamente a quello della porta dei Pesci.

Anche se i figli di Senaah erano più di tremila persone, non possiamo dire con altrettanta precisione se tutti lavorarono alla costruzione della porta dei Pesci o se invece furono alcuni di loro, dato che il testo biblico non lo specifica.

Non importa tanto mettere in risalto un numero, in parte elevato di una famiglia, quanto evidenziare l’unità e la determinazione dei suoi membri che intrapresero un lavoro e lo portarono a termine.

Stando alla descrizione dettagliata che ne fa il capitolo terzo di Nehemia, risulta chiaramente che una buona parte dei lavoratori addetti alle riparazioni, appartenevano a diverse famiglie, come singole unità.

La frase al singolare: Figlio di..., ripetuta per ben 34 volte nei 32 versi di questo capitolo, e serve essenzialmente a mettere in evidenza la provenienza del singolo lavoratore.

Dal momento che Nehemia appare come il coordinatore generale dell’opera, non sarebbe fuori posto chiederci se ai figli di Senaah venne assegnato l’incarico di costruire la porta dei Pesci, (o se lo scelsero loro stessi?). Ma poiché la Scrittura non specifica questo dato, importa tanto sapere quanto andarono le cose in quel tempo, quanto invece di vedere una famiglia (molti o pochi?) uniti ed impegnati a costruire la porta dei Pesci.

L’unità e la determinazione di un gruppo di lavoratori -, non importa se appartengono alla stessa famiglia o a diversi nuclei familiari -, ha invece la sua importanza ai fini di portare a termine il lavoro, non solo dal punto di vista umano, ma soprattutto dal punto di vista di Dio, quando specialmente si tratta di un'attività che riguarda l’opera del Signore.

Il pesce, come alimento venduto al mercato


Il Dr. H. G. M. Williamson nel suo commentario ai libri di Esdra e Nehemia, afferma che il pesce che arrivava nel mercato della città di Gerusalemme, non si sa se proveniva da Galilea o dalle coste del Mediterraneo [Cfr. H.G.M. Williamson, Word Biblical Commentary, Ezra, Nehemiah, pag. 204].

Indipendentemente da dove proveniva il pesce, la porta dei Pesci indicava che di lì passava questa merce destinata al mercato della città. Che poi i venditori del pesce fossero locali o stranieri, non voleva dire niente dal momento che la merce era destinata agli abitanti della città di Gerusalemme.

Davanti alle tante devastazioni che ci siano nella città di Gerusalemme, (e la porta dei Pesci non era stata risparmiata), non è difficile pensare che sia estremamente importante rimuovere le macerie e costruire quell'apertura, in modo da facilitare l’entrata e la vendita di quest'importante alimento.

Che poi, per dare maggiore sicurezza al rifornimento del mercato dei pesci, i restauratori pensassero di mettere “l’intelaiatura, i battenti, le serrature e le sbarre” alla porta che costruirono, dimostra quanto erano interessati e intelligenti nello stesso tempo al lavoro che fecero.

La cosa importane da considerare intorno alla porta dei Pesci

Se abbiamo scritto qualche parola circa il rifornimento e la vendita del pesce nel mercato di Gerusalemme, non l’abbiamo fatto perché siamo interessati ai prodotti ittici (che nessuno ci fraintenda come se volessimo denigrare quest'attività commerciale o fare della pubblicità a favore di questo tipo di merce, come se tutta l’attenzione della nostra riflessione fosse basata su un cibo che è di nutrimento al corpo umano), siamo invece interessati a capire che cosa potrebbe insegnarci la porta dei Pesci e di quali verità parlarci.

A base delle nostre riflessioni (ovviamente di carattere spirituale) stanno i seguenti testi:

1) Proverbi 11:30: Il frutto del giusto è un albero di vita, e chi fa conquista di anime è saggio;
2) Daniele 12:3: Quelli che hanno sapienza risplenderanno come lo splendore del firmamento e quelli che avranno condotti molti alla giustizia, risplenderanno come le stelle per sempre;
3) Matteo 4:19: e disse loro: Seguitemi e io vi farò pescatori di uomini.

Su quest’ultimo testo evangelico, - che è la parola chiave di tutto quello che diremo in questa nostra riflessione - è principalmente accentrata la nostra attenzione, per sapere se la promessa fatta a Pietro e ad Andrea nel giorno che furono chiamati da Cristo a seguirlo, riguarda solamente loro, o può essere usata come punto di riferimento anche per noi, vale a dire per tutti quelli che il Gesù Signor chiamerà a seguirlo, con particolare allusione a chi vengono chiamati al ministero.

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09/02/2012 00:16

L’IMPORTANZA DI SEGUIRE GESÙ

Indubbiamente, ascoltare e seguire Gesù, in tutto quello che Egli dice e vuole, ciò ha un compito determinante, e, senza dubbio, può essere additato come un segreto per la buona e sicura riuscita. Dal momento che la promessa a “diventare pescatori di uomini”, è condizionata dal seguire Gesù, vale quindi la pena fare qualche considerazione per meglio capire cosa significhi.

Ascoltare e credere la parola di Gesù


Non si può parlare di seguire Gesù, se prima non si è pronti ad ascoltare e a credere a tutto quello che Egli dice. Che il Signore rivolge ancora oggi la sua Parola, a tutti quelli che hanno principalmente “orecchi per ascoltare”, è senza dubbio fuori di ogni discussione. Bisogna però vedere se coloro ai quali è rivolta la Sua Parola, l’ascoltano e la credano, come parola divina e vincolante nello stesso tempo per la vita di ogni giorno.

Nell’azione di “seguire”, c’è, infatti, l’implicazione della decisione e della determinazione di chi, dopo avere ascoltato e creduto, è pronto a mettere in pratica e a vivere secondo la volontà di chi lo ha chiamato a seguirlo. Inoltre, ci parla pure di uno stato di cambiamento volontario di propositi, di scopi e di fini, tutti convogliati nella nuova direzione che c'è proposta.

Seguire Gesù per diventare pescatori di uomini

Seguitemi, e io vi farò diventare pescatori di uomini, disse Cristo a Pietro e ad Andrea. Questo voleva dire in termini spiccioli che se questi due uomini non fossero stati disposti a seguire Gesù, non sarebbero mai “diventati pescatori di esseri umani”, anche se sono conosciuti come comuni pescatori di pesci.

Il termine “seguire”, - specie quando si pensa alle tante volte che Cristo l’adoperò -, ci porta a considerare, non solo le persone cui Gesù rivolgeva la Sua parola, ma anche alle varie situazioni nelle quali esse si trovavano prima di quel momento, per meglio apprezzare e valorizzare, la decisione e la determinazione, nei confronti del volere del Signore.

Dei primi quattro che Cristo chiamò, cioè: Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni, il vangelo ci dice che, erano occupati con il loro mestiere di pescatori, gettando e riparando le reti con il loro padre e con gli operai che avevano (Matteo 4:18-21; Marco 1:17-20. La risposta di questi quattro uomini fu pronta ed immediata, e senza pensarci tre volte, (come si dice comunemente), lasciarono ogni cosa e si misero a seguire Gesù.

Una simile prontezza -, anche se più tardi in situazione di scoraggiamento e di sbandamento ritornarono al vecchio mestiere (Giovanni 21:3) -, è sempre apprezzabile poiché fa riscontro ad una speciale chiamata del Cristo.

Per Luca, anche se ometterà il nome di Andrea, fratello di Pietro, rispetto a Matteo e Marco, nel passo parallelo, non solo li presenta in una diversa circostanza, ma precisa anche che quando questi tre uomini decisero di lasciare le loro barche e ogni cosa per seguire Gesù, non lo fecero ha seguito di un invito rivolto loro dal Cristo, ma perché furono convinti dell’evidenza del potere miracoloso di Gesù, quando ha seguito del comando che diede a Pietro di “prendere il largo, e calare le reti per pescare”, vennero presi tanti pesci che la maglia si rompeva (Luca 5:4-11).

Pietro, che forse prima di quell’evento non aveva realizzato di essere “un uomo peccatore”, davanti alla chiara manifestazione di quel miracolo, non solo i suoi occhi si aprirono per fargli vedere il suo stato di uomo peccatore, ma lo spinse ad una ferma e determinata decisione a seguire Cristo.

Gesù, comprendendo molto bene la situazione di “stupore” che si era venuta a formare nella vita di quegli uomini, rivolgendo la parola a Simone, gli disse:

Non temere; da ora in avanti tu sarai pescatore di uomini vivi (Luca 5:10).

In altra circostanza, quando Cristo rivolse l’invito a seguirlo ad un uomo di nome Levi o Matteo che era impegnato come collettore di tasse, il testo sacro precisa che:

Egli, alzatosi, lo seguì (Matteo 9:9; Marco 2:14; e Luca aggiunge: lasciata ogni cosa... (5:28).

Ecco qui un’altra situazione e una diversa circostanza. Matteo, non ragionò, nella maniera moderna, vale a dire come noi oggi avremmo fatto. Prendere la decisione di lasciare un impiego per andare dietro a Gesù che non ha “dove posare il capo”, rappresentava una vera pazzia e un’incognita che una persona che ponderava bene le cose, non avrebbe mai fatto. Ma Matteo, con la sua pronta e decisa determinazione che prese in quel giorno a seguire Cristo, vuole insegnare agli uomini di oggi, e per il tempo in cui viviamo che, quando ci viene chiesto di seguire il Signore, non bisogna fare calcoli umani, mettendo al primo posto quello che potrebbe essere una buona sistemazione. Quando si ragiona in questa maniera, la logica umana prende il sopravvento e si finisce col rimandare, o peggio ancora, respingere una precisa chiamata da parte del Signore.

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10/02/2012 00:15

La storia dello scriba che vuole seguire il Maestro dovunque andrà, secondo Matteo 8:19; (anche se Luca 9:57 non specifica che si trattasse di uno scriba, è senza dubbio però il racconto parallelo a quello di Matteo), non è certamente un esempio da imitare. Il fatto che Cristo risponde:

Le volpi hanno delle tane, e gli uccelli del cielo dei nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha neppure dove posare il capo (v. 20),

di per se stesso dimostra che le intenzioni dello scriba, non erano sincere. Probabilmente quest’uomo pensava più a una buona sistemazione di un impiego, anziché seguire Cristo senza aver di mira pretese umane. Di conseguenza, la sua apparente disposizione, non corrispondeva ai fini per cui Cristo lo invitava a seguirlo.

Quando poi Gesù rivolse la Sua Parola, ad un altro a seguirlo, la risposta fu:

Signore, permettimi prima di andare a seppellire mio padre (Luca 9:59).

Non dobbiamo pensare che quell’uomo abbia veramente il padre morto in casa, a causa di questo era necessario accudire ai doveri di figlio per ciò che riguardava il funerale. Era invece l’usanza degli Ebrei di quei tempi che quando un padre raggiungeva l’età della vecchiaia, il figlio maggiore era tenuto ad assumersi la responsabilità della famiglia, di conseguenza non poteva fare una decisione, che andasse contro gli interessi della stessa famiglia, durante tutto il tempo che il padre viveva. Con la risposta che Cristo diede:

Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; ma tu va’ ad annunziare il regno di Dio (Luca 9:60).

Egli volle chiaramente mettere in luce che non ci fu nessun obbligo di famiglia, che possa ritenere o rimandare l’obbedienza alla Sua Parola, come se le Sue cose, fossero meno importanti dello stesso nucleo familiare. Gesù, per dare forza e valore alla sua Parola, precisò:

Chi ama padre o madre più di me, non è degno di; e chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me (Matteo 10:37).

Dalla risposta che l’uomo del nostro testo diede al Signore, possiamo dedurre che non gli mancava certamente una buon'intenzione a rispondere alla chiamata del Signore, voleva solo temporeggiare, rimandare tutto al domani. Facendo ciò, prevalevano in lui gli interessi di famiglia. Quando si agisce in questa maniera, si dimostra di non tener conto della Parola scritta:

Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte (Matteo 6:33).

Il giovane ricco, che chiamò Gesù: Maestro buono, di cui parlano gli evangelisti Matteo, Marco e Luca, chiese, che devo fare di buono per avere la vita eterna? (Matteo 19:16). Da queste parole, ci sembra che questo giovane fosse veramente interessato alla vita d’oltre tomba. Però, quando Cristo gli disse:

va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e tu avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi (v. 21),

il giovane prese un atteggiamento che rivelò che tra il dire e il fare c’era di mezzo il mare (come si dice comunemente).

Il vangelo precisa a questo proposito che quel giovane al sentire quel parlare se ne andò rattristato (v. 22). Questo particolare del racconto evangelico, mette abbastanza in evidenza che nel suo cuore non c’era quella vera disposizione che l’avrebbe portato a fare quello che Cristo diceva.

Molti ai nostri giorni, dicono tante cose, fanno tante promesse, esprimono tanti buoni propositi, ma lo dicono solamente con le parole, mentre il loro cuore resta lontano e non sono disposti a pagarne il prezzo.

Seguire Cristo in ciò che Egli dice, comporta sempre per l’uomo che lo vuole ascoltare, un impegno e una precisa determinazione di volontà nell’accettare le condizioni poste. Davanti al deciso rifiuto, di fare quello che il Signore vuole, non ci sono parole, per belle che siano, che lo possono giustificare davanti a Dio.

Per comprendere che cosa significava “seguire Cristo”, un giorno Gesù affermò categoricamente:

Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita (Giovanni 8:12).

Se per colui che segue Gesù ci sarà ci sarà “la luce della vita” che brillerà sul suo cammino per dargli certezza e tranquillità, all’opposto, per colui che non lo segue vi sarà un “camminare nelle tenebre” dell’incertezza, dell’inquietitudine, come conseguenza del suo rifiuto a seguire Cristo: “Via, Verità e Vita” (Giovanni 14:6).

Ancora un altro riferimento, e poi chiuderemo questa parentesi che ci ha portato a fare delle brevissime considerazioni sul valore e sull’importanza di seguire Gesù.

Se uno mi serve, mi segua; e là dove sono io, là sarà anche il mio servo; se uno mi serve, il Padre l’onorerà (Giovanni 12:26).

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11/02/2012 00:11

Non c’è vero “servizio”, nel senso più profondo che questo termine, senza seguire il Cristo. Lui, il Signore dei signori, è l’esempio più perfetto e sublime di tutto il servizio, dato che Egli stesso non è venuto in questo mondo.

per essere servito, ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti (Matteo 20:28).

Il Gesù Signor, che sa bene apprezzare chi che lo serve, - si intende tra gli uomini e mentre si vive su questa terra -, promette al suo servo, di essere là, dove Egli si trova, (sicuramente in cielo) e di ricevere anche l’onore del Padre, che è di gran lungo superiore e più significativo di tutte le correttezze degli uomini.

Se abbiamo fatto un piccolo elenco di persone che sono state invitate a seguire Cristo, senza peraltro accennare ad altri tanti casi di cui parla chiaramente il N.T., l’abbiamo solamente fatto per mettere in evidenza quanto sia importante, e nello stesso tempo, imparare da queste persone a fare quello che essi hanno fatto. La prontezza e la determinazione a seguire Cristo Gesù, avrà senza dubbio un effetto benefico e un ruolo primario, nella vita della persona; i risultati di questa scelta, saranno immancabilmente palesi davanti agli altri, mettendo in chiara evidenza la reale differenza tra chi segue Cristo e chi non lo segue.

Ritornando alla frase: Io vi farò..., che Cristo pronunciò nei confronti di Andrea e Pietro, dobbiamo subito affermare che, essa denota in maniera chiara e inconfondibile, l’azione che Cristo compirà nella vita di chi sarà pronto a seguirlo, (che in altri termini, equivale alla nostra “abilitazione”).

Quando però si parla di abilitazione, = capacità di saper fare, si usano certi concetti tendenti a mettere in evidenza le qualità e le ampiezze umane, (come intelligenza, cultura, preparazione accademica, ecc., ecc.). Senza sminuire o degradare l’intelligenza e la preparazione accademica della persona che è stata chiamata a seguire Cristo Gesù, se è venuto però a mancare l’azione poderosa e miracolosa del Figlio di Dio, il saper fare dell’uomo, non avrebbe nessun successo, e gli stessi risultati stenterebbero a venire.

Anche se un Paolo, poté dire ai suoi giorni di avere faticato più degli altri apostoli, non poteva però ignorare che tutto il lavoro che aveva fatto nell’Opera del Signore, l’aveva fatto per la grazia di Dio (1 Corinzi 15:10).

Le reti, attrezzature necessarie per la pesca, non devono essere trascurate; se si rompe una maglia, bisogna ripararla, se si vuole che il pesce rimanga nella rete e sia portato fuori delle acque in terra asciutta. L’uomo si può affaticare “tutta la notte”, nel gettare continuamente le reti, “senza prendere nulla” (Luca 5:5). Fare confluire i pesci nella rete, (spiritualmente parlando), nella zona dove l’attività umana è stata incessante, non è certo da addebitare alla bravura dell’uomo. Quando il potere divino non si manifesta, ogni attività umana è destinata al sicuro fallimento. Il potere divino si manifesta, però, quando l’uomo è disposto ad obbedire alla Suprema, ed Autorevole Parola di Gesù. Ci sia pertanto, di monito e di sprone la parola che Pietro disse a Gesù:

alla tua parola, calerò la rete (Luca 5:5).

La porta de Pesci fu riparata dai figli di Senaah, mettendo intelaiature, battenti, serrature e sbarre. Questo lavoro equivaleva a chiudere tutte le brecce che c’erano. Quando la rete da pescare, ch’è la figura della porta dei Pesci, viene riparata, cioè vengono chiusi i vari squarci che il nemico ha fatto, il pesce che il divin Signore dirigerà in essa resterà, e il pescatore, persona che sta seguendo Gesù, non mancherà di dire: Questa non è opera mia; non è stata la mia intelligenza, la mia bravura, il mio saper fare, ma è opera Tua, Signore e a Te vadano tutto l’onore e la gloria, ora e per sempre. Amen!

PS: Se al termine del capitolo 8 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 9




I TERMINI: LAVORARONO, LAVORAVA, LAVORÒ




Una nota introduttiva

I termini: lavorarono, lavorava e lavorò, nei 32 versetti che compongono il capito 3 di Nehemia, vengono ripetuti per ben 23 volte. Di per se stesso, questo dato statistico, nel contesto di tutto il lavoro che venne fatto nella ricostruzione delle mura di Gerusalemme, oltre a non essere casuale, ha la sua enorme importanza, per il semplice fatto che ci porta a guardare la lunga schiera di persone che sono nominate, come lavoratori che presero parte attiva in tutto quello che venne fatto in quei tempi. Infatti, parlare di operai, vuol dire parlare di persone impegnate attivamente in un determinato campo di lavoro, ove svolgono la loro attività con cura e determinazione.

Non sempre i lavoratori, nello svolgimento della loro funzione, trovano terreno facile, o come si direbbe con altre parole: trovano tutto a loro favore e tutto appianato. Spesse volte devono affrontare serie difficoltà di varia natura, sormontare enormi ostacoli, specie quando nascono delle incomprensioni e il sentiero si presenta tortuoso e incerto davanti a loro. Se poi si aggiunge che non sempre il lavoro viene apprezzato e giustamente retribuito, aumentano ulteriormente le difficoltà, che nuocciono alla buona determinazione di un onesto lavoratore.

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12/02/2012 02:15

Mentre per chi ha solamente la qualifica di essere un lavoratore, ma gli manca l’impegno e la determinazione, alla minima difficoltà che si presenta, oltre a trovare mille scuse, finirà col rinunciare e rendersi indisponibile, anche per il lavoro meno impegnativo.

Il lavoro che venne fatto nelle mura di Gerusalemme


Come abbiamo detto in altri capitoli di questo libro, ribadiamo ancora una volta che, tutto il lavoro fatto ai tempi di Nehemia, consisteva nel chiudere brecce che erano state fatte nelle mura di Gerusalemme e riparare strutture di porte danneggiate dal fuoco.

Il lavoro, quindi, non era spettacolare (come quando si costruisce una bella casa), non era pulito (per la molta polvere che si sollevava facilmente da quelle strutture danneggiate), ma era sempre un lavoro, destinato a ridare sollievo ad un popolo che si trovava nel disprezzo e nell’obbrobrio.
Si dice spesso che il lavoro non degrada l’uomo, ma lo nobilita. Se questo è vero dal punto di vista sociale, è altrettanto vero per ciò che riguarda il lavoro che viene fatto nell’opera del Signore, anche per quello meno appariscente e insignificante, dal punto di vista umano.

Quando si tratta di riparare la struttura di una famiglia danneggiata dal fuoco del litigio e dalla discordia, o riparare le rovine di una Comunità ridotta in pezzi dai malumori e dalle divisioni, non sono certo lavori che tutti vorrebbero fare, come quando si costruisce una bella chiesa, un ospedale, una scuola o un orfanotrofio.

Quando però si considera il fine di un'attività lavorativa e si inquadra in previsione del bene degli altri, allora vale la pena arruolarsi nel numero di tutti chi è disposto a questi lavori.

Il lavoro nell’Opera del Signore

Ogni lavoratore impegnato in questo campo, dovrà sempre tenere presente il detto della Scrittura:

Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso (Filippesi 2:3 / La Nuova Riveduta).

Questo testo paolino, è uno dei tanti principi divini, che non deve essere accantonato nella Bibbia, poiché si tratta di un principio fondamentale di Dio. Il suo valore non fu solamente per i tempi dell’apostolo, ma è anche per i nostri, se si vuole l’approvazione Divina in quello che si esercita e l’attività contribuisca al bene degli altri.

La rivalità (o come dice un’altra versione: “Lo spirito di parte”) e la vanagloria, sono due atteggiamenti estremamente dannosi per una persona impegnata nell’Opera del Signore, (non importa il tipo di lavoro che svolge, sia come semplice lavoratore o come dirigente di un movimento religioso o di una chiesa). Questi due atteggiamenti, rappresentano soprattutto due autentici nemici, sul piano della vita cristiana e di quell'associata in maniera particolare.

Che cosa significa, “rivalità”, dal punto di vista prettamente linguistico?
Ecco come viene definita, dal GDLI = (Grande Dizionario della Lingua Italiana), di S. Battaglia.

«Atteggiamento di emulazione, di competitività, di antagonismo tra due o più persone, associazioni, gruppi, entità politiche, Città, Stati, ecc. in vista del raggiungimento di una posizione di superiorità o del godimento esclusivo di un bene, di un vantaggio.
In senso concreto: persona o gruppo rivale, concorrente.
Per estens. Spirito polemico nei confronti di un avversario» [S. Battaglia, GDLI, (Grande Dizionario della Lingua Italiana), Vol. XVI, pag. 1025, UTET, Torino, 1994].

Anche se il detto paolino si trova in un'epistola indirizzata alla chiesa dei Filippesi, quindi ad una Comunità, questo però non toglie di poterlo applicare, in maniera particolare, a chi è impegnato nell’opera del ministero, che svolge un lavoro nella gran vigna del Signore.

La rivalità, che difficilmente si manifesta nella vita dei pigri, cioè di chi non svolge nessun'attività, spiritualmente parlando trova invece la sua espressione più marcata nell'esistenza di chi è impegnato nell’opera del ministero, nell’Opera del Signore. Questa nostra affermazione non deve essere però generalizzata, cioè, come se tutti quelli che sono impegnati nell’opera del ministero, fossero rivali gli uni contro gli altri. Vuole semplicemente mettere in evidenza che quest'infausto atteggiamento può trovarsi anche nella vita di certuni operai, cioè in quelli che sono addetti nel campo di Dio, cioè in mezzo ai credenti, vale a dire nella chiesa, per usare l’antologia di Paolo: Voi siete il Campo di Dio... (1 Corinzi 3:9).

La chiesa del Signore Gesù Cristo, (intesa come collettività di credenti) o la chiesa di Dio, come l’apostolo Paolo la chiama (1 Corinzi 1:2) e i ministri del vangelo in maniera particolare, biblicamente parlando dovrebbero essere in questo mondo oscuro come dei “luminari”, (Mat. 5:14; Filippesi 2:15), ma spesse volte agiscono al contrario, e, invece di diffondere la luce divina, spandono ombre tenebrose in mezzo all’umanità.

Non disse Gesù, che il Padre celeste, sarebbe stato glorificato, a motivo delle buone opere che i suoi discepoli avrebbero fatto vedere? (Matteo 5:16). Se il Padre celeste viene glorificato, cioè esaltato e magnificato, (in mezzo all’umanità), e non soltanto tra gli esseri angelici in cielo quando i credenti agiscono secondo i dettami del vangelo e della Parola di Dio in senso generale, avviene il contrario, quando i figli di Dio e i predicatori del vangelo non compiono opere di bene, in accordo con la vocazione alla quale sono stati chiamati.

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