Donemico34 – Le parabole di Gesù – Capitolo 19 . LE PARABOLE CHE ILLUSTRANO LA MISERICORDIA DI DIO

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Domenico34
00venerdì 6 maggio 2011 00:09

Capitolo 19




LE PARABOLE CHE ILLUSTRANO LA MISERICORDIA DI DIO




Il testo

Tutti i pubblicani e i «peccatori» si avvicinavano a lui per ascoltarlo.
Ma i farisei e gli scribi mormoravano, dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola:
«Chi di voi, avendo cento pecore, se ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e non va dietro a quella perduta finché non la ritrova?
E trovatala, tutto allegro se la mette sulle spalle;
Vi dico che così ci sarà più gioia in cielo per un solo peccatore che si ravvede, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di ravvedimento
(Luca 15:1-7).

Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e una di queste si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti per andare in cerca di quella smarrita?
Così il Padre vostro che è nei cieli vuole che neppure uno di questi piccoli perisca
(Matteo 18:12-14).

NOTA INTRODUTTIVA

Il motivo per cui Gesù raccontò questa parabola della pecora smarrita è specificato da Luca ai vv. 1-3. Perché i pubblicani e i peccatori si avvicinavano a Gesù per ascoltarLo? Perché Egli li accoglieva, mentre i farisei e gli scribi li avevano messi al bando, lasciando intendere che per loro che non c’era speranza di salvezza. Qual è la categoria di persone che i farisei e gli scribi consideravano costituita da peccatori?

«Quegli uomini che conducevano una vita immorale o esercitavano una professione disonorata (come gli esattori d’imposte o i conciatori, gli uni perché disonesti, gli altri perché in conflitto permanente con le norme di purità prescritte dalla legge)» [A. Kemmer, Le parabole di Gesù, pag. 46].

Se Gesù accoglieva i pubblicani e i peccatori non voleva intendere, con ciò, che Egli ne approvasse il modo di vivere, ma voleva solo dimostrare che la Sua missione sulla terra non era riservata esclusivamente a quella categoria di persone che conducevano una vita dignitosa, ma anche a quelli che erano messi al bando dai capi religiosi, cioè a quanti erano considerati lo scarto della società per la loro cattiva condotta morale. Quando affermava che i sani non hanno bisogno del medico, ma i malati, Gesù voleva mettere in risalto che erano i peccatori, di qualsiasi genere, ad aver bisogno di Lui, dato che Egli era venuto in questo mondo per cercare e salvare ciò che era perduto (Luca 19:10).

Inoltre, la parabola in questione non è raccontata solamente da Matteo (sebbene in forma ridotta) e da Luca, ma viene anche riferita dal Vangelo di Tommaso (107): «Gesù disse: il Regno dei cieli è simile ad un pastore che ha cento pecore. Una di queste, la maggiore, andò perduta. Egli lasciò le novantanove e andò alla ricerca di quest’una, finché la trovò. Dopo tutta la sua fatica, egli disse alla pecora: io ti amo più delle altre novantanove».

Ha ragione Jeremias nell’osservare che «in questo modo si travisa completamente la parabola, come risulta appunto dal confronto con Matteo-Luca e soprattutto dal contesto generale della predicazione di Gesù» [J. Jeremias, Le parabole di Gesù, pag. 163].

Infine, facendo un confronto tra Luca e Matteo, si può notare il diverso contesto che c’è tra i due evangelisti. Per Luca, la parabola venne proposta a seguito della critica che mossero a Gesù i farisei e gli scribi per l’accoglienza riservata ai pubblicani e ai peccatori; mentre, per Matteo, si trattava di rinforzare l’esortazione che Gesù aveva rivolto ai Suoi discepoli a guardarsi dal disprezzare uno di questi piccoli; perché vi dico che gli angeli loro, nei cieli, vedono continuamente la faccia del Padre mio che è nei cieli (Matteo 18:10).

Esame della parabola

La descrizione della pecora smarrita fatta da Gesù rispecchiava l’ambiente palestinese, cioè quello che succedeva allora ai pastori di bestiame. Infatti, l’usanza di contare le pecore avveniva di sera, prima che il bestiame venisse fatto entrare nell’ovile, cioè nel recinto. I pastori facevano questo lavoro di conta del bestiame per sapere se durante la giornata qualche animale si fosse allontanato o smarrito. Se la conta metteva in evidenza che mancava qualche bestia, il pastore si rivolgeva ad un altro pastore di fiducia, che condivideva lo stesso recinto, e a questi affidava l’incarico di sorvegliare il proprio bestiame. Poi si metteva subito alla ricerca dell’animale che si era smarrito. Questa era la prassi che vigeva ai tempi di Gesù, in Palestina, presso i beduini.

«Il padrone di un gregge non è certamente un gran riccone. La grandezza di un gregge oscilla presso i beduini da venti a duecento capi di bestiame minuto; trecento capi sono per il diritto ebraico un gregge straordinariamente numeroso. Chi possiede cento pecore ha quindi un gregge di media grandezza, egli basta da solo a curarle, senza ricorrere a dei guardiani. Quantunque non sia un Creso, egli, tuttavia, è un benestante, al confronto con la povera vedova» [Ibidem, pag. 163].

Tenuto conto che la nostra parabola parla di pecore, è importante fornire qualche notizia intorno a questa bestiola. Per natura, la pecora è un animale che non sa orientarsi, nel caso si smarrisca, e non sa neanche difendersi quando viene assalita. È facile immaginare come questa pecora si sia distaccata dalle altre pecore e, in un secondo tempo, abbia finito per smarrirsi. Intenta a mangiare in un pascolo, essa tiene la testa bassa, e non si rende conto quando le altre pecore si allontanano; così rimane sola. Poiché non possiede il senso di orientamento, essa non sa trovare la strada per ricongiungersi con il gregge.

A questo punto, essa comincia a girovagare qua e là senza rendersi conto dove stia andando. Se poi si terrà presente il particolare che menziona Matteo, cioè i monti, è facile immaginare che, probabilmente, essa sia scivolata e sia andata a finire dentro un crepaccio. In questa condizione, essa non ha alcuna possibilità di risalire e mettersi in salvo, perché è ormai stanca ed esausta. Se non arrivasse il suo pastore, essa sarebbe destinata a morire in quella condizione.

Quando più tardi arriva il pastore e trova la sua pecora in quello stato, si rende conto che non ci sono tante possibilità: l’unica cosa che egli possa fare è prendere la bestia con le mani e caricarsela sulle spalle. Non è il momento di usare il bastone per percuoterla o sgridarla con voce ferma. Quella bestiola ha bisogno di essere aiutata, cioè il pastore deve manifestarle benignità e misericordia. Infatti, con l’atto che compie nel mettersi la pecora sulle spalle, egli le ha manifestato comprensione e compassione.

Arrivato a casa, dimenticando tutta la fatica e la stanchezza che ha dovuto affrontare per portare in salvo la sua pecora, il pastore, che è contento per il felice risultato ottenuto, sente di condividere con altri la sua gioia. Perciò invita amici e vicini, e dice loro: rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. La conclusione di Gesù è tra le più significative: Vi dico che così ci sarà più gioia in cielo per un solo peccatore che si ravvede, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di ravvedimento.

Il testo

«Oppure, qual è la donna che se ha dieci dramme e ne perde una, non accende un lume e non spazza la casa e non cerca con cura finché non la ritrova?
Quando l’ha trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta.
Così, vi dico, v’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si ravvede»
(Luca 15:8-10).

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00sabato 7 maggio 2011 00:11
Esame della parabola

«La parabola della dramma smarrita, che si deve leggere come una domanda unica fino al v. 9, con l’accenno alle dieci dramme ricorda ad ogni conoscitore della Palestina araba quelle monete con cui le donne si ornano la fronte; queste monetine rappresentano la loro dote, la loro ricchezza e il loro risparmio per i casi di necessità, così che non se le tolgono mai, nemmeno durante il sonno. Il trattato rabbinico della Tosephta ricorda, infatti, l’usanza dei denari d’oro come ornamento. In questo caso, la donna doveva essere molto povera: dieci dramme, infatti, sono un ben umile ornamento, se confrontiamo alle centinaia di monete d’oro e d’argento che oggi molte donne portano a corona sulla loro testa» [J. Jeremias, Le parabole di Gesù, pag. 165].

Anche quest’altra parabola, al pari della precedente, ha lo stesso messaggio: far comprendere come si manifesta la misericordia di Dio in favore del peccatore penitente. Sì, è vero che la scena è diversa, ma gli ascoltatori sono gli stessi e la finalità mira al medesimo obbiettivo. La donna di cui parla la parabola non appartiene alla categoria dei nobili e dei ricchi, ma sicuramente a quella dei poveri. Le dieci dramme che possiede la donna sono la prova della sua condizione sociale; e, quando una di queste si smarrisce, non solo ella lo nota, ma si mette anche subito a cercarla. Potrebbe sembrare strano come questa dramma si sia persa dentro la sua casa. Non ha importanza sapere come ciò sia potuto accadere, quanto notare l’impegno e la determinazione che la donna manifesta nel cercarla.

Non serve tentare di dare dei significati precisi alla donna, alla dramma, alla lampada e alla scopa, dato che questi sono elementi accessori che servono solamente per descrivere l’azione attiva e persistente della ricerca. L’elemento che, invece, ha importanza è il fatto che la donna in questione non smetta di cercare fino a quando non abbia trovato la sua dramma. Ella, infatti, ella ha la certezza di aver perso la monetina mancante dalla sua collana nella propria abitazione, e che è là che essa vada cercata. La verità secondo la quale: Chi cerca trova (Matteo 7:7) è valida per tutti i tempi e per ogni epoca. Quando si manifesta determinazione in un qualsiasi campo, è difficile che l’attività intrapresa non abbia una felice conclusione. La prova sta nel fatto che la donna, a seguito della sua ricerca, ha trovato quello che ha cercato, cioè la sua dramma.

Il fatto, poi, che al ritrovamento della monetina la donna chiami le amiche e i vicini dicendo loro: Rallegrativi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta, è un elemento significativo che esprime la gioia che ella vuole condividere con altri. Visto che l’obiettivo è stato raggiunto e che gli ascoltatori sono stati messi in condizione di comprendere la parabola, Gesù non esita ad affermare: Così, vi dico, v’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si ravvede. Questo significa che il ravvedimento di un solo peccatore non procura solamente gioia sulla terra tra i credenti, ma anche tra gli angeli di Dio che vivono in cielo.

Le due parabole in questione, cioè della pecora smarrita e della dramma perduta, hanno in comune la stessa frase: Un solo peccatore. Quindi, la gioia tra gli angeli di Dio in cielo non sarà motivata dal ravvedimento di una moltitudine di peccatori, ma di un solo peccatore. Questo perché il valore di un’anima sorpassa quello del mondo intero, e un solo peccatore che si ravvede ha più importanza di novantanove giusti che non hanno bisogno di ravvedimento.

Il testo

Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.
Il più giovane di loro disse al padre: Padre, dammi la parte dei beni che mi spetta. Ed egli divise fra loro i beni.
Di lì a poco, il figlio più giovane, messa insieme ogni cosa, partì per un paese lontano, e vi sperperò i suoi beni, vivendo dissolutamente.
Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una gran carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
Allora si mise con uno degli abitanti di quel paese, il quale lo mandò nei suoi campi a pascolare i maiali.
Ed egli avrebbe voluto sfamarsi con i baccelli che i maiali mangiavano, ma nessuno gliene dava.
Allora, rientrato in sé, disse: Quanti servi di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!
Io mi alzerò e andrò da mio padre, e gli dirò: padre, ho peccato contro il cielo e contro di te:
non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi.
Egli dunque si alzò e tornò da suo padre; ma mentre egli era ancora lontano, suo padre lo vide e ne ebbe compassione: corse, gli si gettò al collo, lo baciò e ribaciò.
E il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio.
Ma il padre disse ai suoi servi: Presto, portate qui la veste più bella, e rivestitelo, mettetegli un anello al dito e dei calzari ai piedi;
perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto, ed è stato ritrovato. E si misero a fare gran festa.
Or il figlio maggiore si trovava nei campi, e mentre tornava, come fu vicino a casa, udì la musica e le danze.
Chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa succedeva.
Quello gli disse: È tornato tuo fratello e tuo padre ha ammazzato il vitello ingrassato, perché lo ha riavuto sano e salvo.
Egli si adirò e non volle entrare; allora suo padre uscì e lo pregava di entrare.
Il padre gli disse: Figliolo, tu sei sempre con me e ogni cosa mia è tua;
ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato»
(Luca 15:11-32).

NOTA INTRODUTTIVA

«La terza parabola è molto più lunga delle precedenti; è la più lunga di tutte le parabole di Gesù e, possiamo aggiungere, anche la più bella. Essa approfondisce il concetto che sta alla base delle altre due, ma con nuovi accenti. Invece che il solito titolo, converrebbe darle quello di “parabola del padre amorevole”; infatti, il tema fondamentale è l’infinito amore di Dio. Ma oltre ad esso, vi trova espressione anche il tema della conversione» [A. Kemmer, Le parabole di Gesù, pag. 48].

«Questa parabola, per la sua sublimità, completezza e beltà suprema, venne a ragione chiamata la perla e la corona di tutte le parabole della Scrittura» [R. G. G. Stewart, Commentario esegetico pratico del Nuovo Testamento, S. Luca, pag. 182].

Questa parabola, infatti, attraverso i secoli, è stata la Scrittura più usata dai predicatori del vangelo per far comprendere ai peccatori quanto siano grandi la premura, l’interessamento e l’amore che Dio manifesta verso l’uomo peccatore che veramente torna a Lui, pentito e consapevole della sua indegnità. Inoltre, la nostra parabola, assieme a quella della dramma smarrita, è riferita solamente da Luca. Infine, la parabola del figlio prodigo può essere divisa in due parti. Nella prima parte (che è quella più particolareggiata) si parla del giovane figlio che chiede la sua parte di eredità al padre, per poi sperperarla vivendo dissolutamente; mentre, nella seconda parte (sebbene con pochi particolari), si parla del figlio maggiore che rimane fedele in casa di suo padre.

Esame della parabola

1) La richiesta del figlio minore

A detta di Jeremias, la parabola del figlio prodigo «non è un’allegoria, ma una storia presa dalla vita, come indicano le due perifrasi del nome divino nei vv. 18 e 21: “Padre, ho peccato contro Dio e contro di te”» [J. Jeremias, Le parabole di Gesù, pag. 158].

Non ci è dato sapere che età avesse il figlio minore della nostra parabola; sicuramente era in età di poter chiedere al padre la parte dell’eredità che gli spettava in qualità di legittimo erede:

«Evidentemente il figlio più giovane non è sposato, ciò permette di congetturare la sua età, dal momento che i maschi si sposavano verso i 18/20 anni» Ibidem, pagg. 158-159].

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00domenica 8 maggio 2011 00:03
Esame della parabola

«La parabola della dramma smarrita, che si deve leggere come una domanda unica fino al v. 9, con l’accenno alle dieci dramme ricorda ad ogni conoscitore della Palestina araba quelle monete con cui le donne si ornano la fronte; queste monetine rappresentano la loro dote, la loro ricchezza e il loro risparmio per i casi di necessità, così che non se le tolgono mai, nemmeno durante il sonno. Il trattato rabbinico della Tosephta ricorda, infatti, l’usanza dei denari d’oro come ornamento. In questo caso, la donna doveva essere molto povera: dieci dramme, infatti, sono un ben umile ornamento, se confrontiamo alle centinaia di monete d’oro e d’argento che oggi molte donne portano a corona sulla loro testa» [J. Jeremias, Le parabole di Gesù, pag. 165].

Anche quest’altra parabola, al pari della precedente, ha lo stesso messaggio: far comprendere come si manifesta la misericordia di Dio in favore del peccatore penitente. Sì, è vero che la scena è diversa, ma gli ascoltatori sono gli stessi e la finalità mira al medesimo obbiettivo. La donna di cui parla la parabola non appartiene alla categoria dei nobili e dei ricchi, ma sicuramente a quella dei poveri. Le dieci dramme che possiede la donna sono la prova della sua condizione sociale; e, quando una di queste si smarrisce, non solo ella lo nota, ma si mette anche subito a cercarla. Potrebbe sembrare strano come questa dramma si sia persa dentro la sua casa. Non ha importanza sapere come ciò sia potuto accadere, quanto notare l’impegno e la determinazione che la donna manifesta nel cercarla.

Non serve tentare di dare dei significati precisi alla donna, alla dramma, alla lampada e alla scopa, dato che questi sono elementi accessori che servono solamente per descrivere l’azione attiva e persistente della ricerca. L’elemento che, invece, ha importanza è il fatto che la donna in questione non smetta di cercare fino a quando non abbia trovato la sua dramma. Ella, infatti, ella ha la certezza di aver perso la monetina mancante dalla sua collana nella propria abitazione, e che è là che essa vada cercata. La verità secondo la quale: Chi cerca trova (Matteo 7:7) è valida per tutti i tempi e per ogni epoca. Quando si manifesta determinazione in un qualsiasi campo, è difficile che l’attività intrapresa non abbia una felice conclusione. La prova sta nel fatto che la donna, a seguito della sua ricerca, ha trovato quello che ha cercato, cioè la sua dramma.

Il fatto, poi, che al ritrovamento della monetina la donna chiami le amiche e i vicini dicendo loro: Rallegrativi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta, è un elemento significativo che esprime la gioia che ella vuole condividere con altri. Visto che l’obiettivo è stato raggiunto e che gli ascoltatori sono stati messi in condizione di comprendere la parabola, Gesù non esita ad affermare: Così, vi dico, v’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si ravvede. Questo significa che il ravvedimento di un solo peccatore non procura solamente gioia sulla terra tra i credenti, ma anche tra gli angeli di Dio che vivono in cielo.

Le due parabole in questione, cioè della pecora smarrita e della dramma perduta, hanno in comune la stessa frase: Un solo peccatore. Quindi, la gioia tra gli angeli di Dio in cielo non sarà motivata dal ravvedimento di una moltitudine di peccatori, ma di un solo peccatore. Questo perché il valore di un’anima sorpassa quello del mondo intero, e un solo peccatore che si ravvede ha più importanza di novantanove giusti che non hanno bisogno di ravvedimento.

Il testo

Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.
Il più giovane di loro disse al padre: Padre, dammi la parte dei beni che mi spetta. Ed egli divise fra loro i beni.
Di lì a poco, il figlio più giovane, messa insieme ogni cosa, partì per un paese lontano, e vi sperperò i suoi beni, vivendo dissolutamente.
Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una gran carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
Allora si mise con uno degli abitanti di quel paese, il quale lo mandò nei suoi campi a pascolare i maiali.
Ed egli avrebbe voluto sfamarsi con i baccelli che i maiali mangiavano, ma nessuno gliene dava.
Allora, rientrato in sé, disse: Quanti servi di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!
Io mi alzerò e andrò da mio padre, e gli dirò: padre, ho peccato contro il cielo e contro di te:
non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi.
Egli dunque si alzò e tornò da suo padre; ma mentre egli era ancora lontano, suo padre lo vide e ne ebbe compassione: corse, gli si gettò al collo, lo baciò e ribaciò.
E il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio.
Ma il padre disse ai suoi servi: Presto, portate qui la veste più bella, e rivestitelo, mettetegli un anello al dito e dei calzari ai piedi;
perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto, ed è stato ritrovato. E si misero a fare gran festa.
Or il figlio maggiore si trovava nei campi, e mentre tornava, come fu vicino a casa, udì la musica e le danze.
Chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa succedeva.
Quello gli disse: È tornato tuo fratello e tuo padre ha ammazzato il vitello ingrassato, perché lo ha riavuto sano e salvo.
Egli si adirò e non volle entrare; allora suo padre uscì e lo pregava di entrare.
Il padre gli disse: Figliolo, tu sei sempre con me e ogni cosa mia è tua;
ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato»
(Luca 15:11-32).

NOTA INTRODUTTIVA

«La terza parabola è molto più lunga delle precedenti; è la più lunga di tutte le parabole di Gesù e, possiamo aggiungere, anche la più bella. Essa approfondisce il concetto che sta alla base delle altre due, ma con nuovi accenti. Invece che il solito titolo, converrebbe darle quello di “parabola del padre amorevole”; infatti, il tema fondamentale è l’infinito amore di Dio. Ma oltre ad esso, vi trova espressione anche il tema della conversione» [A. Kemmer, Le parabole di Gesù, pag. 48].

«Questa parabola, per la sua sublimità, completezza e beltà suprema, venne a ragione chiamata la perla e la corona di tutte le parabole della Scrittura» [R. G. G. Stewart, Commentario esegetico pratico del Nuovo Testamento, S. Luca, pag. 182].

Questa parabola, infatti, attraverso i secoli, è stata la Scrittura più usata dai predicatori del vangelo per far comprendere ai peccatori quanto siano grandi la premura, l’interessamento e l’amore che Dio manifesta verso l’uomo peccatore che veramente torna a Lui, pentito e consapevole della sua indegnità. Inoltre, la nostra parabola, assieme a quella della dramma smarrita, è riferita solamente da Luca. Infine, la parabola del figlio prodigo può essere divisa in due parti. Nella prima parte (che è quella più particolareggiata) si parla del giovane figlio che chiede la sua parte di eredità al padre, per poi sperperarla vivendo dissolutamente; mentre, nella seconda parte (sebbene con pochi particolari), si parla del figlio maggiore che rimane fedele in casa di suo padre.

Esame della parabola

1) La richiesta del figlio minore

A detta di Jeremias, la parabola del figlio prodigo «non è un’allegoria, ma una storia presa dalla vita, come indicano le due perifrasi del nome divino nei vv. 18 e 21: “Padre, ho peccato contro Dio e contro di te”» [J. Jeremias, Le parabole di Gesù, pag. 158].

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00lunedì 9 maggio 2011 00:04
Non ci è dato sapere che età avesse il figlio minore della nostra parabola; sicuramente era in età di poter chiedere al padre la parte dell’eredità che gli spettava in qualità di legittimo erede:

«Evidentemente il figlio più giovane non è sposato, ciò permette di congetturare la sua età, dal momento che i maschi si sposavano verso i 18/20 anni» [Ibidem, pagg. 158-159].

Deuteronomio 21:17 stabilisce quanto segue: Ma riconoscerà come primogenito il figlio dell’odiata, dandogli una parte doppia di tutto quello che possiede; poiché egli è la primizia del suo vigore e a lui appartiene il diritto di primogenitura.

«La situazione legale era la seguente: c’erano allora due forme di trasmissione della proprietà da padre a figlio, l’una per testamento, l’altra per donazione tra vivi. In quest’ultimo caso vigeva la regola, secondo la quale il beneficiario riceveva immediatamente il capitale, il godimento dei frutti, invece, solo alla morte del padre. Nel caso di donazione tra vivi, il figlio a) ottiene il diritto di proprietà (il padre non può, ad es., vendere quel terreno), b) ma non può disporre (se egli vende, il compratore non può prenderne possesso prima della morte del padre), e c) non ne ha l’usufrutto (questo rimane illimitatamente al padre fino alla sua morte). Stando al v. 12 il figlio minore non domanda soltanto il diritto di proprietà, ma anche la possibilità di disporre: egli pretende quindi di essere liquidato e di poter organizzare indipendentemente la sua vita» [Ibidem, pag. 158].

Non ci è dato sapere quali fossero i motivi che spinsero il figlio minore ad avanzare a suo padre la richiesta di eredità. Si può solamente congetturare che, probabilmente, egli non fosse capace di sopportare i richiami e le esortazioni che il padre gli rivolgeva, e siccome era nel pieno della sua giovinezza, egli voleva godersi la vita da solo, senza sottostare ad alcuna autorità.

Avuto in mano il denaro della sua eredità, nel giro di poco tempo mette insieme ogni cosa, e parte per un paese lontano (v. 13). Il fatto stesso che questo giovane decida di andarsene in un paese lontano può significare che egli voglia condurre la vita a modo suo, lontano da sguardi indiscreti. Forse egli avrà fatto tra sé e sé lo stesso ragionamento dell’uomo ricco della parabola: «Hai tanti soldi in tasca: mangia, bevi e godi». Considerando, però, che egli sperperò il suo patrimonio vivendo dissolutamente, possiamo supporre che le prostitute che frequentava ben presto gli svuotarono le tasche.

Da benestante che era all’inizio della sua partenza, egli si ridusse alla miseria, tanto da non avere neanche il cibo necessario per mangiare. È sempre vero il proverbio mondano che recita: «Chi prima non pensa, in ultimo sospira». Come fare a risolvere quella triste situazione? Come se non bastasse la mancanza del denaro, si mise anche la carestia a colpire quel paese. Non trovando alcuna occupazione onorevole, egli finì col ritrovarsi dietro un branco di maiali, visto che l’uomo al quale si rivolse per lavorare lo mandò nei campi a pascolare i suoi porci.
Affermare che la carestia non fu «di pane e di cibo, ma di buone opere e virtù» [Cfr. La Bibbia commentata dai padri, Nuovo Testamento 3, Luca, pag. 356; Sant’Ambrogio, Commento al vangelo di San Luca, pag. 125], come ha spiegato Ambrogio, significa travisare il testo evangelico e adattarlo ad una spiritualizzazione spinta, che poi non ha niente di spirituale, ma è semplicemente un fantasticare religioso, senza alcun rispetto per l’ermeneutica. Ai tempi di Ambrogio, di Agostino e di altri padri della chiesa, questi tipi di spiritualizzazioni erano all’ordine del giorno e facevano dire agli scritti sacri quello che oggi si potrebbe definire “il frutto delle loro fantasie”.

A questo punto, il testo precisa che il giovane avrebbe voluto sfamarsi con i baccelli [cioè le carrube] che i maiali mangiavano, ma nessuno gliene dava (v. 16). Con questa espressione non s’intende dire che il giovane figlio fosse diventato incapace di usare le mani per prendere le carrube che mangiavano i porci, aspettando che qualcuno gliene desse, ma essa serve solamente a descrivere la triste condizione in cui egli si era ridotto per la pazzia di aver lasciato la casa di suo padre.

Il ragionamento tra sé e sé che fece il giovane: Io mi alzerò e andrò da mio padre, e gli dirò: padre, ho peccato contro il cielo e contro di te:
non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi
(vv 18-19), anche se esprimeva una presa di coscienza e un prendere atto della sua colpevolezza, non avrebbe avuto senso e valore se egli fosse rimasto nei campi dietro ai maiali. Il fatto, però, che egli si alzò e ritornò da suo padre... mise in evidenza il vero pentimento che si produsse nella sua vita. Infatti, il vero pentimento non è costituito di sole parole, ma è seguito, come prova, da azioni visibili e tangibili.

Continuando nella sua descrizione dettagliata, la parabola ci riferisce che, mentre il figlio era ancora lontano, suo padre lo vide e ne ebbe compassione: corse, gli si gettò al collo, lo baciò e lo ribaciò (v. 20). Che significa ciò? Il senso è che, senza dubbio, il padre non aveva perso la speranza di riavere suo figlio che se n’era andato di casa. Qui si nota il grande amore e la gran compassione che il genitore manifestò nei confronti del proprio figlio. Non solo egli corse, ma gli si gettò al collo e lo baciò. Però, quando il figlio pronunciò le parole: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio (v. 21), senza dare modo a suo figlio di continuare a parlare, il padre ordinò ai servi: Presto, portate qui la veste più bella, e rivestitelo, mettetegli un anello al dito e dei calzari ai piedi (v.22).

Jeremias fa giustamente notare che «il bacio è il segno del perdono (come in 2Samuele 14:33); l’abito di festa, in Oriente significa un’alta distinzione. Non esistono decorazioni: quando un re vuole onorare un dignitario meritevole, gli fa dono di una veste preziosa. L’anello va concepito come un sigillo; donarlo a qualcuno significa, pertanto, conferire a questi i pieni poteri. I calzari erano considerati un lusso e li portavano solo gli uomini liberi: il figlio non avrebbe più dovuto camminare a piedi nudi come uno schiavo» [Ibidem, pagg. 159-160; A. Kemmer, Le parabole di Gesù, pag, 50].

Non contento di questo trattamento speciale, il padre ordina: Portate fuori il vitello ingrassato, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa,
perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto, ed è stato ritrovato
(vv. 23-24).

2) Il figlio maggiore

Quel poco che la parabola dedica al figlio maggiore è sufficiente per farci comprendere il suo carattere. Qualcuno, giustamente, ha osservato che «a rigore di termini, entrambi i figli erano prodighi: uno rovinato dal peccato che lo avvilisce, l’altro dalla propria giustizia che lo acceca» [R. G. G. Stewart, Commentario esegetico pratico del Nuovo Testamento, S. Luca, pag. 182].

Quando il figlio minore ritornò nella casa del padre, il figlio maggiore si trovava nei campi a lavorare. La sera, al termine della sua giornata lavorativa, quando egli si avvicinò a casa sentì la musica e le danze e, non sapendo spiegarsi il perché di quella festa,

chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa succedeva.
Quello gli disse: è tornato tuo fratello e tuo padre ha ammazzato il vitello ingrassato, perché lo ha riavuto sano e salvo
(vv. 26-27).

A sentire questo, egli si adirò e non volle entrare. Questo significa che non solo egli non condivideva il festino che c’era in casa, ma neanche aveva voglia di unirsi a quanti festeggiavano per quella particolare circostanza. Non contento di manifestare la sua disapprovazione per quello che suo padre aveva fatto, addirittura, nella sua rabbia, egli inveì violentemente contro suo padre, formulando un severo giudizio nei suoi confronti:
ma quando è venuto questo tuo figlio che ha sperperato i tuoi beni con le prostitute, tu hai ammazzato per lui il vitello ingrassato (vv. 29-30).

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00martedì 10 maggio 2011 00:18
La rabbia e l’indignazione che aveva in corpo lo avevano accecato a tal punto da chiamare suo fratello questo tuo figlio. Non è che quello che egli disse a suo padre non rispondesse a verità; ciò che lui affermava era vero. Però, quella sua sfuriata rappresentava l’effetto della sua ira, che in quella situazione lo aveva reso insensibile. Nonostante suo padre avesse usato parole affettuose, chiamandolo figliolo, e avesse spiegato il motivo di quella festa senza contestare le sue affermazioni, non risulta dalla descrizione che fornisce la parabola che il figlio maggiore si lasciò convincere dal padre e accettò l’invito ad entrare in casa.

In conclusione, tenuto conto che la parabola in questione fu formulata da Gesù come risposta alla critica che i farisei e gli scribi Gli avevano mosso per il fatto che Egli accoglieva i pubblicani e i peccatori, non ci sembra che gli ascoltatori compresero il messaggio del grande amore di Dio per i peccatori. Infine, se si tiene presente che Dio non trova piacere nella morte dell’empio (Ezechiele 33:11), anzi vuole che tutti gli uomini siano salvati (1Timateo 2:4), non ci sono peccatori che Egli non possa perdonare, se questi veramente ritornano a Lui pentiti:

Il testo

Disse ancora questa parabola per certuni che erano persuasi di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio per pregare; uno era fariseo, e l’altro pubblicano.
Io digiuno due volte la settimana; pago la decima su tutto quello che possiedo.
Ma il pubblicano se ne stava a distanza e non osava neppure alzare gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: O Dio, abbi pietà di me, peccatore!
Io vi dico che questo tornò a casa sua giustificato, piuttosto che quello; perché chiunque s’innalza sarà abbassato; ma chi si abbassa sarà innalzato»
(Luca 18:9-14).

Nota preliminare

La parabola del fariseo e del pubblicano è riferita solamente da Luca. In questa descrizione, Gesù presenta due persone senza chiamarle per nome: un fariseo e un pubblicano. Il motivo di questa parabola viene chiaramente specificato al v. 9. Chi erano quelli che si consideravano giusti e disprezzavano gli altri? Da quanto si legge nel Nuovo Testamento, è certo che l’allusione fosse per i farisei e gli scribi. Erano, infatti, loro che avevano questa persuasione, e Gesù ne diede la conferma quando li definì simili a sepolcri imbiancati, che appaiono belli di fuori, ma dentro sono pieni d’ossa di morti e d’ogni immondizia;
di fuori sembrate giusti alla gente; ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità
(Matteo 23:27-28).

Erano anche loro che disprezzavano e giudicavano gli altri. Basterebbero le seguenti parole per provarlo: Ha qualcuno dei capi o dei farisei creduto in lui?
Ma questo popolino, che non conosce la legge, è maledetto!»
(Giovanni 7:48-49). Questo, però, non significa che in quella categoria di persone che si consideravano giuste e disprezzavano gli altri non ci fossero anche altri che non appartenevano alla classe dei farisei e degli scribi.

Le due persone della parabola salgono al tempio per pregare, nell’ora della preghiera che, secondo la prassi che vigeva a quei tempi, erano le nove del mattino e le tre di pomeriggio. Uno era un fariseo e l’altro un pubblicano.

Esame della parabola

1) La preghiera del fariseo

A parte la posizione che assunse il fariseo nel tempio stando in piedi, il suo pregare — che poi, in effetti, era un ringraziamento rivolto a Dio — non mirava tanto ad esaltare la bontà del Signore, quanto a mettere in mostra se stesso per quello che egli faceva, cioè per il tenore di vita che conduceva. Anche se si precisa che il fariseo pregava dentro di sé, cioè senza far sentire la sua voce a quelli che potevano trovarsi vicini a lui, egli diceva: O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri; neppure come questo pubblicano (v. 11). Il fatto che egli dicesse di non essere come gli altri uomini denotava che egli si stava misurando con se stesso: si vantava del suo modo di vivere e, allo stesso tempo, disprezzava gli altri che non erano come lui.

Inoltre, se fosse stato un altro a presentarlo come uomo retto e giusto, sarebbe stata un’altra cosa; siccome, però, era lui stesso a farlo, il suo modo di vantarsi non corrispondeva al detto della Scrittura, che probabilmente egli conosceva: Altri ti lodi, non la tua bocca; un estraneo, non le tue labbra (Proverbi 27:2). Senza dubbio, quello che egli diceva di se stesso era vero, nel senso che la sua condotta non poteva essere paragonata a quella dei peccatori e, in particolar modo, alla categoria dei pubblicani e degli adulteri. Egli si guardava dall’approfittarsi di qualcosa che appartenesse agli altri, come i ladri che prendono e portano via quello che non è di loro proprietà; e non agiva neanche come gli adulteri, che abusano delle mogli degli altri. Dal punto di vista sociale, quindi, il fariseo era una persona di buona condotta.

Se poi si passa ad esaminare l’aspetto religioso, egli aveva di che vantarsi per il fatto che digiunava due volte la settimana (cioè lunedì e giovedì), pagava la decima su tutto quello che possedeva. Era certamente una persona che, riguardo a quello che diceva e faceva, non poteva essere rimproverata di non aver affermato la verità. Allora perché egli ritornò a casa senza essere giustificato? La risposta si trova nella parte conclusiva della parabola: Chiunque s’innalza sarà abbassato; ma chi si abbassa sarà innalzato. Il fariseo non s’innalzava davanti agli uomini, ma davanti a Dio, al quale si era rivolto in atteggiamento di preghiera.

2) La preghiera del pubblicano

Nessuno, nel senso pieno di questo termine, potrà ottenere il perdono dei peccati da Dio se non riconoscerà e confesserà di essere peccatore. Per Dio, grandemente benigno e misericordioso, pronto sempre a perdonare, non esistono peccati (tranne quello contro lo Spirito Santo) che Egli non possa perdonare nella Sua grazia. In conclusione, si può benissimo applicare il detto della Scrittura: Chi copre le sue colpe non prospererà, ma chi le confessa e le abbandona otterrà misericordia (Proverbi 28:13).

PS: Se ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo prontamente
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