Domenico34 – donne nenzionate nella Bibbia – Capitolo 1. DONNE NOMINATE NELL’A.T.

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Domenico34
00lunedì 4 luglio 2011 00:12

PRIMA PARTE


Capitolo 1




DONNE NOMINATE NELL’A.T.


DA GENESI A 2° SAMUELE

[DIM=13pt[Nota introduttiva

La trattazione delle donne nell’A.T., sarà eseguita in l’ordine alfabetico. Siccome le donne menzionate nell’A.T., quelle cioè che hanno un nome, sono tante, per non rendere il capitolo troppo lungo, abbiamo pensato di dividere il materiale in due sezioni. Nel primo capitolo, compariranno donne menzionate da Genesi a 2° Samuele. Mentre nel secondo (capitolo), saranno ricordate quelle che ricorrono dal 1° Re a Malachia.

ABIGAIL (I)

Il significato del suo nome è: forse padre dell’entusiasmo. Viene menzionata in (1 Samuele 25:3,14,18,23,32,36,39,40,42; 27:3; 30:5; 2 Samuele 2:2; 3:3; 1 Cron. 3:1). Quest’ultimo riferimento l’ho inserito, perché qui si tratta della stessa persona, di cui parlano i testi di 1° e 2° Samuele.

A partire da 25:3-36, Abigail viene presentata come la moglie di Nabal, mentre negli altri restanti testi, viene indicata come la moglie di Davide. Questo, naturalmente, avvenne dopo la morte di Nabal. Di Abigail, si può dire tanto, per il fatto che il testo biblico traccia la sua storia, mettendone in risalto le sue buone qualità, attraverso il comportamento che assunse, in una situazione difficile causata dal marito. Da (25:3-36), si parla di Abigail, come della moglie del ricco Nabal. L’autore del racconto biblico, non ha ritenuto opportuno tramandarci notizie intorno alla sua discendenza; di conseguenza, non si conoscono i suoi genitori.

Le buone caratteristiche di Abigail

Quest’uomo si chiamava Nabal, e il nome di sua moglie era Abigail, donna di buon senso e di bell’aspetto; ma l’uomo si comportava con durezza e con malvagità; discendeva da Caleb (v. 3).

Questo verso mette in evidenze, sia le buone caratteristiche di Abigail come anche il carattere di Nabal. Venuto a sapere che Nabal stava tosando le pecore, Davide

gli mandò dieci giovani, ai quali disse: «Salite a Carmel, andate da Nabal, salutatelo a nome mio,
e dite così: Salute! Pace a te, pace alla tua casa e pace a tutto quello che ti appartiene!
Ho saputo che hai i tosatori; ora, i tuoi pastori sono stati con noi e noi non abbiamo fatto loro nessuna offesa. Nulla è stato loro portato via per tutto il tempo che sono stati a Carmel.
Domandalo ai tuoi servi ed essi te lo confermeranno. Questi giovani trovino dunque grazia agli occhi tuoi, poiché siamo venuti in giorno di gioia; e da’, ti prego, ai tuoi servi e al tuo figlio Davide ciò che avrai fra le mani»
(vv. 4-8).

Rientrava nella logica che Davide si sarebbe aspettato una buon'accoglienza da parte di Nabal, e che lo stesso avrebbe mostrato generosità nei suoi confronti. Così, però, non è stato!

Dalla risposta che Nabal mandò a Davide, si può capire la durezza di quest’uomo e la sua malvagità.

Ma Nabal rispose ai servi di Davide, e disse: «Chi è Davide? E chi è il figlio d’Isai? Sono molti, oggi, i servi che scappano dai loro padroni!
Io dovrei prendere il mio pane, la mia acqua e la carne che ho macellata per i miei tosatori, per darli a gente che non so da dove venga?»
(vv. 10-11).

Quel crudo messaggio che Nabal mandò a Davide, non rispecchiava solamente l’ingratitudine di quest’uomo, ma era anche provocatorio, nel senso che avrebbe potuto spingere Davide a vendicarsi.

Non appena Abigail venne informata, delle parole che suo marito usò, nel trattare i messi di Davide, (da donna di buonsenso che era), capì subito che Davide avrebbe potuto facilmente vendicarsi. Perciò, non indugiò ad intervenire!

Quando Abigail ebbe visto Davide, scese in fretta dall’asino e gettandosi con la faccia a terra, si prostrò davanti a lui.
Poi, gettandosi ai suoi piedi, disse: «Mio signore, la colpa è mia! Permetti che la tua serva parli in tua presenza e tu ascolta le parole della tua serva!
Ti prego, mio signore, non far caso di quell’uomo da nulla che è Nabal; poiché egli è quel che dice il suo nome; si chiama Nabal e in lui non c’è che stoltezza; ma io, la tua serva, non vidi i giovani mandati dal mio signore.
Ora dunque, mio signore, com’è vero che vive il SIGNORE e che anche tu vivi, il SIGNORE ti ha impedito di spargere sangue e di farti giustizia con le tue proprie mani. I tuoi nemici e quelli che volessero fare del male al mio signore, siano come Nabal!
Adesso, ecco questo regalo che la tua serva porta al mio signore; sia dato ai giovani che seguono il mio signore.
Ti prego, perdona la colpa della tua serva, poiché per certo il SIGNORE renderà stabile la tua casa perché tu combatti le battaglie del SIGNORE e in tutto il tempo della tua vita non si è trovata malvagità in te.
Se mai sorgesse qualcuno a perseguitarti e ad attentare alla tua vita, la vita del mio signore sarà custodita nello scrigno dei viventi presso il SIGNORE, il tuo Dio; ma la vita dei tuoi nemici, il SIGNORE la lancerà via, come dall’incavo di una fionda.
Quando il SIGNORE avrà fatto al mio signore tutto il bene che ti ha promesso e ti avrà stabilito come capo sopra Israele,
il mio signore non avrà questo dolore e questo rimorso di avere sparso del sangue senza motivo e di essersi fatto giustizia da sé. Quando il SIGNORE avrà fatto del bene al mio signore, ricordati della tua serva»
(vv. 23-32).

Nel testo riportato, emergono gli elementi delle buone caratteristiche che Abigail possedeva. L’intuito che lei ebbe, di un’azione vendicativa di Davide, rispondeva a verità. Infatti, ricevuta la risposta di Nabal, Davide con i suoi quattrocento uomini, preparò un’azione di forza, con la precisa determinazione di sterminare tutto quello che apparteneva a Nabal (v. 22).

La tempestività con cui Abigail agì, impedì a Davide di vendicarsi, di spargere sangue e farsi giustizia con le sue mani (v. 26).

Con il suo levarsi, Abigail manifestò la grande umiltà che caratterizzava la sua vita, non solamente col prostrarsi davanti a Davide con la faccia a terra, ma anche con l’addossarsi la responsabilità del male compiuto da suo marito. Le parole che pronunciò davanti a Davide: Mio signore, la colpa è mia! (v. 24), mettono in evidenza la sua vera umiltà!

Il racconto si conclude nel riferirci che, Davide non insistette nella sua determinazione di eliminare la famiglia di Nabal, e, dopo la morte dello stesso, Abigail, diventò sua moglie.

Lezioni importanti da imparare

Da quello che è stato esposto, brevemente, possiamo imparare le seguenti lezioni pratiche di vita cristiana.

1. Davanti ad una minaccia, specie quando si ha la certezza che potrebbe accadere qualcosa di sgradevole e di luttuoso, non bisogna temporeggiare; si deve agire subito, con prontezza e rapidità, senza rimandare ad un prossimo domani. Un temporeggiamento, potrebbe aprire la porta ad una tragedia di proporzioni catastrofiche, con conseguenze inimmaginabili. Se vediamo una persona che sta annegando, l’unico modo per tentare il salvataggio, è gettarsi subito nell’acqua, senza perdere tempo. Un attimo di ritardo, potrebbe determinare la sua morte.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00martedì 5 luglio 2011 00:15
2. La vera umiltà, non rimane nell’anonimato, cioè nascosta nei sentimenti e nelle intenzioni; si rivela nella vita pratica con l’assumere atteggiamenti che non lasciano posto all’equivoco. Addossarsi la responsabilità di una colpa, di uno sbaglio che un altro ha commesso, è la migliore evidenza della vera umiltà. La natura umana tende sempre ad incolpare gli altri, e non riconosce la propria colpevolezza. L’umiltà, non solo trova il coraggio per riconoscerla, ma trova anche la forza per confessarla, specie quando un simile atteggiamento mette in salvo la vita degli altri.

3. L’azione di addossarsi un male non fatto, non è manifestazione di debolezza, ma di alto senso di responsabilità. La spiritualità di una persona, non si misura dai torti che potrà subire, ma dalle colpe che si è disposti a caricarsi, per il bene degli altri.

L’esempio più mirabile, l’ha dato il nostro Signore, Gesù Cristo: lui giusto, immacolato, innocente, si è caricato di tutto il fardello del peccato umano. Questo fardello se lo caricò sul suo corpo, portandolo sulla croce. Lì, subì la pesante punizione della giustizia divina, allo scopo di portarci la salvezza e la riconciliazione con Dio. Infine, ricordiamoci, che il male non si vince con un altro male, bensì col bene (Romani 12:21).

ABIGAIL o Abigal (2)

Il significato del suo nome è: forse, padre dell’entusiasmo.

Era figlia di Nacas, sorella di Seruia e madre di Ioab.
Absalom aveva messo a capo dell’esercito Amasa, al posto di Ioab. Amasa era figlio di un uomo chiamato Itra, l’Ismaelita, il quale aveva avuto relazioni con Abigal, figlia di Nacas e sorella di Seruia, madre di Ioab (2 Samuele 17:25).

Di lei si parla solamente in questo brano. Siccome il testo biblico non fornisce nessun’altra notizia di questa donna, non si può aggiungere nient’altro di lei.

ABIAIL (1)

Il suo nome significa: padre della forza. Era madre di Suriel, discendente della famiglia di Merari.

Il capo delle famiglie discendenti da Merari era Suriel, figlio di Abiail. Essi avevano il campo dal lato settentrionale del tabernacolo (Numeri 3:35).

Della famiglia di Merari si afferma:
Alle cure dei figli di Merari furono affidati le assi del tabernacolo, le sue traverse, le sue colonne e le loro basi, tutti i suoi utensili e tutto ciò che si riferisce al servizio del tabernacolo,
le colonne del cortile tutto intorno, le loro basi, i loro picchetti e il loro cordame
(vv. 36-37).

In conformità a questi particolari che il testo sacro ci ha fornito, Abiail, che era la madre di Suriel, della famiglia di Merari, era addetta, assieme agli altri membri della famiglia, alla cura del tabernacolo. Le assi, le traverse, le colonne, le basi, le colonne del cortile, i picchetti, il cordame e tutti gli utensili del Tabernacolo, erano sotto la responsabilità di questa famiglia.

Quando gli Israeliti si spostavano da un luogo all’altro, secondo gli ordini di Dio, e il tabernacolo veniva smontato, l’incarico di rimontarlo, era affidato alla famiglia di Merari. Erano loro che dovevano fissare le basi, disporre le traverse, stendervi i vari teli, piantare profondamente i picchetti, collocare le colonne e tirare bene il cordame, perché il tabernacolo potesse reggersi e stare fermo.Era un lavoro che sicuramente compivano gli uomini. Le donne, rimanevano forse inoperose, solamente a guardare? Non è possibile pensarlo! Nulla c'impedisce di pensare che loro, facilmente prendevano i picchetti e li davano nelle mani di quelli che li avrebbero piantati; prendevano il cordame e lo consegnavano nelle mani di chi dovevano tirarlo bene.

Se poi pensiamo a tutti gli utensili, e a tutto ciò che si riferiva al servizio sacro, la logica non si oppone che le donne, partecipassero a questo lavoro. Quali pezzi del tabernacolo, o quali utensili avrà preso Abiail? Non si può specificare, ma neanche è pensabile che se ne stette con le mani in mano. Un piccolo servizio che è svolto nell’opera del Signore e per la gloria del Suo nome, anche se non è apprezzato dall’uomo, lo è sicuramente da Dio.

ABITAL

Una delle mogli di Davide. Madre di Sefatia (2 Samuele 3:4; 1 Cronache 3:3). Il motivo perché la citazione del cronista è stata inserita in questo capitolo, è per il fatto che qui si tratta della stessa donna.

ACSA

Il significato di questo nome è: Anello per la gamba o per la caviglia. Il suo nome è riportato in: (Giosuè 15:16,17; Giudici 1:12,13:1 Cronache 2:49). Il motivo dell’inclusione della citazione del cronista in questo capitolo, è perché qui si tratta della stessa donna. Acsa, figlia di Caleb, venne promessa in moglie,
a chi si sarebbe battuto per conquistare Chiriat-Sefer. Otniel, nipote di Caleb, la conquistò, e Caleb gli diede in moglie sua figlia Acsa.

Autorizzata dal marito di fare una richiesta particolare a suo padre, Acsa chiese a Caleb di darle un campo che avesse sorgenti d’acqua. La richiesta venne accolta, e, Caleb, diede a sua figlia, le sorgenti superiori e le sorgenti sottostanti (v. 19).

L’idea di avere per sua proprietà, sorgenti d’acqua, provenne da Acsa. Questo significa che lei si rese conto che, un terreno arido, senza acqua, non aveva tanto valore. Se invece, avesse avuto una sorgente d’acqua, lo stesso terreno, avrebbe avuto un valore superiore. Con l’acqua a disposizione, infatti, si possono coltivare ortaggi, irrigare piantagioni, annaffiare la sementa, con la prospettiva di avere una buona e abbondante raccolta.

L’acqua, nella Bibbia, spesse volte assume il significato dello Spirito Santo. La vita cristiana, senza la presenza dello Spirito Santo, è vuota ed arida. L’aridità, è sinonimo d'infruttuosità. È lo Spirito Santo, che rende fertile il terreno della nostra esistenza, da portare frutti abbondanti, alla lode e gloria di Dio!

ADA (1)

Il significato del nome è: ornamento, bellezza. Ricorre in Genesi 4:19,23; viene presentata come una delle mogli di Lamec.

Tenuto conto che di Ada non si hanno altre notizie, l’unico elemento su cui basare una riflessione cristiana, riguarda il significato del suo nome. Comincio con l’ornamento, per chiedere: che cos’è? Ecco la definizione linguistica, così come si rileva dal dizionario della lingua italiana.

«L’azione o anche il modo, la tecnica di ornare, di abbellire, di ingentilire o di rendere più maestoso e solenne, per lo più con l’aggiunta di elementi decorativi non strettamente essenziali.
Ciò che è impiegato nell’intento di rendere più attraente o anche più maestosa e più imponente una persona; abito, indumento, copricapo; accessorio, fibbia, borchia, ricamo di un capo di vestiario; gioiello, monile; acconciatura (anche con valore collettivo). Anche: modo di vestirsi, di acconciarsi, di truccarsi; abbigliamento, costume» [S. Battaglia, GDLI,(Grande Dizionario della lingua italiana), Vol. XII, pagg. 124-125].

Per spendere qualche parola di commento, si può prendere il testo di 1 Pietro, che dice:
Il vostro ornamento non sia quello esteriore, che consiste nell’intrecciarsi i capelli, nel mettersi addosso gioielli d’oro e nell’indossare belle vesti,
ma quello che è intimo e nascosto nel cuore, la purezza incorruttibile di uno spirito dolce e pacifico, che agli occhi di Dio è di gran valore.
Così, infatti, si ornavano una volta le sante donne che speravano in Dio, restando sottomesse ai loro mariti
(1 Pietro 3:3-5).

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Domenico34
00mercoledì 6 luglio 2011 00:13
A che cosa mira l’ornamento? A rendere più attraente ed affascinante il corpo umano, specie quello femminile.

«In 3:3-5 si vuole essere precisi sulla necessità particolare di essere ‘puri’. Si tratta di sapere qual è l’ornamento che si addice alle donne. La lettera con molta severità condanna ogni ornamento esteriore (3:3) ed esige la bellezza interiore (3:4s). Gli ornamenti esterni di cui si parla, sono esemplificati nel lusso dell’acconciatura, dei gioielli, dei costosi abiti alla moda, di cui troviamo un’illustrazione nella letteratura e nei monumenti all’epoca imperiale. Naturalmente solo i ceti superiori potevano permettersi questo lusso, e tra essi non vi erano certo molte spose cristiane. Quindi la critica della lettera è rivolta in genere all’opulenza del suo tempo, concordando in ciò col giudizio negativo e ammonitore di altri critici di allora e di prima» [K. Hermann Schelkle, Le lettere di Pietro. La lettera di Giuda, pagg. 158-159].

«Chi molto si preoccupa di acconciatura del corpo, poco si cura di perfezionare il proprio carattere morale; chi pensa ad attrarre lo sguardo degli uomini, poco si preoccupa di piacere a Dio» [E. Bosio, Le epistole Cattoliche, pag. 97].

Che cos’è la bellezza, (fisica, naturalmente)? Per rispondere a questa domanda si possono usare le parole di Salomone:

La grazia è ingannevole e la bellezza è cosa vana; ma la donna che teme il SIGNORE è quella che sarà lodata (Proverbi 31:30).

È vana, in confronto al temere il Signore, e non per ciò che riguarda i lineamenti di un corpo o il colore della sua pelle. A che vale, la bellezza fisica di un corpo, (non quell'artefatta, bensì quella naturale), quando il comportamento è riprovevole, sia davanti a Dio e anche davanti alla società? La lode che si potrà ricevere per la bellezza fisica, non ha eccessivo valore, in confronto al carattere di un equilibrato temperamento, alla gentilezza che si manifesta nei confronti degli altri, e, soprattutto, quando c’è stima, rispetto e amore per la vita del prossimo.

ADA (2)

Il significato del nome è: ornamento, bellezza. Ricorre in (Genesi 36:2). Di questa donna si può dire solamente che era una Cananea, figlia di Elon, moglie di Esaù.

AGAR

Alcune note biografiche della vita di Agar

Il nome di Agar viene menzionato nella Bibbia 15 volte, 13 dei quali nell’A.T., precisamente nel libro della Genesi e 2 volte nel N.T. esattamente in (Galati 4:24,25). Il suo nome significa fuga.

Di origine Egiziana (Genesi 16:1,3; 21:9). Probabilmente SARAI l’avrà presa al suo servizio, in occasione del suo soggiorno in Egitto (Genesi 12:10-20). Non si sa l’età che aveva, quando venne presa come serva da Abramo per SARAI e a quale famiglia appartenesse. Visse per tanti anni al servizio della moglie di Abramo. Da quello che leggiamo nel libro della Genesi, crediamo di percepire che Agar acquistò fiducia e buona simpatia presso la sua padrona. Un giorno, visto che SARAI era sterile e non poteva avere figli, questa la diede a suo marito come moglie, sperando che da lei potrebbe avere un figlio (16:3).

Il comportamento di Agar davanti ad una nuova situazione

Non appena Agar si rese conto che aspettava un figlio, guardò la sua padrona con disprezzo (16:4).

Ecco, un improvviso cambiamento di atteggiamento! Questo cambiamento di comportamento di Agar, però, non fu in bene ma in male. Dal punto di vista umano, Agar non manifestò nessun sentimento di gratitudine nei confronti della sua padrona. Se lei andò a letto con Abramo, non fu perché il suo padrone la sedusse, ma semplicemente perché la sua padrona le permise di unirsi con suo marito.

Sotto quest'aspetto, il comportamento ostile di Agar nei confronti di SARAI, non può essere giustificato per nessun motivo. Ma, allora, perché Agar agì in quel modo? Per dare la risposta a questa domanda, è necessario almeno farne altre tre.

1) Quando Agar uscì incinta, nacquero per caso in lei sentimenti di rivalità nei confronti della sua padrona?
2) Avrà forse pensato che Abramo, visto che lei aveva concepito da lui, avrebbe potuto cambiarle la sua posizione, da serva farla diventare padrona?
3) Il fatto stesso che SARAI era sterile e non poteva avere figli, e lei, Agar che aspetta un bambino da Abramo, avrà pensato che sarebbe diventata la moglie di Abramo?

Valutando queste domande, non è fuori della logica, se Agar avesse pensato in quel modo. Visto che Agar cambia bruscamente il suo comportamento nei confronti di SARAI, le nostre domande hanno un senso e una certa coerenza. Inoltre, il disprezzo con cui Agar guardava la sua padrona, venne causato dal fatto che lei aspettava un figlio, mentre SARAI non ne ha e neanche può averne.

La reazione di SARAI nei confronti di Agar

Data per certo che per SARAI c’era una seria minaccia di rivalità, essa non indugiò a parlarne con decisione a suo marito.

Sarai disse ad Abramo: «L’offesa fatta a me ricada su di te! Io ti ho dato la mia serva in seno e, da quando si è accorta d’essere incinta, mi guarda con disprezzo. Il SIGNORE sia giudice fra me e te».
Abramo rispose a Sarai: «Ecco, la tua serva è in tuo potere; falle ciò che vuoi». Sarai la trattò duramente e quella se ne fuggì da lei
(Genesi 16:5-6).

Le precise parole rivolte ad Abramo, specialmente le ultime Il SIGNORE sia giudice fra me e te, mettono in chiaro il pericolo di rivalità che cominciava ad apparire nella mente di SARAI.

Se Abramo non avesse agito subito, avrebbe confermato quello che SARAI temeva. Col mettere però nelle mani di sua moglie la vita della serva, Abramo, giustamente tranquillizzò sua moglie. La frase Sarai la trattò duramente, non specifica esattamente cosa venne fatto nei confronti di Agar. Avrà tentato di farla abortire? Probabilmente! La cosa certa è che Agar fu costretta a fuggire.

La fuga di Agar e l’intervento di Dio

L’angelo del SIGNORE la trovò presso una sorgente d’acqua, nel deserto, presso la sorgente che è sulla via di Sur,
e le disse: «Agar, serva di Sarai, da dove vieni e dove vai?» Lei rispose: «Fuggo dalla presenza di Sarai mia padrona».
L’angelo del SIGNORE le disse: «Torna dalla tua padrona e umiliati sotto la sua mano».
L’angelo del SIGNORE soggiunse: «Io moltiplicherò grandemente la tua discendenza e non la si potrà contare, tanto sarà numerosa».
L’angelo del SIGNORE le disse ancora: «Ecco, tu sei incinta e partorirai un figlio a cui metterai il nome di Ismaele, perché il SIGNORE ti ha udita nella tua afflizione;
egli sarà tra gli uomini come un asino selvatico; la sua mano sarà contro tutti, e la mano di tutti contro di lui; e abiterà di fronte a tutti i suoi fratelli».
Allora Agar diede al SIGNORE, che le aveva parlato, il nome di Atta-El-Roi, perché disse: «Ho io, proprio qui, veduto andarsene colui che mi ha vista?»
Perciò quel pozzo fu chiamato il pozzo di Lacai-Roi. Ecco, esso è tra Cades e Bered.
Agar partorì un figlio ad Abramo. Al figlio che Agar gli aveva partorito Abramo mise il nome d’Ismaele. Abramo aveva ottantasei anni quando Agar gli partorì Ismaele
(Genesi 16:7-16).

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Domenico34
00giovedì 7 luglio 2011 00:16
Non potendo più rimanere con SARAI, Agar fu costretta a fuggire dalla sua presenza. Questa nuova situazione, fu la conseguenza di un errato atteggiamento che Agar assunse nei riguardi della sua padrona. In materia di guai, spesso, se li procura l’uomo a motivo di certi comportamenti sbagliati. Il volere incolpare gli altri per certe tragedie che capitano, significa non riconoscere i propri errori.

Nella sua fuga, Agar, andò a finire in un deserto. Tutte le fughe conducono verso questi luoghi. Spesso nella vita pratica, s'incontra il deserto dell’avversità, della solitudine, dello sconforto e dello smarrimento. Grazie a Dio che, in questi luoghi, Egli incontra il fuggitivo. La domanda che l’angelo del Signore rivolse ad Agar fu: «Agar, serva di Sarai, da dove vieni e dove vai?» Agar rispose solo alla prima parte della domanda, cioè quella che riguardava la sua provenienza.

Per quanto concerneva la seconda parte, non diede nessuna risposta. Perché? La risposta è semplice! Perché, in effetti, lei non conosceva la sua destinazione. Il maggior numero delle persone che fuggono dalle responsabilità della vita, non conoscono dove vanno. Che dire poi dei tanti giovani che lasciano la casa dei loro genitori e fuggono lontani da loro? Forse pensano di trovare luoghi migliori, compagnie più affettuose e ambienti più tranquilli.

La loro delusione sarà grande, quando si troveranno nel deserto della solitudine, dello sconforto e dello smarrimento. Pensavano e credevano che avrebbero trovato un’oasi di pace e di serenità, invece si sono trovati a pascolare una mandra di porci (come la parabola evangelica, Luca 15:11-32).

L’esortazione dell’angelo del Signore ad Agar fu: «Torna dalla tua padrona e umiliati sotto la sua mano». In pratica queste parole volevano dirle due cose:

1) Riconosci che nel fuggire dalla tua padrona, hai commesso un errore.
2) Nel fuggire dalla tua padrona, hai voluto sottrarti alla sua autorità.

Il fatto stesso che Agar non replicò all’angelo del Signore e non giustificò la sua fuga, prova che accettò quello che le venne detto. Quando le persone cercano di giustificare il loro male, con la scusa di essere state offese, maltrattate e danneggiate, in pratica significa che vogliono evadere dalle loro responsabilità. Infine, visto che il racconto si conclude con il parlarci del parto e del nome che Abramo mise al figlio che Agar partorì, basta per provare che la faccenda venne sistemata.

Agar scacciata definitivamente da SARA, ma soccorsa da Dio

Il capitolo della storia di Agar si chiude definitivamente con il suo scacciamento. Abbiamo già accennato a quest'episodio, quando abbiamo parlato dello svezzamento d'Isacco. Fu, infatti, in quell’occasione che la sorte di Agar venne definitivamente chiusa.

Abrahamo [A cominciare da questa citazione, preferiamo chiamare il nome del patriarca, col il suo nome cambiato di Abramo in Abrahamo, come fa la Nuova Diodati, e non seguire la Nuova Riveduta che lo chiama Abraamo] si alzò la mattina di buon’ora, prese del pane e un otre d’acqua e li diede ad Agar, mettendoglieli sulle spalle con il bambino, e la mandò via. Lei se ne andò e vagava per il deserto di Beer-Seba.
Quando l’acqua dell’otre finì, lei mise il bambino sotto un arboscello.
E andò a sedersi di fronte, a distanza di un tiro d’arco, perché diceva: «Che io non veda morire il bambino!» E seduta così di fronte, alzò la voce e pianse.
Dio udì la voce del ragazzo e l’angelo di Dio chiamò Agar dal cielo e le disse: «Che hai, Agar? Non temere, perché Dio ha udito la voce del ragazzo là dov’è.
Alzati, prendi il ragazzo e tienilo per mano, perché io farò di lui una grande nazione».
Dio le aprì gli occhi e lei vide un pozzo d’acqua e andò, riempì d’acqua l’otre e diede da bere al ragazzo.
Dio fu con il ragazzo; egli crebbe, abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco.
Egli si stabilì nel deserto di Paran e sua madre gli prese per moglie una donna del paese d’Egitto
(Genesi 21:14-21).

Visto che di Agar abbiamo parlato abbastanza, non ci resta altro di occuparci dell’intervento di Dio a favore di suo figlio Ismaele. Il fatto che Dio dica d'Ismaele farò di lui una grande nazione, prova che anche per questo figlio di Agar, c’èra un piano divino da portare a compimento.

Fin che c’era acqua nell’otre, Agar con il figlio continuò ad errare per il deserto di Ber-Sceba. Ma quando questa terminò, il fanciullo venne lasciato sotto un cespuglio e la madre si allontanò per non vederlo morire. A questo punto entra in azione Dio! Non fu solamente Agar che pianse; anche il figlio alzò la sua voce. Nel rivolgere la parola ad Agar, Dio fa riferimento di aver ascoltato la voce del ragazzo, mentre a lei si limita a chiederle: Che hai, Agar?

Che cosa avrà detto Ismaele quando alzò la sua voce, non ci viene detto. Quello che allo scrittore sacro interessa farci conoscere, è che il Signore ascoltò quella voce. Il Signore ha sempre ascoltato e sempre ascolterà, la voce di coloro che specialmente si rivolgono a Lui! Nell’udirla, Egli verrà incontro per aiutarli (Salmo 50:15).

L’esortazione che Dio rivolse ad Agar fu: Alzati, prendi il ragazzo e tienilo per mano. Volendo significarle: di non continuare a lasciarlo solo; tienilo vicino a te. Solo e lontano da te, potrebbe scoraggiarsi e venir meno. Ma vicino a te, preso con la tua mano, verrà incoraggiato a continuare il cammino della vita. Gli occhi che Dio apre ad Agar per vedere un pozzo d’acqua, serve per farle riempire l’otre per dare da bere a suo figlio. Questo rappresenta un’ulteriore prova dell’interessamento di Dio per Ismaele.

I pozzi d’acqua per levare la sete, si potranno utilizzare, solo quando Dio aprirà gli occhi per vederli. Nel deserto di questo mondo c’è tanta aridità e mancanza di vera felicità. Ci sono tanti che stanno morendo per mancanza dell’acqua della vita. Gesù è il vero pozzo d’acqua che non si esaurirà mai.

Gesù disse alla sanaritana: «Chiunque beve di quest’acqua avrà sete di nuovo;
ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una fonte d’acqua che scaturisce in vita eterna»
(Giovanni 4:13-14).

Nell’ultimo giorno, il giorno più solenne della festa, Gesù stando in piedi esclamò: «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva.
Chi crede in me, come ha detto la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno».
Disse questo dello Spirito, che dovevano ricevere quelli che avrebbero creduto in lui; lo Spirito, infatti, non era ancora stato dato, perché Gesù non era ancora glorificato
(Giovanni 7:37-39).

Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni». E chi ode, dica: «Vieni». Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda in dono dell’acqua della vita (Apocalisse 22:17).

Sara ed Agar nel pensiero di Paolo

Queste cose hanno un senso allegorico; poiché queste donne sono due patti; uno, del monte Sinai, genera per la schiavitù, ed è Agar.
Infatti, Agar è il monte Sinai in Arabia e corrisponde alla Gerusalemme del tempo presente, che è schiava con i suoi figli
(Galati 4:24-25).

La trattazione che Paolo fa di Sara e di Agar nella sua epistola ai Galati, mira a confutare quelli che vogliono essere sotto la legge. Il problema che c’èra nella comunità dei Galati, era grosso e complicato, nel senso che molti sostenevano la necessità di osservare la legge di Mosè.

Non si trattava semplicemente di sostenere il cerimoniale mosaico, si trattava, invece, di far dipendere la salvezza dall’osservanza della legge. Una simile posizione non poteva essere accettata, per il semplice fatto che rendeva vana l’opera compiuta da Cristo sulla croce. La fede in Cristo, è elemento essenziale per la salvezza. Senza la fede, l’uomo non potrà mai arrivare ad appropriarsene.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00venerdì 8 luglio 2011 00:14
La corrente che sosteneva l’osservanza della legge mosaica, specialmente il rito della circoncisione, tendeva a mettere da parte l’opera di Cristo. Visto che il vero evangelo è potenza di Dio per la salvezza di ognuno che crede (Romani 1:16), ne consegue che non è possibile concepire la salvezza senza Cristo. L’argomentazione che l’apostolo Paolo fa su Sara ed Agar, mira a portare nuova luce alla mente dei fratelli, e, specialmente dei contestatari. La domanda posta all’inizio della sezione 4:21-31, è molto importante. Aiuta il credente a riflettere seriamente.

Ditemi, voi che volete essere sotto la legge, non prestate ascolto alla legge? (Galati 4:21).

Per Paolo, Sara ed Agar hanno un senso allegorico, cioè sono due patti; la prima, Sara, corrisponde alla Gerusalemme di lassù e la seconda, Agar, alla Gerusalemme del tempo presente. Sara con i suoi figli è libera, mentre Agar con i suoi figli è schiava. Definendo Agar il monte Sinai (chiaro riferimento alla legge di Mosè), coloro che la sostengono, sono privi della vera libertà dell’evangelo. La conclusione cui arriva Paolo, è chiara e convincente.

Ora, fratelli, come Isacco, voi siete figli della promessa.
E come allora colui che era nato secondo la carne perseguitava quello che era nato secondo lo Spirito, così succede anche ora.
Ma che dice la Scrittura? Caccia via la schiava e suo figlio; perché il figlio della schiava non sarà erede con il figlio della donna libera.
Perciò, fratelli, noi non siamo figli della schiava, ma della donna libera
(Galati 4:28-31).

AGGHIT

Una delle mogli di Davide e madre di Adonia (2 Samuele 3:4; 1 Re 1:5,11; 2:13; 1 Cronache 3:2). Le citazioni del libro dei Re e quella del cronista, sono state riportate in questo capitolo, perché si tratta della stessa persona.

ANA

Significa: prob. che ascolta, che accorda. Di lei si parla in (Genesi 36:2,14,18,24-25). Era la madre di Oolibama e figlia di Sibeon, l’Ivveo.
Avere un’attitudine ad ascoltare, è una buona cosa, specie quando si riferisce a Dio e alla Sua Parola.

ANNA (1)

Il suo nome significa: Grazia, favore. Di lei si parla in (1 Samuele 1:2-10,13,15,19-20,22,25-26; 2:1,21). Fu la moglie di Elcana e la madre del profeta Samuele. La storia di questa donna, così come lo scrittore sacro l'ha tramandata, è molto interessante e ricca d'insegnamenti per la vita cristiana. Vale la pena considerarla nei vari particolari.

Sterilità e amareggiamento di Anna

Anna, moglie di Elcana, era sterile, cioè, non poteva avere figli. A causa di questa sua condizione fisica, l’altra moglie che Elcana aveva, di nome Peninna, la mortificava continuamente, allo scopo di amareggiarla.

Peninna, senza dubbio, faceva riferimento al fatto che lei aveva figli, mentre Anna non ne aveva. A quei tempi, presso gli Israeliti, quando una donna sposata non aveva figli, era considerata come se si trovasse sotto la maledizione di Dio. Quindi, il disprezzo che subbiva, era talmente grande che a volte, non potendolo sopportare, essa non solo sfogava lo sconforto con il pianto, ma era anche facile ad abbandonarsi alla disperazione.

Non si può stabilire se l’azione di mortificare Anna, Peninna la svolgeva anche quand’erano a casa, o si limitava solamente quando erano a Silo, in occasione dei sacrifici che la famiglia offriva al Signore. Siccome il testo sacro specifica che Peninna compiva quell’azione, quando la famiglia andava a Silo, per adorare il Signore, ogni altra supposizione, c’è da metterla da parte. Se la famiglia di Elcana andava ogni anno per adorare il Signore e offrirgli dei sacrifici, era perché in quel luogo c’era l’arca di Dio e i sacerdoti, figli di Eli.

Anna veniva talmente amareggiata dalla sua rivale che, essa non solo rifiutava di mangiare, ma non dava neanche ascolto a suo marito, che le diceva:

Anna, perché piangi? Perché non mangi? Perché è triste il tuo cuore? Per te io non valgo forse più di dieci figli? (1 Samuele 1:8).

La preghiera di Anna

Poiché che Anna non riusciva a trovare conforto in seno alla famiglia, a causa del modo scortese che Peninna usava, essa preferì rivolgersi al Signore in preghiera, e sfogare il suo dolore davanti a Lui.

Lei aveva l’anima piena di amarezza e pregò il SIGNORE dirottamento.
Fece un voto e disse: «O SIGNORE degli eserciti, se hai riguardo all’afflizione della tua serva e ti ricordi di me, se non dimentichi la tua serva e dai alla tua serva un figlio maschio, io lo consacrerò al SIGNORE per tutti i giorni della sua vita e il rasoio non passerà sulla sua testa».
La sua preghiera davanti al SIGNORE si prolungava, ed Eli osservava la bocca di lei.
Anna parlava in cuor suo e si muovevano soltanto le sue labbra, ma non si sentiva la sua voce; perciò Eli credette che fosse ubriaca
e le disse: «Quanto durerà questa tua ubriachezza? Va’ a smaltire il tuo vino!»
Ma Anna rispose e disse: «No, mio signore, io sono una donna tribolata nello spirito e non ho bevuto vino né bevanda alcolica, ma stavo solo aprendo il mio cuore davanti al SIGNORE.
Non prendere la tua serva per una donna da nulla; perché l’eccesso del mio dolore e della mia tristezza mi ha fatto parlare fino ad ora».
Ed Eli replicò: «Va’ in pace e il Dio d’Israele esaudisca la preghiera che gli hai rivolta!»
(1 Samuele 1:10-17).

La Scrittura afferma che Anna aveva l’anima piena di amarezza. In quello stato d’animo, si rivolse al Signore in un pianto dirotto. Siccome il suo pianto non era comune, non era facile per l’uomo, valutarlo nella sua portata! Solo il Signore, che conosce i segreti dell’anima, lo valutò nella sua giusta dimensione. Il sommo sacerdote Eli, vedendo questa donna che pregava, muovendo solamente le labra, senza sentire le sue parole, espresse un giudizio severo nei confronti di Anna, prendendola addirittura per ubriaca. Perciò non esitò a dirle: Quanto durerà questa tua ubriachezza? «Va’ a smaltire il tuo vino!» (v. 14).

Che errore di valutazione commise Eli! In verità, i moti dell’anima e le espressioni di profondo dolore, li comprende solamente l’Onnipotente, al quale nessuna cosa sfugge. Dal severo giudizio che espresse il sommo sacerdote, Anna trovò il modo di rispondere: Non prendere la tua serva per una donna da nulla; perché l’eccesso del mio dolore e della mia tristezza mi ha fatto parlare fino ad ora (v. 16). Quelle parole, furono talmente toccanti e convincenti per Eli, tanto che egli, replicando, le disse: «Va’ in pace e il Dio d’Israele esaudisca la preghiera che gli hai rivolta!» (v. 17).

La preghiera di Anna esaudita

L’indomani lei e suo marito si alzarono di buon’ora e si prostrarono davanti al SIGNORE; poi partirono e ritornarono a casa loro, a Rama. Elcana si unì ad Anna, sua moglie, e il SIGNORE si ricordò di lei.
Nel corso dell’anno, Anna concepì e partorì un figlio, che chiamò Samuele; perché disse, l’ho chiesto al SIGNORE
(vv. 19-20).

Non si sa, se prima dell’evento narrato dal nostro testo, Anna aveva pregato Dio per avere un figlio, (come del resto facevano le donne ebree, quando non ne potevano avere). Tenuto conto che il racconto biblico tace, conviene considerare semplicemente quello che si legge. Il nostro passaggio precisa che, nel corso dell’anno, Anna concepì e partorì un figlio.

Questa è la prova dell’intervento del Signore, nel guarire la sterità di Anna! Se Dio non avesse guarito la sua sterilità, il concepimento non sarebbe stato possibile, di conseguenza, non ci sarebbe stato neanche il parto. Quando Dio esaudisce la preghiera di un suo figlio, concede quanto gli è stato chiesto.

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Domenico34
00sabato 9 luglio 2011 00:27
A volte una preghiera innalzata al Signore, riceve immediata risposta; mentre tante altre volte ritarda l’esaurimento. Qualunque possa essere stato l’andamento delle cose, è certo che il Signore non lascia nello sconforto un’anima, a tempo indeterminato. E, se Egli, dovesse ritardare, per un motivo che noi non riusciamo a comprendere, conviene ancorarsi fortemente alla fedeltà di Dio. Aspettare con la certezza che il Signore ci conceda, nella sua grazia, quanto gli domandiamo, è la cosa migliore che ognuno di noi possa fare.
Dopo lo svezzamento del bambino, (che di solito avveniva il secondo o al terzo anno), Anna portò il figlio, nella casa del Signore a Silo, in adempimento del suo voto (v. 24). Fu in quell’occasione che lei, poté dire al sommo sacerdote Eli:

«Mio signore! Com’è vero che tu vivi, o mio signore, io sono quella donna che stava qui vicina a te, a pregare il SIGNORE.
Pregai per avere questo bambino; il SIGNORE mi ha concesso quel che io gli avevo domandato.
Perciò anch’io lo dono al SIGNORE; finché vivrà, egli sarà donato al SIGNORE». E si prostrò là davanti al SIGNORE
(vv. 26-28).

Il Cantico di Anna

Nel cantico di Anna, c’è tutta la riconoscenza e la gratitudine che questa donna manifestò al Signore. La lirica delle sue parole, si assomigliano a quelle che pronunciò Maria, nel famoso Magnificat (Luca 1:46-55).

Allora Anna pregò e disse: «Il mio cuore esulta nel SIGNORE, il SIGNORE ha innalzato la mia potenza, la mia bocca si apre contro i miei nemici perché gioisco nella tua salvezza.
Nessuno è santo come il SIGNORE, poiché non c’è altro Dio all’infuori di te; e non c’è rocca pari al nostro Dio.
Non parlate più con tanto orgoglio; non esca più l’arroganza dalla vostra bocca; poiché il SIGNORE è un Dio che sa tutto e da lui sono pesate le azioni dell’uomo.
L’arco dei potenti è spezzato, ma quelli che vacillano sono rivestiti di forza.
Quelli che una volta erano sazi si offrono a giornata per il pane, e quanti erano affamati ora hanno riposo. La sterile partorisce sette volte, ma la donna che aveva molti figli diventa fiacca.
Il SIGNORE fa morire e fa vivere; fa scendere nel soggiorno dei morti e ne fa risalire.
Il SIGNORE fa impoverire e fa arricchire, egli abbassa e innalza.
Alza il misero dalla polvere e innalza il povero dal letame, per farli sedere con i nobili, per farli eredi di un trono di gloria; poiché le colonne della terra sono del SIGNORE e su queste ha poggiato il mondo.
Egli veglierà sui passi dei suoi fedeli, ma gli empi periranno nelle tenebre; infatti, l’uomo non trionferà per la sua forza.
Gli avversari del SIGNORE saranno frantumati; egli tonerà contro di essi dal cielo; il SIGNORE giudicherà l’estremità della terra e darà forza al suo re; innalzerà la potenza del suo unto»
(2:1-10).

Riflessioni per la vita pratica

La storia di Anna, così com'è stata brevemente commentata, ci permette di fare alcune riflessioni.

1. Quando c’è il disprezzo, da qualsiasi parte venga e per qualsiasi motivo, non c’è mai da elogiarlo. Quest'atteggiamento denota, per chi lo pratica, di non conoscere il valore del sentimento compassionevole, verso gli altri. Chi vede qualcuno in condizioni disaggiate, a causa di un difetto fisico, non c’è da farsi meraviglia, e, contemporaneamente esprimere sentimenti di antipatie e di severi giudizi. Un linguaggio sprezzante, non ha mai aiutato chi soffre, anzi lo rende più penoso e aumenta il travaglio e l’angoscia.

2. La solidarietà che si manifesta verso qualcuno che non ha quello che vorrebbe, aiuta la persona a non disperare, ma lo incoraggia a non perdersi d’animo e a non perdere la speranza. Le cose possono cambiare facilmente, come spunta sull’orizzonte il sole che illumina il sentiero oscuro, così ritorna la calma dopo la tempesta. Chi pratica la solidarietà verso gli altri, non solo si adopera per il bene, superando ogni umana incomprensione, ma spiana anche il sentiero di una vita umana, per ciò che riguarda il futuro.

3. Nei momenti di grandi dolori, d'incomprensioni, di scoraggiamenti, di angoscia e di disprezzo, l’unico posto per sentirsi ristorato e confortato, è andare al Signore, in preghiera, il quale sa ben capirci. Davanti a Dio, qualunque sia il problema, ci si può sfogare, certi di trovare sollievo e conforto, per continuare il cammino della vita. Anche se a volte, Dio permette certe circostanze nella nostra vita (che non sempre sappiamo comprenderle), tuttavia, quando viene implorato con tutta la forza dell’anima, sarà difficile che Egli rimanga indifferente.

4. I giudizi avventati e severi, che a volte si formulano nei confronti degli altri, spesso sono il risultato di preconcetti e di scarso discernimento. Tutto ciò che si basa su quello che vede o sente, non è sempre scevro da accortezza; a volte può essere anche il risultato di precipitose valutazioni. Giudicare una persona, secondo quello che si vede, è molto rischioso, perché spesso non rispecchia la realtà della situazione.

5. Quando Dio viene incontro ad un bisogno, il duolo viene cambiato in sorriso, l’angoscia in conforto e il pianto in canto di lode al Signore. Per chi sperimenta la fedeltà di Dio, non mancheranno motivi di esprimere sentimenti di riconoscenza e di gratitudine, per quello che si riceve dalla mano di Dio. Sarà sempre un piacere parlarne, perché altri, potranno ricavarne beneficio, ed essere ispirati, verso traguardi di soddisfazioni e di godimento.

AINOAM (1)

Il suo nome significa: Fratello di grazia. È menzionata in (1 Samuele 14:50). Era la moglie di Saul e la madre di Aimaaz.

AINOAM (2)

Significato del nome: Fratello di grazia. Si parla di lei in (1 Samuele 25:43; 27:3; 30:5; 2 Samuele 2:2; 3:2; 1 Cronache 3:1). La citazione del cronista è riportata in questo capitolo, perché si tratta della stessa persona. Era una delle mogli di Davide e madre di Ammon, il quale nacque ad Ebron; proveniva da Izreel.

Da quando Ainoam diventò la moglie di Davide, seguì il marito nelle varie vicissitudini della vita. Non leggiamo di questa donna che si lamentasse nelle varie difficoltà che il marito incontrava. Fu una fedele moglie, nel senso che si mantenne vicino allo sposo, anche nel territorio filisteo, dove suo marito si era rifugiato, per sottrarsi alla cattura da parte di Saul, che lo voleva morto a qualsiasi costo.

Nella terra dei Filistei, Ainoam fece una delle più tragiche esperienze della sua vita. Fu fatta prigioniera da una banda di malviventi, assieme ad Abigail, l’altra moglie di Davide. È vero che in quell’ambiente non era sola: oltre ad esserci Abigail, c’erano anche le altre mogli degli uomini che seguivano Davide, con i loro figli.

Però, non era l’ambiente della sua casa, dove tutto si svolgeva in maniera diversa! Di che pensieri Ainoam è stata assalita nel tempo della sua prigionia, non si può dire. Avrà avuto pensieri di scoraggiamento, di abbattimento; avrà pensato anche che i malviventi, avrebbero potuto abusare di lei, violentandola fisicamente? Avrà avuto il tormento: chi sa se rivedrò mio marito?

Nell’immaginazione, tutto è possibile! Che cosa avrà provato, quando suo marito la liberò e la riportò a casa? Senza dubbio, la gioia di rivedere suo marito e di riabbracciarlo, sarà stato una delle naturali reazioni che questa donna avrà manifestato. Ad Ebron, finalmente, dopo un lungo pellegrinare, Ainoam ebbe la gioia di avere tra le sue braccia un figlio, avuto da Davide. In questo luogo, che non era la terra dei Filistei, ma quella d’Israele, Ainoam partecipò alla gloria di suo marito, visto che il suo regno ebbe inizio proprio ad Ebron.

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Domenico34
00domenica 10 luglio 2011 00:19
È sempre vero: dopo la tempesta, segue la bonaccia! Questo pensiero dovrebbe ispirarci ad avere maggiore fiducia in Dio, in quanto, Egli, che ha cominciato l’opera buona in noi, è lo stesso che la porterà a compimento (Filippesi 1:6).

ASELELPONI

Questi furono i discendenti del padre di Etam: Izreel, Isma e Idbas; la loro sorella si chiamava Aselelponi (1 Cronache 4:3).

Siccome il nome di questa donna ricorre solamente in questo testo del cronista, senza nessun’altra specificazione, non si può aggiungere nient’altro, se non includerla nel numero delle donne menzionate nell’A.T.

ASENAT

(dall’egiz. Snat, appartenente alla dèa Neith). Il suo nome ricorre in (Genesi 41:45-50: 46:20). Fu la moglie di Giuseppe, che faraone gli diede. Era figlia di Potifera, sacerdote di On. Partorì due figli a Giuseppe: Manasse ed Efraim.

Durante il tempo che Giuseppe visse in Egitto, come vice Re, con tutto l’onore di cui era cincondato, la responsabilità che aveva in funzione della carica che rivestiva, non si parla mai di Asenat. Di lei si parla solamente, per i due figli che partorì a Giuseppe. D’altra parte, siccome lo scopo dell’autore sacro era di parlare solo di Giuseppe e delle sue attività che svolse in Egitto, rientrava nella logica delle cose che si parlasse di Lui. Questo però, non significa che Asenat, come moglie di Giuseppe, non partecipasse alla grandezza e all’onore di suo marito.

BASMAT (1)

Il significato del suo nome è: fragranza, profumo. Fu una delle mogli che Esaù prese all’età di quant’anni. Basmat era Ittita, figlia di Elon. Il suo nome è ricordato in (Genesi 26:34; 36:10).

Siccome di Basmat, non si hanno altre informazioni, l’unico elemento di riflessione, si basa sul significato del suo nome. La prima osservazione che va fatta, riguarda l’età che aveva Esaù quando si sposò. Aveva quaranta anni. La stessa età di suo padre Isacco quando sposò Rebecca (Genesi 25:20; 26:34). In questo passaggio si precisa anche che le mogli Ittite che Esaù prese, furono causa di profonda amarezza per Isacco e per Rebecca.

Quanto è ben diverso quando un matrimonio di un figlio o di una figlia, è motivo di gioia per i genitori! Certo, in materia di matrimonio, bisogna evitare che i genitori impongano la loro volontà ai figli. Ma se il padre e la madre danno dei buoni consigli, i figli, faranno bene a non respingerli in blocco, senza passarli al setaccio di una ponderata considerazione. Se si considera il significato del nome di Basmat = profumo, si è portati a formulare qualche domanda su di lei. Che tipo di profumo emanava Basmat? Il comportamento che manifestava, certamente rivelava il suo carattere. Com’èra nei confronti dei suoceri, in maniera particolare? Era un profumo di affabilità, di rispetto, di simpatia, di sincerità?

Siccome la Bibbia tace, non si può formulare nessuna risposta. L’unico elemento che affiora dal testo biblico, è la profonda amarezza che provarono Isacco e Rebecca, per le mogli di Esaù. Su quest'elemento si può pensare che l’amarezza, non era costituita solamente dal fatto che due mogli erano Ittite, ma riguardava probabilmente il comportamento nei loro riguardi. Dal punto di vista generale, si può prendere in considerazione quello che lasciò scritto l’apostolo

Paolo, a proposito del profumo o del buon odore

Noi siamo infatti davanti a Dio il profumo di Cristo fra quelli che sono sulla via della salvezza e fra quelli che sono sulla via della perdizione;
per questi, un odore di morte, che conduce a morte; per quelli, un odore di vita, che conduce a vita. E chi è sufficiente a queste cose?
(2 Corinzi 2:15-16).

camminate nell’amore come anche Cristo vi ha amati e ha dato sé stesso per noi in offerta e sacrificio a Dio quale profumo di odore soave (Efesini 5:2).

Ora ho ricevuto ogni cosa e sono nell’abbondanza. Sono ricolmo di beni, avendo ricevuto da Epafròdito quello che mi avete mandato e che è un profumo di odore soave, un sacrificio accetto e gradito a Dio (Filippesi 4:18).

BASMAT (2)

Il nome significa: Fragranza, profumo. Il suo nome è menzionato in (Genesi 36:3,13). Era figlia d’Ismaele, moglie di Esaù e madre di Reuel. Non si sa se quest’altra moglie di Esaù, figlia d’Ismaele, sia stata causa di profonda amarezza per Isacco e per Rebecca, come per l'Ittita, Basmat figlia di Elon. Tenuto conto che il testo sacro tace, non si può elaborare nessun'ipotesi in merito.

BATH-SHEBA

Bath-Sceba significa: figlia di un giuramento. Di lei si parla in (2 Samuele 11:3; 12:24; 1 Re 1:11,15-16,28,31; 2:13,18-19). Ho riportato la citazione del primo libro dei Re, in questo primo capitolo, perché si tratta della stessa persona. Era figlia di Eliam, moglie di Uria, l’Ittita; in un secondo tempo divenne la moglie di Davide e madre di Salomone.

La storia di questa donna, si intrecciò con alcuni avvenimenti, che ebbero un impatto negativo nella vita di Davide. Si è parlato e scritto tanto intorno a Davide, il peccato di adulterio che egli aveva commesso con Bath-Sceba, e, in seguito per avere ordinato l’uccisione del marito Uria. Ma poco si è detto del ruolo che questa donna ha svolto, in tutta la faccenda che coinvolse in pieno la responsabilità di Davide.

Qualche osservazione sulla responsabilità oggettiva di Bath-Sceba

Il racconto biblico afferma che Bath-Sceba era una donna bellissima. Si precisa anche che una sera, dalla terrazza del palazzo reale, Davide la vide, mentre si faceva il bagno (2 Samuele 11:2). Questo particolare che il testo biblico fornisce, ci porta a pensare che la casa in cui abitava Bath-Sceba, non doveva essere lontana dal palazzo reale. Come fece Davide a vedere una donna che si faceva il bagno dentro casa? Sicuramente l’ambiente in cui la bellissima Bath-Sceba si lavava, doveva essere scoperto. Solo così si può spiegare che il re vide la bagnante.

A questo punto è d’obbligo fare una domanda: come mai Bath-Sceba, bellissima donna che era, non avrà pensato di mettere almeno un paravento dove si faceva il bagno, per non permettere a nessuno di vederla? Si bagnava solamente per lavarsi o anche per farsi vedere? Certamente lei non sapeva che in quella sera, ci sarebbe stato Davide, che, dalla terrazza del suo palazzo, l’avrebbe vista. Ma se l’ambiente in cui Bath-Sceba si faceva il bagno era scoperto, (come la logica ci porta a pensare), se non ci fosse stato Davide a vederla, ci sarebbe stato probabilmente qualcun altro.

Davide, non potendo controllare la sua eccitazione sessuale, ordinò che la bellissima donna gli venisse condotta nel palazzo reale. A questo punto bisogna tener presente che il marito di Bath-Sceba, Uria, era sul campo di battaglia con Ioab e che lei era sola in casa. Quando i messaggeri inviati da Davide arrivarono in casa di Bath-Sceba, e le comunicarono che il re la voleva presso di sé, la bellissima donna, davanti a quell’insolita richiesta, non chiese nessuna spiegazione, anzi si levò e andò nel palazzo reale.

In un primo momento Bath-Sceba, avrà pensato: se il re mi chiama presso di sé, forse avrà qualche particolare notizia da comunicarmi riguardante mio marito. Ma quando Davide le chiese di andare a letto con lui, la bellissima Bath-Sceba non si oppose, non fece nessuna resistenza, non le ricordò che una simile richiesta era contro la legge del Signore (Esodo 20:17) e non aggiunse neanche che lei, come donna sposata, non poteva permettere a Davide, di usarsela come sua moglie.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00lunedì 11 luglio 2011 00:13
Se si fosse obbiettato che Davide con la sua autorità, avrebbe potuto obbligare Bath-Sceba ad acconsentire al suo desiderio, e che lei non aveva nessun diritto di rifiutarsi, si potrebbe rispondere con il fermo e decisivo rifiuto di Nabot, alla richiesta di un altro regnante (1 Re 21:1-4).

Questo però, Bath-Sceba non lo fece, e nel darsi nelle mani di Davide, non solo acconsentì alla voglia insana del re, ma partecipò anche attivamente all’atto. Infine, si sa che, da quella relazione sessuale, Bath-Sceba, rimase incinta. Lo storico Giuseppe Flavio, parlando di quest'evento, riferisce:

«Divenuta incinta, mandò a chiedere al re che escogitasse una via per nascondere il peccato di lei — altrimenti, secondo la legge dei padri, come adultera, meritava la morte —» [G. Flavio, Antichità Giudaiche, VII[/c, 131 pag. 434].

La citazione dello storico Flavio, anche se non trova riscontro nel testo biblico, non è però in contrasto a rigor di logica.

Bath-Sceba come madre

Divenuta la moglie di Davide, e dopo la morte del bambino che Bath-Sceba partorì, frutto di quella relazione illecita, Davide consolò sua moglie entrò da lei e si unì a lei; lei partorì un figlio che chiamò Salomone (2 Samuele 12:24).

Dopo il suggerimento del profeta Natan, quando Adonia, figlio di Davide, tentò di appropriarsi il trono di suo padre, Bath-Sceba, si interessò per suo figlio Salomone, perché Davide suo marito, gli conferisse la successione al regno. Mentre Salomone regnava, Bath-Sceba, accettando una richiesta di Adonia, andò a parlare con suo figlio, perché concedesse a suo fratello, Abisag la Sunamita, come moglie. Con quest’ultimo intervento, si chiude la storia di Bath-Sceba. L’ultimo atto che lei compì, fu una chiara manifestazione di altruismo e di gentilezza, proveniente da un cuore di una mamma che veramente amava.

BILA

Serva di Rachele. Il suo nome è menzionato in (Genesi 29:29; 30:3-7; 35:22,25; 37:2; 46:25; 1 Cronache 4:29; 4:13). I testi de cronista sono riportati in questo capitolo, perché si tratta della stessa persona.

Rachele, vedendo che non riusciva ad avere figli, diede la sua serva Bila a suo marito, Giacobbe sperando che da lei, avrebbe avuto figli. La sua speranza non venne delusa, perché la sua serva partorì due figli: Dan e Nerftali

CHETURA

Incenso. Moglie di Abrahamo e madre di: Zimran, Iocsan, Medan, Madian, Isbac, e Suac (Genesi 25:1,4). Sara morì, a centoventisette anni. (Gennesi 23:1) Ciò vuol dire che Abrahamo ne aveva centotrentasette, visto che tra lui e sua moglie, c’era una differenza di dieci anni.

Isacco nacque, quando Abrahamo aveva cento anni. Paolo afferma che a quell’età, il suo corpo era reso come morto (Romani 4:19, N.D.) (sessualmente parlando). Ciò significa che quando Dio guarì la sterilità di Sara, che a novanta anni, non era più in grado di essere madre (Romani 4:19), Egli compì anche un miracolo nel corpo del patriarca, rendendolo nuovamente attivo, (sessualmente parlando). I sei figli che ebbe da Chetura, sono una prova, di quanto è stato affermato.

COGLA

Figlia di Selofead (Numeri 26:33; 27:1; 36:11; Giosuè 17:3).

COZBI

(Bugiarda). Madianita, figlia di Sur, capo della gente di una casa patriarcale in Madian. Uno dei figli d’Israele, di nome Zimri, figlio di Salu, condusse in mezzo al popolo Cozbi. E, sotto gli occhi di Mosè e di tutta la comunità dei figli d’Israele, si unì con lei. Fineas, figlio di Eleazar, mosso da una santa gelosia, con una lancia, mise a morte, i due fornicatori (Numeri 25:6-18)

IAEL

Capra selvatica. È nominata in (Giudici 4:17,18, 21-22; 5:6,24,27). Era moglie di Eber. Accolse presso la sua tenda Sisera, quando questi fuggì davanti all’esercito di Barac.

Dopo aver dato da bere del latte a Sisera, e messolo al riparo sotto la sua tenda, Iael, approfittando che Sisera si era addormentato profondamente, gli piantò un piuolo nella tempia, talché egli morì. Questo avvenne, in adempimento di quello che Debora aveva detto a Barac, quando gli preannunciò che il Signore avrebbe dato Sisera, nelle mani di una donna (Giudici 4:9). Inoltre, venne onorata nel canto che Debora compose, con le seguenti parole:

Benedetta sia fra le donne Iael, moglie di Eber, il Cheneo! Fra le donne che stanno sotto le tende, sia benedetta!
Egli chiese dell’acqua e lei gli diede del latte; in una coppa d’onore gli offerse della crema.
Con una mano prese il piuolo; e con la destra, il martello degli operai; colpì Sisera, gli spaccò la testa, gli fracassò e gli trapassò le tempie.
Ai piedi di Iael egli si piegò, cadde, giacque disteso; ai suoi piedi si piegò e cadde; là, dove si piegò, cadde esanime
(Giudici 5:24-27).

ISCA

Figlia di Haran e sorella di Milca (Genesi 11:29),

DEBORA (1)

Debora - la balia di Rebecca, moglie d’Isacco

Il significato del suo nome è ape. Nella Bibbia ci sono due donne che hanno questo nome: Debora, la balia di Rebecca e moglie d'Isacco (Genesi 35:8) e Debora la professa. Di lei si occupa il libro dei Giudici. Nel testo in cui si parla della decisione di Rebecca di andare col servo di Abrahamo, si precisa che Rebecca venne mandata con la sua balia (senza nominare il suo nome) (Genesi 24:59). Se (Genesi 35:8) non avesse fatto il nome della balia che aveva Rebecca, noi non conosceremmo il suo nome e neanche sarebbe inclusa nel numero delle donne che menziona questo libro.

Per quanto riguarda tutto il tempo che questa donna rimase a fianco con Rebecca, non ci viene raccontato niente di lei. Quindi, non sappiamo cosa ha potuto dirle Debora, durante il tempo della gravidanza, pensando agli spintoni che i due fratelli si davano nel grembo della mamma, e che sicuramente avranno procurato fastidio e fatto soffrire Rebecca.

Se poi pensiamo a tutta la faccenda di Giacobbe con suo fratello Esaù, riguardante la benedizione d'Isacco, evento che Rebecca svolge in esso un ruolo di primo piano, non possiamo pensare che Debora sia rimasta all’oscuro di tutta la faccenda. Però, dato che il racconto biblico non riferisce niente di lei, non è permesso formulare ipotesi, per cercare di spiegare il silenzio totale. L’unica informazione che si ha di Debora, riguarda la sua morte e la sua sepoltura.

DEBORA (2), la profetessa

Il nome della profetessa Debora, ricorre nel libro dei Giudici, dieci volte, è solamente in questa parte della Bibbia che si parla di lei. È molto interessante seguire la storia che ci è stata tramandata, così che si possa conoscere: il ruolo che questa donna svolse in mezzo al popolo d’Israele, i consigli che diede a Barac, per affrontare il nemico e il comportamento che assunse in quella circostanza.

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Domenico34
00martedì 12 luglio 2011 00:08
Si comincia coll’affermare che Debora, moglie di Lappidot, era giudice d’Israele. Con questa carica, ...i figli d’Israele salivano da lei per le controversie giudiziarie (Giudici 4:4-5). Lei non era solamente giudice, era anche profetessa, in vista di questo ministero, poteva anche amministrare la Parola del Signore.

Debora mandò a chiamare Barac, figlio di Abinoam, da Cades di Neftali, e gli disse: «Il SIGNORE, Dio d’Israele, non ti ha forse ordinato: Va’, raduna sul monte Tabor e prendi con te diecimila uomini dei figli di Neftali e dei figli di Zabulon?
Io attirerò verso di te, al torrente Chison, Sisera, capo dell’esercito di Iabin, con i suoi carri e la sua numerosa gente, e lo darò nelle tue mani»
(Giudici 4:6-7).

Il messaggio divino era abbastanza chiaro e rassicurante, in quanto c’era la promessa di una sicura vittoria. Siccome il messaggio che Debora comunicò, non rappresentava le sue parole, ma quelle del Signore, Barac avrebbe dovuto crederle, accettarle ed agire in conseguenza, senza frapporre nessuna forma di condizionale. Egli, però, non fece così! Le parole che Barac pronunciò, come risposta al messaggio divino: «Se vieni con me, andrò; ma se non vieni con me, non andrò» (v. 8), sono abbastanza significative da farci capire la sua posizione. Che in quel se, che Barac pronunciò, si nascondesse tutta la sua incertezza, non si deve fare tanta fatica per scoprirla!

«Barac appare sì come un uomo valoroso, ma piuttosto incerto sul da farsi, il quale non ha solo bisogno dell’esplicita parola di Dio che gli dà il primo impulso (4:6), ma anche della presenza della profetessa di Dio che evidentemente incarna per lui l’assistenza del sommo mandante (4:8). Si deve anche leggere con molta attenzione la risposta che Debora gli dà. L’atteggiamento di Barac comporterà che Dio dia la palma della vittoria invece che a lui, uomo, ad una donna: una predizione che dapprima riguardava Debora stessa, ma poi, in considerazione degli ulteriori avvenimenti, riguarderà Iael» [Hans Wilhelm Hertzberg, Giosuè, Giudici, Rut, pag. 275].

Se egli avesse creduto in pieno alle parole di Debora, non solo non avrebbe risposto in quel modo, ma avrebbe agito concordemente al volere di Dio. La risposta di Debora:

«Certamente, verrò con te; però, la via per questo cammino non ti porterà onori; perché il SIGNORE darà Sisera in mano a una donna» (v. 9),
è abbastanza chiara da farci comprendere che, quando non si ubbidisce in pieno al Signore, in quello che Egli ci comunica, non si potrà aspettare una piena benedizione. Se Barac avesse accettato in pieno la Parola del Signore, e fosse andato in battaglia contro l’esercito di Sisera, Dio gli avrebbe dato nelle mani quest’ultimo. La gloria di aver ucciso il capo dell’esercito di Iabin, non sarebbe andata ad una donna di nome Iael, ma sarebbe stata sua.

Ma perché Barac voleva la compagnia di Debora, in quella sua impresa? Solo perché quella donna era giudice d’Israele? Oppure: perché era profetessa? Non era l’incarico che Debora ricopriva, che assicurava la vittoria a Barac; era piuttosto Dio, tramite la Sua parola, che gli garantiva la vittoria. Gli uomini, per quanto dotati possono essere, come anche i più consacrati servitori del Signore, non saranno mai di garanzia per la nostra vittoria, sulle potenze del nemico. Il garante infallibile, per ogni nostra vittoria è e rimarrà sempre il Signore, il quale, non è venuto mai meno e mai lo verrà rispetto alla veracità della Sua Parola. Dobbiamo credere a Lui ed ancorarci fermamente alla Sua Parola!

Tenuto conto che Barac dipendeva da Debora, per le sue mosse, egli ha dovuto aspettare che la profetessa gli dicesse:

«Alzati, poiché questo è il giorno in cui il SIGNORE ha dato Sisera nelle tue mani. Il SIGNORE non va forse davanti a te?» (v. 14).

Il canto che venne intonato da Debora con Barac, a battaglia terminata, mise in evidenza che in Israele mancavano i capi, e che lei, Debora, era come una madre in Israele (5:7).

Infine, Barac, con i suoi diecimila uomini che confisse l’esercito di Iabin, non fu considerato l’eroe della circostanza, ma una donna, di nome Iael, che con un piuolo e un martello, uccise il capo dell’esercito Sisera. A lei vennero rivolte le parole più significative: Benedetta sia fra le donne Iael, moglie di Eber, il Cheneo! Fra le donne che stanno sotto le tende, sia benedetta! (v. 24).

DALILA

(Civetta, donna lusingatrice). Il nome di questa donna è menzionato in (Giudici 16:4,6,10-13,18). Era una Filistea e veniva dalla valle di Sorec. Attraverso le tattiche che metterà in atto, nei confronti di Sansone, si può comprendere che tipo di donna era Dalila. Il significato del suo nome, rispecchia esattamente il carattere e il comportamento che lei aveva

Visto che Sansone, s’innamorò di Dalila, i principi dei Filistesi, non persero tempo ad entrare in contatto con lei, per conoscere i segreti della forza di Sansone e prevalere su di lui. Con una buon'offerta di denaro, che i Filistei fecero, riuscirono a catturare l’attenzione di Dalila; e, lei, senza perdere tempo, entrò in azione. Nel suo primo intervento, chiese, a Sansone:

«Dimmi, ti prego, da dove viene la tua gran forza e in che modo ti si potrebbe legare per domarti». Sansone le rispose: «Se mi si legasse con sette corde d’arco fresche, non ancora secche, io diventerei debole e sarei come un uomo qualsiasi» (vv. 6-7).

Siccome Sansone non gli asserì la verità, Dalila ritornò a domandargli:
«Ecco, tu mi hai beffata e mi hai detto delle bugie; ora dimmi, ti prego, con che cosa ti si potrebbe legare».
Egli le rispose: «Se mi si legasse con funi nuove che non fossero ancora state adoperate, io diventerei debole e sarei come un uomo qualsiasi»
(v. 11).

Visto che, neanche la seconda volta, Sansone rivelò il segreto della sua forza, Dalila, senza darsi per vinta, continuò:
«Fino ad ora tu mi hai beffata e mi hai detto delle bugie; dimmi con che ti si potrebbe legare». Egli le rispose: «Se tesserai le sette trecce del mio capo con il tuo telaio» (v. 13).

Visto che neanche la terza volta, Sansone si aprì, per dichiararle la verità, Dalila, nella sua insistenza, adoperò l’arma del sentimento affettivo.
«Come fai a dirmi: Ti amo, mentre il tuo cuore non è con me? Già tre volte mi hai beffata, e non mi hai detto da dove viene la tua gran forza».
La donna faceva ogni giorno pressione su di lui con le sue parole e lo tormentava. Egli ne fu rattristato a morte
e le aperse tutto il suo cuore e le disse: «Non è mai passato rasoio sulla mia testa, perché sono un nazireo, consacrato a Dio, dal seno di mia madre; se mi tagliassero i capelli, la mia forza se ne andrebbe, diventerei debole e sarei come un uomo qualsiasi»
(vv. 15-17).

Questa volta Dalila, essendo certa che, il suo innamorato le aveva dichiarato la verità, trattò Sansone, come una mamma tratta un figlio. Se lo mise sopra le sue ginocchia, e, dondolandolo, riuscì a farlo addormentare. Una volta addormentato, le persone incaricate, non ebbero difficoltà a tagliargli i capelli.

Riflessioni su Dalila

1. Dalila fu una donna che si lasciò facilmente corrompere dal denaro. Se i Filistei non le avessero offerto una buona somma di denaro, forse lei, non avrebbe tradito il suo innamorato. Il denaro, ha sempre fatto presa nella vita delle persone! Spesso, addirittura li acceca e li rende insensibili! Riconoscendo che il denaro è utile per i vari bisogni, spesso però, diventa una trappola per l’uomo e lo induce, con il suo agire, a danneggiare il suo prossimo. Quando avviene ciò, si ha più rispetto per il denaro che per la vita di una persona.

2. Dalila non fu leale con Sansone, la sua insincerità, ci porta a dubitare del suo vero amore, per l’uomo di cui si era innamorato. L’amore vero, non è un semplice sentimento; è molto più di un puro sentimento affettivo. Non si limita ad una carezza, ad un abbraccio, ad un bacio, ma si manifesta nella donazione di sé stesso. Infine, l’amore sincero, non procura mai danni agli altri e non li getta sul lastrico.

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Domenico34
00mercoledì 13 luglio 2011 00:14
3. La troppa insistenza di chiedere una cosa, (mi riferisco alle cose terrene e non a quelle di Dio) non sempre è manifestazione d'interesse o di apprezzamento; spesso nasconde l’ipocrisia. Se Sansone avesse compreso che l’insistenza di Dalila di chiedere il segreto della sua forza, non era leale, egli non avrebbe ceduto facilmente.

4. L’atteggiamento adulatorio e ingannatore, rappresenta un serio pericolo per l’integrità di una persona. Se non c’è il discernimento dello spirito, si fa presto a cadere nel tranello di Satana. Finire nella trappola del diavolo, in pratica significa: perdere la propria consacrazione al Signore, con danno incalcolabile per la vita futura.

DINA

Dina, significa, giustizia. La storia di Dina, la figlia di Giacobbe, e della sua violentazione per opera di un’abitante di Sichem, viene narrata nel capitolo 34 della Genesi, con ricchi particolari. Non si sa quanto tempo è trascorso, da quando Giacobbe sistemò la sua famiglia nelle vicinanze della città di Sichem, e lo stupro che Dina subì, alla sua prima uscita, per vedere le ragazze del paaese. La figlia di Lea, ormai si è fatta grandicella, e, non è illogico pensare (come qualcuno ha fatto) che in quel tempo avesse dai quindici ai sedici anni di età, anche se il testo sacro non dice niente dell’età della ragazza quando venne violentata.

Se si considera che Dina nacque prima di Giuseppe (30.21) e che Giacobbe dopo la nascita di Giuseppe rimase con Labano altri sei anni (31.41), quando egli partì da Paddan-Aram, con la sua famiglia, Dina doveva avere circa otto anni. Aggiungendo a questi tutto il tempo del viaggio e la permanenza a Sukkoth (che sicuramente sarà stato di alcuni anni), si può arrivare all’età di cui sopra. Anche se non si può stabilire l’età esatta di Dina, non è sicuramente la ragazzina di otto anni che viene rapita e stuprata dal principe del paese.

Dina è cresciuta nell’ambito della sua famiglia con i suoi undici fratelli, e per tanti anni non aveva avuto contatti con l’ambiente esterno. Ora che la famiglia si è sistemata nelle vicinanze della città di Sichem, avrà espresso a sua madre (in modo particolare) il desiderio di voler fare conoscenze con le figlie del paese (34.1).

Il testo precisa che Dina uscì per vedere... Che in quella sua uscita ci fosse il desiderio di allacciare rapporti di amicizia con le ragazze della sua età, è sottinteso; mentre non si può dire lo stesso se in quella sua uscita vi fosse anche il desiderio di fare conoscenza con qualche ragazzo a scopo sessuale.

Il fatto stesso che Dina viene rapita e violentata alla prima uscita, ci porta a pensare che se lei, avesse immaginato quello che le è accaduto, non sarebbe facilmente uscita dalla sua tenda. Che Dina fosse una ragazza attraente e di bell'aspetto da essere facilmente desiderata dagli uomini, è normale pensarlo. Lo stesso principe del paese, il figlio di Camor, nel vederla per la prima volta, la rapì, si coricò con lei e la violentò, (v. 2), è un elemento che deve essere tenuto presente, per poter dare una giusta ed equilibrata interpretazione a tutto l’accaduto. Le tre parole che il testo riporta: rapì, coricò e violentò, c'inducono a formulare le seguenti domande.

Nel momento del ‘rapimento’, Dina si trovava sola in qualche parte della città o era in compagnia con altre ragazze della sua età? Quando il rapitore la portò a letto per coricarsi con lei, Dina si rese conto di quello che avrebbe fatto il suo sequestratore? Quando venne sottoposta ad essere ‘violentata’, cioè ad avere rapporti sessuali con l’uomo che stava accanto a lei, Dina avrà opposto resistenza, o avrà acconsentito (nel senso di partecipare con la sua volontà) ad avere rapporti sessuali? La scena dello stupro, si svolse pacificamente o sotto una minaccia?

Le quattro domande che abbiamo formulate, richiedono una risposta, e questa risulterà dal come inquadriamo tutta la vicenda. Siccome il testo sacro non ci aiuta a capire tutto quello che successe in quel giorno, e tanto meno le quattro domande che abbiamo formulato, dobbiamo allora usare un ragionamento coerente, anche se adoperiamo parole e concetti dei nostri tempi.

1) Nel momento del ‘rapimento’, Dina si trovava sola in qualche parte della città o era in compagnia con altre ragazze della sua età?

A questa prima domanda, (se Dina si trovava sola o in compagnia), non vi è alcun elemento nuovo per compiere un rapimento. Si sa, infatti, che, quando si vuol portare a compimento un ‘rapimento’, quelli che vengono incaricati, sanno come fare per portare a buon fine l’operazione. Se la persona che deve essere rapita si trovava ‘sola’, è logico che l’operazione sarà resa molto facile, mentre se si trova in compagnia con altri, essa richiederà una tattica diversa che, ugualmente andrà a buon fine.

Dal punto di vista obbiettivo, non è tanto importante stabilire se Dina si trovava sola o in compagnia al momento del suo rapimento: la risposta è valida sia per l’una come per l’altra.

2) Quando il rapitore la portò a letto per coricarsi con lei, Dina si rese conto di quello che avrebbe fatto il suo sequestratore?

Se si accetta che Dina al tempo del rapimento avrà avuto l’età dai quindici ai sedici anni, (per una donna che ha quegli anni, essa si trova già in uno stato di pubertà, salvo eccezioni, anche pensando ai tempi antichi,) vedersi portata a letto da un uomo, rientra nella logica pensare che Dina, senza dubbio, avrà compreso che il suo rapitore voleva passare una notte in effusione amorosa con lei. La risposta, quindi, è affermativa

3) Quando venne sottoposta ad essere ‘violentata’, cioè ad avere rapporti sessuali con l’uomo che stava accanto a lei, Dina avrà opposto resistenza, o avrà acconsentito (nel senso di partecipare con la sua volontà) ad avere rapporti sessuali?

Dare una risposta categorica, sia per un sì o per un no, non è facile. Se Dina fosse uscita altre volte, si avrebbero le ragioni, (almeno di pensare) che una certa partecipazione attiva non sarebbe da escludere. Siccome però, il rapimento a sfondo sessuale le accadde la prima volta che uscì per vedere le figlie del paese, non è tanto improbabile pensare che non ci sia stata la sua volontà, perché l’uomo che l’aveva portata a letto, avesse rapporti sessuali con lei.

4) La scena dello stupro, si svolse pacificamente o sotto una minaccia?

La quarta e ultima domanda, oltre a presentare una certa difficoltà a rispondere, sia che si pensi all’azione pacifica o che si sia svolta di fronte ad una minaccia, tutto dipende dal come si sono svolte le cose. Siccome il nostro testo precisa che Sichem (il nome del principe che violentò Dina) si legò con la sua anima a Dina, l’amò e parlò al suo cuore (v. 3), si è portati a chiedere se questi sentimenti li ha manifestati dopo il rapporto sessuale o prima.

Se li avesse manifestati prima, cioè avesse detto a Dina: non ti ho rapita solamente perché sono stato acceso dalla mia libidine, ma l’ho fatto con la precisa intenzione di volerti sposare. Non è infatti, difficile pensare che l’atto sessuale si sarebbe consumato pacificamente. Ma se li avesse manifestati dopo, è logico pensare ad una minaccia.

D'altra parte, se l’autore del nostro racconto, avesse avuto l’intenzione di narrarci un’azione di stupro, sicuramente avrebbe fornito gli elementi necessari per non dare un'errata interpretazione a tutto l’accaduto. Poiché il suo scopo era ben altro, si limita solamente a dirci quello che accadde in quel lontano tempo a Dina, e nello stesso momento farci conoscere come si comportò la famiglia di Giacobbe, in quella circostanza.

Affrontare l’argomento dello stupro, così come lo affrontano i giudici di questa terra, diremmo anche noi che nessuna violenza carnale potrà essere compiuta dall’uomo nei confronti della donna, se questa non è ‘consenziente’, cioè ‘partecipa’ attivamente. Infine, la costituzione anatomica della donna è tale, che l’uomo non potrà mai violentarla, se quest’ultima si oppone. Lasciando da parte la questione dello stupro in sé, occupiamoci piuttosto ad esaminare l’agire della famiglia di Giacobbe. Che l’uomo del nostro testo avesse avuto serie intenzioni per Dina, dopo avere avuto rapporti sessuali con lei di volerla veramente sposare, appare abbastanza chiaro, sia dal fatto che parlò al cuore della ragazza e la precisa richiesta che fece a suo padre nel chiedere quella fanciulla per sua moglie (v. 4).

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Domenico34
00giovedì 14 luglio 2011 00:19
Facendo un confronto con un altro racconto biblico, tra Amnon e Tamar (2 Samuele 13.1-15), si può subito vedere che in Amnon c’era solamente un sentimento ‘passionale’, nel senso che quello che egli fece, stuprando sua sorella Tamar, mirava a soddisfare i suoi desideri carnali, mentre quello che manifestò Sichem nei confronti di Dina, non fu solamente un certo voler ‘riparare’ il danno fatto, ma soprattutto una decisa volontà a volerla come sua legittima moglie.

Infatti, se il suo ‘rapimento’, avesse avuto solamente lo scopo di soddisfare i suoi istinti sessuali, per la posizione che egli aveva, quale ‘principe della città’, egli non avrebbe avuto nessuna difficoltà a dimenticare Dina e non chiederla quale sua sposa.

La notizia dello stupro di Dina arriva a Giacobbe

Che la triste notizia dello stupro di Dina sia arrivata a Giacobbe, viene chiaramente affermato dal nostro racconto, non ci viene però detto tramite chi. Sarà stato qualcuno dei sichemiti a rapportare a Giacobbe quello che era capitato a sua figlia Dina, oppure il padre stesso di Sichem, oppure la stessa figlia l’avrà confessato a sua madre e la mamma al marito?

Tutto è possibile per le varie ipotesi. Ai fini della nostra indagine, non ha tanta importanza sapere tramite chi Giacobbe venne a sapere dello stupro della figlia. Ora, siccome a noi interessa soffermarci sull’atteggiamento che assunse Giacobbe in quella particolare circostanza, tutte le altre cose che si potrebbero affacciare sulla scena dell’evento, hanno un puro valore accessorio.

Or Giacobbe udì che egli (Sichem) aveva disonorato sua figlia Dina; ma i suoi figli erano nei campi col suo bestiame, per questo Giacobbe tacque finché non furono tornati (v. 5).

La specificazione che fa il testo serve principalmente a puntualizzare che Dina fu stuprata da Sichem, figlio di Camor e non da un qualsiasi ragazzo della città. Il fatto che Giacobbe tacque davanti a quella triste notizia, non vuol dire che egli rimase indifferente, ma semplicemente non volle reagire separatamente dai suoi figli, dato che quest’ultimi, al momento della notizia, si trovavano nei campi col suo bestiame. Chi portò la notizia ai figli di Giacobbe, non lo sappiamo. L’insegnamento più semplice che si può ricavare da tutta questa storia è che: Nessuna cosa rimarrà segreta, secondo l’autorevole insegnamento di Gesù (cfr. Matt. 10.26).

Visto che lo stupratore ha confessato al proprio padre quello che ha fatto, tenuto conto che l’anima sua si era legata alla fanciulla che aveva violentata e che ha tutta la volontà di sposarla, l’incarico che affida al padre di chiedere a Giacobbe di dargli sua figlia Dina per moglie, rientra nella logica dei fatti. Infatti, Camor, rendendosi conto che suo figlio Sichem, non solo gli aveva confessato che già aveva avuto rapporti sessuali con Dina, ma che anche la voleva per sua legittima moglie, non trova nessuna difficoltà a parlarne a Giacobbe.

Che il colloquio inizialmente si sia svolto tra i due padri e successivamente davanti ai figli di Giacobbe, alla presenza dello stesso figlio Sichem, è detto chiaramente nei (vv. 6-12). Il padre di Sichem, da una parte, per dare più peso alla sua richiesta, propose alla famiglia di Giacobbe, di stabilire un patto di ‘alleanza’ con loro in modo tale che, non solo il caso specifico del proprio figlio abbia ad essere risolto, ma che anche i figli di Giacobbe avrebbero avuto la possibilità di scegliere per loro mogli, le figlie degli Hivvei, e che quest’ultimi avrebbero potuto prendere per mogli le figlie della famiglia di Giacobbe.

Inoltre, la famiglia di Giacobbe avrebbe avuto ampia libertà di ‘abitare’ in tutto il paese, di ‘commerciare’ e di ‘acquistare delle proprietà’. Dall’altra parte, cioè Sichem, per dimostrare la sua seria volontà di avere Dina per sua legittima moglie, è disposto a dare una qualsiasi dote o regalo, che i figli di Giacobbe vorranno imporgli (vv. 11,12). Da questi particolari si può ben capire che, sia Camor che il figlio Sichem, parlavano seriamente con la famiglia di Giacobbe.

Sembra strano che in questa specie di ‘trattativa’, Giacobbe se ne stia silenzioso e quelli che parlano siano i suoi figli. Ci viene da domandare: perché Giacobbe assunse quella posizione? In qualità di padre (specie in quei tempi, per ciò che riguardava il matrimonio), era lui che aveva l’ultima parola e determinava il matrimonio dei propri figli. Perché mai lascia ai figli di decidere? La sua era mancanza di coraggio o di debolezza?

Certo, se Giacobbe avesse saputo quello che c’era nell’animo dei suoi figli e quale piano essi si prefiggevano di eseguire per vendicare il disonore della propria sorella, egli avrebbe preso in mano la situazione, sarebbe stato lui a risolvere tutta la questione e lo spargimento di sangue sarebbe stato evitato.

La proposta dei figli di Giacobbe

Allora i figli di Giacobbe risposero a Sichem e a Camor suo padre e parlarono loro con astuzia, perché Sichem aveva disonorato Dina loro sorella, e dissero loro: «Non possiamo fare questa cosa, e cioè dare nostra sorella ad uno che non è circonciso, perché questo sarebbe per noi un disonore.
Soltanto a questa condizione acconsentiremo alla vostra richiesta: se voi diventerete come noi, facendo circoncidere ogni maschio tra voi.
Allora noi vi daremo le nostre figlie e ci prenderemo le vostre figlie, abiteremo con voi e diventeremo un sol popolo.
Ma se non ci volete ascoltare e non vi volete far circoncidere, noi prenderemo la nostra figlia e ce ne andremo».
Le loro parole piacquero a Camor e a Sichem, figlio di Camor.
E il giovane non indugiò a fare la cosa, perché voleva bene alla figlia di Giacobbe ed era l’uomo più onorato in tutta la casa di suo padre
(vv. 13-19).

Se il testo biblico non ci facesse conoscere tutto il retroscena di quello che accadde ai Sichemiti, dopo che i loro maschi vennero circoncisi, a seguito della proposta che i figli di Giacobbe hanno fatto, si potrebbe dare un senso diverso a tutta la faccenda. Inoltre, considerando le parole della proposta ...Noi prenderemo la nostra figlia e ce ne andremo, e, il giovane non indugiò a fare la cosa..., si capisce subito che Dina si trova già nella casa di Sichem e non è più sotto la sorveglianza della famiglia di Giacobbe.

Il fatto poi che Dina, in questa trattativa non dica nessuna parola (stando al testo biblico), ciò sta a dimostrare che lei era d’accordo che Sichem diventasse suo marito (cfr. Gen. 24.51,57-58). Infine, davanti al ragionamento-proposta dei figli di Giacobbe e il silenzio di quest’ultimo, non si può fare a meno di considerare il caso.

Una considerazione sul silenzio di Giacobbe

La prima considerazione che si è portati a fare, è il fatto che non si può giustificare il silenzio di Giacobbe, su una questione che riguardava la sua famiglia. Se Giacobbe si fosse trovato in uno stato di menomazione fisica, da non potere esercitare il suo ruolo di padre, il suo silenzio potrebbe essere giustificato e l’intervento dei figli apprezzato. Siccome, però, Giacobbe non si trovava in quello stato, il suo silenzio non può essere tollerato.

L’esperienza che egli aveva, (a cominciare dalla viva raccomandazione che i suoi genitori a suo tempo gli fecero di non prendere moglie dalle figlie di Canaan, (e gli Hivvei appartenevano a quel territorio) derivata dagli anni che portava sulle sue spalle, ciò avrebbe dovuto indurlo a far sentire il peso del suo intervento in quella critica situazione. Se egli avesse deplorato solamente con fermezza e senza mezzi termini che, quello che era stato fatto da Sichem e da sua figlia Dina (siamo persuasi che Dina in quella faccenda, ebbe la sua parte di responsabilità), e non avesse detto altro, la sua ferma posizione, avrebbe parlato meglio di ogni altra parola.

Pensando poi alla sua esperienza di vita religiosa e alla conoscenza di Dio che egli aveva, (cosa che non avevano i suoi figli, almeno in quel tempo), ciò avrebbe dovuto correggere i suoi figli, quando proponevano agli Hivvei, di diventare uno stesso popolo con loro. Sì, è vero che in quel tempo non esisteva il divieto del (Deuteronomio 7.1-3) riguardante il matrimonio con gli Hivvei da parte dei figli d’Israele, ma in base alla sua esperienza e alla sua conoscenza, Giacobbe avrebbe dovuto almeno opporsi a quel tipo di matrimonio, anche se sua figlia Dina si fosse rifiutata di accettare il suo consiglio.

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Domenico34
00venerdì 15 luglio 2011 00:18
Giacobbe in quella particolare circostanza venne meno nel suo ruolo di padre, per il suo silenzio davanti a un caso che lo riguardava da vicino.

Da quest'episodio, c’è tanto da imparare, a non commettere lo stesso errore di Giacobbe, naturalmente, ma piuttosto a prevenirlo. Infatti, se spostiamo il ragionamento e lo adattiamo ai nostri tempi e per la nostra generazione, ogni padre cristiano, che conosce la Parola di Dio, dovrebbe parlare chiaramente ai propri figli e far comprendere loro che un matrimonio che si contrae con gli stranieri (e per stranieri intendiamo quelli che hanno una fede diversa), porta con sé conseguenze disastrose dal punto di vista spirituale. Anche se è vero che non sempre ai nostri giorni i figli sanno ascoltare i buoni consigli dei genitori, in materia di matrimonio, almeno potranno dire in un domani (anche se lo diranno in se stessi): sono stato avvisato e messo in guardia da un possibile pericolo; non ho voluto ascoltare. Ho preferito persistere nella mia volontà e non ho tenuto in debito conto il fattore della fede.

Ritornando a Giacobbe con Dina, che in quel caso c’era lo stupro consumato, come si sarebbe dovuto risolvere quell'accidente e riparare il danno fatto? Non certamente con una strategia come quella che idearono i figli di Giacobbe, ma mettendo il soggetto (in questo caso Dina) davanti alla sua responsabilità e alla sua libera scelta. Il massacro che venne compiuto da Simeone e Levi, quando misero a fil di spada tutti i maschi della città, compreso Camor e il figlio Sichem, fu di gran lunga peggiore dello stupro che il principe del centro abitato fece nei confronti della loro sorella Dina.

Avranno riconosciuto i due figli di Giacobbe, il crimine che hanno commesso, quando fecero morire tanti innocenti? Avranno chiesto perdono a Dio, per il malfatto? Sì, è vero che Giacobbe non approvò l’azione violenta dei suoi figli (v. 30), ma dalla risposta che gli esecutori del delitto diedero al proprio padre: «Doveva egli trattare nostra sorella come una prostituta?» (v. 31), non trapela un minimo segno di pentimento e di rammarico per quello che hanno fatto. Quanto è diverso l’insegnamento di Gesù, quando si subiscono certi soprusi e danni!

Se uno ti costringe a fare un miglio, fanne con lui due (Matt. 5.41); Se qualcuno ti percuote su una guancia, porgigli anche l’altra; e chi ti toglie il mantello, non impedire di prenderti anche la tunica (Luca 6.29).

La vendetta non ha mai risolto i problemi sociali in mezzo all’umanità, li ha sempre inaspriti e complicati all’inverosimile. Infine, il male non si vince con un altro male, ma bensì col bene (cfr. Romani 12.21). Signore, aiutaci a vivere la nostra vita cristiana in mezzo a questa stolta e perversa generazione (Atti 2.40; e a risplendere come luminari nel mondo, tenendo alta la parola della vita (Fil 2.15). Amen!

EGLA

(Giovenca). Moglie di Davide e madre di Itream. Il nome di questa donna è riportato in (2 Samuele 3:5; 1 Cronache 3:3). La citazione del cronista è riportata in questo capitolo, perchè si tratta della stessa persona.

ELISABA

Dio del giuramento. Moglie del sommo sacerdote Aaronne, figlia di Amminadab, sorella di Naason (Esodo 6:23)

EVA

Eva, la prima donna che la Bibbia menziona

La prima donna che la Bibbia menziona è Eva, la moglie di Adamo.
Eva, (ebr. Havvâh), lett. vita (N.R.); donatrice di vita, secondo il Glossario della (N. D.), è riportato quattro volte nella Bibbia: due nell’Antico Testamento e due nel Nuovo Testamento.

I TESTI BIBLICI

L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché è stata la madre di tutti i viventi (Genesi 3:20).

Adamo conobbe Eva, sua moglie, la quale concepì e partorì Caino, e disse: «Ho acquistato un uomo con l’aiuto del SIGNORE» (Genesi 4:1).

Ma temo che, come il serpente sedusse Eva con la sua astuzia, così le vostre menti vengano corrotte e sviate dalla semplicità e dalla purezza nei riguardi di Cristo (2 Corinzi 11:3).

Infatti, Adamo fu formato per primo, e poi Eva (1 Timoteo 2:13).

«Si può essere quasi certi che il narratore ha collegato nel modo più stretto il termine hawwâ (Eva) con l’ebraico hâj, hâjjâ = vita. Nell’imposizione di questo nome alla donna da parte dell’uomo, si può ben vedere un atto di fede, certo non inteso come fede nelle promesse, che sarebbero state implicite nelle sentenze di punizione, ma un affermarsi alla vita, vista come un gran miracolo e mistero che la maternità della donna trasmette e conserva al di là della fatica e della morte» [G. Von Rad, Genesi, pag. 119; cfr. inoltre, T.C.M. in (NDEIDB) Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, pagg. 358-359. Per un maggiore approfondimento dei termini ebraici hâj, hâjjâ, cfr. l’articolo di H. Ringgren, in GLAT (Grande Lessico dell’Antico Testamente), Vol. 2, col. 926-950. Per quanto riguarda il termine hawwâ che Von Rad adopera per il testo di Genesi 3:20, c’è da precisare che questo termine non significa vita. Inoltre, si dice che il termine hawwâ, «compare 16 volte nell’A.T., è di solito collegato a uomini che sono infedeli e ribelli a Dio, che non vogliono adattarsi alle giuste norme che Dio ha stabilito, ma interpretano la legge in base ai loro malvagi desideri» (S. Erlandsson, GLAT, (Grande Lessico dell’Antico Testamente), Vol. 2, col. 405-407. Infine si afferma che «nel mandeismo assunse la forma Hawwâ, e nei testi manichei fu sostituito da Murdiyānagh» (Grande Dizionario Enciclopedico, UTET, Vol. VII, pag. 441].

Nonostante che in tutta la Bibbia ci siano solamente quattro testi che parlano di Eva, la storia di questa persona riveste una tale importanza, da meritare un approfondito esame. Anche se la prima volta il nome di Eva, si trova in Genesi 3:20, tuttavia si parla di lei da 2:22 fino a 3:16.

L’importanza di Eva non risiede semplicemente nel fatto che sia stata la prima donna-moglie-madre venuta all’esistenza, da lei tutto il genere umano, visto che è stata denominata madre di tutti i viventi, ma per il ruolo di primo piano che svolse negli eventi che seguirono. Gli avvenimenti non riguardano solamente la storia della nascita dell’umanità, ma investono diverse problematiche di portata universale, quali:

1) La tentazione;
2) il peccato, inteso come trasgressione del comando divino;
3) le sofferenze fisiche della gravidanza e del parto;
4) la morte fisica;
5) la morte spirituale, intesa come separazione da Dio e
6) l’espulsione dal luogo delizioso, il giardino di Eden. Tutto ciò, naturalmente, non è solamente un marchio indelebile che si è impresso nella vita di Eva; lei l’ha anche tramandato la vita di ogni essere umano, com'eredità dell’esistenza umana.

Davanti a questa precisa affermazione, la storia di Eva, quindi, deve essere analizzata in tutti i suoi elementi, a cominciare dalla sua comparsa sulla terra, e seguendo via via i vari percorsi che il testo biblico ci fornisce di lei.

La comparsa di Eva sulla terra

Eva è la sola donna al mondo che non abbia avuto una madre: Lei sarà chiamata donna perché è stata tratta dall’uomo (2:23). Mentre per tutti gli esseri umani venuti all’esistenza dopo di lei, non c’è nessuno che possa affermare di non avere avuto una madre. La comparsa di Eva sulla terra, è stata un’opera particolare che il Signore ha voluto compiere per portarla all’esistenza.

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Domenico34
00sabato 16 luglio 2011 00:11
Dal racconto biblico si sa che Dio fece addormentare profondamente Adamo, prima che eseguisse su di lui il suo intervento chirurgico. Visto che Dio doveva aprire il torace di Adamo per estrargli una costola, quel sonno profondo che cadde su Adamo, era necessario ai fini di non farlo soffrire. Agendo in questo modo, Dio si comportò nella stessa maniera come avrebbero fatto i chirurghi prima di eseguire un’operazione su un qualsiasi paziente. La sostanza che viene iniettata nel corpo del paziente, serve appunto per farlo addormentare in modo tale che il chirurgo possa eseguire il suo lavoro tranquillamente e portarlo a termine, e, nel frattempo, proteggere il paziente dal non fargli sentire i dolori dell’intervento.

Le stesse mani divine che in precedenza avevano formato Adamo, formarono anche la donna. Non c’è nessuna differenza per quanto riguarda l’opera di formazione; l’unica differenza che esiste riguarda la materia che Dio usò: per Adamo venne usata la polvere della terra, mentre per Eva la costola di Adamo.

Si discute perché Dio non estrasse dal piede o dal capo ma dal torace, quello che gli serviva per formare la donna Se Eva fosse stata formata dal piede, in pratica avrebbe avuto il senso del disprezzo e dell’inferiorità; mentre se fosse venuta dal capo, avrebbe potuto significare la sua superiorità sull’uomo. Ma avendo la sua origine dal torace, la donna-Eva veniva messa dal Creatore sulla stessa parità dell’uomo, con la caratteristica di amarsi l’uno con l’altro Più tardi l’apostolo Paolo affermerà che davanti a Dio non c’è nessuna differenza tra maschio o femmina (Galati 3:28).

La tentazione che Eva subì

È naturale domandarsi: perché il serpente tentò Eva e non Adamo? Si sa con molta certezza che nel parlare del serpente c’era il tentatore che si manifestava, cioè il diavolo. Per mezzo di questo rettile, infatti, Satana entrò in azione per far cadere in trasgressione Eva, la moglie di Adamo.

Conosceva il diavolo che Eva era un vaso più debole, secondo l’affermazione dell’apostolo Pietro? (1 Pietro 3:7) (N. Diodati). Inoltre, se il diavolo avesse attaccato Adamo con la sua tentazione per indurlo a trasgredire il comando divino, ci sarebbe riuscito? A rigore, stando al testo biblico, non si può rispondere alle due domande suesposte, per il semplice fatto che il testo sacro non dice niente in proposito.

Però, considerando obbiettivamente il detto di Pietro, non è assurdo e neanche contro la logica pensare che il diavolo conosceva la debolezza di Eva. Fino a che punto egli la conoscesse, certamente non si può stabilirlo. Neanche si può ammettere che Satana possa conoscere pienamente quello che l’apostolo Pietro avrebbe scritto tanti secoli più tardi, senza riconoscergli un attributo divino. Questo, naturalmente, non è possibile affermarlo. Considerando probabile che il tentatore conoscesse la debolezza della donna, possiamo approfondire la nostra riflessione per cercare di comprendere come si articolò tutta la tentazione.

Il racconto del terzo capitolo della Genesi, ci mostra il metodo che il diavolo usò per sedurre Eva, la progenitrice del genere umano. Nei primi due capitoli di questo libro, si descrive l’opera della creazione, compresa quella dell’uomo, quando Dio lo formò dalla polvere della terra.

Si afferma anche che Dio mise l’uomo che aveva formato nel giardino di Eden che Lui stesso aveva creato, ordinandogli che di tutti gli alberi che vi erano poteva mangiarne il frutto, tranne quello della conoscenza del bene e del male, perché nel giorno che ne avrebbe mangiato, certamente morirebbe.

Visto che Adamo era solo nel giardino di Eden, e che Dio considerò la solitudine una cosa che non sarebbe stata di giovamento per l’uomo, Egli pensò di dargli una compagna; così dalla costola di Adamo Dio formò una donna, Eva, la moglie di Adamo. A lei, sicuramente Adamo, avrà trasmesso il comando divino relativo alla proibizione di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Per quanto tempo questa coppia visse nel giardino di Eden mangiando solamente il frutto di ogni albero che c’era in quel luogo, non ci viene detto. Però, ad un certo momento, si racconta che il tentatore si presentò ad Eva, sotto la forma di un serpente, e, le prime parole che le rivolse furono:
«Ha DIO veramente detto: Non mangiate di tutti gli alberi del giardino?»
(ND) (3:1).

Siccome questa domanda fatta in quei termini non rispondeva a verità, in quanto Dio non aveva proibito di mangiare il frutto di tutti gli alberi del giardino, la donna rispose che si trattava solamente
del frutto dell’albero che è in mezzo al giardino perché Dio ha detto: Non ne mangiate e non lo toccate, altrimenti morirete» (v. 3).

La prima osservazione che s’impone d’obbligo è: perché ad Eva venne posta la domanda in quei termini? Non sarebbe stato meglio che la domanda riguardasse il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, poiché era del frutto di quell’albero che Dio aveva proibito?

Se il serpente avesse posto la domanda in quei termini, alla donna facilmente sarebbe venuto il sospetto, e la trama abilmente messa appunto dal tentatore, sarebbe stata scoperta, con il risultato di fallire il bersaglio. La prima pedina che il tentatore mosse sullo scacchiere, fu quella di aprire una conversazione (apparentemente innocua) con lo scopo di sedurre Eva.

Chiedere se Dio avesse veramente detto…, aveva lo scopo di seminare il dubbio nella mente della donna, così da fare apparire Dio, come uno che non asseriva la verità.

Se il diavolo non semina il dubbio nella mente e nel cuore dell’uomo, non gli sarà facile sedurlo; mentre con il dubbio in corpo, sarà molto facile raggiungere lo scopo, che è quello di fare sempre apparire Dio bugiardo. Infatti, quando l’uomo accetta per vero che non esistono verità assolute, (e ai nostri giorni ci sono tanti che hanno accettato questo) già si trova sul terreno del seduttore, che può svolgere la sua azione diabolica con la massima facilità, facendo credere la menzogna come se fosse verità.

Il serpente essendo riuscito ad aprire il dialogo con la donna, già si trova avantaggiato per muovere la prossima pedina. Con questa mossa, mira a scardinare l’autorità di Dio.

Il serpente disse alla donna: «No, non morirete affatto;
ma Dio sa che nel giorno che ne mangerete, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male»
(vv. 4-5).

Affermare che Adamo ed Eva non sarebbero morti, pur mangiando il frutto proibito, non significava solamente che quello che Dio aveva detto non era vero, ma mirava essenzialmente a scardinare la Sua Autorità. Se le persone sono certe che quello che loro credono e fanno è basato sull’autorità della Parola di Dio, per il diavolo non sarà facile sedurle.

Ma se egli riuscirà a convincere che la realtà è ben diversa di quanto l’uomo crede, per farlo crollare dalla sua fede in Dio e dal credere alla Sua Parola, l’astuto tentatore concentrerà tutte le sue forze contro la lealtà di Dio. Traducendo in termini pratici la risposta del serpente alla precisazione che gli fa la donna, il ragionamento potrebbe proseguire nel seguente modo. Vedi Eva, tu hai creduto fino ad oggi che, Dio è stato sempre veritiero in quello che Egli vi ha detto; però ti devo affermare che non è così, cioè non è affatto vero che nel giorno che tu e tuo marito mangerete il frutto, morirete. La realtà è ben diversa: non solo voi non morirete, ma addirittura

Dio sa che nel giorno che ne mangerete, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male» (v. 5).

Un simile ragionamento fu tanto efficace che la donna vi credette. Infatti, davanti alle parole persuasive del serpente, Eva non osò fare nessun’altra obbiezione. Questo ci dimostra che il serpente con la sua astuzia, riuscì a convincerla che, in fin dei conti Dio non gli asseriva sempre la verità e che Egli, addirittura, era geloso di loro, non volendo la loro emancipazione.

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Domenico34
00domenica 17 luglio 2011 01:08
Certo, il pensiero stesso di diventare come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male, fu talmente allettante per lei, da spingerla verso quella meta. Sapeva Eva l’esistenza del bene e del male? Probabilmente non aveva la minima idea cosa significavano! Per quanto riguardava il bene, lei poteva concentrare la sua ammirazione su tutto quello che la circondava in quel delizioso giardino; non poteva fare però lo stesso per quanto riguardava il male, perché non sapeva effettivamente cosa fosse.

Il serpente con le sue parole era riuscito, non solo a suscitare un forte interesse e desiderio nella donna, intorno a cose che addirittura non sapeva che esistessero, ma era anche riuscito a condurla sul terreno di farle sognare un mondo diverso di quello in cui viveva. È sempre questa la tattica del seduttore: far vedere le cose in maniera diversa dalla realtà!

Quanto durò la conversazione che il serpente fece con Eva? Stando alle parole che vennero dette da ambo le parti, durò pochissimo; probabilmente alcuni minuti. Però, da quella breve conversazione, il seduttore riuscì a convincere la donna e a proiettarla verso un futuro luminoso (così credeva Eva) senza rendersi minimamente conto che nel giro di poco tempo, avendo trasgredito l’ordine del Signore, sarebbe diventata lei stessa uno strumento per sedurre suo marito a mangiare il frutto proibito, e tutti due sarebbero stati cacciati fuori del giardino d’Eden e cominciare a sperimentare la loro vita di travagli e di sofferenza.

E questo è sempre vero per tutti i tempi e per qualsiasi persona. Quando l’essere umano si apre alla menzogna, l’accetta e rigetta a sua volta la verità, egli sperimenterà che invece di avere in bocca il dolce, ingoierà quel boccone che avvelenerà la sua esistenza, presente e particolarmente quella futura, cioè l’eternità. Infine, quando non si ha fiducia in quello che Dio dice nella Sua Parola, o peggio ancora si crede che Egli non affermi sempre la verità e che vuole privarci di raggiungere certi traguardi, si è già in mano del seduttore il quale non indugerà a condurre la persona sul sentiero della disubbidienza e a rifiutare l’autorità divina [D. Barbera, Quello che la Bibbia riferisce intorno a Satana.

Il peccato inteso come trasgressione del comando divino

Alla domanda: che cos’è il peccato? Si può rispondere con le parole dell’apostolo Giovanni, [CC]la violazione della legge
(si intende quella di Dio) (1Giovanni 3:4).

La trattazione del tema del peccato, non rientra nello scopo di questo libro. Se ne parliamo, lo facciamo solamente con riferimento a quello che fecero i nostri progenitori, Adamo ed Eva, quando trasgredirono il comando divino. Il loro peccato, naturalmente, non ebbe una ripercussione solamente sulla loro vita, ma si tramandò a tutta l’umanità. Quando non si tiene conto di quanto Dio comanda nella Sua Parola, non solo si manca di rispetto verso di Lui, ma si finisce anche col credere a quello che dice il tentatore. Un simile atteggiamento avrà senza dubbio serie ripercussioni nella vita delle persone, come l’ebbero in quelle di Adamo e di Eva.

Le sofferenze fisiche della gravidanza e del parto

Le parole che si leggono: «Io moltiplicherò grandemente le tue pene e i dolori della tua gravidanza; con dolore partorirai figli... (Genesi 3:16), sono le dirette conseguenze che Eva subì in sé, per avere trasgredito il comando di Dio.

Il fatto che Dio dica moltiplicherò grandemente... non significa che Eva sarebbe stata esente dai dolori e dalle pene della gravidanza e del parto, se non si fosse resa colpevole di trasgressione del comando divino, a proposito del divieto di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male.

Fin dal momento che Dio mise all’esistenza l’uomo, le parole che Egli pronunciò: Siate fecondi e moltiplicatevi (Genesi 1:28), prevedevano che nell’essere creato da Dio (prima Adamo e dopo Eva) ci sarebbero state le possibilità della riproduzione. Questo, naturalmente, sarebbe avvenuto attraverso veri rapporti sessuali che i due avrebbero avuto. Concepire, infatti, la nascita di altri esseri umani, senza che ci siano veri rapporti sessuali fra un uomo e una donna, è fuori della logica e non si accorda con la legge universale della riproduzione. A questo punto sorge una spontanea domanda: gli organi sessuali di cui erano dotati Adamo ed Eva, entrarono in funzione dopo che il comando divino venne trasgredito?

In accordo con quanto afferma (Genesi 4:1) Adamo conobbe Eva, sua moglie, la quale concepì e partorì..., sembra dover significare che le relazioni sessuali cominciarono dopo il peccato.

Se non ci fosse stato il peccato, Adamo ed Eva, sessualmente parlando, si sarebbero conosciuti? Se si rispondesse con un perentorio no, come si sarebbero potute adempiere le parole di Dio, siate fecondi e moltiplicatevi? Visto che la Parola del Signore è veritiera nelle sue affermazioni, è assurdo ammettere la necessità della trasgressione dei nostri progenitori, per renderli fecondi.

Visto che la riproduzione di Adamo e di Eva era prevista nei piani divini, come appare chiaramente dal testo biblico, Dio senza dubbio avrebbe mosso i nostri progenitori in maniera tale da spingerli ad agire per adempiere la Sua Parola.

Dall'altra parte, sostenere la necessità di commettere il peccato, per realizzare la nascita dell’umanità, in pratica equivarrebbe ad affermare che l’origine del peccato si trovava in Dio. Arrivare ad una simile conclusione, significherebbe frantumare la santità di Dio, l’onorabilità del Suo Nome e della Sua Parola.

Non aveva ragione Paolo quando affermava: Sia Dio riconosciuto veritiero e ogni uomo bugiardo? (Romani 3:4) Certamente!

Ritornando ad Eva, se lei non avesse abboccato all’amo della lusinga del serpente e si fosse mantenuta fedele alla Parola del Signore, non solo non sarebbe diventata uno strumento per indurre suo marito in trasgressione, ma neanche avrebbe subito nel suo corpo il moltiplicarsi dei dolori e delle pene della gravidanza e del parto. Avrebbe avuto sì, delle normali gravidanze e parti, ma senza subire l’asprezza dei travagli e delle pene causate dal peccato.

La morte fisica

Il comando divino affermava nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai (Genesi 2:17). Anche se è vero che nel giorno che Adamo ed Eva mangiarono il frutto proibito non morirono fisicamente, è altrettanto vero che con la loro trasgressione, fecero entrare la morte fisica nel creato, e, in conseguenza di ciò, tutta la discendenza dei nostri progenitori = L’umanità, è stata infettata dal virus micidiale della morte. È in questo senso che va intesa l’affermazione dell’apostolo Paolo.

Perciò, come per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato la morte, e così la morte è passata su tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato (Romani 5:12).

La morte spirituale

Se la morte fisica separa la persona dal mondo fisico e da tutto ciò che lo circonda, quella spirituale, invece, lo separa da Dio, cioè da quella relazione di comunione con Lui. Questo accadde esattamente nella vita dei nostri progenitori, quando trasgredirono il comando del Signore. Infatti, prima della loro trasgressione, la relazione di comunione tra loro e Dio, era perfettamente attiva, nel senso che quando il Signore si recava nel giardino d’Eden, Adamo ed Eva, non avevano nessun problema di comunicare con il loro Dio; pur essendo nudi, cioè senza vestiti addosso, non avvertivano nessun senso di vergogna. Quando però peccarono, trasgredendo il comando divino, non solo conobbero la loro nudità, ma avvertirono in loro anche il senso della vergogna, al sentire la voce del Signore che li chiamava. Questo, in ultima analisi, rappresenta la prova decisiva di quello che ha prodotto il peccato nella vita dei nostri progenitori, per quanto concerneva la relazione di comunione tra loro e Dio.

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Domenico34
00lunedì 18 luglio 2011 00:09
L’espulsione dal luogo delizioso

Siccome il comando divino non era stato rispettato da Adamo ed Eva, l’espulsione da quel giardino, il luogo delizioso in cui Dio li aveva messi quando furono creati, non poteva essere più evitata. Infatti, quello che si legge nella Bibbia è molto significativo:

Poi Dio il SIGNORE disse: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto alla conoscenza del bene e del male. Guardiamo che egli non stenda la mano e prenda anche del frutto dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre».
Perciò Dio il SIGNORE mandò via l’uomo dal giardino d’Eden, perché lavorasse la terra da cui era stato tratto.
Così egli scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino d’Eden i cherubini, che vibravano da ogni parte una spada fiammeggiante, per custodire la via dell’albero della vita
(Genesi 3:22-24).

Infine, per chiudere la parentesi su Eva, è necessario fare riferimento ai due testi del Nuovo Testamento, in cui si precisa:

temo che, come il serpente sedusse Eva con la sua astuzia, così le vostre menti vengano corrotte e sviate dalla semplicità e dalla purezza nei riguardi di Cristo (2 Corinzi 11:3).

Adamo fu formato per primo, e poi Eva e Adamo non fu sedotto; ma la donna, essendo stata sedotta, cadde in trasgressione (1 Timoteo 2:13-14).

Questi due passi del Nuovo Testamento mettono in risalto, non solo quello che Eva compì, ma anche come lei si comportò davanti al serpente. Se Eva avesse conosciuto l’astuzia del serpente, non sarebbe stata sedotta, e neanche sarebbe diventata motivo di far cadere in trasgressione suo marito. Per Paolo che non ignorava le macchinazioni di Satana, l’accostamento che egli fa della vita di Eva nelle varie situazioni che vi erano nella chiesa di Corinto, serve principalmente per avvertire la fratellanza di Corinto dal pericolo che li minaccia.

Il pericolo consiste nel fatto che la loro mente = (modo di pensare) non venga corrotta e sviata dalla semplicità e dalla purezza nei riguardi di Cristo. Un modo di pensare errato, produce questi catastrofici effetti nella vita di una persona (compresa quella del credente). Questo perché, il primo attacco che Satana sferra, è quello di colpire la mente, per indurre l’individuo a ragionare in modo tale da respingere tutto quello che Dio dice nella Sua Parola. Centrato quest'obbiettivo, le prossime mosse che il diavolo farà, saranno enormemente facilitate, per il fatto che il seme del dubbio che egli ha iniettato nella mente della persona, è già spuntato. Di conseguenza, allontanare il soggetto dalla semplicità e dalla purezza nei riguardi di Cristo, non sarà un'enorme fatica per il tentatore, visto che la mente è già stata corrotta.

IOCHEBED

Moglie di Amram, madre di Aaronne, Mosè e Maria, e figlia di Levi (Esodo 6:20; Numeri 26:59). Il matrimonio tra Amram ed Iochebed, venne contratto in un periodo molto critico per i figli d’Israele. A motivo dell’enorme crescita del popolo d’Israele, nel paese d’Egitto, il sovrano che regnava in quel periodo, ordinò che tutti i maschi che sarebbero nati tra gli Ebrei, dovevano essere gettati nel fiume Nilo.

Fu in quel tempo che Iochebed partorì un figlio, che più tardi sarà chiamato Mosè. Vedendolo di una bellezza straordinaria, bello agli occhi di Dio (Atti 7:20), non se la sentì di gettarlo nel fiume Nilo, come il re aveva ordinato; anzi lo tenne nascosto tre mesi. Quest’azione che compì Iochebed, — sicuramente in accordo con suo marito Amram —, la lettera agli Ebrei la definisce: Per fede (Ebrei 11:11). L’interpretazione che lo scrittore sacro diede, fu sicuramente esatta e ispirata dallo Spirito Santo. Una simile azione, estremamente rischiosa, se non ci fosse stata la fede, non sarebbe stata possibile compierla.

Però, trascorsi tre mesi, visto che il bambino non poteva essere più tenuto nascosto, avrebbe dovuto essere gettato nel Fiume Nilo. A questo punto, la fede di Iochebed, trovò una felice soluzione, sia per ottemperare alla legge del re d’Egitto e sia per non fare morire il figlioletto.

…prese un canestro fatto di giunchi, lo spalmò di bitume e di pece, vi pose dentro il bambino, e lo mise nel canneto sulla riva del Fiume (Esodo 2:3).

Quel canestro, addobbato in quel modo, aveva tutte le caratteristiche per assicurare la sopravvivenza del bambino. Però, visto che la fede non è cieca, in quello che compie, cioè sa prevedere il male che potrebbe sopraggiungere, la mamma, parlando con la figlia Maria, le ordinò di nascondersi tra il canneto del Fiume ad una certa distanza, in modo da tenere sott’occhio il canestro galleggiante. Siccome quella mossa fu ispirata dalla fede, Dio non poteva rimanere indifferente per quello che era stato compiuto. Il sacro testo precisa che, proprio in quello stesso giorno che Iochebed mise il canestro con il figlioletto, nelle acque del Fiume Nilo, la figlia del faraone scese al Fiume per fare il bagno, e le sue ancelle passeggiavano lungo la riva del Fiume. Vide il canestro nel canneto e mandò la sua cameriera a prenderlo.

Lo aprì e vide il bambino: ed ecco, il piccino piangeva; ne ebbe compassione e disse: «Questo è uno dei figli degli Ebrei» (2: 5-6). A questo punto, entrò in azione Maria, e, rivolgendosi alla principessa, le chiese:

«Devo andare a chiamarti una balia tra le donne ebree che allatti questo bambino?»
La figlia del faraone le rispose: «Va’». E la fanciulla andò a chiamare la madre del bambino.
La figlia del faraone le disse: «Porta con te questo bambino, allattalo e io ti darò un salario». Quella donna prese il bambino e lo allattò.
Quando il bambino fu cresciuto, lo portò dalla figlia del faraone; egli fu per lei come un figlio ed ella lo chiamò Mosè; «perché», disse: «io l’ho tirato fuori dalle acque»
(vv. 7-10).

Tenuto conto come si svolsero le cose, Iochebed riebbe suo figlio che poté allettare tranquillamente senza incorrere a nessun rischio, e, per giunta, venne pagata per tutto il tempo dell’allattamento, dalla figlia di faraone. Meglio di così, non potevano andare le cose! Chi aveva predisposto tutto, fu senza dubbio Dio, il quale, fin dal giorno del concepimento, seppe dirigere e proteggere la vita di Mosè.

Riflessioni sull’opera di Iochebed

1) Iochebed una donna di fede. Iochebed, fu senza dubbio, una donna di fede! Anche se il suo nome non figura nell’elenco delle persone menzionate in Ebrei 11, è certamente a lei che si riferisce il passaggio di (Ebrei 11:23). Non si dà sempre che le persone di fede, vengano menzionate nei cataloghi che gli uomini compilano. Anche se i loro nomi non si leggono, però, le azioni di fede che loro compiono, non possono rimanere nell’anonimato.

2. Il fondamento della fede. La vera fede, ha come fondamento Dio e le Sue promesse. Per usare l’affermazione di Ebrei 12:2, Gesù è Colui che la crea e la rende perfetta. Questo significa che la fede, conosce un corso di sviluppo, durante il quale viene resa perfetta. In altre parole, la fede non nasce perfetta; sì perfeziona col tempo, mediante l’esercizio che se ne farà. Inoltre, non è l’uomo che perfeziona la fede, ma Gesù Cristo, attraverso l’opera costante che svolge nella vita del credente.

3. La fede non è cieca. La fede, non è fiducia cieca, cioè non segue un percorso senza pensare quello che potrebbe accadere. Non si basa certamente sulla logica umana, ma neanche compie azioni capricciose, senza pensare ai rischi che potrà incontrare. Quando una persona di fede sì nuove, usa accorgimenti che prospettano il futuro, cioè non si ferma al presente, ma sa intravedere quello che accadrà nel domani. Quest'atteggiamento, non è espressione di presuntuosità, ma manifestazione di piena fiducia in Dio e nella Sua Parola.

4. La ricompensa della fede. Le ricompense che la fede otterrà, sono in conformità a quello che Dio promette. Non sempre, però, saprà fare i calcoli per l’entità che dovrà ricevere. Dio che guarda e valuta giustamente ogni mossa che la fede compie, saprà stabilire la misura della ricompensa. Iochebed, non pensava che per allattare il proprio figlio, avrebbe dovuto riceve anche un pagamento. Se il suo salario venne stabilito dalla generosità della figlia di faraone, sicuramente il Signore, che aveva valutato la fede di quella madre, intervenne nelle decisioni che prese la principessa.

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Domenico34
00martedì 19 luglio 2011 00:13
GIUDIT

Una delle mogli di Esaù e figlia di Beeri, l’Ittita (Genesi 26:34).

LEA

Il nome di Lea, è menzionato nella Bibbia 35 volte, 34 dei quali nel libro della Genesi e una sola volta nel libro di Rut, precisamente in 4:11. Si comincia con l’affermare che Lea era la figlia maggiore di Labano (Genesi 29:16) ed aveva gli occhi delicati (29:17). Il giorno quando si celebrò il matrimonio di Giacobbe con Rachele, la sera, al termine del primo giorno della festa nuziale, invece di andare Rachele a letto con Giacobbe, vi andò Lea (29:24).

Siccome questo tratto della storia, l’abbiamo trattato nel nostro libro Giacobbe... L’uomo trasformato da Dio, per evitare di ripeterlo in questa sede, consigliamo il lettore di leggere quel nostro lavoro [D. Barbera, Giacobbe... L’uomo strasformato da Dio, capitolo 6, pagg. 67-77].

Qui di seguito vogliamo aggiungere qualcosa che non è stato trattato nel nostro libro in questione. Resta assodato il fatto che, se Giacobbe andò a letto con Lea, la prima notte del suo matrimonio, non fu certamente per volontà di quest’ultima. Si sa, infatti, con certezza che fu il padre, cioè Labano, quello che organizzò e stabilì tutto. Sembra strano che di Lea non si dica una sola parola in questa faccenda! Cioè, che questa figlia maggiore di Labano, non si sia opposta alla volontà del padre.

Questo suo completo silenzio, o la mancanza di una naturale reazione, potrebbe farci pensare ad una sua corresponsabilità. Questo, però, non è possibile affermarlo, non solo perché nel testo biblico non c’è la minima traccia, ma anche perché il resto della narrazione, non permette di arrivare ad una simile conclusione.

Si deve pertanto accettare il silenzio della narrazione biblica, e non elaborare ipotesi di corresponsabilità da parte di Lea. Dal momento che Giacobbe accettò di passare una settimana con Lea, anche se nella sua intenzione non c’era la minima idea di unirsi con lei, a tutti gli effetti, però, Lea diventò una sua legittima moglie. Il fatto che più tardi, Lea, chiamerà Giacobbe, suo marito (29:32), giustifica in pieno la nostra affermazione.

Seguendo il racconto biblico si afferma che Lea era odiata. La (N.D.) invece riferisce che Lea non era amata (29:31). Da chi non era amata? Da suo marito, naturalmente! Il fatto che il primo figlio che Lea partorì, gli mise il nome di Ruben, letteralmente significa vedere un figlio, e subito espresse la convinzione: Ora mio marito mi amerà (v. 33), prova che in effetti, era proprio Giacobbe che non amava Lea. Avrà cambiato atteggiamento Giacobbe nei confronti di Lea, dopo la nascita di Ruben? La nascita di Simeone, di Levi e di Giuda (vv. 33-35), che Lea partorì a Giacobbe, ci porta a credere di sì.

Dopo di aver partorito quattro figli, Lea cessa di concepire. Vedendo che non riusciva più a concepire e partorire altri figli, (questa donna che dà la sensazione di essere insaziabile), non si dà per vinta. Escogita un piano per avere altri figli; e, questo lo fa, dando a suo marito la sua serva Zilpa per moglie (30:9).

Dal racconto biblico, non sappiamo niente se Zilpa avrà reagito o avrà tentato di opporsi alla volontà della sua padrona, di andare a letto con Giacobbe. Siccome il testo biblico non riferisce niente a tal proposito, dobbiamo accettare che Zilpa, come serva, non poteva rifiutarsi di obbedire ad un ordine di Lea.

Il movente che spinse Lea a quella strategia

Se l’autore sacro non specificasse come andarono le cose in quel tempo, non ne sapremmo parlare. Lea non escogitò la strategia di dare a suo marito la sua serva Zilpa, come moglie, solo perché lei non riusciva più a concepire. Una simile idea gli venne suggerita, da quello che sua sorella Rachele aveva fatto, nel dare a Giacobbe la sua serva Bila, per avere figli da lei.

Questo suo comportamento, forse inconsapevole, ricalcava il modo di agire di Sarai, moglie di Abrahamo, sua nonna. Infatti, sappiamo che a suo tempo, Sarai, visto che non poteva avere figli, perché era sterile, diede la sua serva Agar a suo marito come moglie, perché da lei potesse avere un figlio.

Anche se le due famiglie, quella di Sarai e quella di Lea, erano diverse, in virtù del matrimonio con Giacobbe, il comportamento della nonna si tramandava. C’è anche un altro motivo, che è il più significativo: Lea venne spinta da un senso d'invidia per quello che aveva fatto sua sorella Rachele. Se Rachele non avesse dato a Giacobbe la sua serva Bila, come moglie, si sarebbe comportato lo stesso Lea? Probabilmente no!

Questo però non giustifica l’invidia che Lea manifestò in quella circostanza, nei confronti di sua sorella Rachele. L’invidia, sotto qualsiasi aspetto la consideriamo, è sempre quella che è; non ha mai prodotto del bene a nessuno e mai ne produrrà. I seguenti testi sono molto significativi

Non adirarti a causa dei malvagi; non aver invidia di quelli che agiscono perversamente (Salmi 37:1);

Non portare invidia all’uomo violento e non scegliere nessuna delle sue vie (Proverbi 3:31);

Un cuore calmo è la vita del corpo, ma l’invidia è la carie delle ossa (Proverbi 14:30).

Il tuo cuore non porti invidia ai peccatori, ma perseveri sempre nel timore del SIGNORE (Proverbi 23:17);

Non portare invidia ai malvagi, non desiderare di star con loro (Proverbi 24:1),

Non t’irritare a motivo di chi fa il male, e non portare invidia agli empi (Proverbi 24:19);

Il loro amore come il loro odio e la loro invidia sono da lungo tempo periti, ed essi non hanno più né avranno mai alcuna parte in tutto quello che si fa sotto il sole (Ecclesiaste 9:6).

Pilato sapeva che glielo avevano consegnato per invidia (Matteo 27:18).

Pilato sapeva che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia (Marco 15:10).

Il sommo sacerdote e tutti quelli che erano con lui, cioè la setta dei sadducei, si alzarono, pieni di invidia (Atti 5:17),

I patriarchi, portando invidia a Giuseppe, lo vendettero, perché fosse condotto in Egitto; ma Dio era con lui (Atti 7:9),

Ma i Giudei, vedendo la folla, furono pieni di invidia e, bestemmiando, contraddicevano le cose dette da Paolo (Atti 13:45).

I Giudei, mossi da invidia, presero con loro alcuni uomini malvagi tra la gente di piazza; e, raccolta quella plebaglia, misero in subbuglio la città; e, assalita la casa di Giasone, cercavano di trascinare Paolo e Sila davanti al popolo (Atti 17:5).

Gli uomini ricolmi di ogni ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia; pieni d’invidia, di omicidio, di contesa, di frode, di malignità… (Romani 1:29);

L’amore è paziente, è benevolo; l’amore non invidia; l’amore non si vanta, non si gonfia (1 Corinzi 13:4),

L’uomo… è un orgoglioso e non sa nulla; ma si fissa su questioni e dispute di parole, dalle quali nascono invidia, contese, maldicenza, cattivi sospetti (1 Timoteo 6:4),

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Domenico34
00mercoledì 20 luglio 2011 00:08
Anche noi un tempo eravamo insensati, ribelli, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella cattiveria e nell’invidia, odiosi e odiandoci a vicenda (Tito 3:3).

Infatti, dove c’è invidia e contesa, c’è disordine e ogni cattiva azione (Giacomo 3:16)

Entra in scena Zilpa

Visto che Zilpa venne data a Giacobbe come moglie, questo però non significa che diventò moglie legittima. La sua posizione non cambiò fino il giorno della sua morte. Era serva quando Lea diventò la moglie di Giacobbe e tale rimase per tutto il tempo della sua vita, anche dopo che partorì due figli.

Se Lea diede la sua serva a suo marito, lo fece allo scopo di avere altri figli, e non per procurare altre sensazioni a suo marito. Di conseguenza, i rapporti sessuali tra Giacobbe e Zilpa, si protrassero, finché quest’ultima uscì incinta. Al figlio che Zilpa partorì, Lea gli mise il nome di Gad, lett. felicità, perciò disse: Che fortuna!

Visto che lo scopo era di avere figli, Zilpa non venne sottratta a Giacobbe, così che egli poté avere un altro figlio da lei, al quale Lea gli diede il nome di Ascer, ebr. ’ ascher, lett. felice (30:10-13). Quanto tempo è passato prima che Lea ritornasse ad aspettare un altro figlio, non possiamo stabilirlo.

Gli altri figli che nascono da Lea

Ruben uscì al tempo della mietitura del grano e trovò nei campi delle mandragole, che portò a Lea sua madre. Allora Rachele disse a Lea: «Ti prego, dammi delle mandragole di tuo figlio!»
Ma Lea rispose: «Ti pare poco avermi tolto il marito, che mi vuoi togliere anche le mandragole di mio figlio?» E Rachele disse: «Ebbene, si corichi pure con te questa notte, in compenso delle mandragole di tuo figlio».
Come Giacobbe, sul far della sera, se ne tornava nei campi, Lea uscì ad incontrarlo, e gli disse: «Vieni da me, perché ti ho preso per me con le mandragole di mio figlio». Ed egli si coricò con lei quella notte.
Dio esaudì Lea, la quale concepì e partorì a Giacobbe un quinto figlio.
E lei disse: «Dio mi ha ricompensata, perché ho dato la mia serva a mio marito». E lo chiamò Issacar
(vv. 14-18), che significava premio.

Le mandragore che Ruben, figlio di Lea, (in quel tempo avrà avuto sulle 5-6 anni) trovò nei campi al tempo della mietitura del grano, erano conosciute fin dall’antichità come afrodisiache. È opportuno dare un preciso resoconto su questo frutto, per meglio capire il testo biblico. Prima di addentrarci sulla descrizione delle mandragore, diamo qui di seguito la definizione linguistica, così come la rileviamo dal GDLI (Grande Dizionario della Lingua Italia) di S. Battaglia.

«Pianta velenosa della famiglia Solanacee, con grandi foglie ondulate che cadono in estate; fiori bianchi o viola; frutti a bacca; radice molto grossa e ramificata, con aspetto antropomorfo; è diffusa nei boschi delle zone mediterranee e in passato, per la forma particolare della radice, veniva considerata una pianta mostruosa, dotata di virtù magiche e afrodisiache. — Anche la radice o il frutto di tale pianta» [S. Battaglia, GDLI, (Grande Dizionario della lingua italiana), Vol. IX, pag. 632].

A sua volta, il termine afrodisiaco, significa:

«che eccita il contatto sessuale. Farmacologicamente: sostanza che eccita lo stimolo sessuale.

«La loro curiosa radice, per quella forma che ricorda largamente quell’umana, contiene una gran parte come incantesimo nella superstizione di tutti i tempi e di tutti i popoli. Anche i loro frutti, dall’odore molto acre e simile a minuscole mele, noti come afrosidiaco» [S. Battaglia, (Grande Dizionario della lingua italiana), GDLI, Vol. I, pagg. 229-230].

Per questa loro caratteristica di accrescere il desiderio, sono ricercati da Rachele è tanto, amata da Giacobbe, ma è ancora priva di figli.

Il fatto che questo frutto l’abbia trovato Ruben, il ragazzino dai 5 o 6 anni, non significa che conoscesse le virtù di quello che si credeva avesse. Ma quando le mandragore arrivarono nelle mani di Lea e lo venne a sapere Rachele, che li cercava disperatamente, lei che ne aveva sentito parlare, fece del tutto per averle, pensando che avrebbe potuto risolvere il problema della sua sterilità, che la tormentava giorno e notte.

Anche Lea conosceva le mandragore per lo stimolo sessuale che produceva. Se non avesse raggiunto un accordo con la sorella, non facilmente le avrebbe date a Rachele. Non tanto perché gliele aveva dato suo figlio Ruben, quanto per l’effetto che aveva sulla vita sessuale. Anche lei che era sempre affamata di rapporti sessuali per partorire altri figli, quando Rachele gli offrì di passare una notte con Giacobbe, senza pensarci due volte, diede le mandragore a Rachele.

La sera quando Giacobbe rientrò dai campi, non avendo altro pensiero nella sua testa, Lea gli va incontro e gli dice: «Devi entrare da me, perché io ti ho accaparrato con le mandragore di mio figlio». Così quella notte, egli si coricò con lei.

A questo punto il testo precisa che se Dio non avesse esaudito Lea, non sarebbe avvenuto il concepimento e neanche ci sarebbe stato il parto che avrebbe segnato la nascita. In vista dunque di questo compimento divino, Lea chiama il figlio che gli era nato Issacar, = premio, specificando: «Dio mi ha dato la mia ricompensa, perché io ho dato la mia serva a mio marito».

Riconoscere pertanto l’intervento divino nella nostra vita, è sempre di gran beneficio per la nostra esperienza cristiana. Una volta che Dio aveva esaudito Lea, nel renderla feconda, essa non ebbe nessuna difficoltà a concepire di nuovo e a partorire il sesto figlio a Giacobbe. A questa nascita, Lea le dà il significato di aver ricevuto da Dio una buona dote, perciò gli mette il nome di Zabulon, = mia abitazione, sperando che questa volta suo marito avrebbe abitato con lei.

Il testo conclude che dopo di ciò, Lea partorirà una figlia e la chiamerà Dina = giudizio. Se facciamo un riepilogo di quanto abbiamo detto su Lea per i sei figli maschi e una femmina che ha partorito a Giacobbe, possiamo mettere in risalto aspetti specifici che sicuramente potranno servire d’insegnamento per tutti. Le riflessioni che già abbiamo fatto sulla vita di Lea, per ciò che riguarda la storia dei suoi figli, richiedono ulteriori chiarimenti e specificazioni.

1) Nonostante che non fosse nella sua intenzione prendere Giacobbe come suo marito; poiché suo padre la costrinse ad andare a letto con lui. Però, dopo che passò una settimana con lui, diventò la sua legittima moglie. Tenuto conto della sua sincerità ed onestà per quello che Labano ideò nei suoi confronti, (probabilmente contro la sua volontà), Lea venne premiata per l’abbondanza di figli che partorì a Giacobbe, quantunque vi fosse una spietata azione di rivalità di Rachele nei suoi confronti. Che tra Rachele e Lea non ci sia stata una perfetta armonia, si può notare con sufficiente chiarezza dagli atteggiamenti che queste due donne assunsero, per ciò che riguardava il ‘vero diritto’ ad avere Giacobbe tutto per sé. Rachele poteva far valere la sua ragione, basandosi sul fatto che Giacobbe aveva scelto lei e non sua sorella Lea, quale legittima sua sposa. Se in seguito fu costretto ad avere anche Lea per moglie, Giacobbe era sicuro che questa non rientrava nei suoi piani originali, ma che diventò in seguito una necessità, per gli eventi inaspettati che accaddero.

2) Dall’altra parte, cioè per quanto riguarda Lea, bisogna tenere presente che Giacobbe aveva accettato la nuova situazione che si era determinata davanti a sé di prendere anche Lea per sua legittima sposa. Questo però non vuol dire che lo fece di sua libera scelta, ma venne obbligato da Labano. Tuttavia, una volta che Lea entrò in pieno diritto nella vita e nella famiglia di Giacobbe, i sei maschi che ebbe, rappresentavano una chiara testimonianza, che nessuno avrebbe potuto smentire. Tutto quello che era avvenuto, non era stato solamente perché Lea aveva trovato grazia presso Dio, rendendola continuamente feconda, ma anche perché Giacobbe era stato un vero alleato in questo processo di avvenimenti.

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Domenico34
00giovedì 21 luglio 2011 00:15
3) Dagli atteggiamenti rispettosi e sottomessi che Lea manifestava nella sua vita nei confronti di Giacobbe, anche se questo fu tramite i figli che ebbe, non si capiva quello che lei sinceramente sperava. Nel nome che gli metteva, tuttavia, la speranza che un giorno le cose si sarebbero appianate, non l’abbandonò mai e neanche cessò di alimentare i suoi sentimenti. Il fatto infine che Lea raccontava a Dio tutte le sue vicissitudini e il malumore che c’era con sua sorella Rachele, prova che si trovava un gradino più alto, nella scala della fiducia in Dio, da consentirle di ricevere forza dall’alto, per proseguire nel cammino della vita [D. Barbera, Giacobbe… L’uomo trasformato da Dio, pagg. 92-95].

MAACA (1)

Oppressione. Concubina di Betuel e madre di Ruma (Genesi 22:24).

MAACA (5)

Oppressione. Moglie di Davide e madre di Absalom (2 Samuele 3:3; 1 Cronache 3:3). La citazione del cronista è stata riportata in questo capitolo, perché si tratta dello stesso nome.

MAALAT (1)

Malattia. Figlia di Ismaele e moglie di Esaù (Genesi 28:9; 36:3,13).

MALA (1)

Malattia. Figlia di Selofead (Numeri 26:33; 27:1; 36:11; Giosuè 17:3)

MARIA (1)

Ebr. Ostinazionem rivolta. Sorella di Aaronne, di Mosè e figlia di Iochebed. Il suo nome ricorre in (Esodo 15:20,21; Numeri 12:1,4-5,10,15-16; 20:1; 26:59; Deuteronomio 24:9; Michea 6:4). La citazione di Michea è riportata in questo capitolo, perché si tratta della stessa persona. Dai testi citati, si può conoscere il carattere e il comportamento di questa donna.

Dopo che il popolo d’Israele passò il Mare Rosso e messosi in salvo dai carri e dai cavalli di faraone, si legge che Mosè compose un canto trionfale. Questo canto, si precisa, venne cantato dai figli d’Israele (15:19). Subito, entrò in azione Maria.

Maria, la profetessa, sorella d’Aaronne, prese in mano il timpano e tutte le donne uscirono dietro a lei, con timpani e danze.
E Maria rispondeva: «Cantate al SIGNORE, perché è sommamente glorioso: ha precipitato in mare cavallo e cavaliere»
(Esodo 15:20-21).

Questo suo comportamento, viene strettamente connesso al fatto che Maria viene presentata come profetessa. Di questa sua qualifica, però, la Bibbia non riferisce nient’altro. Tenuto conto che le Scritture ignorano totalmente che Maria avesse esercitato il ministero profetico in mezzo al popolo, come deve essere interpretato il testo di (Esodo 15:20), che presenta questa donna come una profetessa?

Non certamente come si intende comunemente il ministero profetico, cioè nel senso di chi proclama la parola del Signore. Questo significato, non è possibile applicarlo a Maria, per il semplice fatto che non si hanno elementi a suo favore. L’unica spiegazione che si può dare, riguarda la sua esortazione a proseguire a cantare al Signore. Le sue parole, infatti, mettono in risalto quello che Dio aveva fatto nel precipitare in mare cavallo e cavaliere.

Tenuto conto che quello che Maria fece, nel prendere in mano il timpano e nel danzare, assieme a tutte le altre donne che uscirono dietro a lei, fu un atto spontaneo, in questo suo comportamento, si deve scorgere una particolare ispirazione divina. Dopo alcuni anni che non si parlava di Maria, il testo biblico ce la presenta come una donna che, assieme a suo fratello Aaronne, parlò contro suo fratello Mosè, a motivo della moglie cusita che aveva preso. Le parole furono:

«Il SIGNORE ha parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?» (Numeri 12:2).

Quel modo di parlare che fecero Maria ed Aaronne, contro Mosè, non piacque al Signore; il quale, senza indugiare, chiese:

…se vi è tra di voi qualche profeta, io, il SIGNORE, mi faccio conoscere a lui in visione, parlo con lui in sogno.
Non così con il mio servo Mosè, che è fedele in tutta la mia casa.
Con lui io parlo a tu per tu, con chiarezza, e non per via di enigmi; egli vede la sembianza del SIGNORE. Perché dunque non avete temuto di parlare contro il mio servo, contro Mosè?»
(vv. 6-8).

A causa di quel parlare contro Mosè, Maria venne colpita dalla lebbra, e, se Mosè non avesse pregato il Signore per la sua guarigione, Maria sarebbe rimasta come un bimbo nato morto, la cui carne è già mezza consumata quando esce dal seno materno! (vv. 9-11). Il riferimento della morte di Maria, avvenuta a Cades, pone fine alla sua storia (Numeri 20:1). Di lei si parlerà che era figlia di Iochebeb e sorella di Aaronne e di Mosè (Numeri 26:59). I figli d’Israele vennero esortati a ricordarsi di quello che il Signore, fece a Maria, durante il viaggio, dopo che uscirono dall’Egitto (Deuteronomio 24:9). Infine, il profeta Michea, parla di Maria come persona che, assieme a Mosè ed Aaronne, venne mandata davanti ad Israele, quando il Signore condusse gli Israeliti fuori dall’Egitto (Michea 6:4).

MATRED

Suocera di Adad, re di Edom (Genesi 36:39; 1 Cronache 1:50). La citazione del cronista è riportata in questo capitolo, perché si tratta dello stesso nome.

MEETABEEL

Dio benedice. Moglie di Adad, re di Edom e figlia di Mezaab (Genesi 36:39: 1 Cronache 1:50). La citazione del cronista viene inclusa in questo capitolo, perché si tratta della stessa persona.

MERAB

Accrescimento. Figlia maggiore di Saul. Di questa donna si parla in (1 Samuele 14:49; 18:17,19;21: 8). Saul promise di darla in moglie a Davide, se egli si sarebbe comportato come un guerriero valente, nelle battaglie del Signore.

Or Saul diceva tra sé: «Così non sarà la mia mano a colpirlo, ma la mano dei Filistei» (1 Samuele 18: 17).

Nonostante che Davide si fosse comportato come aveva detto Saul, Merab, nel giorno del matrimonio, invece di essere data in moglie a Davide, venne data in sposa a Adriel il Meolatita (v. 19)

MICAL

Figlia del re Saul e moglie di Davide. Di lei si parla in (1 Samuele 14:49; 18:20,28; 19:11-13,17; 25:43; 2 Samuele 3:13-14; 6:16,20-21,23; 1 Cronache 15:29). La citazione del cronista è stata inserita in questo capitolo, perché si tratta della stessa persona. Nei vari passaggi riportati, non solo viene tracciata la storia di questa donna, ma anche il suo carattere viene messo in evidenza, soprattutto a proposito di Davide, suo marito. Si afferma che Mical, figlia di Saul, amava Davide; questo venne riferito a Saul, il quale disse:

«Gliela darò, perché sia per lui una trappola ed egli cada sotto la mano dei Filistei». Saul dunque disse a Davide: «Oggi, per la seconda volta, tu puoi diventare mio genero».
Poi Saul ordinò ai suoi servitori: «Parlate in confidenza a Davide e ditegli: Ecco, tu sei gradito al re e tutti i suoi servitori ti amano; diventa dunque genero del re».
I servitori di Saul sussurrarono queste parole all’orecchio di Davide. Ma Davide replicò: «Sembra a voi cosa semplice diventare genero del re? Io sono povero e di umile condizione».
I servi riferirono a Saul: «Davide ha risposto così e così».
Saul disse: «Dite così a Davide: Il re non domanda dote; ma domanda cento prepuzi dei Filistei, per vendicarsi dei suoi nemici». Saul aveva in animo di far cadere Davide nelle mani dei Filistei.
I servitori dunque riferirono quelle parole a Davide; ed egli fu d’accordo di diventare genero del re in questa maniera. E prima del termine fissato,
Davide si alzò, partì con la sua gente, uccise duecento uomini dei Filistei, portò i loro prepuzi e ne consegnò il numero preciso al re, per diventare suo genero.
E Saul gli diede in moglie Mical, sua figlia. Saul vide e riconobbe che il SIGNORE era con Davide; e Mical, figlia di Saul, l’amava
(18:20-28).

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Domenico34
00venerdì 22 luglio 2011 00:13
Venendo a sapere che suo padre aveva programmato di attentare alla vita di Davide, Mical sua moglie, non solo avvisò suo marito del pericolo, ma addirittura, di notte tempo, lo calò da una finestra ed egli se ne andò, fuggì e si mise in salvo (19:12). Al mattino, quando Saul mandò le sue guardie per prelevare Davide dalla sua casa per farlo morire, e, visto che non riuscì in quest'assurdo intento, per lo stratagemma che la figlia adoperò, Saul disse a Mical:

«Perché mi hai ingannato così e hai dato al mio nemico la possibilità di fuggire?» Mical rispose a Saul: «È lui che mi ha detto: Lasciami andare, altrimenti ti ammazzo!» (19:17).

La bugia che Mical adoperò con suo padre, non fu per cattiveria, ma unicamente per salvare la vita a suo marito. Da quel giorno in poi, per diversi anni, Mical non vide più suo marito in casa sua. Come se ciò non bastasse, Saul la diede in moglie a Palti, figlio di Lais, che era di Gallim (25:43).

Dopo la morte di Saul, Davide, (che in quel tempo dimorava in territorio filisteo), chiese al Signore se doveva rimanere ancora presso i Filistei o salire in qualche città di Giuda. Il Signore gli indicò Ebron, come luogo della sua nuova residenza. Fu in quel luogo che Davide venne proclamato re di Giuda.

Un giorno Abner, venne accusato da Is-Boset, figlio di Saul, di essere andato a letto con la concubina di suo padre. Furioso oltre modo, Abner come risposta, si impegnò a consegnare tutto Israele a Davide, affinché egli potesse regnare su tutto Israele. Quando Abner arrivò da Davide e gli propose il piano che egli aveva ideato, la risposta che ricevette fu:

«Sta bene; io stipulerò alleanza con te. Ma una sola cosa ti chiedo, che tu non ti presenti davanti a me senza condurmi Mical, figlia di Saul, quando mi comparirai davanti» (2 Samuele 3:13).

Nel giro di poco tempo Davide riebbe la sua amata moglie Mical; in seguito, diventò re su tutto Israele. L’ultimo riferimento di Mical, si ha in occasione della grande processione che Davide organizzò, quando trasportò l’arca di Dio, dalla casa di Obed- Edom a Gerusalemme. Siccome Davide, durante tutta quella processione, danzò a tutta forza davanti al Signore, Mical che guardava dalla finestra, lo sprezzò in cuor suo. Quando Davide arrivò a casa, dopo di aver fatto sistemare l’arca di Dio, Mical lo accolse con le seguenti parole:

«Bell’onore si è fatto oggi il re d’Israele a scoprirsi davanti agli occhi delle serve dei suoi servi, come si scoprirebbe un uomo da nulla!»
Davide rispose a Mical: «L’ho fatto davanti al SIGNORE che mi ha scelto invece di tuo padre e di tutta la sua casa per stabilirmi principe d’Israele, del popolo del SIGNORE; sì, davanti al SIGNORE ho fatto festa.
Anzi mi abbasserò anche più di così e mi renderò umile ai miei occhi; ma da quelle serve di cui parli, proprio da loro, sarò onorato!»
E Mical, figlia di Saul, non ebbe figli fino il giorno della sua morte
(6: 20-23).

La storia di Mical si conclude nell’affermare che, morì senza avere figli.

Riflessioni su Mical

Mical, una donna che amava Davide

1. Per una donna innamorarsi di un uomo, rientra nella logica delle sue attese, specie quando quest'amore è sincero e mira al matrimonio. Che cos’è, infatti, il matrimonio? L’unione legale di due esseri (un maschio e una femmina) che, promettono di vivere insieme, sotto lo stesso tetto. È anche l’unione fisica di due esseri, (un uomo e una donna) che realizzano il loro amore nel donarsi l’uno all’altro, nel rapporto sessuale. Concepire il matrimonio in maniera diversa, non risponde all’ideale per cui Dio lo ha stabilito.

Mical, una donna che protesse Davide

2. Se Davide non venne preso dagli uomini di Saul e messo a morte, il merito bisogna attribuirlo a Mical, sia per averlo avvisato del pericolo che lo minacciava, e sia dell’iniziativa che ebbe di calarlo dalla finestra, per permettergli di mettersi in salvo.Non è solamente il marito che deve proteggere la moglie; lo deve fare anche la sposa nei confronti del marito. I due, dal punto di vista della vita pratica, devono proteggersi a vicenda. Non però, mentendo, ma parlando sempre in verità.

Mical, una donna che non comprende le cose di Dio

3. Se Mical sprezzò Davide in cuor suo, per il comportamento che suo marito assunse in pubblico, danzando alla presenza del popolo e davanti al Signore, essa lo fece essenzialmente perché non capì quel che suo marito provava dentro di sé. Non solo per questo, ma anche e soprattutto perché non comprendeva le cose del Signore. La causa dei tanti disprezzi che avvengono in mezzo al popolo di Dio, non è solamente perché manca una consistente intuizione interiore, ma anche perché non si comprendono le cose di Dio, nella sua giusta dimensione.

Danzare in pubblico

4. Danzare in pubblico, alla presenza degli altri che non fanno le stesse cose, per chi non ha il senso delle cose di Dio, può essere definita come una vera e propria pagliacciata. L’estraniarsi dall’esuberanza di una manifestazione gioiosa, non è solamente questione di mancata partecipazione; è essenzialmente convinzione di non condividere quello che altri stanno provando dentro di loro. Sprezzare certe manifestazioni prodotte dallo Spirito di Dio, non significa solamente non avere discernimento, significa anche incorrere a certe spiacevoli conseguenze che, immancabilmente, si ripercuoteranno nella nostra vita.

MILCA (1)

Figlia di Aran e moglie di Naor. Il suo nome ricorre in (Genesi 11:29; 22:20,23; 24:15,24,47).

MILCA (2)

Figlia di Selofead (Numeri 26:33; 27:1; 36:11; Giosuè 17:3).

NAAMA (1)

Dolce, giocosa. Figlia di Lamec e sorella di Tubal-Cain (Genesi 4:22).

NAOMI

La mia leggiadra. Moglie d’Elimelec, madre di Malon, Chilion e suocera di Orpa e Rut (Rut 1:2-3). Questa donna fece una triste esperienza nella sua vita.
Si spostò da Betlemme di Giuda, con suo marito e i suoi due figli, per stabilirsi nelle campagne di Moab, in cerca di migliore sistemazione. Però, nella nuova residenza, invece di trovare la fortuna o il benessere, come lei sperava, trovò dolori e tristezze. Infatti, fu nelle campagne di Moab, località in cui si era stabilita la famiglia, che avvenne la morte di suo marito.

Dopo che i due figli, Malon e Chilion, si sposarono con due Moabite, nel giro di poco tempo, morirono anche loro; così che Naomi, rimanendo vedova e senza figli, si vide sfumare tutta la buona prospettiva che aveva sognato. Quando poi, decise di ritornare in patria, le donne della città di Betlemme dicevano:

«È proprio Naomi?»
E lei rispondeva: «Non mi chiamate Naomi; chiamatemi Mara, poiché L’Onnipotente mi ha riempito d’amarezza.
Io partii nell’abbondanza, e il SIGNORE mi riconduce spoglia di tutto. Perché chiamarmi Naomi, quando il SIGNORE ha testimoniato contro di me, e l’Onnipotente mi ha resa infelice?»
(vv. 19-21).

A Betlemme, aiutò molto sua nuora Rut, dandogli dei buoni consigli; e, quando in seguito Rut si sposò con il ricco proprietario Boaz, fece da nutrice, al figlio che gli nacque (4:16).

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Domenico34
00sabato 23 luglio 2011 00:09
Riflessioni su Naomi

Sulla famiglia e sulla vita di Naomi, si possono imparare delle buone lezioni che, immancabilmente potranno aiutarci ed illuminarci nel corso del nostro pellegrinaggio cristiano. È vero che la decisione di spostare la famiglia, da Betlemme di Giuda, nelle campagne di Moab, la prese Elimelec; ma è impensabile che Naomi, sua moglie, si sia estraniata in tutta questa faccenda, come se il caso non la riguardasse da vicino.

1. Rivolgersi al Signore per chiedere consiglio

Il primo rilievo che si può fare è il seguente: avrà la coppia, Naomi ed Elimelec, chiesto lumi al Signore, per sapere se quel piano di spostarsi era secondo la Sua volontà? Siccome il testo sacro non ci fornisce nessun'indicazione in merito, non si può rispondere con un sì, o con un no! Qual era la situazione che vigeva a Betlemme in quel tempo? Il sacro testo afferma che c’era carestia, cioè mancanza di cibo. Si sa che quando manca il cibo, (elemento essenziale per la sopravvivenza) ognuno cerca di procurarselo nel migliore dei modi. Quindi, in base alla logica, se la famiglia di Elimelec si spostò, non fu solamente per non subire i rigori della carestia, ma anche in cerca di trovare fortuna, una migliore sistemazione per la loro esistenza. Sotto il profilo umano, non c’è niente che si possa rimproverare ad Elimelec, per aver agito in quel modo. Essendo capofamiglia, rientrava nella sua responsabilità di procurare una migliore condizione di vita ai suoi. Se invece, i due, marito e moglie, non domandarono consiglio al Signore, prima di trasferirsi nella terra di Moab, e agirono a modo loro, certamente commisero un errore non trascurabile.

2. Credere che Dio, come Padre, si prende cura dei suoi

Se si crede che Dio è nostro Padre, si deve anche credere che Egli prenderà cura di tutti i bisogni dei Suoi figli. Abbandonarsi alle Sue cure e lasciarsi guidare da Lui, in pratica significa non andare incontro a certe amare esperienze che, comunemente ci lascierebbero con l’amaro in bocca, quando addirittura non aprono ferite di difficili emarginazioni.

L’insegnamento di Gesù, per quanto riguarda i vari bisogni della vita, è molto chiaro:

«Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro?
E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un’ora sola alla durata della sua vita?
E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano;
eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
Ora se Dio veste in questa maniera l’erba dei campi che oggi è, e domani è gettata nel forno, non farà molto di più per voi, o gente di poca fede?
Non siate dunque in ansia, dicendo: Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?
Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più.
Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di sé stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno
(Matteo 6:25-34).

Le parole di Gesù, non sono ancora tramontate; sono valide anche per noi che viviamo nel ventunesimo secolo. Se si crederà realmente che, Dio è nostro Padre, non si avrà nessuna difficoltà a credere che Egli prenderà cura di noi, per quanto riguarda il nostro mangiare e il nostro vestire. Questo, naturalmente non significa che dobbiamo tenere le mani in mano, e diventare inoperosi, rinunciando ai nostri impegni e alle nostre responsabilità di famiglia. Significa essenzialmente credere che Dio, nostro Padre, si prenderà cura dei nostri bisogni.

3. Un’iniziativa fuori della volontà di Dio

Anche se, categoricamente non si può affermare che, quello che fece la famiglia d’Elimelec, di spostarsi nelle campagne di Moab, non era secondo la volontà del Signore, non si può, però negare, la tragedia che li colpì. La morte del padre e dei due figli, fu la conseguenza del loro spostamento? Se la famiglia fosse rimasta a Betlemme, la morte avrebbe ugualmente colpito, portando via le stesse persone che morirono nella terra di Moab? Non è facile rispondere a questi due interrogativi! La cosa che bisogna mettere in evidenza con fermezza, (senza apparire dei veri fanatici), è: un’iniziativa, di qualsiasi genere che si vuole intraprendere fuori della volontà del Signore, è sicuro che non riceverà la Sua approvazione; e se Egli non approva, neanche è tenuto a benedire, cioè a fare andare le cose a buon fine.

4. I giovani in terra pagana

Portare i giovani in terra pagana, significa esporli a seri pericoli, non tanto per quanto riguarda la loro vita terrena, quanto per ciò che concerne la loro fede. Malon e Chilion, in terra pagana, si sposarono con due moabite. Per un Israelita che teneva all’osservanza della legge di Dio, un simile matrimonio non era permesso; era severamente vietato.

Non t’imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli,
perché distoglierebbero da me i tuoi figli che servirebbero dèi stranieri e l’ira del SIGNORE si accenderebbe contro di voi. Egli ben presto vi distruggerebbe
(Deuteronomio 7:3-4).

Se poi si tiene presente quello che lasciò scritto l’apostolo Paolo, si hanno tutte le ragioni per stare attenti a quello che si fa.

Non vi mettete con gli infedeli sotto un giogo che non è per voi; infatti, che rapporto c’è tra la giustizia e l’iniquità? O quale comunione tra la luce e le tenebre?
E quale accordo fra Cristo e Beliar? O quale relazione c’è tra il fedele e l’infedele?
E che armonia c’è fra il tempio di Dio e gli idoli? Noi siamo, infatti, il tempio del Dio vivente, come disse Dio: «Abiterò e camminerò in mezzo a loro, sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo».
«Perciò, uscite di mezzo a loro e separatevene, dice il Signore, e non toccate nulla d’impuro; e io vi accoglierò».
E «sarò per voi come un padre e voi sarete come figli e figlie, dice il Signore onnipotente»
(2 Corinzi 6:14-18).

Un giovane cristiano che si sposasse con una ragazza di diversa fede, potrebbe incorrere il pericolo di essere distolto dalla sua fede e intraprendere il cammino dello sviamento. Se non avverrà la morte fisica, come avvenne a Malon e a Chilion, avverrà sicuramente quella spirituale, che porterà il giovane ad essere separato dal suo Dio, e Salvatore, Gesù Cristo. Che ognuno di noi possa fare delle buone scelte, e, soprattutto, sappia lasciarsi guidare dal Signore, in quello che si vorrà compiere nella sua vita!

NOA

Figlia di Selofead (Numeri 26:33; 27:1; 36:11; Giosuè 17:3).

OOLIBAMA

Fu una delle mogli che prese Esaù, era figlia di Ana. Di lei si parla in (Genesi 36:2,14,18,25) e si ricorda che ebbe tre figli: Ieus, Ialam e Cora. Oltre a ciò, non si può aggiungere altro.

ORPA

lo, cioè ostinazione, caparbietàdonna moabita. Moglie di Chilion, nuora di Naomi e cognata di Rut (Rut 4:10). Alla morte del marito, ritornò a casa di sua madre (Rut 1:8,14).

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00domenica 24 luglio 2011 00:27
PENINNA

Il significato di questo nome è: Corallo Di lei si parla solamente in (1 Samuele 1:2,6). Era moglie di Elcana. Da quel poco che sappiamo di Peninna, si può notare che aveva un carattere sprezzante, mancante della più elementare educazione. Era una persona che si vantava della propria condizione, cioè del fatto che come donna sposata, aveva avuto dei figli. Questo, naturalmente, per i tempi e nell’ambiente in cui visse, era considerato un favore che aveva ottenuto dal Signore, cosa che non potevano dire le sterili, cioè quelle donne che non potevano avere figli.

Era una donna che non aveva nessuna compassione, specialmente quando, col suo sprezzante linguaggio, procurava mortificazione e amareggiamento ad Anna. Quando Anna piangeva, a causa del linguaggio sprezzante che Peninna usava nei suoi confronti, essa non manifestava nessun sentimento di compassione, e, l’amore, nel senso tipicamente cristiano, era ben lontano dalla sua vita. Il significato del suo nome corallo = di colore rosso vermiglio, corrispondeva al suo ardente carattere sprezzante ed offensivo. Lei però, non si rendeva conto che, con le sue parole, invece di essere di sollievo, aumentava il dolore nella vita di Anna. A nessuna donna auguriamo un simile carattere!

PUA

Una delle levatrici che disobbedirono al Faraone. In conseguenza di ciò, Dio le fece del bene (Esodo 1:15,20).

RACHELE

Terminata la corsa di Lea per avere figli, (sospendiamo momentaneamente la sua storia per riprenderla più tardi), occupiamoci ora, un pochino di Rachele.

Il nome di questa donna è menzionato nella Bibbia 46 volte, 42 dei quali nel solo libro della Genesi; una volta in Rut 4:11; una volta in 1Samuele 10:2; una volta in Geremia 31:15 e una volta in Matteo 2:18. Il significato di pecora del nome Rachele, non sembra che corrisponda al suo carattere. La pecora possiede delle caratteristiche particolari, che altri animali non hanno. La pecora quando viene percossa, per esempio, non apre la bocca e non si difende quando è minacciata. Questo sta ad indicare che essa non conosce che cosa sia la cosiddetta reazione. Non per niente Gesù è stato paragonato ad una pecora che non apre la bocca.

Or il passo della Scrittura che egli leggeva era questo: «Egli è stato condotto al macello come una pecora; e come un agnello che è muto davanti a colui che lo tosa, così egli non ha aperto la bocca (Atti 8:32; cfr. Isaia 53:7).

Rachele era un tipo che manifestava invidia

Rachele, vedendo che non partoriva figli a Giacobbe, invidiò sua sorella, e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, altrimenti muoio» (30:1).

Avere figli per una donna che si sposa, rientra nella logica della sua attesa e nella coerenza per diventare mamma. Però, se Rachele non riusciva ad avere figli, non era colpa di suo marito. Con l’espressione: Dammi dei figli, altrimenti muoio, Rachele addossava a Giacobbe la responsabilità. Questo però non era vero! Se Giacobbe avesse privato Rachele dei rapporti sessuali, o l’avesse messa da parte per dedicarli solamente a Lea, la lamentela di Rachele sarebbe stata legittima e giustificata.

La risposta di Giacobbe, prova che questo non era avvenuto. Giacobbe s’irritò contro Rachele, e disse: «Sono forse io al posto di Dio che ti ha negato di essere feconda?» (30:2).

Siccome Rachele invidiava sua sorella Lea, che già aveva partorito quattro figli a Giacobbe, e lei neanche uno, pensò di consegnare la sua serva Bila a suo marito, perché da lei potesse avere dei figli. Questa reazione che Rachele manifestò, in pratica significava: lanciare una sfida a sua sorella per avere la rivincita su di lei.

Questo risultato Rachele l’ottenne, allorquando la sua serva concepì e partorì un figlio, al quale pose nome Dan, che significava giudicare, rendere giustizia. La dichiarazione che rese, a seguito di questa nascita: Dio mi ha reso giustizia, rappresenta la prova della sua soddisfazione. Quando poi Bila partorì il secondo figlio, al quale fu dato il nome di Neftali, che significa mia lotta, Rachele manifestò il vero segreto per tutto quello che aveva covato dentro di sé, nel dare la sua serva a suo marito.

«Ho sostenuto contro mia sorella lotte straordinarie e ho vinto». Perciò lo chiamò Neftali (30:8).

Simili sentimenti che Rachele manifestò, sono incompatibili e inaccettabili, dal punto di vista cristiano. Infine, se Rachele avesse accettato che, era Dio a negarle di essere feconda, non se la sarebbe presa con suo marito e neanche gli avrebbe consegnato la sua serva Bila, stimolata dall’invidia per sua sorella Lea.

Il cambiamento di atteggiamento di Rachele

In tutta la storia di Rachele, che fin qui abbiamo narrata, non si è notato un cambiamento. Dalla nascita del secondo figlio dalla sua serva, Rachele avrà compreso che se vorrà partorire figli a Giacobbe, dovrà cambiare atteggiamento. Finalmente arriva il segnale del suo cambiamento! Chiuso il ciclo di Lea, per ciò che riguardava la storia dei figli,

Dio si ricordò anche di Rachele; Dio l’esaudì e la rese feconda.
Ella concepì e partorì un figlio, e disse: «Dio ha tolto la mia vergogna».
E lo chiamò Giuseppe, dicendo: «Il SIGNORE mi aggiunga un altro figlio»
(vv. 22-24).

Rachele pensava che con le mandragore che aveva ottenuto da sua sorella Lea, si sarebbe compiuto il miracolo nella sua vita, ma così non fu. Visto che ogni suo tentativo non riusciva al suo scopo, e, per non continuare a vivere in quello stato di esasperazione, finalmente decise di mettere la faccenda nelle mani di Dio e farne oggetto di preghiera. Ora che Rachele imboccò la strada giusta e cambiò atteggiamento, Dio la esaudì e la rese feconda, talché poté concepire e partorire un altro figlio.

È sempre così per tutte le cose. Quando si capisce e si decide di mettere la propria fiducia in Dio e di lasciare a Lui il controllo delle varie situazioni, Egli non mancherà d’intervenire a favore di chi ha assunto un simile atteggiamento. Dio ha sempre risposto a chi si abbandona nelle Sue mani e crede nell’intervento miracoloso. Se Rachele si trovava nello stato di sterilità, questa sua condizione non le permetteva di avere figli. È l’Onnipotente, (cioè Colui che può fare tutto), che guarì la sua sterilità, da permetterle di concepire e partorire.

A seguito di questo miracolo, Rachele non ha più nessun dubbio, ma può anche dire con forza e fermezza: Dio ha rimosso il mio disonore. Ma quale era il suo disonore? Non aveva fatto niente di disonorevole con una condotta malsana e perversa. Si era mantenuta casta a suo marito e non aveva avuto nessun'idea di cambiare uomo. Secondo la credenza di quei tempi, quando una donna sposata non aveva figli, veniva considerata sotto la maledizione di Dio, persona indegna del favore divino.

La vergogna e il vituperio che subiva per questo trattamento dalla società, era oltremodo grande. Con la nascita di Giuseppe, dato che le cose erano cambiate, ora Rachele può alzare la sua testa e rendere grazie a Dio, per il miracolo che Egli ha compiuto in lei. Se si considera giustamente il risultato dell’esaudimento divino, ciò rappresenta la speranza per il futuro. Infatti, il suo nome significa egli (cioè Dio) aggiungerà. Rachele quando mise questo nome al suo primogenito, palesò la speranza che Dio, le avrebbe concesso un altro bambino. Anche se per averlo, dovette aspettare un po’, nondimeno Beniamino, fu il figlio che si aggiunse a Giuseppe. È sempre stato così e sempre sarà, che le cose che Dio compie nella vita umana, portano onore e gloria al Suo Santo Nome. Amen!

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00lunedì 25 luglio 2011 01:15
Rachele e Lea nell’ambito della famiglia

Ora che le due sorelle si sono acquietate per ciò che riguardava la loro rivalità per avere figli, possono adoperarsi per la famiglia. Infatti, dal capitolo 31 della Genesi, il sacro testo le nomina insieme, con la precisa formula verbale: Rachele e Lea (31:4,14).

Anche se i figli di Giacobbe sono venuti da quattro donne, diverse l’una dall’altra, nondimeno, per il figlio d’Isacco, c’è una sola famiglia: Rachele, Lea e gli undici figli. Non includiamo nella famiglia di Giacobbe Zilpa e Bila, perché quest’ultime, non sono state mai considerate membri della famiglia. Sono rimaste sempre serve, così com’erano quando furono date alle due figlie di Labano. Ecco la prova che Zilpa e Bila, non erano considerate membri della famiglia di Giacobbe. Quando sorse il problema della lamentela dei figli di Labano, che pensavano che Giacobbe si fosse arricchito di bestiame a spese del loro padre (31:1), il testo precisa:

Allora Giacobbe mandò a chiamare Rachele e Lea perché venissero ai campi, presso il suo gregge,
e disse loro: «Io vedo che il volto di vostro padre non è più, verso di me, quello di prima; ma il Dio di mio padre è stato con me.
Voi sapete che io ho servito vostro padre con tutte le mie forze,
mentre vostro padre mi ha ingannato e ha mutato il mio salario dieci volte; ma Dio non gli ha permesso di farmi del male.
Quand’egli diceva: I macchiati saranno il tuo salario, tutto il gregge figliava agnelli macchiati. Quando diceva: Gli striati saranno il tuo salario, tutto il gregge figliava agnelli striati.
Così Dio ha tolto il bestiame a vostro padre e lo ha dato a me.
Una volta, quando le pecore entravano in calore, io alzai gli occhi e vidi in sogno che i maschi, che montavano le femmine, erano striati, macchiati o chiazzati.
L’angelo di Dio mi disse nel sogno: Giacobbe! Io risposi: Eccomi!
L’angelo disse: Alza ora gli occhi e guarda; tutti i maschi che montano le femmine sono striati, macchiati o chiazzati, perché ho visto tutto quello che Labano ti fa.
Io sono il Dio di Betel, dove tu versasti dell’olio su una pietra commemorativa e mi facesti un voto. Ora àlzati, parti da questo paese e torna al tuo paese natìo».
Rachele e Lea gli risposero: «Abbiamo forse ancora qualche parte o eredità in casa di nostro padre?
Non ci ha forse trattate da straniere, quando ci ha vendute e ha per di più divorato il nostro denaro?
Tutte le ricchezze che Dio ha tolte a nostro padre, sono nostre e dei nostri figli. Fa’ dunque tutto quello che Dio ti ha detto»
(31:4-16).

Il fatto che Giacobbe invita Rachele e Lea, ad andare nei campi presso il suo gregge, e non chiami a raccolta anche le due serve, dimostra eloquentemente che, Zilpa e Bila non erano considerate membri della sua famiglia. Anche la risposta che danno Rachele e Lea: Fa’ dunque tutto quello che Dio ti ha detto, depone per quest'interpretazione. Passato il tempo della rivalità tra le due sorelle, tutte e due, manifestano interesse e pensano al benessere dell’unica famiglia. Il consenso che danno al marito per la partenza di Paddan-Aram, è un’altra prova che l’atteggiamento tra le due sorelle, è veramente cambiato.

Rachele ruba gli idoli del padre

Arrivato il giorno della partenza e della separazione, tra Giacobbe da una parte, e Labano dall’altra, Rachele ruba gli idoli di suo padre. Si direbbe: perché compì quell’azione? Qual era lo scopo?

«Per quanto riguarda i terâƒîm sappiamo che erano dei piccoli oggetti di culto, dovevano avere forma umana o almeno volto umano (1Samuele 19:13). Si è pensato recentemente anche a maschere cultuali. In ogni caso ci si indirizzava ad essi specialmente per ottenere responsi (Ezechiele 21:26)» [Gerhard Von Rad, Genesi, pag. 413].

«Rachele rubò gli idoli di Labano (letteralmente, «teraphim», piccole figure di dei). Questo atto dimostra l’influenza del paganesimo nella famiglia di Labano. Rachele fu molto simile a Giacobbe: la prima aveva rubato gli idoli, il secondo aveva commesso una sorta di furto fuggendo in quel modo. Forse Rachele pensava di meritare quegli idoli, dal momento che Labano aveva «cambiato le carte in tavola». Con lei, con la scusa delle usanze, e l’aveva privata del suo diritto di sposarsi per prima. Qualunque fossero le ragioni, il suo ostinato egoismo portò quasi al disastro. Avere degli idoli poteva comportare il diritto alla eredità (questo era il significato secondo le tavole di Nuzi del quindicesimo secolo a.C.); sicuramente, voleva dire che Labano era rimasto senza quello che egli riteneva fosse una sua protezione» [Allen P. Ross, Investigate le Scritture, Antico Testamento, pag. 82].

Il racconto biblico precisa che Giacobbe ignorava che sua moglie Rachele, avesse rubato gli idoli a suo padre (31:32). Se sua moglie glielo avesse detto, prima di prenderli, non crediamo che Giacobbe glielo avrebbe permesso. Ecco, perché, quando Labano andò a frugare le tende di Giacobbe, di Rachele, di Lea e delle due serve, si arrabbiò molto con suo suocero (30:36).

D’altra parte, Rachele, prevedendo che suo padre si sarebbe accorto del furto, invece di nasconderli nella sua tenda, preferì metterli nella sella del suo cammello e sedervi sopra. Così che, ad ulteriore controllo da parte di Labano, gli idoli non vennero trovati e Labano venne trovato menzognero in quello che affermava. Però Rachele, in questo suo procedere, dimostrò di non essere stata sincera con suo marito e con suo padre. Infine, non palesò un atteggiamento cristiano, come si direbbe ai nostri giorni, dal punto di vista dell’insegnamento dell’A.T. e N.T. (Esodo 20:15; Matteo 19:18; Romani 13:9; Efesini 4:28).

Il secondo figlio che Rachele partorì a Giacobbe

Tenendo presente il nome che Rachele mise al primo figlio che partorì, cioè Giseppe = aggiunga, alla distanza di diversi anni, diede alla luce un secondo figlio. Siccome il secondo parto, fu molto doloroso, ecco cosa dice il sacro testo:

Mentre l’anima sua se ne andava, perché stava morendo, chiamò il bimbo Ben-Oni; (che significa figlio del dolore) ma il padre lo chiamò Beniamino (che significa figlio della destra).
Rachele dunque morì e fu sepolta sulla via di Efrata, cioè di Betlemme
(35:18-19).

In conseguenza di ciò, Rachele non ebbe la fortuna di conoscere il suocero, cioè Isacco. Se Giacobbe non avesse cambiato il nome del secondo figlio di Rachele, (che completava il numero delle dodici tribù d’Israele), nella sua famiglia sarebbe rimasto per sempre il segno indelebile del dolore.

Questo, naturalmente, avrebbe avuto a che fare con tutta la discendenza di Giacobbe, e non limitatamente ai soli dodici figli del patriarca. Dio che conosceva che la storia dei figli di Giacobbe, non doveva concludersi nel perenne dolore, ispirò il suo servo ad intervenire subito, in modo che, prima che Rachele morisse, l’ultimo membro della famiglia di Giacobbe, portasse il nome di Beniamino, figlio della destra, a sostegno del futuro glorioso della discendenza di Giacobbe. Per suggellare questa testimonianza, Rut 4:11, afferma che Rachele, assieme con sua sorella Lea, fu considerata come una donna che fondò la casa d’Israele. Infine, i due passaggi che chiudono definitivamente la storia di Rachele, ricordano uno dei più tragici eventi della storia.

Così parla il SIGNORE: «Si è udita una voce a Rama, un lamento, un pianto amaro; Rachele piange i suoi figli; lei rifiuta di essere consolata dei suoi figli, perché non sono più» (Geremia 31:15).

«Un grido si è udito in Rama, Un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata, perché non sono più» (Matteo 2:18).

La storia d’Israele, non si concluderà con il pianto sconsolato dei suoi figli uccisi, ma con la gloriosa affermazione che tutto Israele sarà salvato.

Tutto Israele sarà salvato, così com'è scritto: «Il liberatore verrà da Sion.
Egli allontanerà da Giacobbe l’empietà; e questo sarà il mio patto con loro, quando toglierò via i loro peccati»
(Romani 11:26-27).

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00martedì 26 luglio 2011 00:12
Si riprende la narrazione della storia di Lea

Riprendiamo la storia di Lea, che interrompemmo. Dopo che le acque della rivalità si acquietarono, Lea viene spesso nominata assieme a sua sorella Rachele, in una forma verbale: Rachele e Lea, che esprime il cambiamento di atteggiamento l’una verso l’altra.

Anche se Rachele viene nominata prima di Lea, questo però, non dimostra che tra le due sorelle, non sia stato tutto rappacificato. Semmai, può avere il significato di farci ricordare che, Rachele fu la donna che inizialmente Giacobbe aveva preferito come sua moglie, ma che dopo, anche Lea, diventò la legittima moglie del patriarca. Rachele, come abbiamo detto, non ebbe il privilegio di conoscere di presenza il padre di suo marito, cioè Isacco, visto che morì per strada, prima che la famiglia arrivasse a destinazione. Ma Lea, però, arrivò a destinazione assieme a tutti i componenti della famiglia, e vide con i suoi occhi Isacco.

Anche di lei è detto che fu una delle due donne che fondarono la casa d’Israele (Rut 4:11). Infine, l’ultimo riferimento che fa la Genesi intorno a Lea, (che vuole essere anche la conclusione della sua storia) riguarda la sua sepoltura. Giacobbe disse:

Qui furono sepolti Abrahamo e sua moglie Sara; furono sepolti Isacco e Rebecca sua moglie, e qui io seppellii Lea (49:31).

Sarà morta Lea, prima che la famiglia di Giacobbe, composta di sessantasei persone (46:26), scendesse in Egitto? Non lo possiamo affermare! Mentre Lea viveva ancora, si parlava della sua stanchezza, che trapelava dal significato del suo nome. Per il fatto che lei non era amata da suo marito; per l’invidia che aveva nei confronti di sua sorella Rachele e per la rivalità che manifestò con lei, per diversi anni, per avere figli. Dopo la sua morte, la migliore lode e il maggiore riconoscimento che Lea ricevette, fu quella di essere considerata una fondatrice della casa d’Israele. Che di ognuno di noi, si possa dire lo stesso! Amen.

RAAB

Largo. Prostituta, la cui casa era sulle mura di Gerico. Il motivo per cui la prostituta Raab, non perì con gli increduli, fu dunque perché accolse in casa sua le spie mandate da Giosuè. Per meglio valutare la fede di questa donna - stando all’affermazione della lettera agli Ebrei -, dobbiamo esaminare il racconto che fa il libro di Giosuè. Il testo precisa:

Or Giosuè, figlio di Nun, mandò due uomini da Sittim per spiare di nascosto, dicendo: Andate, ispezionate il paese di Gerico. Così essi andarono ed entrarono in casa di una donna prostituta, chiamata Raab, e là alloggiarono (Giosuè 2:1).

Inoltre, sappiamo che la casa di Raab era situata sulle mura della città ed ella stessa abitava sulle mura (Giosuè 2:15). Non sappiamo se sulle mura della città di Gerico c’era solamente la casa di Raab, - visto che lei era una prostituta – o se ve ne fossero altre.

Da un primo esame superficiale, sembra impossibile credere come abbiano fatto le due spie del popolo d’Israele, - che poi erano di età giovanile - (Giosuè 6:23), a dirigersi verso una casa di una donna prostituta. Sicuramente Giosuè, che li aveva mandati a Gerico, non avrà dato loro consigli perché si dirigessero in casa di una prostituta. Se poi si tiene presente la rigida proibizione che vigeva in mezzo ai figli d’Israele:

Non vi sarà alcuna donna dedita alla prostituzione sacra tra le figlie d’Israele, né vi sarà alcun uomo dedito alla prostituzione sacra tra i figli d’Israele (Deuteronomio 23:17);

Non contaminare la tua figlia, facendola divenire una prostituta, affinché il paese non si dia alla prostituzione e il paese non si riempia di scelleratezze (Levitico 19:29),

appare improbabile che i due giovani mandati da Giosuè per spiare Gerico, siano andati in casa di Raab, la prostituta, per prostituirsi. Sorge, allora spontanea la domanda: Quale fu il vero motivo che indusse i due uomini Israeliti di andare a finire in casa di una prostituta, ed alloggiare là?

Pensando a quella casa situata «sulle mura della città», e dato che le mura erano abbastanza alte da fungere come un vero osservatorio, e quindi permettere alle spie di vedere Gerico nel suo complesso, e non pensando che in quella casa abitava una prostituta, sicuramente i due giovani Israeliti vi si recarono, per meglio portare a termine la loro missione. Quando però, si resero conto che si trattava di una casa di una prostituta, allora si comportarono da figli d’Israele e fecero subito sapere a Raab per quale scopo erano venuti nella sua casa.

A questo punto la cosa diventa più chiara, principalmente se si tiene conto che nel frattempo la notizia che due uomini erano andati nella casa di Raab, non solo era arrivata al re di Gerico, ma che quegli uomini, erano venuti, per esplorare tutto il paese (Giosuè 2:3). Raab, intuisce subito che la vita di quei due uomini è in serio pericolo, quindi con prontezza e tempestività - anche se dice una menzogna agli inviati del re - ha premura di nasconderli:

(Essa invece li aveva fatti salire sulla terrazza e li aveva nascosti fra gli steli di lino, che vi aveva ammucchiato) (Giosuè 2:6).

Quando i messaggeri del re, lasciarono la casa di Raab e si misero ad inseguire le due spie, nela speranza di poterle raggiungere e catturarle, secondo il consiglio che la stessa Raab aveva loro dato, le parole che ella pronunciò ai due uomini Israeliti, già ci permettono di intravedere la fede di questa donna.

Io so che l’Eterno vi ha dato il paese, che il terrore di voi è caduto su di noi, e che tutti gli abitanti del paese vengono meno dalla paura davanti a voi.
Poiché noi abbiamo udito come l’Eterno asciugò le acque del Mar Rosso davanti a voi quando usciste dall’Egitto, e ciò che faceste ai due re degli Amorei, di là dal Giordano, Sihon e Og, che votaste allo sterminio.
All’udire queste cose, il nostro cuore è venuto meno e non è più rimasto coraggio in alcuno a motivo di voi, perché l’Eterno, il vostro DIO, è DIO lassù nei cieli e quaggiù sulla terra.
Or dunque, vi prego, giuratemi per l’Eterno che, come io vi ho usato clemenza, anche voi userete clemenza con la casa di mio padre; datemi quindi un segno sicuro che lascerete in vita mio padre, mia madre, i miei fratelli, le mie sorelle e tutto ciò che appartiene loro, e che risparmierete le nostre vite dalla morte
(Giosuè 2:9-13).

La risposta e la promessa le venne subito data, a queste precise condizioni:
1) ...Non divulgate qull’ affare (Giosuè 2:14;
2) ...attaccare la cordicella di scarlatto
3) alla finestra dalla quale sono scesi
4) Radunare presso di lei
5) tutta la sua parentela (Giosuè 2:18).

Il fatto che quella donna, in quello stesso giorno, legò la cordicella scarlatta alla finestra (Giosuè 2:21), è già una prova, non solo che ella accettò le condizioni stabilite, ma della sua fede, derivata dal fatto che credeva a quello che l’Eterno aveva operato nel passato per il popolo d’Israele, e che lo stesso avrebbe portato a compimento la presa di Gerico da parte dei figli d’Israele.

Credendo quindi a quello che le due spie le avevano detto, non solo li accolse in casa sua, li nascose sulla terrazza della sua casa, li alloggiò in quella notte, ma anche si distaccò dagli altri, - che l’Epistola agli Ebrei chiama increduli -. Ormai la promessa era stata fatta, a precise condizioni; Raab aveva provveduto a calare dalla sua finestra con una corda le due spie; aveva confessato la sua fede su quello che l’Eterno aveva fatto ad Israele; aveva appeso la cordicella scarlatta alla finestra, non rimaneva che aspettare il nuovo evento.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00mercoledì 27 luglio 2011 00:27
La verità sulla fede di Raab deve essere proclamata con tutta chiarezza, non solamente perché alla sua finestra fu appesa una cordicella scarlatta, - qualcuno dirà: simbolo del sangue di Gesù Cristo - ma essenzialmente perché in lei non c’è più l’incredulità, rispetto a tutti gli altri abitanti di Gerico. Quando le mura della città di Gerico crollarono, - anche se si accetta che fu un movimento tellurico che causò quel crollo, (stando a quello che dicono gli archeologi) non si può però escludere l’intervento di Dio - la casa di Raab, che era stata costruita sulle mura, non crollò; non solo perché Dio protesse quella casa, ma anche perché in quella casa ci abitava una donna che aveva creduto, che aveva fede.

Più tardi questa prostituta venne inclusa nell’elenco genealogico di Gesù Cristo, secondo quello che ha scritto Matteo, divenendo così un chiaro riferimento alla misericordia e alla compassione di Dio in favore dei più abbietti peccatori. L’apostolo Paolo più tardi scriverà:

Or la legge intervenne affinché la trasgressione abbondasse; ma dove il peccato è abbondato, la grazia è sovrabbondata (Romani 5:20).

Quello che dice l’apostolo Giacomo a proposito di Raab

A questo punto, si impone la necessità, di mettere in risalto quello che dice l’apostolo Giacomo nella sua epistola, riguardo a Raab, la meretrice, per meglio comprendere, non solo la fede che questa donna manifestò nell’Iddio d’Israele, ma anche e soprattutto la grazia che ricevette da parte del Signore. Che la prostituta Raab, non debba essere considerata solamente pensando al solo fatto che non perì assieme agli abitanti di Gerico, ma soprattutto in riferimento a quello che insegna il N.T. per quanto riguarda la sua salvezza, intesa come perdono dei peccati e riconciliazione con Dio, questo lo ricaviamo da quello che dice l’apostolo Giacomo:

Raab, la prostituta, non fu essa giustificata per le opere quando accolse i messi e li rimandò per un’altra strada? (Giacomo 2:25).

Il fatto che l’apostolo affermi che Raab fu giustificata, è una chiara prova che Giacomo considerava questa pagana, non solo una prostituta, quindi una peccatrice, ma una persona raggiunta dalla grazia di Dio.Il termine Giustificare, infatti, che troviamo spesso nel N.T. ha sempre il significato di un’azione squisitamente divina in favore del peccatore, e di per se stessa, è più che sufficiente per stabilire la grazia che Raab ricevette da parte di Dio.

Che poi Giacomo precisi che la giustificazione Raab l’ottenne per le opere, e non per fede solamente, come dice Paolo (cfr. Romani 3:28; 5:1), non vuol dire assolutamente che la fede di Raab venga messa in discussione, anzi al contrario la sua fede viene messa in evidenza da quello che ella fece nell’accogliere i messi. Interpretando giustamente quello che Giacomo dice, non c’è da pensare che questo apostolo stia contraddicendo l’insegnamento di Paolo per ciò che riguarda la dottrina della giustificazione.


Esame del testo biblico

Delle 15 volte che il termine greco ergon = opere, si trova nella nostra epistola, ben dodici volte ricorre nella sezione principale di 2:14-26 ed è proprio in questa sezione che Giacomo afferma:

Perciò vedete che l’uomo è giustificato per le opere e non per fede soltanto (Giacomo 2:24).

A parte che in tutti i quindici casi in cui leggiamo il termine opere, Giacomo non parla mai di opere della legge, come avviene specificatamente in Paolo (cfr. Romani 3:28), tutta la sua argomentazione non viene condotta a minimizzare la fede e a innalzare le opere, dando a queste il senso meritorio, come fa la chiesa Cattolica Romana. Né si può dire che Giacomo presenti due distinte entità, fede, opere, come se l’una e l’altra fossero in antitesi. Al contrario, l’apostolo Giacomo vuole dimostrare come deve essere intesa la fede e in quale maniera si manifesta quando è presente in una persona, ed è soprattutto fede viva.

Una fede intesa solamente in senso intellettuale = un assenso mentale, a parte che si riduce come qualcosa di astratto, non è essenzialmente fede vera e viva, se non la si può dimostrare con azioni reali, tangibili e visibili. Ha perfettamente ragione F. Mussner, quando dice: «Il verbo sunerghein, se ben considerato, consente di comprendere meglio il concetto di ‘fede’ che ha Giacomo. Esso dimostra che in 2:18-26 Giacomo non intende far valere le opere contro la fede, ma sottolineare la loro unità inscindibile in una sintesi vivente e convincente. Giacomo non dice nemmeno (e ciò va notato) che le opere collaborano con la fede, ma, viceversa, che la fede collabora con le opere; valore primario è dunque per lui la fede. È inconcepibile per Giacomo un’alternativa: fede oppure opere. È per lui possibile solo un insieme di fede e opere, anzi

«la fede (di Abramo) fu completata dalle opere» (v. 22), dove l’accento è posto su eteleiēthē; cioè senza le opere la fede è un abbozzo, qualcosa di acerbo, di incompiuto. Solo con le opere la fede acquista la sua integrità, la sua completezza, notando che completezza’ è qualcosa di diverso e di più che ‘complemento’» [Cfr. Franz Mussner, La Lettera di Giacomo, pagg. 204,205].

Intesa in questo senso l’affermazione dell’apostolo Giacomo, non ha niente in tutta la sua argomentazione che possa farci vedere un certo conflitto tra lui e Paolo, come alcuni hanno cercato di far vedere a partire da Lutero o per dirla con più specificità: Giacomo insegna la giustificazione per le opere, mentre Paolo per la sola fede. Il fatto poi che Giacomo dica:

Ma qualcuno dirà: Tu hai la fede, e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le tue opere e io ti mostrerò la mia fede con le mie opere (Giacomo 2:18),

dimostra chiaramente che la fede viene messa in evidenza con le opere, vale a dire non è un semplice assenso mentale, e che le opere stesse servono per manifestare la reale presenza della fede, e non come base per la giustificazione. Giustamente Giacomo conclude la sua argomentazione col dire:

Infatti, come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta (Giacomo 2:26).

Il maggiore scoglio da superare in tutta la discussione che Giacomo fa è quello relativo alla giustificazione di Abramo, se questo passaggio viene confrontato con Romani 4. È chiaro infatti che sia Paolo, in (Romani 4:3) e (Giacomo. 2:23), citano (Genesi 15:6): Or Abrahamo credette a Dio, e ciò gli fu imputato a giustizia. Questa citazione è indiscutibilmente riferita alla sola fede di Abrahamo. Ma tenendo presente (Genesi 22:9-12) in cui si racconta del sacrificio di Isacco, come atto supremo dell’obbedienza di Abrahamo alla Parola del Signore, elemento che Paolo non menziona, mentre Giacomo giustamente mette in risalto, ne risulta la conclusione logica che Giacomo fa, quando dice:

Abrahamo, nostro padre non fu forse giustificato per mezzo delle opere, quando offrì il proprio figlio Isacco sull’altare?
Tu vedi che la fede operava insieme alle opere di lui, e che per mezzo delle opere la fede fu resa perfetta
(o compiuta, Luzzi) (Giacomo 2:21-22).

A questo punto:

«dobbiamo approvare il Dibelius quando sottolinea che la ‘fede’ di Abramo in Giacomo 2:23 non viene affermata tenendo conto soltanto di Gen. 15:6, ma di tutta la vita del patriarca» [Cfr. Franz Mussner, La Lettera di Giacomo, pag. 207, nota 17].

Lo stesso Mussner conclude col dire che:

«Giacomo non afferma affatto che la fede non abbia alcun valore giustificante, ma solo che la giustificazione non proviene «dalla fede soltanto», bensì anche dalle opere; meglio ancora: da una fede, che si dimostra tale nelle opere».

Ritornando a Raab e facendo un confronto tra quello che il libro di Giosuè dice da una parte e quello che dice Giacomo dall’altra, lo scrittore agli Ebrei si trova in piena armonia quando afferma: Per fede Raab, la prostituta, non perì con gli increduli, perché aveva accolto in pace le spie.

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Domenico34
00giovedì 28 luglio 2011 00:12
REBECCA

Nota introduttiva

Il nome Rebecca significa corda, laccio. È nominata nella Bibbia 32 volte, 30 dei quali nell’A.T. (tutti nel libro della Genesi) e due volte nel N.T., precisamente in Romani 9:10; 9:12

La storia di questa donna è abbastanza articolata. La descrizione che il testo sacro fornisce, permette di conoscere i suoi pregi e i suoi difetti. Nel solo capitolo 24 della Genesi, il nome di Rebecca è menzionato 14 volte. Dalla descrizione che si fa in questo capitolo, si possono conoscere alcune delle sue caratteristiche.

Si può ammirare il fascino della sua bellezza, la sua gentilezza, la prontezza nel rendersi utile agli altri, la determinazione a prendere serie decisioni personali, riguarnti il futuro. Per conoscere le altre caratteristiche che Rebecca ha avuto, (compresi i suoi difetti), saranno i capitolo 25-27 a farceli conoscere. Infine, per ultimo, ci penserà l’apostolo Paolo, a dare l’ultima pennellata, perché il dipinto sia completo.

Le quattro caratteristiche principali della giovane Rebecca

Le quattro buone caratteristiche che Rebecca manifesta nel capitolo 24 della Genesi, sono:

A. Il fascino della sua bellezza
B. La sua gentilezza
C. La prontezza a rendersi utile
D. La sua ferma decisione

A. Il fascino della bellezza di Rebecca

Quando Abrahamo decise di mandare il suo servo Eliezer, in Mesopotamia, in cerca della moglie per suo figlio Isacco, gli diede precise direttive. Chiariti tutti i dubbi che il servo sollevò per una simile missione, Eliezer si mise in cammino, non sappiamo in quanto tempo raggiunse la destinazione. In quella terra, Eliezer non c’era stato mai. Non conosceva nessuno, e, neanche sapeva dove abitava il parentado di Abrahamo. Sapeva soltanto che la moglie per Isacco, doveva sceglierla in quell’ambiente.

Come fare per conoscere la moglie per il figlio del suo padrone? Certamente, l’idea di rivolgersi a Dio per chiedergli giuda, fu ispirata dal Signore. Ecco la preghiera che Eliezer innalzò a Dio.

«O SIGNORE, Dio del mio signore Abrahamo, ti prego, fammi fare quest’oggi un felice incontro; usa bontà verso Abrahamo mio signore!
Ecco, io sto qui presso questa sorgente; e le figlie degli abitanti della città usciranno ad attingere acqua.
Fa’ che la fanciulla alla quale dirò: Abbassa, ti prego, la tua brocca perché io beva, e che mi risponderà: Bevi, e darò da bere anche ai tuoi cammelli, sia quella che tu hai destinata al tuo servo Isacco. Da questo comprenderò che tu hai usato bontà verso il mio signore»
(Genesi 24:12-14).

Siccome il servo di Abrahamo era arrivato nel luogo giusto e nel tempo giusto, la sua preghiera, fu subito esaudita.

La fanciulla che arrivò al pozzo, prima che Eliezer avesse terminato di pregare, era: Figlia di Betuel figlio di Milca, moglie di Naor fratello d’Abrahamo.
La fanciulla era molto bella d’aspetto, vergine; nessun uomo l’aveva conosciuta. Lei scese alla sorgente, riempì la brocca e risalì
(vv. 15-16).

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Questo naturalmente, Eliezer lo seppe, a seguito delle informazioni che Rebecca gli diede più tardi. Che il fascino della bellezza di Rebecca, lo avesse colpito, è senza dubbio un elemento importante. Poi c’è anche da sottolineare che la bellezza di Rebecca era naturale, nel senso che non erano gli ornamenti esterni che la rendevano tale.

B. La gentilezza di Rebecca

La gentilezza di Rebecca non si poteva notare dal fascino della sua bellezza. Per poterla rilevare, il servo di Abrahamo ha dovuto aspettare che Rebecca cominciasse a parlare. Infatti, è stato il suo parlare che l’ha rivelata!

Rebecca non conosceva quello che Eliezer aveva chiesto al Signore. Per lei, come donna e di fanciulla ancora vergine, entrare in conversazione con un uomo, non vigeva nella prassi di quei tempi. Sentirsi poi fare la richiesta di bere l’acqua dalla sua brocca, da un uomo che non aveva mai incontrato, poteva giustamente insospettirla. Ma, siccome la gentilezza di Rebecca era insita nella sua natura, non ebbe nessuna difficoltà a manifestarla.

La risposta che diede: Bevi, mio signore»; e s’affrettò a calare la brocca sulla mano e gli diede da bere (v. 18), è abbastanza eloquente. Le persone non possono manifestare qualcosa che non hanno; di solito rivelano quello che possiedono! Sì, è vero che a volte l’essere umano indossa la veste dell’ipocrita, per apparire quello che, in effetti, non è. Questo però non ha niente a che vedere, quando si tratta di mettere in evidenza una caratteristica che fa parte della sua natura.

C. La prontezza a rendersi utile di Rebecca

Rebecca, non possedeva solamente gentilezza, aveva anche prontezza d’animo, nel mettersi a disposizione per gli altri. Questa caratteristica la manifestò quando si offerse di dare da bere ai cammelli di Eliezer. Certo, lei non sapeva che nella preghiera che Eliezer fece al Signore, c’era anche quella di dare da bere ai suoi cammelli.

Il Signore che aveva preparato tutto, si servì di una caratteristica che Rebecca possedeva. Quel dare da bere ai cammelli, serviva affinché il servo di Abrahamo, avesse la completa certezza, che il Signore aveva usato benignità verso il suo padrone. Attingere acqua per dissetare dieci cammelli, non fu certamente una lieve fatica per Rebecca!

Per lei però, che aveva prontezza e determinazione, quel tipo di fatica la compì allegramente. Compiendo il lavoro in quel giorno, Rebecca si rese conto, di essersi resa disponibile, in favore di un uomo che non aveva mai incontrato. A questo punto, Eliezer non ha più nessun dubbio: i segni richiesti al Signore, si erano tutti avverati in quel giorno.

Sa con certezza che, questa graziosa, gentile e premurosa fanciulla, dovrà diventare la moglie del figlio del suo padrone, Isacco. Ma chi è questa splendida ragazza? Dove abita e a quale famiglia appartiene? Lo saprà subito, non appena le farà delle specifiche domande.

«Di chi sei figlia? Dimmelo, ti prego. V’è posto in casa di tuo padre per alloggiarci?» (v. 23).

Visto che Rebecca non ebbe nessun sospetto di quell’uomo, non gli domandò chi era e perché si era comportato con lei in quel modo, gli rispose:
«Sono figlia di Betuel, figlio di Milca, che lei partorì a Naor».
E aggiunse: «C’è da noi paglia e foraggio in abbondanza e anche posto da alloggiare»
(vv. 24-25).

Ricevuta una simile risposta,
Eliezer s’inchinò, adorò il SIGNORE, e disse:
«Benedetto sia il SIGNORE, il Dio d’Abrahamo mio signore, che non ha cessato di essere buono e fedele verso il mio signore! Quanto a me, il SIGNORE mi ha messo sulla via della casa dei fratelli del mio signore».
E la fanciulla corse a raccontare queste cose a casa di sua madre
(vv. 26-28).

Eliezer ricevuto in casa di Rebecca

Visto che Rebecca andò a rapportare a casa di sua madre, tutto quello che le era capitato in quel giorno, l’accoglienza che venne riservata ad Eliezer, fu molto cordiale ed affettuosa. Egli, però, prima che si mettesse a tavola per mangiare, disse: «Non mangerò finché non abbia fatto la mia ambasciata» (v. 33).

Ricevuto il permesso, proseguì:
«Io sono servo d’Abrahamo.
Il SIGNORE ha benedetto abbondantemente il mio signore, che è diventato ricco; gli ha dato pecore e buoi, argento e oro, servi e serve, cammelli e asini.
Or Sara, moglie del mio signore, ha partorito nella sua vecchiaia un figlio al mio padrone, il quale gli ha dato tutto quello che possiede.
Il mio signore mi ha fatto giurare, dicendo: Non prenderai per mio figlio una moglie tra le figlie dei Cananei, nel paese dei quali abito;
ma andrai alla casa di mio padre, alla mia famiglia, a prendervi una moglie per mio figlio.
E io dissi al mio padrone: Forse quella donna non vorrà seguirmi.
Egli rispose: Il SIGNORE, davanti al quale ho camminato, manderà con te il suo angelo e darà successo al tuo viaggio; così tu potrai prendere per mio figlio una moglie dalla mia famiglia e dalla casa di mio padre.
Sarai sciolto dal giuramento che ti faccio fare, solo quando sarai andato alla mia famiglia; e, se non vorranno dartela, allora sarai sciolto dal giuramento che mi fai.
Oggi sono arrivato alla sorgente e ho detto: SIGNORE, Dio del mio signore Abrahamo, se gradisci dar successo al viaggio che ho intrapreso,
ecco, io mi fermo presso questa sorgente; fa’ che la fanciulla che uscirà ad attingere acqua, alla quale dirò: «Ti prego, dammi da bere un po’ d’acqua della tua brocca»,
e che mi dirà: «Bevi pure, e ne attingerò anche per i tuoi cammelli», sia la moglie che il SIGNORE ha destinata al figlio del mio signore.
E, prima che avessi finito di parlare in cuor mio, ecco uscire Rebecca con la sua brocca sulla spalla, scendere alla sorgente e attingere l’acqua. Allora io le ho detto:
Ti prego, fammi bere! Ed ella si è affrettata a calare la brocca dalla spalla e mi ha risposto: Bevi! e darò da bere anche ai tuoi cammelli. Così ho bevuto io, e lei ha abbeverato anche i cammelli.
Poi l’ho interrogata e le ho detto: Di chi sei figlia? Lei ha risposto: Son figlia di Betuel, il figlio che Milca partorì a Naor. Allora io le ho messo l’anello al naso e i braccialetti ai polsi.
Mi sono inchinato, ho adorato il SIGNORE e ho benedetto il SIGNORE, il Dio d’Abrahamo mio signore, che mi ha guidato sulla giusta via a prendere per suo figlio la figlia del fratello del mio signore.
Ora, se volete usare bontà e fedeltà verso il mio signore, ditemelo; e se no, ditemelo lo stesso, e io mi volgerò a destra o a sinistra»
(vv. 34-49).

Davanti a questa dettagliata descrizione, tutti nella casa di Rebecca, accettarono l’ambasciata di Eliezer, convinti che era la volontà di Dio.

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Domenico34
00venerdì 29 luglio 2011 00:14
Allora Labano e Betuel risposero: «La cosa procede dal SIGNORE; noi non possiamo dirti né male né bene.
Ecco, Rebecca ti sta davanti: prendila, va’, e sia moglie del figlio del tuo signore, come il SIGNORE ha detto»
(vv. 50-51).

Avuto la definitiva conferma, Eliezer compì un gesto davanti a tutti, come segno di gratitudine al Signore.

Quando il servo d’Abrahamo udì le loro parole, si prostrò a terra davanti al SIGNORE.
Poi il servo tirò fuori oggetti d’argento, oggetti d’oro, vesti e li diede a Rebecca; donò anche delle cose preziose al fratello e alla madre di lei
(vv. 52-53).

D. La ferma decisione di Rebecca

La giornata del servo di Abrahamo, in casa dei genitori di Rebecca, si concluse con un pranzo a suo onore.

Il giorno seguente, Eliezer voleva ripartire per ritornare a casa del suo signore.
E il fratello e la madre di Rebecca dissero: «Rimanga la fanciulla ancora alcuni giorni con noi, almeno una decina; poi se ne andrà».
Ma egli rispose loro: «Non mi trattenete, giacché il SIGNORE ha dato successo al mio viaggio; lasciatemi partire, perché io me ne torni dal mio signore».
Allora dissero: «Chiamiamo la fanciulla e sentiamo lei stessa».
Chiamarono Rebecca e le dissero: «Vuoi andare con quest’uomo?» E lei rispose: «Sì, andrò»
(vv. 55-58).

A questo punto, entra in azione Rebecca, con una determinata e pronta decisione. D’altra parte, è solo lei che può decidere se partire col servo di Abrahamo, o rimanere ancora per alcuni giorni, in casa dei suoi genitori. Le sue parole: Sì, andrò, rispecchiavano con quale decisione Rebecca faceva la sua scelta. La decisione che prese in quel giorno, riguardava il futuro della sua vita. Di fronte a questo, Rebecca non poteva dipendere dalla volontà di suo padre, di sua madre o di suo fratello. Era una faccenda personale; di conseguenza, stava a lei, dire l’ultima parola. La determinazione ferma e decisa che Rebecca prese in quella circostanza, è un nobile esempio da imitare, in tutti i settori della vita, specie per le cose di Dio.

Il matrimonio di Rebecca e la nascita di Giacobbe e di Esaù

Fatta la decisione di andare subito col servo di Abrahamo, Rebecca si licenziò dalla sua famiglia, si levò con le sue serve, montò sopra un cammello e seguì Eliezer (vv. 59-61). L’incontro tra Rebecca e Isacco, avvenne sul far della sera in campagna (v. 63). Dopo che Eliezer raccontò quello che egli aveva fatto,
Isacco condusse Rebecca nella tenda di Sara sua madre, la prese, ed ella divenne sua moglie, ed egli l’amò. Così Isacco fu consolato dopo la morte di sua madre (v. 67).

Isacco aveva quarant’anni quando prese per moglie Rebecca, figlia di Betuel, l’Arameo di Paddan-Aram, e sorella di Labano, l’Arameo (Genesi 25:20).

Per quanto riguarda Rebecca, non sappiamo niente, visto che lo scrittore sacro non ha ritenuto opportuno riferirci la sua età, quando si unì in matrimonio con Isacco. Si sa che Rebecca, rimase sterile per circa venti anni, prima di concepire e partorire due maschietti, di nome Giacobbe ed Esaù. Il calcolo di questo dato, si ricava dall’età che aveva Isacco, quando Rebecca li partorì (Genesi 25:26).

Il comportamento di Rebecca come mamma

Da mamma, il comportamento di Rebecca, non fu ideale, nel senso che non trattò i suoi due figli nella stessa maniera. Che questi due figli di Rebecca manifestino due tendenze diverse, è provato dal racconto biblico. Di Esaù si afferma che divenne un esperto cacciatore, un uomo di campagna, mentre Giacobbe fu un uomo tranquillo che se ne stava nelle tende (25:27). In conseguenza di ciò, Isacco amava Esaù, perché la cacciagione era di suo gusto. Rebecca invece amava Giacobbe (25:28).

La decisione d'Isacco di impartire la sua benedizione ad Esaù prima della sua morte, rivelò il vero comportamento di Rebecca, nei confronti dei suoi due figli. Visto che lei amava Giacobbe, non perse tempo a riferirgli, quello che aveva sentito dire da suo marito, a Esaù. Tenuto conto che il suggerimento della mamma, non piacque in un primo momento a Giacobbe, questi però, finì per ubbidirla, dietro la sua insistenza. Tutto quello che la Bibbia riferisce intorno al procedere di Giacobbe, in vista di ricevere la benedizione di suo padre, fu abilmente concepito e diretto da Rebecca.

È chiaro che, nel procedere di Rebecca, non vi è parità di trattamento. I due figli non vennero trattati nello stesso modo: Giacobbe venne favorito, mentre Esaù venne ignorato e tradito.

Non si sostenga che se Rebecca agisse in quel modo, fu essenzialmente in conformità a quello che Dio gli aveva rivelato mentre si trovava incinta, come vorrebbe far credere Susan Niditch:

«Due nazioni sono nel tuo grembo e due popoli separati usciranno dal tuo seno. Uno dei due popoli sarà più forte dell’altro, e il maggiore servirà il minore» (Genesi 25:23). È molto discutibile l’affermazione che fa questa scrittrice, nel commentare la storia di Rebecca e Giacobbe: Rebecca diventa la custode della notizia che il maggiore, Esaù, servirà Giacobbe, il minore, e si adopera attivamente per adempiere la profezia divina (25:21-23) La Bibbia delle donne, volume primo: da Genesi a Neemia a cura di Carol A. Newsom e Sharon H. Ringe, pag. 41].

Anzitutto bisognerebbe provare se nel tempo della profezia divina, Rebecca, comprendesse pienamente il messaggio divino, riguardante suo figlio Giacobbe, che ancora doveva nascere. Inoltre, si tenga presente che al tempo quando Giacobbe si era camuffato per Esaù, per ricevere la benedizione del padre, erano passati più di quaranta anni (Genesi 26:34). Come se quest'elemento non avesse nessun'importanza, bisognerebbe, inoltre elogiare l’imposizione della volontà di Rebecca su suo figlio Giacobbe, che in un certo qual senso lo inducesse a pronunciare tutte le menzogne davanti a suo padre Isacco, giustificarlo, come se menzogna fosse un sinonimo di verità, con l’approvazione divina, naturalmente. Chi oserebbe a tanta sfrontatezza? Chi avrebbe il coraggio di affermare che Dio non odia la menzogna?

Sei cose odia il SIGNORE, anzi sette gli sono in abominio:
gli occhi alteri, la lingua bugiarda, le mani che spargono sangue innocente,
il cuore che medita disegni iniqui, i piedi che corrono frettolosi al male,
il falso testimone che proferisce menzogne, e chi semina discordie tra fratelli
(Proverbi 6:16-19).

Sì, è vero che nei piani divini, era Giacobbe che Dio amava, mentre Esaù era odiato

«Io vi ho amati», dice il SIGNORE; «e voi dite: In che modo ci hai amati? Esaù non era forse fratello di Giacobbe?» dice il SIGNORE; «eppure io ho amato Giacobbe
e ho odiato Esaù; ho fatto dei suoi monti una desolazione e ho dato la sua eredità agli sciacalli del deserto»
(Malachia 1:2-3).

Questo però non significa che Dio per portare a compimento i piani della Sua volontà, approvò la strategia di Rebecca e giustificò le menzogne di Giacobbe.

Uno dei principi biblici, valido per tutti i tempi, si trova nelle parole che Giuseppe pronunciò ai suoi fratelli: Voi avevate pensato del male contro di me, ma Dio ha pensato di convertirlo in bene per compiere quello che oggi avviene: per conservare in vita un popolo numeroso (Genesi 50:20) e nelle parole dell’apostolo Paolo. Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno (Romani 8:28).

Dio non chiama mai il male bene; Egli lo cambia in modo tale da risultare in favore dei suoi figli. Infatti, Dio che conosce in profondità il significato del male, rivolge un severo e perentorio monito: Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro! (Isaia 5:20). A causa della benedizione che Giacobbe ricevette da suo padre Isacco, Esaù odiava Giacobbe e si proponeva di ucciderlo, dopo la morte del padre (27:41).

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Domenico34
00sabato 30 luglio 2011 00:12
Sentita la decisione di Esaù di volersi vendicarsi di suo fratello, Rebbecca concepisce un piano di salvataggio per il suo prediletto Giacobbe.

…«Esaù, tuo fratello, vuole vendicarsi e ucciderti.
Ora, figlio mio, ubbidisci alla mia voce; lèvati e fuggi a Caran da mio fratello Labano,
rimani laggiù, finché il furore di tuo fratello sia passato,
finché l’ira di tuo fratello si sia stornata da te ed egli abbia dimenticato quello che tu gli hai fatto. Allora io manderò a farti ritornare da laggiù. Perché dovrei essere privata di voi due in uno stesso giorno?»
(27:42-45)

Inoltre, il consiglio che Rebecca diede a suo marito, di fare partire Giacobbe verso la casa di Labano, non fu leale, per il semplice fatto che gli nascose il vero motivo.

Rebecca disse ad Isacco: «Sono disgustata a causa di queste donne ittite. Se Giacobbe prende in moglie, tra le Ittite, tra le abitanti del paese, una come quelle, che mi giova la vita?» (27:46)

Infine, tutto quello che Giacobbe passò, durante i lunghi venti anni di permanenza nella casa di Labano, fu la diretta conseguenza del comportamento errato di Rebecca. A questo punto, sentiamo la necessità di rivolgere un buon consiglio alle mamme.

Ogni mamma deve fare molta attenzione a non praticare parzialità con i propri figli! Il diverso trattamento che manifesta verso di loro, potrebbe essere fonte di seri guai e sofferenze. Visto che le mamme esercitano molta influenza nella loro vita, esse devono essere molto accorte nel dare consigli. La libertà di scelta, non deve essere mai violata, ma rispettata. I figli devono imparare ad agire con la loro testa, nelle loro scelte e nelle loro decisioni. Le mamme possono consigliare, in base alle loro esperienze, ma mai imporre la loro volontà. Se le mamme sapranno comportarsi in questo modo, esse potranno risparmiare tanti guai ai loro figli, ed essere da tutti benvolute e rispettate.

REUMA

Esaltato. Concubina di Naor, fratello di Abramo e madre di Teba, Gaam e Maaca (Genesi 22:24).

RISPA

Pietra bruciata. Figlia d’Aia e concubina di Saul (2 Samuele 3:7; 21:8,11).

RUT

Giovane Moabita, moglie di Malon, nuora di Naomi e cognata di Orpa. La storia di questa donna è narrata nel libro che porta il suo nome. È una storia molto interessante; è anche ricca di preziosi insegnamenti per la vita pratica. Vale, quindi la pena, considerarla.

Si afferma che la famiglia d’Elimelec, dimorò nelle campagne di Moab dieci anni (1:4). Non si può stabilire quando avvenne il matrimonio tra Rut e Malon e neanche quanto tempo stettero insieme, prima che venisse la morte per Malon. Se lo scrittore sacro avesse ritenuto opportuno riferirci questa nota biografica, egli non avrebbe mancato certamente di comunicarcela. La cosa importante per la storia di Rut, non è costituita dal tempo che visse con suo marito Malon, ma quello che accadde dopo.

Naomi, da persona sensibile e comprensiva che era, consigliò a Rut, sua nuora, di ritornare alla casa di sua madre, e risposarsi nuovamente, visto la giovane età che lei aveva (1:8-9). Dalla risposta che Rut le diede, Naomi capì che le cose andavano viste sotto un diverso aspetto, di come lei le vedeva.

«Non pregarmi di lasciarti, per andarmene via da te; perché dove andrai tu, andrò anch’io; e dove starai tu, io pure starò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio;
dove morirai tu, morirò anch’io, e là sarò sepolta. Il SIGNORE mi tratti con il massimo rigore, se altra cosa che la morte mi separerà da te!»
(1:16-17).

Si afferma che Naomi, notando la fermezza di Rut a non lasciarla, non gliene parlò più (v. 18).

La decisione e la fermezza di Rut

Nelle parole che Rut pronunciò alla suocera, si può ammirare la decisione e la fermezza di questa giovane. Nonostante che Rut fosse di giovane età, si era veramente affezionata alla suocera, da non pensare di volersi separare da lei, per ritornare in casa di sua madre. Nuore che si affezionano in questo modo con le suocere, ce ne sono poche ai nostri giorni! Le giovani spose (e anche le giovani vedove), dovrebbero riflettere seriamente su i loro comportamenti nei confronti delle loro suocere! Ognuno di noi, dovrebbe imparare da certe azioni che si compiono, ad imitarle e applaudirle, senza nessuna riserva.

Se si considera attentamente la ferma decisione di Rut, essa non riguardava solamente la volontà di non separarsi dalla suocera, ma c’era anche la determinazione ad abbracciare la fede della suocera. Rut, come Moabita, appartenente ad un popolo pagano, aveva una diversa fede. Questa sua fede, la tenne cara per sé, durante tutto il tempo che visse con suo marito. Quando morì Malon, e fece la sua decisione di rimanere con la suocera, Rut fece anche la decisione di convertirsi alla religione ebraica, ed abbracciare la stessa fede della suocera.

Che questa scelta l’abbia fatta lei, nella sua libera decisione, senza subire una certa pressione esterna, bisogna prenderne atto, visto che appare abbastanza chiaro dal testo biblico. La fede nel vero Dio, non si può imporre a nessuno; deve essere un atto spontaneo e libero, della volontà di un individuo. Le cose imposte, oltre a non avere nessun valore, non durano nel tempo.

È la tragica realtà che si nota nella vita di tanti figli che, durante la loro giovinezza, seguono la religione dei genitori. Però, quando diventano maggiorenni, se la fede che professano il padre e la madre, non la sentono in loro, sono pronti ad abbandonarla. In materia di fede, valgono le parole di Gesù:

«Se uno vuol venire dietro a me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua.
Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per amor mio e del vangelo, la salverà.
E che giova all’uomo se guadagna tutto il mondo e perde l’anima sua?
Infatti, che darebbe l’uomo in cambio della sua anima?
Perché se uno si sarà vergognato di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui quando verrà nella gloria del Padre suo con i santi angeli»
(Marco 8:34-38).

Se uno mi serve, mi segua; e là dove sono io, sarà anche il mio servitore; se uno mi serve, il Padre l’onorerà (Giovanni 12:26).

Rut a Betlemme

Fatta la decisione di non separarsi dalla suocera, Rut, seguendo la madre del marito, arrivò a Betlemme e si stabilì in quel centro abitato. Tenuto conto che quando Rut arrivò a Betlemme, era il tempo della mietitura, essa chiese alla suocera di permetterle di andare a spigolare. Ricevuto il permesso, andò a finire per caso, in un campo di un ricco possidente agrario. Il proprietario Boaz, seppe che la fanciulla che spigolava dietro i mietitori, era una giovane Moabita che era ritornata con Naomi dalle campagne di Moab. A rivelargli ciò, fu il suo servo incaricato di sorvegliare i mietitori (2:6).

L’informazione che il servo diede al suo padrone, l’avrà ottenuta: o direttamente dalla fanciulla, oppure da qualcuno che aveva saputo del ritorno di Naomi a Betlemme. Le parole che Boaz rivolse a Rut e la risposta che da lei ricevette, sono abbastanza eloquenti da farci capire che Boaz aveva approvato che Rut si trovasse a spigolare nei suoi campi.

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Domenico34
00domenica 31 luglio 2011 00:30
«Ascolta, figlia mia; non andare a spigolare in un altro campo; e non allontanarti da qui, ma rimani con le mie serve;
guarda qual è il campo che si miete, e va’ dietro a loro. Ho ordinato ai miei servi che non ti tocchino; e quando avrai sete, andrai a bere dai vasi l’acqua che i servi avranno attinta».
Allora Rut si gettò giù, prostrandosi con la faccia a terra, e gli disse: «Come mai ho trovato grazia agli occhi tuoi, così che tu presti attenzione a me che sono una straniera?»
Boaz le rispose: «Mi è stato riferito tutto quello che hai fatto per tua suocera dopo la morte di tuo marito, e come hai abbandonato tuo padre, tua madre e il tuo paese natio, per venire ad un popolo che prima non conoscevi.

Il SIGNORE ti dia il contraccambio di quel che hai fatto, e la tua ricompensa sia piena da parte del SIGNORE, del Dio d’Israele, sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti!»
Lei gli disse: «Possa io trovare grazia agli occhi tuoi, o mio signore! Poiché tu mi hai consolata, e hai parlato al cuore della tua serva, sebbene io non sia neppure come una delle tue serve»
(2:8-13).

Naomi vuole rendere felice Rut

Siccome Rut non conosceva nessuno, quando la sera ritornò a casa, la suocera le chiese: Dove hai spigolato oggi? Dove hai lavorato? Rut, nel risponderle, non solo raccontò l’accoglienza cordiale che aveva ricevuta, ma rivelò anche il nome del proprietario in cui si era recata a spigolare in quel giorno. A sentire il nome di Boaz, Naomi, esclamò:

«Sia egli benedetto dal SIGNORE, perché non ha rinunciato a mostrare ai vivi la bontà che ebbe verso i morti!» E aggiunse: «Quest’uomo è nostro parente stretto; è di quelli che hanno su di noi il diritto di riscatto» (2:20).

Ora, Naomi, rendendosi conto che sua nuora si era recata nel campo di Boaz, il suo stretto parente, comprende che Rut potrà essere sistemata ed essere resa felice. Perciò, non indugiò a dirle:

«Figlia mia, io devo assicurarti una sistemazione perché tu sia felice.
Boaz, con le cui serve sei stata, non è forse nostro parente? Ecco, stasera deve ventilare l’orzo nell’aia.
Làvati dunque, profumati, indossa il tuo mantello e scendi all’aia; ma non farti riconoscere da lui prima che egli abbia finito di mangiare e di bere.
E quando se ne andrà a dormire, osserva il luogo dov’egli dorme; poi va’, alzagli la coperta dalla parte dei piedi, e coricati lì; e lui ti dirà quello che tu debba fare».
Rut le rispose: «Farò tutto quello che dici»
(3:1-5).

Quando Boaz, di notte tempo si rese conto che nell’aia, dove lui stava dormendo, c’era una donna, coricata ai suoi piedi, subito domandò:

«Chi sei?» le chiese. E lei rispose: «Sono Rut, tua serva; stendi il lembo del tuo mantello sulla tua serva, perché tu hai il diritto di riscatto».
Ed egli a lei: «Sii benedetta dal SIGNORE, figlia mia! La tua bontà d’adesso supera quella di prima, poiché non sei andata dietro a dei giovani, poveri o ricchi.
Non temere, dunque, figlia mia; io farò per te tutto quello che dici, perché tutti qui sanno che sei una donna virtuosa
(vv 9-11).

A sentire quello che la nuora le raccontò, Naomi assicurò Rut che, Boaz, quello stesso giorno, avrebbe portato a termine quell’affare (v. 18). Infatti, nel giro di poco tempo, Rut, la Moabita, divenne la moglie del ricco Boaz, dal cui matrimonio ebbe un figlio, che si chiamò Obed. Egli fu padre d’Isai, padre di Davide (4:17).

Riflessioni su Rut

1. Il rispetto che si porta ad una persona che veramente si ama, non può essere costituito di sole parole; dovrà essere dimostrato con azioni tangibili e visibili, per avere valore. Se le parole non vengono accompagnate dai fatti, quanto belle possano essere, esse rimangono sempre parole. Le varie frasi che spesso si ripetono: ti voglio bene; ti amo, sono tutto per te, spesso nei fatti, si rivelano ipocrite e non veritiere. Sono solamente una facciata, un abbellimento esterno.

2. Le decisioni che si prendono, hanno significato e valore, quando c’è la fermezza che le convalida. Se poi sono prese in seguito ad un suggerimento o sotto forma di una pressione, non possono essere qualificate come il frutto della spontaneità e della libera volontà. Una qualsiasi decisione che si prende, deve anche comportare, (a secondo dei casi), la disponibilità a pagarne il prezzo; massimamente quando si ha a che fare con le cose di Dio, con le realtà spirituali.

3. Una conversione dettata da convenienze umane, a parte che non è vera, essa non ha neanche valore. Se non c’è un vero cambiamento di direzione, è solamente un palliativo; buono solamente per ingannare. Quando si abbraccia con tutto il cuore, la fede nel Signor Gesù Cristo, non si prova nessuna vergogna a proclamarla. Se davanti a persone di diversa fede, non si ha il coraggio di confessare a chi si appartiene e chi sì serve, ciò significa che non c’è la certezza a chi si crede.

4. Accettare e seguire determinati buoni consigli, questi ci potranno risparmiare dal fare certe esperienze negative che, di solito, lascierebbero l’amaro in bocca, per non parlare addirittura di delusioni. Nessuna persona sarà disposta a seguire un buon consiglio, se prima non si è convinti della sua bontà. Solo allora, con la certezza nella mente e nel cuore, si raggiungeranno sicuri traguardi.

5. Rendere felice una persona che veramente si stima e si ha rispetto, significa mettersi a disposizione di quel individuo, fare del tutto per raggiungere quella meta, senza risparmiare energie e mezzi. Dalla felicità che altri potranno raggiungere, da chi si interessa a procurarla, verrà anche un appagamento, per la gioia che immancabilmente si proverà. Non c’è cosa più significativa, quando si compie un’azione per procurare il bene agli altri.

SARAI

La storia di questa donna, è raccontata nel libro della Genesi. Il suo nome è attestato 17 volte. I testi dove si fa menzione di lei sono: 11:29-30,31; 12:5,11,17; 16:1-2,2-3,5-6,8:17:15. Si comincia col ricordarci che era una donna sposata ad Abramo; era sterile, non aveva figli e abitava in Mesopotamia, ad Ur dei Caldei.

Sarai era sterile; non aveva figli.

Tera prese Abramo, suo figlio, e Lot, figlio di Aran, cioè figlio di suo figlio, e Sarai sua nuora, moglie d’Abramo suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nel paese di Canaan. Essi giunsero fino a Caran, e là soggiornarono (Genesi 11:30-31).

Lo spostamento di Abramo e SARAI da Ur dei Caldei, non avvenne solamente perché Tera, padre di Abramo, prese figlio e nuora e li fece uscire per andare nel paese di Canaan, ma principalmente perché il Signore aveva dato un preciso comando ad Abramo:

«Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò;
io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione
(Genesi 12:1-2).

Il testo sacro precisa che a seguito di questa rivelazione divina,
Abramo prese SARAI sua moglie e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Caran, e partirono verso il paese di Canaan (Genesi 12:5).

Siccome tra marito e moglie c’era una differenza di dieci anni, quando Abramo lasciò Caran, aveva settantacinque anni, SARAI ne aveva sessantacinque. Visto che in Mesopotania la coppia aveva accumulato un patrimonio non indifferente di oro, argento e bestiame (Genesi 13:2), quando lasciarono la loro terra, portarono tutto con loro.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00lunedì 1 agosto 2011 00:08
La prima considerazione che facciamo su SARAI, riguarda la posizione sociale ed economica in cui viveva a Caran: l’atteggiamento che manifestò nei confronti di suo marito, allorquando questi le comunicò la rivelazione divina di lasciare la loro terra. Una donna moderna, al posto di SARAI, non avrebbe accettato facilmente un trasferimento, per dirigersi verso località ignote, senza una chiara prospettiva per il futuro. Avrebbe detto a suo marito: abbiamo raggiunto una buona posizione sociale ed economica; abbiamo la nostra indipendenza, le conoscenze e le amicizie che abbiamo, sono tali da garantirci una certa tranquillità che riguarda il nostro futuro.

Non sarebbe una pazzia lasciare il nostro benessere per avventurarci verso luoghi sconosciuti, senza avere una minima certezza di quello che ci riserverà il nostro futuro? Il fatto stesso che SARAI non fa a suo marito un simile ragionamento, non si oppone alla chiamata divina, accetta il trasferimento senza obbiettare e senza opporre resistenza, di per se stesso essa rivela un’atteggiamento rispettoso e sottomesso.

Quest'atteggiamento è molto importante, tra marito e moglie, specialmente quando si ha a che fare con un impegno ministeriale nel campo del Signore. Un simile procedere faciliterà enormemente i piani divini per la vita di una coppia cristiana, e, i vari ostacoli che si potranno incontrare nel cammino della vita, saranno superati senza eccessive difficoltà.

Strategia per superare una particolare situazione

Abramo e Sarai si trovano nel paese di Canaan. Una carestia che colpì la terra di Canaan, costrinse la coppia a scendere in Egitto per dimorarvi.

Pensando alla bellezza di SARAI, Abramo è assillato da una seria preoccupazione per la sua vita. Lui crede che gli Egiziani, posando i loro sguardi su sua moglie, finiranno per ucciderlo, lasciando in vita Sarai, allo scopo di poterla avere per loro. In vista di ciò, Abramo escogita una strategia per evitare che la sua previsione si avveri.

Di’ dunque che sei mia sorella, perché io sia trattato bene a motivo di te e la vita mi sia conservata per amor tuo» (Genesi 12:13).

La strategia ebbe un buon esito; ad Abramo venne risparmiato la vita, gli venne data la possibilità di avere pecore, buoi, asini, servi, serve, asine e cammelli (12:16), ma Sarai andò a finire in casa del Faraone, il quale, se la prese per moglie (v. 19). A motivo dell’accordo che Abramo e SARAI presero, nell’affermare davanti agli Egiziani che i due erano fratello e sorella, subirono un disonore: Abramo venne privato del diritto di sposo su SARAI, e SARAI andò a finire nelle braccia di un uomo che non era suo marito.

Tutto questo, naturalmente, perché la coppia non seppe valutare la gravità di una menzogna, premeditata e concordata, non tanto davanti agli Egiziani quanto davanti a Dio. Se gli sposi, sapessero riflettere seriamente su certe decisioni errate che a volte prendono, potrebbero risparmiarsi tragiche ripercussioni nella loro vita che, immancabilmente, lascierebbero segni e cicatrici che non si cancelleranno facilmente.

Il piano concepito da Sarai

Trascorsi dieci anni di permanenza in Canaan, SARAI concepisce un piano per risolvere un suo problema, relativo ad avere figli. Quando con suo marito, SARAI partì dalla Mesopotamia, Ur dei Caldei, aveva sessantacinque anni. In quello stesso anno, Dio prometteva ad Abramo di dargli una discendenza che avrebbe posseduto la terra di Canaan (Genesi 12:7). Che questa promessa divina, Abramo l’abbia comunicato a sua moglie, non c’è nessun'incertezza.

Ora, SARAI ha settantacinque anni, e, nonostante siano passati dieci anni da quando Dio fece la promessa, la situazione nella vita di SARAI non è cambiata: era sterile quando abitava in Caran, ed è ancora sterile nel paese di Canaan. Non solo la situazione non è cambiata, ma addirittura SARAI è convinta che l’Eterno le abbia impedito di avere figli (Genesi 16:2, N.D.). Questa sua persuasione, equivaleva ad affermare che per lei, non c’era nessuna possibilità di diventare mamma, visto che era stato il Signore a determinare una simile situazione.

Intanto SARAI vuole avere figli a qualsiasi costo, e, tenuto conto che lei non li potrà avere, concepì un piano per risolvere il suo problema. La sua serva Agar, (che probabilmente avrà preso, durante il tempo del suo soggiorno in Egitto), è cresciuta ed è abbastanza adatta perché attraverso di lei, potrà avere figli. Il piano è molto semplice: si tratta di consegnare Agar nelle mani di suo marito Abramo, come moglie. Concepito il piano, ne parlò subito a suo marito, il quale, acconsentendo alla voce di SARAI, entrò da Agar, che rimase incinta… (Genesi 16:3-4 N.D.).

Finalmente il piano concepito da SARAI, aveva avuto successo, perché già la sua serva Agar, aspettava un figlio. A questo punto, fare qualche domanda e qualche considerazione sulla strategia di SARAI, è quasi d’obbligo. Da quello che si legge nel racconto biblico, non risulta che in SARAI, ci sia stato un minimo di ripensamento o pentimento, per quello che fece nel dare la sua serva Agar, a suo marito come moglie. Se in seguito SARAI si disgustò tanto della sua serva, fino al punto di non volerla più presso di sé, non fu perché provò un certo rimorso per quello che aveva ideato, ma per l’atteggiamento sprezzante che Agar assunse nei suoi confronti, quando si rese conto che aspettava un bambino.

Egli andò da Agar, che rimase incinta; e quando si accorse di essere incinta, guardò la sua padrona con disprezzo.
SARAI disse ad Abramo: «L’offesa fatta a me ricada su di te! Io ti ho dato la mia serva in seno e, da quando si è accorta d’essere incinta, mi guarda con disprezzo. Il SIGNORE sia giudice fra me e te».
Abramo rispose a SARAI: «Ecco, la tua serva è in tuo potere; falle ciò che vuoi». Sarai la trattò duramente e quella se ne fuggì da lei
(Genesi 16:4-6).

Questo significa, senza tema di essere smentiti che, se Agar non avesse assunto quell’atteggiamento sprezzante nei confronti della sua padrona, a SARAI non sarebbe neanche balenato il pensiero di mandar via la sua serva. Sull’atteggiamento ostile di Agar, ne abbiamo già parlato.

Ritornando a SARAI, chiediamo: come mai non provò nessuna vergogna, nel consegnare la sua serva Agar a suo marito? Sì, è vero che Agar, come serva (e i servi in quel tempo erano veri schiavi, nel senso più completo del termine) non aveva nessun diritto, né di opporsi alla volontà della sua padrona, né usare il proprio corpo a suo piacimento.

Ma SARAI, la padrona, essendo persona libera, avrebbe dovuto manifestare un po’ di sensibilità nei confronti della sua serva, e, almeno, avrebbe dovuto chiederle, se non avesse niente in contrario, ad andare a letto con Abramo, suo marito. È vero che il racconto biblico non fa nessun riferimento a quello che stiamo dicendo, ma dal punto di vista umano, almeno c’è da supporlo. SARAI, in quello che ideò, agì da vera egoista, senza il minimo rispetto per la vita degli altri. L’egoismo, in qualsiasi campo lo collochiamo, agisce sempre ignorando gli altri, e tiene solamente presente l’utilità personale, senza preoccuparsi del danno morale e fisico che arreca agli altri. Sotto quest'aspetto, c’è tanto da riflettere!

C’è anche da dire qualcosa, per quanto riguarda l’aspetto morale della questione. Ha pensato a ciò SARAI? Considerava peccato una simile unione fisica, tra la sua serva e suo marito Abramo?

Siamo convinti che se Sarai avesse considerato la questione morale, non avrebbe mai permesso che la sua serva andasse a finire a letto con suo marito. Anche su Abramo, bisogna dire qualcosa. Come mai egli non reagì negativamente alla proposta di sua moglie, di unirsi fisicamente con Agar? Considerò Abramo, l’aspetto morale della questione?

Quant’altro si potrebbe chiedere, a noi sembra che nessuno dei due, avranno considerato e tenuto conto l’aspetto morale della questione. Che dire, ai nostri giorni, delle unioni illecite, fuori del matrimonio? Perché si praticano spesso e con molta facilità? La risposta è una sola: la questione morale, affermano certuni, è qualcosa che appartiene all’antichità; qualcosa da definire un tabù, non più compatibile con l’era moderna.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00lunedì 1 agosto 2011 00:08
La prima considerazione che facciamo su SARAI, riguarda la posizione sociale ed economica in cui viveva a Caran: l’atteggiamento che manifestò nei confronti di suo marito, allorquando questi le comunicò la rivelazione divina di lasciare la loro terra. Una donna moderna, al posto di SARAI, non avrebbe accettato facilmente un trasferimento, per dirigersi verso località ignote, senza una chiara prospettiva per il futuro. Avrebbe detto a suo marito: abbiamo raggiunto una buona posizione sociale ed economica; abbiamo la nostra indipendenza, le conoscenze e le amicizie che abbiamo, sono tali da garantirci una certa tranquillità che riguarda il nostro futuro.

Non sarebbe una pazzia lasciare il nostro benessere per avventurarci verso luoghi sconosciuti, senza avere una minima certezza di quello che ci riserverà il nostro futuro? Il fatto stesso che SARAI non fa a suo marito un simile ragionamento, non si oppone alla chiamata divina, accetta il trasferimento senza obbiettare e senza opporre resistenza, di per se stesso essa rivela un’atteggiamento rispettoso e sottomesso.

Quest'atteggiamento è molto importante, tra marito e moglie, specialmente quando si ha a che fare con un impegno ministeriale nel campo del Signore. Un simile procedere faciliterà enormemente i piani divini per la vita di una coppia cristiana, e, i vari ostacoli che si potranno incontrare nel cammino della vita, saranno superati senza eccessive difficoltà.

Strategia per superare una particolare situazione

Abramo e Sarai si trovano nel paese di Canaan. Una carestia che colpì la terra di Canaan, costrinse la coppia a scendere in Egitto per dimorarvi.

Pensando alla bellezza di SARAI, Abramo è assillato da una seria preoccupazione per la sua vita. Lui crede che gli Egiziani, posando i loro sguardi su sua moglie, finiranno per ucciderlo, lasciando in vita Sarai, allo scopo di poterla avere per loro. In vista di ciò, Abramo escogita una strategia per evitare che la sua previsione si avveri.

Di’ dunque che sei mia sorella, perché io sia trattato bene a motivo di te e la vita mi sia conservata per amor tuo» (Genesi 12:13).

La strategia ebbe un buon esito; ad Abramo venne risparmiato la vita, gli venne data la possibilità di avere pecore, buoi, asini, servi, serve, asine e cammelli (12:16), ma Sarai andò a finire in casa del Faraone, il quale, se la prese per moglie (v. 19). A motivo dell’accordo che Abramo e SARAI presero, nell’affermare davanti agli Egiziani che i due erano fratello e sorella, subirono un disonore: Abramo venne privato del diritto di sposo su SARAI, e SARAI andò a finire nelle braccia di un uomo che non era suo marito.

Tutto questo, naturalmente, perché la coppia non seppe valutare la gravità di una menzogna, premeditata e concordata, non tanto davanti agli Egiziani quanto davanti a Dio. Se gli sposi, sapessero riflettere seriamente su certe decisioni errate che a volte prendono, potrebbero risparmiarsi tragiche ripercussioni nella loro vita che, immancabilmente, lascierebbero segni e cicatrici che non si cancelleranno facilmente.

Il piano concepito da Sarai

Trascorsi dieci anni di permanenza in Canaan, SARAI concepisce un piano per risolvere un suo problema, relativo ad avere figli. Quando con suo marito, SARAI partì dalla Mesopotamia, Ur dei Caldei, aveva sessantacinque anni. In quello stesso anno, Dio prometteva ad Abramo di dargli una discendenza che avrebbe posseduto la terra di Canaan (Genesi 12:7). Che questa promessa divina, Abramo l’abbia comunicato a sua moglie, non c’è nessun'incertezza.

Ora, SARAI ha settantacinque anni, e, nonostante siano passati dieci anni da quando Dio fece la promessa, la situazione nella vita di SARAI non è cambiata: era sterile quando abitava in Caran, ed è ancora sterile nel paese di Canaan. Non solo la situazione non è cambiata, ma addirittura SARAI è convinta che l’Eterno le abbia impedito di avere figli (Genesi 16:2, N.D.). Questa sua persuasione, equivaleva ad affermare che per lei, non c’era nessuna possibilità di diventare mamma, visto che era stato il Signore a determinare una simile situazione.

Intanto SARAI vuole avere figli a qualsiasi costo, e, tenuto conto che lei non li potrà avere, concepì un piano per risolvere il suo problema. La sua serva Agar, (che probabilmente avrà preso, durante il tempo del suo soggiorno in Egitto), è cresciuta ed è abbastanza adatta perché attraverso di lei, potrà avere figli. Il piano è molto semplice: si tratta di consegnare Agar nelle mani di suo marito Abramo, come moglie. Concepito il piano, ne parlò subito a suo marito, il quale, acconsentendo alla voce di SARAI, entrò da Agar, che rimase incinta… (Genesi 16:3-4 N.D.).

Finalmente il piano concepito da SARAI, aveva avuto successo, perché già la sua serva Agar, aspettava un figlio. A questo punto, fare qualche domanda e qualche considerazione sulla strategia di SARAI, è quasi d’obbligo. Da quello che si legge nel racconto biblico, non risulta che in SARAI, ci sia stato un minimo di ripensamento o pentimento, per quello che fece nel dare la sua serva Agar, a suo marito come moglie. Se in seguito SARAI si disgustò tanto della sua serva, fino al punto di non volerla più presso di sé, non fu perché provò un certo rimorso per quello che aveva ideato, ma per l’atteggiamento sprezzante che Agar assunse nei suoi confronti, quando si rese conto che aspettava un bambino.

Egli andò da Agar, che rimase incinta; e quando si accorse di essere incinta, guardò la sua padrona con disprezzo.
SARAI disse ad Abramo: «L’offesa fatta a me ricada su di te! Io ti ho dato la mia serva in seno e, da quando si è accorta d’essere incinta, mi guarda con disprezzo. Il SIGNORE sia giudice fra me e te».
Abramo rispose a SARAI: «Ecco, la tua serva è in tuo potere; falle ciò che vuoi». Sarai la trattò duramente e quella se ne fuggì da lei
(Genesi 16:4-6).

Questo significa, senza tema di essere smentiti che, se Agar non avesse assunto quell’atteggiamento sprezzante nei confronti della sua padrona, a SARAI non sarebbe neanche balenato il pensiero di mandar via la sua serva. Sull’atteggiamento ostile di Agar, ne abbiamo già parlato.

Ritornando a SARAI, chiediamo: come mai non provò nessuna vergogna, nel consegnare la sua serva Agar a suo marito? Sì, è vero che Agar, come serva (e i servi in quel tempo erano veri schiavi, nel senso più completo del termine) non aveva nessun diritto, né di opporsi alla volontà della sua padrona, né usare il proprio corpo a suo piacimento.

Ma SARAI, la padrona, essendo persona libera, avrebbe dovuto manifestare un po’ di sensibilità nei confronti della sua serva, e, almeno, avrebbe dovuto chiederle, se non avesse niente in contrario, ad andare a letto con Abramo, suo marito. È vero che il racconto biblico non fa nessun riferimento a quello che stiamo dicendo, ma dal punto di vista umano, almeno c’è da supporlo. SARAI, in quello che ideò, agì da vera egoista, senza il minimo rispetto per la vita degli altri. L’egoismo, in qualsiasi campo lo collochiamo, agisce sempre ignorando gli altri, e tiene solamente presente l’utilità personale, senza preoccuparsi del danno morale e fisico che arreca agli altri. Sotto quest'aspetto, c’è tanto da riflettere!

C’è anche da dire qualcosa, per quanto riguarda l’aspetto morale della questione. Ha pensato a ciò SARAI? Considerava peccato una simile unione fisica, tra la sua serva e suo marito Abramo?

Siamo convinti che se Sarai avesse considerato la questione morale, non avrebbe mai permesso che la sua serva andasse a finire a letto con suo marito. Anche su Abramo, bisogna dire qualcosa. Come mai egli non reagì negativamente alla proposta di sua moglie, di unirsi fisicamente con Agar? Considerò Abramo, l’aspetto morale della questione?

Quant’altro si potrebbe chiedere, a noi sembra che nessuno dei due, avranno considerato e tenuto conto l’aspetto morale della questione. Che dire, ai nostri giorni, delle unioni illecite, fuori del matrimonio? Perché si praticano spesso e con molta facilità? La risposta è una sola: la questione morale, affermano certuni, è qualcosa che appartiene all’antichità; qualcosa da definire un tabù, non più compatibile con l’era moderna.

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