Domenico34 – Profeti e profezia nel Nuovo Testamento – Capitolo 2. ADEMPIMENTO DI QUANTO PREDETTO DAI PROFETI DELL’A.T.

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Domenico34
00venerdì 6 maggio 2011 00:12

Capitolo 2




ADEMPIMENTO DI QUANTO PREDETTO DAI PROFETI DELL’A.T.




1. Profeta al singolare

La formula che usa il Nuovo Testamento a proposito dell’adempimento di quanto avevano predetto i profeti dell’A.T. è “affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo dei profeti”. Questa formula è particolarmente cara a Matteo, visto che delle 14 volte in cui viene impiegata nel Nuovo Testamento, 11 si trovano nel suo evangelo. Ciò conferma che nel susseguirsi degli eventi, in particolare nei riguardi del ministero di Gesù in terra, Matteo si è dimostrato molto attento nel cercare un confronto con quello che avevano predetto i profeti dell’A.T. per constatarne il loro avverarsi.

Per meglio apprezzare questo modo di esprimersi del Nuovo Testamento ed evidenziare il contenuto delle sue citazioni, è utile esaminare i diversi passi, anche e soprattutto per visionare i detti profetici e la loro interpretazione fornita dagli scrittori del Nuovo Testamento per spiegare in che modo si siano avverati.

Gli evangelisti Matteo e Marco

Nel raccontare la nascita di Gesù, l’evangelista Matteo non segue le orme di Luca poiché non fornisce la medesima ricchezza di particolari. Nonostante ciò, Matteo rivolge una particolare attenzione alle profezie riguardanti la straordinaria ed epocale venuta del Messia, Gesù Cristo.
Il profeta Isaia aveva predetto che la giovane donna ebr. ‘almah, termine che i traduttori ebrei della Septuaginta non hanno esitato ad accostare a parthēnos, cioè vergine, avrebbe concepito e partorito un figlio, il cui nome sarebbe stato Emmanuele, senza specificare il nome della madre. La profezia di tale nascita si trova in Isaia 7:14, con le seguenti parole:

Perciò il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.

Matteo, dal canto suo, lo riporta nel seguente modo: «La vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele», che tradotto vuol dire: «Dio con noi» (Matteo 1:23).

Un simile evento che per Matteo non è comune in quanto comporta la nascita di un figlio senza l’intervento dell’uomo, bensì, come giustamente descriverà Luca, grazie allo Spirito Santo (Luca 1:30-34), viene visto dall’evangelista come l’avverarsi della profezia d'Isaia. Ecco perché egli precisa: Tutto ciò avvenne, affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta (Matteo 1:22).

Alla notizia della venuta dei magi dall’Oriente a Gerusalemme in cerca del neonato re dei Giudei, condotti dalla sua stella e venuti per adorarlo, il re Erode, il Grande, non solo fu sorpreso e turbato ma si informò anche dai capi sacerdoti e dagli scribi del popolo per conoscere il luogo dove il Cristo sarebbe nato. La risposta che gli venne data fu:

«In Betlemme di Giudea; poiché così è stato scritto per mezzo del profeta:
"E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei affatto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un principe, che pascerà il mio popolo Israele”»
(Matteo 2:5-6).

Il profeta che aveva predetto ciò, era stato Michea: «Ma da te, o Betlemme, Efrata, sebbene tra le più piccole città principali di Giuda, da te mi uscirà colui che sarà dominatore in Israele, le cui origini risalgono ai tempi antichi, ai giorni eterni (Mechea 5:1).

Isaia, settecento anni prima, aveva predetto che la giovane donna avrebbe partorito un figlio e Michea, cinquecento anni prima, aveva precisato che il luogo di questa nascita sarebbe stato Betlemme di Giudea. Siccome quei due profeti parlarono per conto di Dio, cioè guidati dal Suo Spirito, quelle predizioni si avverarono perfettamente.

Il re Erode si indignò per il comportamento dei magi poiché questi, a causa di una rivelazione divina, non passarono a fargli visita ma ritornarono a casa loro per un’altra strada, cosicché il sovrano, accecato dall’ira, ordinò il massacro di tutti i bambini di Betlemme aventi età inferiore ai due anni, secondo le informazioni assunte dai magi (Matteo 2:16). Siccome quel bambino che Erode cercava era Gesù, il Figlio di Dio, mandato in terra per compiere una missione particolare in favore dell’intera umanità, un simile scellerato obiettivo non poteva essere raggiunto.

Sul figlio partorito da Maria vegliava l’occhio divino, perciò un angelo del Signore venne mandato a Betlemme per avvisare Giuseppe della trama infanticida di Erode. Questi, senza indugiare, notte tempo prese madre e figlio e, lasciando Betlemme, se ne andò in Egitto, dove rimasero fino alla morte di Erode. Matteo, il quale era sempre attento a trovare negli avvenimenti un riferimento alle profezie, non mancò di ricollegare tale episodio ad Osea: «Quando Israele era fanciullo, io lo amai e chiamai mio figlio fuori d’Egitto (Osea 11:1). Per l’evangelista, non c’è nessun dubbio: il detto del profeta calza bene con l’evento, e, senza nessun tentennamento affermò: Affinché si adempisse quello che fu detto dal Signore per mezzo del profeta: «Fuori d’Egitto chiamai mio figlio» (Matteo 2:15).

La missione dei dodici

Preannunciando agli apostoli la loro missione, Gesù descrisse la ricompensa futura assegnata ai Suoi fedeli. In quell’occasione Gesù parlò del premio di profeta e della ricompensa del giusto. Ecco le Sue parole:

«Chi riceve voi, riceve me; e chi riceve me, riceve colui che mi ha mandato.
Chi riceve un profeta come profeta, riceverà premio di profeta; e chi riceve un giusto come giusto, riceverà premio di giusto
(Matteo 10:40-41).

La distinzione di Gesù non era certamente finalizzata a stabilire la superiorità del premio di profeta su quello del giusto o viceversa, bensì per evitare confusione tra di loro. Quale dei due fosse da preferire, Gesù non lo specificò; è un segreto che Egli ha voluto riserbale a se stesso e che sarà rivelato nel giorno della resa dei conti, quando assegnerà il premio sulla base di ciò che ognuno avrà compiuto.

I concetti di salvezza e di premio

Diciamo subito, per evitare un qualsiasi fraintendimento, che il Nuovo Testamento, in modo particolare, non fa nessuna confusione tra la salvezza e il premio. In particolare affermiamo che in nessuna parte degli scritti neotestamentari la salvezza viene definita e presentata come “premio”, ma piuttosto come “il dono di Dio” che si riceve per “grazia” mediante la fede in Cristo Gesù. Il che significa che la salvezza non è frutto di ciò che fa l’uomo e di quello che fa Dio: è tutta opera del Signore. Gli stessi concetti di salvezza e di premio non sono sinonimi.

D’altra parte, se si fa distinzione tra premio e salvezza si potranno meglio comprendere le parole del Maestro e inquadrare l’insegnamento biblico, così come ci viene tramandato dalle Scritture. A dimostrazione della differenza tra “salvezza” e “premio”, basterà semplicemente tener conto del loro significato intrinseco. La “salvezza” è il dono di Dio, cioè “grazia”, favore immeritato, non basato sul comportamento dell’uomo ma sulla fede in Cristo Gesù (Efesini 2:8-10). Questa sarà uguale per tutti i credenti e non terrà conto di quanto si è fatto per il Signore Gesù Cristo.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00sabato 7 maggio 2011 00:07
Tale concetto è illustrato magistralmente dalla parabola degli operai delle diverse ore. I primi operai che andarono a lavorare nella vigna, lavorarono un’intera giornata, sostenendo il peso del raccolto per l’intera durata del giorno; quelli dell’ultima ora lavorarono decisamente meno, per l’appunto solo un’ora. Tuttavia al termine della giornata lavorativa tutti ricevettero la stessa somma pattuita, cioè un denaro, senza tener conto del tempo impiegato nella vigna del Signore.
Per quanto riguarda il premio, invece, il discorso cambia radicalmente. Per illustrare questo concetto si può ricorrere a due parabole: quella dei “talenti” e quella delle “mine”. Queste due parabole spiegano chiaramente la base su cui sì fonda il premio. Si ritiene opportuno riportare il testo evangelico, così da averlo sottomano.

La parabola dei talenti

«Poiché avverrà come ad un uomo il quale, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e affidò loro i suoi beni.
A uno diede cinque talenti, a un altro due e a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità; e partì.
Subito, chi aveva ricevuto i cinque talenti, andò a farli fruttare, e ne guadagnò altri cinque.
Allo stesso modo, quello dei due talenti ne guadagnò altri due.
Ma chi ne aveva ricevuto uno, andò a fare una buca in terra e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo, il padrone di quei servi ritornò a fare i conti con loro.
Chi aveva ricevuto i cinque talenti, venne e presentò altri cinque talenti, dicendo: "Signore, tu mi affidasti cinque talenti, ecco, ne ho guadagnato altri cinque".
Il suo padrone gli disse: "Va bene, servo buono e fedele; sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore".
Poi, si presentò anche quello dei due talenti e disse: "Signore, tu mi affidasti due talenti; ecco, ne ho guadagnato altri due".
Il suo padrone gli disse: "Va bene, servo buono e fedele, sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore".
Poi si avvicinò anche quello che aveva ricevuto un talento solo, e disse: "Signore, io sapevo che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso;
ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; eccoti il tuo".
Il suo padrone gli rispose: "Servo malvagio e fannullone, tu sapevi che io mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso;
dovevi dunque portare il mio denaro dai banchieri; al mio ritorno avrei ritirato il mio con l’interesse.
Toglietegli dunque il talento e datelo a colui che ha i dieci talenti.
Poiché a chiunque ha, sarà dato ed egli sovrabbonderà; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha.
E quel servo inutile, gettatelo nelle tenebre di fuori. Lì sarà il pianto e lo stridor dei denti
(Matteo 25:14-30).

La prima considerazione è che l’uomo della parabola prima di partire affidò ai suoi servi il suo denaro: ad uno consegnò cinque talenti, ad un altro ne diede due e ad un terzo uno. Anche se la differenza di denaro tra un servo e l’altro è evidente, l’assegnazione venne fatta a ciascuno secondo la sua capacità. Nel contesto della nostra argomentazione, l’elemento che ha valore non è costituito dalla quantità di denaro ricevuta, ma dal modo in cui è stato adoperato.

L’attività dei primi due servitori viene descritta con le stesse parole: entrambi fecero “fruttare” il denaro ricevuto. Avendo raddoppiato il capitale, il loro impegno e la loro attività concretizzarono un ottimo risultato. Se l’ultimo si fosse impegnato nella stessa maniera, anche il suo talento si sarebbe raddoppiato. Mancò alcun guadagno non perché il denaro era poco, ma perché mancò l’iniziativa e l’impegno per farlo fruttare.

Quando l’uomo della parabola ritornò e fece i conti con i suoi servitori, per il primo e per il secondo usò le stesse parole: Va bene, servo buono e fedele, sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore. Tuttavia chi aveva ricevuto due talenti non poteva affermare di averne guadagnato altri cinque, a differenza del primo. A suo volta il padrone considerava il primo servitore come uno che aveva guadagnato di più rispetto il secondo.

Il terzo servitore venne definito “malvagio” non perché aveva ricevuto un solo talento, ma perché si dimostrò un vero “fannullone”. La scusa della paura di perdere il denaro non valse nel giorno della resa dei conti. La quantità di denaro che il suo signore gli affidò era essenzialmente commisurato alle sue capacità. Un paio di altri testi serviranno a comprendere meglio la verità.

Quando uno dice: «Io sono di Paolo»; e un altro: «Io sono d’Apollo»; non siete forse uomini carnali?
Che cos’è dunque Apollo? E che cos’è Paolo? Sono servitori, per mezzo dei quali voi avete creduto; e lo sono nel modo che il Signore ha dato a ciascuno di loro.
Io ho piantato, Apollo ha annaffiato, ma Dio ha fatto crescere;
quindi colui che pianta e colui che annaffia non sono nulla: Dio fa crescere!
Ora, colui che pianta e colui che annaffia sono una medesima cosa, ma ciascuno riceverà il proprio premio secondo la propria fatica
(1Corinzi 3:4-8).

«Ecco, sto per venire e con me avrò la ricompensa da dare a ciascuno secondo le sue opera» (Apocalisse 22:12).

Se Paolo parlò ai Corinzi riferendosi a se stesso come chi pianta e ad Apollo come chi annaffia, certamente non è per mettere in risalto il suo lavoro rispetto a quello di Apollo o viceversa, ma per far capire che quanto viene fatto per il Signore sia dall’uno che dall’altro non è nulla dal momento che Chi fa crescere il raccolto è Dio. Diverso discorso è il premio, poiché ciascuno riceverà la propria ricompensa secondo la propria fatica.
Infine il testo dell’Apocalisse stabilisce che sarà Gesù a conferire la ricompensa a ciascuno secondo le proprie opere.

La parabola delle mine

Mentre essi ascoltavano queste cose, Gesù aggiunse una parabola, perché era vicino a Gerusalemme ed essi credevano che il regno di Dio stesse per manifestarsi immediatamente.
Disse dunque: «Un uomo nobile se ne andò in un paese lontano per ricevere l’investitura di un regno e poi tornare.
Chiamati a sé dieci suoi servi, diede loro dieci mine e disse loro: "Fatele fruttare fino al mio ritorno".
Or i suoi concittadini l’odiavano e gli mandarono dietro degli ambasciatori per dire: "Non vogliamo che costui regni su di noi".
Quando egli fu tornato, dopo aver ricevuto l’investitura del regno, fece venire quei servi ai quali aveva consegnato il denaro, per sapere quanto ognuno avesse guadagnato mettendolo a frutto.
Si presentò il primo e disse: "Signore, la tua mina ne ha fruttate altre dieci".
Il re gli disse: "Va bene, servo buono; poiché sei stato fedele nelle minime cose, abbi potere su dieci città".
Poi venne il secondo, dicendo: "La tua mina, Signore, ha fruttato cinque mine".
Egli disse anche a questo: "E tu sii a capo di cinque città".
Poi ne venne un altro che disse: "Signore, ecco la tua mina che ho tenuto nascosta in un fazzoletto,
perché ho avuto paura di te che sei uomo duro; tu prendi quello che non hai depositato, e mieti quello che non hai seminato".
Il re gli disse: "Dalle tue parole ti giudicherò, servo malvagio! Tu sapevi che io sono un uomo duro, che prendo quello che non ho depositato e mieto quello che non ho seminato;
perché non hai messo il mio denaro in banca, e io, al mio ritorno, lo avrei riscosso con l’interesse?"
Poi disse a coloro che erano presenti: "Toglietegli la mina e datela a colui che ha dieci mine".
Essi gli dissero: "Signore, egli ha dieci mine!"
"Io vi dico che a chiunque ha sarà dato; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00domenica 8 maggio 2011 00:05
Tale concetto è illustrato magistralmente dalla parabola degli operai delle diverse ore. I primi operai che andarono a lavorare nella vigna, lavorarono un’intera giornata, sostenendo il peso del raccolto per l’intera durata del giorno; quelli dell’ultima ora lavorarono decisamente meno, per l’appunto solo un’ora. Tuttavia al termine della giornata lavorativa tutti ricevettero la stessa somma pattuita, cioè un denaro, senza tener conto del tempo impiegato nella vigna del Signore.
Per quanto riguarda il premio, invece, il discorso cambia radicalmente. Per illustrare questo concetto si può ricorrere a due parabole: quella dei “talenti” e quella delle “mine”. Queste due parabole spiegano chiaramente la base su cui sì fonda il premio. Si ritiene opportuno riportare il testo evangelico, così da averlo sottomano.

La parabola dei talenti

«Poiché avverrà come ad un uomo il quale, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e affidò loro i suoi beni.
A uno diede cinque talenti, a un altro due e a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità; e partì.
Subito, chi aveva ricevuto i cinque talenti, andò a farli fruttare, e ne guadagnò altri cinque.
Allo stesso modo, quello dei due talenti ne guadagnò altri due.
Ma chi ne aveva ricevuto uno, andò a fare una buca in terra e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo, il padrone di quei servi ritornò a fare i conti con loro.
Chi aveva ricevuto i cinque talenti, venne e presentò altri cinque talenti, dicendo: "Signore, tu mi affidasti cinque talenti, ecco, ne ho guadagnato altri cinque".
Il suo padrone gli disse: "Va bene, servo buono e fedele; sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore".
Poi, si presentò anche quello dei due talenti e disse: "Signore, tu mi affidasti due talenti; ecco, ne ho guadagnato altri due".
Il suo padrone gli disse: "Va bene, servo buono e fedele, sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore".
Poi si avvicinò anche quello che aveva ricevuto un talento solo, e disse: "Signore, io sapevo che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso;
ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; eccoti il tuo".
Il suo padrone gli rispose: "Servo malvagio e fannullone, tu sapevi che io mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso;
dovevi dunque portare il mio denaro dai banchieri; al mio ritorno avrei ritirato il mio con l’interesse.
Toglietegli dunque il talento e datelo a colui che ha i dieci talenti.
Poiché a chiunque ha, sarà dato ed egli sovrabbonderà; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha.
E quel servo inutile, gettatelo nelle tenebre di fuori. Lì sarà il pianto e lo stridor dei denti
(Matteo 25:14-30).

La prima considerazione è che l’uomo della parabola prima di partire affidò ai suoi servi il suo denaro: ad uno consegnò cinque talenti, ad un altro ne diede due e ad un terzo uno. Anche se la differenza di denaro tra un servo e l’altro è evidente, l’assegnazione venne fatta a ciascuno secondo la sua capacità. Nel contesto della nostra argomentazione, l’elemento che ha valore non è costituito dalla quantità di denaro ricevuta, ma dal modo in cui è stato adoperato.

L’attività dei primi due servitori viene descritta con le stesse parole: entrambi fecero “fruttare” il denaro ricevuto. Avendo raddoppiato il capitale, il loro impegno e la loro attività concretizzarono un ottimo risultato. Se l’ultimo si fosse impegnato nella stessa maniera, anche il suo talento si sarebbe raddoppiato. Mancò alcun guadagno non perché il denaro era poco, ma perché mancò l’iniziativa e l’impegno per farlo fruttare.

Quando l’uomo della parabola ritornò e fece i conti con i suoi servitori, per il primo e per il secondo usò le stesse parole: Va bene, servo buono e fedele, sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore. Tuttavia chi aveva ricevuto due talenti non poteva affermare di averne guadagnato altri cinque, a differenza del primo. A suo volta il padrone considerava il primo servitore come uno che aveva guadagnato di più rispetto il secondo.

Il terzo servitore venne definito “malvagio” non perché aveva ricevuto un solo talento, ma perché si dimostrò un vero “fannullone”. La scusa della paura di perdere il denaro non valse nel giorno della resa dei conti. La quantità di denaro che il suo signore gli affidò era essenzialmente commisurato alle sue capacità. Un paio di altri testi serviranno a comprendere meglio la verità.

Quando uno dice: «Io sono di Paolo»; e un altro: «Io sono d’Apollo»; non siete forse uomini carnali?
Che cos’è dunque Apollo? E che cos’è Paolo? Sono servitori, per mezzo dei quali voi avete creduto; e lo sono nel modo che il Signore ha dato a ciascuno di loro.
Io ho piantato, Apollo ha annaffiato, ma Dio ha fatto crescere;
quindi colui che pianta e colui che annaffia non sono nulla: Dio fa crescere!
Ora, colui che pianta e colui che annaffia sono una medesima cosa, ma ciascuno riceverà il proprio premio secondo la propria fatica
(1Corinzi 3:4-8).

«Ecco, sto per venire e con me avrò la ricompensa da dare a ciascuno secondo le sue opera» (Apocalisse 22:12).

Se Paolo parlò ai Corinzi riferendosi a se stesso come chi pianta e ad Apollo come chi annaffia, certamente non è per mettere in risalto il suo lavoro rispetto a quello di Apollo o viceversa, ma per far capire che quanto viene fatto per il Signore sia dall’uno che dall’altro non è nulla dal momento che Chi fa crescere il raccolto è Dio. Diverso discorso è il premio, poiché ciascuno riceverà la propria ricompensa secondo la propria fatica.
Infine il testo dell’Apocalisse stabilisce che sarà Gesù a conferire la ricompensa a ciascuno secondo le proprie opere.

La parabola delle mine

Mentre essi ascoltavano queste cose, Gesù aggiunse una parabola, perché era vicino a Gerusalemme ed essi credevano che il regno di Dio stesse per manifestarsi immediatamente.
Disse dunque: «Un uomo nobile se ne andò in un paese lontano per ricevere l’investitura di un regno e poi tornare.
Chiamati a sé dieci suoi servi, diede loro dieci mine e disse loro: "Fatele fruttare fino al mio ritorno".
Or i suoi concittadini l’odiavano e gli mandarono dietro degli ambasciatori per dire: "Non vogliamo che costui regni su di noi".
Quando egli fu tornato, dopo aver ricevuto l’investitura del regno, fece venire quei servi ai quali aveva consegnato il denaro, per sapere quanto ognuno avesse guadagnato mettendolo a frutto.
Si presentò il primo e disse: "Signore, la tua mina ne ha fruttate altre dieci".
Il re gli disse: "Va bene, servo buono; poiché sei stato fedele nelle minime cose, abbi potere su dieci città".
Poi venne il secondo, dicendo: "La tua mina, Signore, ha fruttato cinque mine".
Egli disse anche a questo: "E tu sii a capo di cinque città".
Poi ne venne un altro che disse: "Signore, ecco la tua mina che ho tenuto nascosta in un fazzoletto,
perché ho avuto paura di te che sei uomo duro; tu prendi quello che non hai depositato, e mieti quello che non hai seminato".
Il re gli disse: "Dalle tue parole ti giudicherò, servo malvagio! Tu sapevi che io sono un uomo duro, che prendo quello che non ho depositato e mieto quello che non ho seminato;
perché non hai messo il mio denaro in banca, e io, al mio ritorno, lo avrei riscosso con l’interesse?"
Poi disse a coloro che erano presenti: "Toglietegli la mina e datela a colui che ha dieci mine".
Essi gli dissero: "Signore, egli ha dieci mine!"
"Io vi dico che a chiunque ha sarà dato; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.

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Domenico34
00lunedì 9 maggio 2011 00:02
E quei miei nemici che non volevano che io regnassi su di loro, conduceteli qui e uccideteli in mia presenza"» (Luca 19:11-27).

Il motivo per cui abbiamo riportato questa parabola, come anche quella dei talenti, non è quello di calcolare il valore del talento e della mina, ma solamente di illustrare la verità sul premio.

A differenza dalla parabola dei talenti, in cui si parla dei tre servitori che ricevettero il denaro commisurato alla loro capacità, in quello delle mine, invece, oltre a non essere menzionato l’elemento della capacità, viene solamente precisato che l’uomo nobile prima di partire diede dieci mine a dieci suoi servitori con l’incarico di fare fruttare il suo denaro fino al suo ritorno. Nel resoconto dei servitori (sebbene dei dieci iniziali rimasero solo tre) ognuno dei tre dice espressamente di aver ricevuto una sola mina.

Con il discorso del primo servo (Signore, la tua mina ne ha fruttato altre dieci) si comprende come il merito del lauto guadagno non sia dovuto alla quantità di capitale disponibile ma all’impegno e alla laboriosità. Stesso discorso per il secondo: La tua mina, Signore, ha fruttato cinque mine. La differenza consiste solo nel risultato ottenuto: sia l’uno che l’altro vennero elogiati per aver fatto fruttare il denaro ricevuto, ma la ricompensa, ossia il potere sulle città, fu commisurata al loro impegno e al risultato conseguito. Per il terzo servo vale la stessa considerazione della parabola dei talenti. Venne definito “malvagio” non perché aveva ricevuto poco denaro, – in questo caso addirittura ricevette la stessa quantità del primo e del secondo – ma perché non si impegnò a farlo fruttare. Rimane infine un’affermazione dell’apostolo Paolo nella 1a ai Corinzi.

Quello che Paolo insegna nella 1a ai Corinzi

Scrivendo ai Corinzi, egli puntualizzava:
Noi siamo, infatti, collaboratori di Dio, voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio.
Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, com'esperto architetto, ho posto il fondamento; un altro vi costruisce sopra. Ma ciascuno badi a come vi costruisce sopra;
poiché nessuno può porre altro fondamento oltre a quello già posto, cioè Cristo Gesù.
Ora, se uno costruisce su questo fondamento con oro, argento, pietre di valore, legno, fieno, paglia,
l’opera di ognuno sarà messa in luce; perché il giorno di Cristo la renderà visibile; poiché quel giorno apparirà come un fuoco; e il fuoco proverà quale sia l’opera di ciascuno.
Se l’opera che uno ha costruita sul fondamento rimane, egli ne riceverà ricompensa;
se l’opera sua sarà arsa, egli ne avrà il danno; ma egli stesso sarà salvo; però come attraverso il fuoco
(1Corinzi 3:9-15).
Si noti in questo brano come l’apostolo Paolo parli di ricompensa e di salvezza, due distinte verità che non vanno mai confuse e fraintese. Il suo riferimento al fondamento dei propri edifici in oro, argento, pietre di valore, legno, fieno e paglia, illustra due categorie di costruttori. Senza dubbio la sua argomentazione è indirizzata ai credenti e non al mondo. Il mondo, inteso come umanità che si oppone a Dio e non si adegua agli insegnamenti divini, non edifica su un fondamento che risponde ai suoi ideali; al contrario è facile trovare riscontro della grazia di Dio nella vita dei credenti. Manifestare il desiderio di essere graditi al Signore rientra nella logica di un vero seguace di Gesù. Di conseguenza la loro attitudine è ben diversa da quella del mondo, perché sanno in fin dei conti che il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno (1Giovanni 2:17).

In considerazione di ciò, i credenti adoperano materiali che resistono alla prova del fuoco. Ciò non toglie che possano esserci credenti il cui modo di agire è paragonato a chi edifica sopra il fondamento usando materiali che non resistono al fuoco, come il legno, il fieno e la paglia. Per questo tipo di costruttori la perdita sarà inevitabile, ma riguarderà la ricompensa della loro fatica, non la loro salvezza. Questo infatti è il senso delle parole di Paolo:

Se l’opera che uno ha costruito sul fondamento rimane, egli ne riceverà ricompensa; se l’opera sua sarà arsa, egli ne avrà il danno; ma egli stesso sarà salvo; però come attraverso il fuoco.

Il modo di parlare di Gesù

Gesù parlava spesso mediante parabole essenzialmente in armonia con le profezie dell’A.T.. Matteo, come abbiamo rilevato all’inizio, nel testimoniare il ministero di Gesù in mezzo agli uomini, ha provato il Suo ruolo nelle Scritture profetiche descrivendo il suo comportamento e il suo modo di parlare. Nella serie di parabole che egli riporta nel suo evangelo, leggiamo le seguenti parole:

Tutte queste cose disse Gesù in parabole alle folle e senza parabole non diceva loro nulla,
affinché si adempisse quello che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò in parabole la mia bocca; proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo»
(Matteo 13:35).

La citazione di Matteo deriva dal libro dei Salmi: Io aprirò la mia bocca per esprimere parabole, esporrò i misteri dei tempi antichi (Salmo 78:2). Queste parole furono pronunciate da Asaf in uno dei suoi Salmi. Certamente egli adoperò quel modo di parlare in lode e gloria del suo Dio al quale il suo canto era indirizzato. Inoltre questo cantore-musicista non era conosciuto come un profeta del Signore; Matteo, grazie all’illuminazione dello Spirito di Dio, attribuì alla composizione parabolica di Asaf il modo di parlare di Gesù.

Ora Gesù si trova a Nazaret, nella sua patria: insegnando nella sinagoga, le persone che lo sentivano parlare si stupivano e dicevano:

«Da dove gli vengono tanta sapienza e queste opere potenti?
Non è questi il figlio del falegname? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda?
E le sue sorelle non sono tutte tra di noi? Da dove gli vengono tutte queste cose?»
E si scandalizzavano a causa di lui. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria e in casa sua».
E lì, a causa della loro incredulità, non fece molte opere potenti
(Matteo 13:54-58).

Ora ci domandiamo: perché Gesù disse che un profeta non è disprezzato che nella sua patria e in casa sua? Si tratta solo di un proverbio, come pensano i commentatori, o piuttosto descrive la posizione dei nazaretani assunto nei Suoi confronti? Anche se si accetta il primo valore, non si può negare l’atteggiamento ostile degli abitanti di quel centro abitato nei Suoi confronti.

Gli abitanti di Nazaret infatti conoscevano senza dubbio Gesù, anche perché era cresciuto in mezzo a loro per tanti anni. Conseguentemente, nonostante la somma sapienza e le tante opere portentose, non potevano ignorare che sua madre fosse Maria, che era il figlio del falegname, e che i suoi fratelli si chiamavano Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda. Siccome nessuno della sua famiglia era in grado di eguagliare Gesù sia in sapienza che in opere, comprensibilmente i nazaretani stentavano a credere in ciò che sentivano e vedevano, anzi, piuttosto si scandalizzavano a causa di lui.

«La gente di Nazaret si rifiutava di credere in Gesù Cristo e intralciava il suo ministero in città. Il problema di Nazaret era l’eccessiva familiarità, perché gli abitanti della città non riuscivano a vedere al di là del giovane che era cresciuto in mezzo a loro. Sicuramente una persona così “ordinaria” non poteva essere il Messia promesso. Di conseguenza respingevano il Messia e si scandalizzavano a causa di lui» [Louis A. Barbieri, Jr. Investigate le Scrittura, Nuovo Testamtento, pag. 57].

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Domenico34
00martedì 10 maggio 2011 00:19
«La parola di Dio viene rifiutata dove meno ci si aspetta. Lutero applica la pericope alla chiesa e sostiene «che in nessun luogo si è così annoiati della parola di Dio come là dov’essa è abbondantemente insegnata... le eresie nascono solo nelle chiese e dalle chiese». La noia nasce dal non prendere sul serio le cose» [Joachim Gnilka, Il vangelo di Matteo, Parte prima, pagg. 747-748].

Un testo che ha fatto discutere i commentatori

Un testo del vangelo di Giovanni ha fatto discutere parecchio i commentatori. Il passo in questione si esprime nel seguente modo:
Essi gli risposero: «Sei anche tu di Galilea? Esamina, e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta» (Giovanni 7:52).

Queste parole furono rivolte a Nicodemo dai suoi colleghi in risposta all’osservazione che egli sollevò riguardo l’episodio dell’arresto e della condanna di Gesù, quando cercò di far valere la giustizia della loro legge: «La nostra legge — disse Nicodemo — giudica forse un uomo prima che sia stato udito e che si sappia quello che ha fatto?» (Giovanni 7:51)

Per “legge”, Nicodemo, senza dubbio, si riferiva alla norma del Deuteronomio 1:16-17 e 19:15-18 che stabiliva:

In quel tempo ordinò ai vostri giudici: «Ascoltate le cause dei vostri fratelli, e giudicate con giustizia le questioni che uno può avere con il fratello o con lo straniero che abita da lui.
Nei vostri giudizi non avrete riguardi personali; darete ascolto al piccolo come al grande; non temerete alcun uomo, poiché il giudizio appartiene a Dio; e le cause troppo difficili per voi le presenterete a me e io le ascolterò».
“Un solo testimone non sarà sufficiente per condannare un uomo, qualunque sia il delitto o il peccato che questi ha commesso; il fatto sarà stabilito sulla deposizione di due o tre testimoni.
Quando un falso testimone si alzerà contro qualcuno per accusarlo di un delitto,
i due uomini tra i quali ha luogo la contestazione compariranno davanti al SIGNORE, davanti ai sacerdoti e ai giudici in carica in quei giorni.
I giudici faranno una diligente inchiesta; se quel testimone risulta un testimone bugiardo, che ha deposto il falso contro il suo prossimo
(Deuteronomio 19:15-18).

In considerazione di questa norma divina, giustamente Nicodemo faceva rilevare ai suoi colleghi che arrestando Gesù non si stava osservando quanto Dio aveva stabilito. Il riferimento era abbastanza chiaro, non però ai colleghi di Nicodemo che avevano ordinato alle guardie di prendere Gesù. Non potendo smentire quell’osservazione, sminuirono Nicodemo evidenziando la sua provenienza dalla Galilea e che le Scritture negavano che da essa potesse sorgere alcun profeta.

A parte il dissenso e l’irritazione dei capi, il problema non riguardava tanto Nicodemo e le sue origini, quanto l’accettare un profeta che provenisse dall'oscura e disprezzata regione della Galilea. In tale affermazione quei capi che si credevano più sapienti e più eruditi delle Scritture rispetto al loro collega, affermavano la verità? Assolutamente no! Indubbiamente il profeta Giona proveniva da Galilea. Lo afferma in maniera certa (2Re 14:25), che recita:

Egli ristabilì i confini d’Israele dall’ingresso di Camat al mare della pianura, come il SIGNORE, Dio d’Israele, aveva detto per mezzo del suo servitore il profeta Giona, figlio di Amittai, che proveniva da Gat-Efer. Gat-Efer, era a breve distanza da Cana, «sulla frontiera di Zabulon a km 5 a N-E di Nazaret» [René Pache, Nuovo Dizionario Biblico, pag. 336].

C’erano anche altri due profeti che provenivano dalla Galilea: Eliseo, la cui città natale era Abel- Meola (1Re 19:16) «sita nella valle del giordano. Girolamo colloca questa località a dieci miglia romane a S di Scitopoli, la Beth-Scean della Bibbia. Conder la pone ad Ain Helweh, a 15 km a S di Beth-Scean. Il suo sito primitivo si trova prob. in questi paraggi, a Tell Abu Sifreh, al punto di congiunzione dell'Uadi el-Mâlih e dell'Uadi el-Helweh e Nahum l’Elcosita 1:1. La tomba del profeta viene tuttodì additata a Kap-Tanchum, due miglia e mezzo a N. Di Tiberiade (Smith, Dizionario della Bibbia) » [René Pache, Nuovo Dizionario Biblico, pag. 18; Robert G. Stewart, L’evangelo secondo Giovanni, pag. 864].

C’è anche da tener presente il giudizio di R. Eliezer (intorno al 90), «per il quale con c’è una tribù in Israele dalla quale non siano sorti profeti (Sukka 27b)» [Rudolf Schnackenburg,
Il vangelo di Giovanni, Parte seconda
, pag. 301].

Gli esegeti fanno anche rilevare che il testo di Giovanni 7:52, si dovrebbe leggere rettamente,

«il Profeta», con l’articolo, che è formalmente attestato da P66 e anche perché si trova nel papiro bohairico Bodmer III, «il Cristo o il Profeta». «L’oracolo della provenienza terrena di Gesù ha dunque la sua importanza anche per gli Scribi. Si rafforza la supposizione che questo era un argomento di peso nel dibattito tra giudei e cristiani ai tempi dell’evangelista. Ovunque non si riconosca l’origine divina di Gesù (vv. 28s.), sia tra il popolo sia nel sinedrio, ci si scandalizza della sua apparizione ‘non messianica’. Ma l’evangelista smaschera l’incredulità come un atteggiamento preconcetto, che ricorre ad argomenti del genere solo per gettare polvere negli occhi; la fede supera qualsiasi obiezione alla persona ed alle parole di rivelazione di Gesù» [Ibidem, pag. 301-302, nota 48].

Durante il tempo del ministero terrestre di Gesù, tutto ciò che Egli faceva, inclusi i Suoi spostamenti, rientrava nelle profezie. L’episodio dell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme prima della Sua morte, viene raccontato da tutti i quattro gli evangelisti, ma solo Matteo e Giovanni fanno riferimento alle profezie. Il profeta in questione è Zaccaria:

Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero a Betfage, presso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli,
dicendo loro: «Andate nella borgata che è di fronte a voi; troverete un’asina legata, e un puledro con essa; scioglieteli e conduceteli da me.
Se qualcuno vi dice qualcosa, direte che il Signore ne ha bisogno, e subito li manderà».
Questo avvenne affinché si adempisse la parola del profeta:
«Dite alla figlia di Sion: "Ecco il tuo re viene a te, mansueto e montato sopra un’asina, e un asinello, puledro d’asina"»
(Matteo 21:1-5;

Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto:

«Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, montato sopra un puledro d’asina!» (Giovanni 12:14-15).

Le parole del profeta, erano: Esulta grandemente, o figlia di Sion, manda grida di gioia, o figlia di Gerusalemme; ecco, il tuo re viene a te; egli è giusto e vittorioso, umile, in groppa ad un asino, sopra un puledro, il piccolo dell’asina (Zaccaria 9:9).

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