Domenico34 – Nehemia... – Sommario, Presentazione, Introduzione e Capitoli 1-10

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Domenico34
00domenica 15 gennaio 2012 00:17


NEHEMIA...




Un uomo spinto e sorretto da una motivazione eroica




INDICE DEL VOLUME




Presentazione
Introduzione

Capitolo 1
NEHEMIA, UOMO DI GRANDE SENSIBILITÀ
Le notizie ricevute da Nehemia
Quello che si produsse nella vita di Nehemia
L’atteggiamento di Nehemia
Dio si rivelò al cuore di Nehemia
1. L’interessamento per i nostri fratelli
2. Nehemia, pianse, fece cordoglio, digiunò e pregò l’Iddio del cielo per gli altri
3. La risposta di Dio, al pianto, al cordoglio, al digiuno e alla preghiera di Nehemia

Capitolo 2
NEHEMIA OTTIENE IL PERMESSO DI ANDARE A GERUSALEMME
1. Da Kisleu a Nisan
2. L’intervento di Artaserse nei confronti di Nehemia
3. Nehemia ispeziona le mura di Gerusalemme
4. La reazione di Sanballat, Tobiah e Ghescem
5. Un’applicazione per la vita pratica

Capitolo 3
INIZIA IL LAVORO DI RIPARAZIONE
Premessa
Alcune considerazioni di carattere generale
Tutti i lavoratori conoscono la reale situazione in cui si trovano le mura di Gerusalemme
Tutti i lavoratori erano persone che si erano offerte volontariamente
Tutte le persone impegnate nei lavori di riparazioni hanno lavorato con perseveranza
1. Le mura di Gerusalemme
2. La funzione delle mura in un centro abitato
3. Il senso figurativo che potrebbe avere le mura
Vedere le rotture, non per emanare un giudizio di condanna, ma per ripararle
Le mura di Gerusalemme piena di brecce, non devono essere demolite, ma riparate
Le mura della santità, hanno tante brecce; non devono essere diroccate, ma riparate

Capitolo 4
NOTE PRELIMINARI AL GRANDE LAVORO DI RIPARAZIONE
1. Il lavoro di riparazione non è quello di uno solo, ma di tanti messi insieme
2. Importanza delle frasi: vicino a lui, vicino a loro, dopo di lui, dopo di loro

Capitolo 5
DIECI GRUPPI DI LAVORATORI
La porta delle Pecore
Un'applicazione spirituale per la porta delle Pecore
L’ubicazione della porta delle Pecore
Gesù, porta delle Pecore
I sacerdoti restauratori della porta delle Pecore
Il significato spirituale della riparazione della porta delle Pecore

Capitolo 6
LE QUATTRO TORRI
1,2. Le torri di Meah e di Hananeel
3. La torre dei Forni
Riflessioni sulla torre dei forni
Un recipiente
Il fuoco
4. La torre Sporgente
Un’applicazione sul significato della Torre Sporgente
Il giudizio di Dio
La casa del re
In quale maniera si può proteggere l’autorità costituita
Altre autorità costituite
Il cortile della prigione

Capitolo 7
IL GRUPPO DEGLI UOMINI DI GERICO
Inizia la lunga seria dei Vicino a lui, vicino a loro
Il valore di un impegno assunto per il bene degli altri

Capitolo 8
IL GRUPPO DEI FIGLI DI SENAAH
Si costruisce la porta dei Pesci
Nota preliminare
Il pesce, come alimento venduto al mercato
La cosa importane da considerare intorno alla porta dei Pesci
L’importanza di seguire Gesù
Ascoltare e credere la parola di Gesù
Seguire Gesù per diventare pescatori di uomini

Capitolo 9
I TERMINI: LAVORARONO, LAVORAVA, LAVORÒ
Una nota introduttiva
Il lavoro che venne fatto nelle mura di Gerusalemme
Il lavoro nell’Opera del Signore
L’importanza di essere un lavoratore
Le parole di Gesù
Il comando di Gesù di pregare il Signore della mèsse
La prova scritturale per ciò che riguarda essere un lavoratore
La diversità di lavoro nell’opera del Signore

Capitolo 10
SI' RESTAURA LA PORTA VECCHIA
Il significato etimologico di Jehoiada e di Meshullam
Il significato del nome di Jehoada
Il significato del nome di Meshullam
Cominciano i lavori per la restaurazione della porta Vecchia
Si osserva la porta Vecchia
Di che cosa ci parla la porta Vecchia
Un confronto tra le parole di Geremia e quelle di Gesù

Capitolo 11
SI' RIPARA LA PORTA DELLA VALLE
Nota preliminare
Il significato che può avere la porta della Valle, dal punto di vista spirituale

Capitolo 12
SI' RIPARA LA PORTA DEL LETAME
Qualche accenno sulla porta del letame
Quello che dice la Bibbia a proposito del letame
1. Le caratteristiche di Jezebel
2. Quello che dice il N.T. intorno a Jezebel
3. Le caratteristiche di Jezebel nel libro dell’Apocalisse
Il senso che potrebbe avere la porta del letame, dal punto di vista spirituale

Capitolo 13
LA PORTA DELLA SORGENTE
Nota preliminare
1. Si cominciano i lavori per riparare la porta della Sorgente
2. Un interessante accorgimento per la porta della Sorgente
Che cos’è una sorgente
Quello che si faceva in caso di assedio
La seconda cosa che fece Shallum
3. Ammaestramenti che si possono ricavare dalla porta della Sorgente

Capitolo 14
LA PORTA DELLA CASA DI ELIASCIB
Nota introduttiva e testo
Il significato etimologico del nome di Baruk
L’ardore di Baruk e il suo significato
La porta della casa di Eliascib
Baruk
Meremoth
Una bella verità da imparare

Capitolo 15
LA PORTA DELLE ACQUE
Nota biografica dei Nethinei
Il significato della porta delle Acque
L’azione di lavare e di purificare
La condizione posta da Dio all’uomo
L’importanza della parola di Gesù

Capitolo 16
LA PORTA DEI CAVALLI
Nota preliminare
Che cosa dice la Bibbia a proposito dei cavalli
L’applicazione spirituale sulla porta dei Cavalli
Il testo di 2 Timoteo 2:3
Il testo degli Efesini 6:11-18
Le sette armi che compongono l’armatura di Dio
1) La cintura
2) La corazza
3) I calzari
4) Lo scudo
5) L’elmo
6) La spada
7) La preghiera
Il testo di 2 Timoteo 4:7

Capitolo 17
LA PORTA ORIENTALE
Nota preliminare
Che cosa dice la Bibbia a proposito della porta orientale
Esame del testo di Ezechiele 11:1-3
Il significato dei nomi di Ezechiele. 11:
Il comportamento delle persone di Ezechiele 11:1-3
Quello che dissero gli uomini di Ezechiele 11:1-3
Il significato spirituale che possiamo ricavare dalla porta orientale
Il testo di Gioviovanni 14:1-3
Il testo di Apocalisse 22:12
Il testo di Malachia 4:2

Capitolo 18
LA PORTA DI MIFKAD
Nota preliminare
Applicazione spirituale intorno alla porta di Mifkad (o apertura del Carcere)
Il testo di 2 Corinzi 5:10
Il testo di Apcalisse 5:10

Capitolo 19
ALTRI LAVORATORI IMPEGNATI A RIPARARE
Elenco dei vari nomi
1) Zakkur, figlio d'Imri
2) Melatiah
3) Uzziel, figlio di Harhaiah
4) Refaiah, figlio di Hur
5) Jedaiah, figlio di Harumaf
6) Hattush, figlio di Hashabneiah
7) Nehemia, figlio di Azbuk
8) I Leviti
9) Hashabiah
10) Ezer, figlio di Jeshuaa
11) Beniamino e Hashub
12) Azaria, figlio di Maaseiah
13) Binnui, figlio di Henadad
14) Pedaiah, figlio di Parosh
15) Hananiah, figlio di Scelemiah


PRESENTAZIONE



Nel terzo capitolo di Nehemia, noi vediamo la messa in pratica di quanto i notabili di Gerusalemme decidono di fare, come risposta alla relazione che lo stesso Nehemia aveva loro fatto (cap. 2:18).

Noi assistiamo ad un’alzata generale di un popolo compatto, animato da uno stesso zelo per l’amore di Gerusalemme e senza tener conto della loro qualifica personale, tutti sì danno da fare perché le mura di Gerusalemme siano riparate. L’avvio è dato dal Sommo Sacerdote Eliascib e ben presto muratori, orefici, profumieri, mercanti ed anche sacerdoti, si mettono tutti ai lavori con alacrità. Nell’elenco che Nehemia fa, ricorda che vi furono perfino delle donne che hanno dato il loro contributo in questa nobile impresa

Il pastore Domenico Barbera sa cogliere il punto centrale di questo capitolo tre di Mehemia e passando in rassegna nome per nome dei lavoratori (col loro significato etimologico) e il luogo dove stanno lavorando, ne trae un ammaestramento altamente spirituale.

Noi conosciamo lo zelo che questo ministro ha per il popolo di Dio, e attraverso le riflessioni che ricava da ogni singolo particolare di questo testo biblico, incoraggia la Comunità cristiana ed ogni credente a seguirne le tracce, ricostruendo o riparando eventualmente quello che il tempo o il “nemico” potrebbe aver danneggiato nella nostra vita spirituale.

Il mio augurio è che molti abbiano a leggere quest’opera che il Signore ha ispirato al pastore Domenico Barbera. Io stesso ne sono stato edificato personalmente. Lo stesso effetto, ne sono certo, si produrrà in ogni lettore che con cuore aperto avrà cura di applicarsi a questo studio, condotto con tanta meticolosità e maestria dal suo autore alla gloria di Dio.

Nino Tirelli


INTRODUZIONE



L’idea di scrivere un libro sul terzo capitolo di Nehemia, mi è nata dalle riflessioni che ho fatto un giorno in un regolare culto, quando ho parlato sulle frasi: “Vicino a lui, vicino a loro (ripetute 15 volte); dopo di lui, dopo di loro” (16), e le parole, “riparazioni” (36) e “lavorarono, lavorò” (22).

La lettura di questo capitolo, per chi lo legge con occhi superficiali, non presenta alcun'attrazione o interesse particolare, per il fatto che i tanti nomi che vengono elencati, porta di solito il lettore ad annoiarsi. Però, lo studio e la meditazione che ho condotto, e soprattutto grazie all’illuminazione dello Spirito Santo, mi hanno permesso di scandagliare la profondità di questo testo, e, attraverso le tante applicazioni fatte, ho potuto costatare, la ricchezza spirituale nascosta in questo scritto, e soprattutto le verità esposte, se vengono ben comprese ed assimilate.

Riparazioni e lavoro, sono state le due parole che maggiormente mi hanno aperto gli occhi per farmi comprendere l’importanza e il valore nell’assumere precisi impegni nell’Opera del Signore, soprattutto quando si tratta di restaurare una rovina prodotta da un prolungato dissidio o discordia, sia nell’ambito di una Comunità come anche in seno ad una famiglia.

Le riflessioni di carattere spirituale che ho tratto sulle undici porte che il testo menziona, oltre a non trovarsi facilmente nei comuni commentari, sono state motivo di benedizione e d'ispirazione per la mia vita.

Quando poi, mi sono soffermato sul valore del significato etimologico di una gran parte di nomi che ho esaminato, sono risultati maggiormente preziosi il contributo che mi hanno dato questi uomini e donne (specie le figlie di Shallum), nonché l’ardore che Baruk ha mostrato in quello che fece.

Indubbiamente, tutti questi particolari ed altri ancora che non ho menzionato, sono stati messi in evidenza nel corso dell’esegesi, e, immancabilmente hanno arricchito l’opera. Mi auguro che il lettore ne tragga profitto per la sua vita spirituale, sia dal punto di vista personale e soprattutto da quello collettivo, perché ognuno di noi possa essere incoraggiato, spronato ed ispirato a dedicare la propria vita principalmente, per il bene di chi potrebbe trovarsi in qualche particolare situazione di bisogno e di disagio.

Per le citazioni bibliche, fa testo La Nuova Diodati, e quando si tratta di un’altra versione, essa è stata chiaramente indicata.

Anche per quest’opera -, come del resto ho fatto per tutte le altre prestazioni - sentiamo di ringraziare vivamente il Fr. Nino Tirelli, per il lavoro di correzione e di revisione che ha condotto intelligentemente.

Niagara Falls, Settembre 1996

Domenico Barbera

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00lunedì 16 gennaio 2012 00:14
Capitolo 1




NEHEMIA, UOMO DI GRANDE SENSIBILITÀ




...Or avvenne che nel mese di Kisleu, nell’anno ventesimo, mentre io mi trovavo nella fortezza di Susa, arrivò da Giuda Hanani, uno dei miei fratelli, assieme ad alcuni altri uomini. Io li interrogai riguardo ai Giudei scampati, superstiti della cattività, e a Gerusalemme. Essi mi dissero: «I superstiti che sono scampati dalla cattività sono laggiù nella provincia, in gran miseria e obbrobrio; inoltre le mura di Gerusalemme sono piene di brecce e le sue porte consumate dal fuoco» (Nehemia 1:1-3).

Le notizie ricevute da Nehemia

I sentimenti di patriottismo che Nehemia manifestò in quella particolare circostanza nei confronti della sua terra e del suo popolo, hanno una coloritura piuttosto marcata. Fra le tante caratteristiche che si possono notare nella vita di quest’uomo, quella che ha una particolare importanza, è senza dubbio la sua straordinaria sensibilità. Dal rapporto che ricevette, il testo Sacro precisa:

Come udii queste parole, mi posi a sedere e piansi; quindi feci cordoglio per vari giorni, e digiunai e pregai davanti al DIO del cielo (v. 4).

Quello che si produsse nella vita di Nehemia

Le cinque cose che Nehemia fece:

1) si sedette,
2) pianse,
3) fece cordoglio,
4) digiunò,
5) e pregò,

mettono in evidenza la natura della sua sensibilità. Di conseguenza, l’atteggiamento della sua vita cambiò, non tanto per quanto riguardava la sua persona (anche se il suo aspetto fisico fu diverso davanti al re Artaserse quando gli porgeva la coppa), quanto per ciò che provava nel suo cuore, per la sua terra e per il suo popolo. Quando una persona è sensibile, essa manifesta un interesse particolare per gli altri e non si affatica ad immedesimarsi con chi soffre o si trova in condizioni disagiate. Di conseguenza, egli non rimane indifferente; non chiude le orecchie a quello che sente e neanche il cuore a quello che prova. La sensibilità di una persona gioca un ruolo determinante nelle scelte che fa e nelle decisioni che prende.

L’atteggiamento di Nehemia

Dall’atteggiamento che Nehemia assunse in quel giorno, nacque un gran desiderio nel suo cuore e di conseguenza si aprì una chiara visione davanti a sé che più tardi lo portava nella terra dei suoi padri, per dedicarsi al bene del suo popolo ridotto all’estremo dalla miseria e coperto di obbrobrio. Nessuna visione si aprirà davanti ad una persona se prima non ci sarà un atteggiamento adeguato, (di umiltà) che permetterà di percorrersi strada nel sentimento e nel cuore.

Dio si rivelò al cuore di Nehemia

Mentre Nehemia piangeva, faceva cordoglio, digiunava e pregava l’Iddio del cielo per i figli d’Israele, (probabilmente avrà chiesto che qualcuno venisse mandato in Giudea per aiutare il suo popolo), Dio si rivelò al suo cuore, facendogli chiaramente comprendere che fosse proprio lui la persona scelta per compiere il lavoro di ricostruzione.

Da questo schema, possiamo imparare tanto, e lo stesso Nehemia, diventerà una sorgente d'immense ispirazioni per farci vedere e capire quello che Dio vuole nella nostra vita. Meditiamo!

1. L’interessamento per i nostri fratelli

Con l’arrivo di Hanani, uno dei suoi fratelli assieme ad altri uomini, Nehemia ebbe la premura di chiedere informazione riguardante: 1) i Giudei scampati, superstiti della cattività, 2) lo stato di Gerusalemme. Questo ci dimostra che il suo interessamento non era tanto per la sua famiglia, secondo la carne, quanto per la reale situazione del popolo e di Gerusalemme. Questa sua specifica richiesta manifesta anche che Nehemia era un uomo che amava il suo popolo e che nonostante fosse lontano da loro e vivesse in un ambiente agiato e ben diverso, c’era sempre in lui un legame che lo univa al suo popolo e Gerusalemme ridotti in un misero stato.

Quando si è uniti nell’unità dello Spirito col vincolo della pace (Efesini 4:3), si mettono da parte gli interessi di carattere personale ed egoista e si vuole conoscere (non a scopo di curiosità) la reale situazione in cui si può trovare nostro fratello in Cristo; un popolo con il quale abbiamo tante cose in comune, specie quando si condivide la stessa dottrina del Signore nostro Gesù Cristo.

Anche se le condizioni sociali e culturali, tra noi e gli altri, sono diverse, se nel cuore c’è l’amore genuino, soprattutto quello di Cristo, interessarsi della vita e del benessere degli altri, non sarà un'enorme fatica né un traguardo irraggiungibile.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00martedì 17 gennaio 2012 00:12
2. Nehemia, pianse, fece cordoglio, digiunò e pregò l’Iddio del cielo per gli altri

Nessuna forma di pianto sarà possibile, specie per gli altri, se il cuore non è toccato e non diventa tenero. Ci sono persone che non conoscono che cosa sia «una commozione»; forse perché non sono mai stati a contatto con delle situazioni critiche e disperate o forse perché il loro cuore è troppo duro, a causa di una marcata insensibilità. Un cuore tenero e sensibile, si scioglie facilmente in lagrime, all’udire notizie di disagio e di situazioni disperate, specie quando si ama la persona o gli individui di cui si ha conoscenza.

Nessun cordoglio e digiuno si faranno per gli altri, se manca la sensibilizzazione per il bisogno altrui. Beati coloro che fanno cordoglio, perché saranno consolati (Matteo 5:4), affermò Gesù. Fare cordoglio per un proprio bisogno o in una particolare avversità in cui si ci può trovare, si potrebbe dire che rientra nella logica delle cose; ma farlo in vista di un bisogno o di una tragedia altrui, non solo è ben’altra cosa, ma significa soprattutto far nostro il problema di colui che soffre, di colui che si trova nei guai. Privarsi volontariamente del cibo, questo è il caso del digiuno (non quando si è costretti perché non ce n’è), ma quando si vive in mezzo all’abbondanza, digiunare quindi per gli altri, è ben diverso di quando uno digiuna per un bisogno personale.

Ci sono credenti che non sanno cosa sia digiunare, forse perché non l’hanno mai fatto, o forse perché pensano e credono che non sono capaci di fare una cosa del genere. Passare giorni e notti senza mangiare perché si è angosciati per una sventura, un disastro che ha colpito un nostro simile, questo è vero amore, abnegazione e dimostrazione di premura e di interessamento.

Quando poi si innalzano preghiere all’Iddio del cielo in favore di coloro che si trovano nei guai, questo significa avere le caratteristiche di un vero intercessore che con prontezza e disponibilità, intercede presso Dio, al trono della sua grazia. Pregare inoltre quando si sa che una sventura o un disastro è stato causato da uno stato d'infedeltà verso Dio e la sua volontà, questo significa avere un cuore compassionevole e misericordioso, che immancabilmente farà piacere al cuore amorevole di Dio.

Nehemia sapeva con estrema certezza, che se il popolo di Giuda e tutti i figli d’Israele erano stati condotti in cattività e i superstiti della schiavitù si trovavano in miseria e in obbrobrio e le mura di Gerusalemme erano state danneggiate e le porte arse dal fuoco, ciò era essenzialmente per il peccato che questo popolo aveva commesso e per il marcato sviamento da Dio e dalla Sua legge. A che vale, si direbbe: pregare per una persona, per una famiglia, per una Comunità, per una Nazione, quando si sa che c’è di mezzo il peccato, lo sviamento, la ribellione, la disubbidienza a Dio e alla Sua Parola che ha causato quei disastri e quei guai?

Eppure, Nehemia è là; principalmente davanti all’Iddio del cielo, e davanti a lui non ci sono solamente le miserie di un popolo e le rovine di una città, la consapevolezza di uno stato di colpevolezza, ma c’è anche la certezza che facendo appello alla clemenza e alla bontà del Signore, il problema di un popolo desolato può essere risolto. È ammirevole e ricco d'insegnamento, la preghiera d’intercessione che questo nobile uomo eleva a Dio, senza escludersi dal numero dei colpevoli, come se egli stesso avesse partecipato al peccato e allo sviamento del popolo d’Israele.

«Ti supplico, o Signore, DIO del cielo, Dio grande e tremendo, che mantiene il patto e la misericordia con quelli che ti amano e osservano i tuoi comandamenti, siano le tue orecchie attente e i tuoi occhi aperti, per ascoltare la preghiera del tuo servo, che rivolge ora a te giorno e notte per i figli d’Israele, tuoi servitori, confessando i peccati dei discendenti d’Israele, che noi abbiamo commesso contro di te. Si, io e la casa di mio padre abbiamo peccato.
Ci siamo comportati molto malvagiamente contro di te e non abbiamo osservato i comandamenti, gli statuti e i decreti che tu hai ordinato a Mosè, tuo servo. Ricordati della parola che ordinasti a Mosè, tuo servo, dicendo: se peccherete, io vi disperderò fra i popoli; ma se tornerete a me e osserverete i miei comandamenti e li metterete in pratica, anche se i vostri dispersi fossero ai confini del cielo, io di là li raccoglierò e li ricondurrò al luogo che ho scelto per farvi abitare il mio nome.
Ora questi sono i tuoi servi e il tuo popolo, che tu hai redento con la tua gran potenza e con la tua forte mano.
O Signore, ti prego, siano le tue orecchie attente alla preghiera del tuo servo e all'invocazione dei tuoi servitori che avessero preso diletto nel temere il tuo nome; concedi oggi stesso, ti prego, buon successo al tuo servo, facendogli trovare clemenza agli occhi di quest’uomo»
(Nehemia 1:5-11).

3. La risposta di Dio, al pianto, al cordoglio, al digiuno e alla preghiera di Nehemia.

Dal momento che Nehemia si era rivolto a Dio umilmente e con sottomissione alla Sua sovrana Autorità, e che quell’atteggiamento l’aveva assunto per perorare la causa di un popolo ridotto all’estremo della sua miseria, e dato che la sua intercessione faceva esplicito riferimento alla misericordia di Dio e alle Sue promesse, non era fuori posto che egli concludesse la sua preghiera, dicendo:

...concedi oggi stesso, ti prego, buon successo al tuo servo, facendogli trovare clemenza agli occhi di quest’uomo... (v. 11).

Poiché Nehemia si era reso conto, nel corso dei “vari giorni”» di pianto, di cordoglio, di digiuno e di preghiera davanti all’Iddio del cielo, che il Signore l’aveva scelto per essere lo strumento di ristoramento di quel popolo per il quale stava intercedendo, appare abbastanza chiaro alla nostra riflessione, da giustificare la richiesta di una risposta immediata oggi stesso. Da questo particolare atteggiamento che Nehemia seppe assumere in quel tempo, nacque, quello che noi diciamo ai nostri giorni, “una visione”. Sarà difficile, per non dire impossibile, che una visione nasca lontano dalla presenza del Signore o da un atteggiamento che Dio non gradisce.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00mercoledì 18 gennaio 2012 00:10
Il “successo” che quest'uomo vuole avere, in base a quello che si delinea chiaramente all’orizzonte, non è basato sulle sue capacità d’azioni, ma unicamente su Dio. Pur sapendo che si trovi al servizio di Artaserse, chiede di poter trovare clemenza agli occhi di quest’uomo. Il riferimento riguarda sicuramente il re.

Che differenza tra chi va in cerca di successo basandosi sulle proprie capacità intellettuali e organizzative e di quelli, (e Nehemia è un pilastro di esempio) che chiedono invece l’intervento di Dio per poterlo avere. Oggigiorno, la parola successo, è il termine che frequentemente si usa: si trova in bocca degli uomini d’affari, come anche in tutti quelli che hanno ambiziose aspirazioni.

Non è solamente il termine del secolo, della modernità, è diventato anche caro agli ecclesiastici. In campo religioso si parla spesso di “successo”, quasi come sinonimo dell’approvazione divina, e, quando questa manca, non si ha nessuna titubanza ad affermare che coloro che non lo conseguono, è prova evidente che non ci sa fare, non seguono certe regole e non hanno di mira soprattutto l’esempio di quelli che l’hanno ottenuto.

Oggi, si rischia di far confusione tra un principio divino, valevole per tutti e un’esperienza che non tutti fanno nella stessa maniera. Quando si parla di un’esperienza, come se fosse sinonimo di «un principio divino», si rischia di far dire alla Bibbia quello che essa non vuole dire, con le conseguenze inevitabili di delusioni e mancati successi.

Se Dio ti ha scelto per un determinato lavoro e si è aperta una chiara visione davanti a te, farai bene di chiedere a Dio di darti successo, così darai la dimostrazione che il buon andamento delle cose, non sarà il risultato della tua intelligenza o del tuo “saper fare”, ma di un’opera che Dio compirà servendosi della tua strumentalità. Questo però non vuol dire assolutamente che sol perché un tizio ha avuto successo in quello che ha fatto, tu debba fare le stesse cose e aspettarti il medesimo risultato. I compiti nell’opera del Signore sono molteplici, e sono anche differenti gli strumenti usati e le maniere per portarli a compimento.

Tu sarai qualcuno e qualcosa, soprattutto davanti agli occhi di Dio se saprai rimanere là dove il divino Architetto ti ha posto e saprai fare il lavoro che ti è stato assegnato. In una banda musicale, ci sono tanti strumenti che se vengono ascoltati separatamente, non ispirano il piacere per ciò che riguarda l’ascolto, ma danno fastidio all’orecchio. Però, quello stesso strumento che ti ha infastidito quando l’hai ascoltato isolatamente, non farà lo stesso effetto quando l’ascolterai insieme con gli altri apparecchi: la meravigliosa e piacevole armonia che sentirai, non sarà prodotta solamente dagli altri strumenti che non hai sentito separatamente, ma anche da quello che hai sentito da solo.

Ricordati che nel corpo di Cristo, la Sua chiesa, ci sono molte membra, uno diverso dall’altro e non tutti hanno la stessa funzione. Quantunque la mano non faccia quello che compie il piede o l’occhio, o viceversa, nondimeno, ognuno svolge il suo ruolo per la buona funzione dell’intero corpo.

Se Dio ti ha fatto occhio nel corpo di Cristo, non cercare di essere mano o altro. D’altra parte, si sa con estrema certezza che nessun membro di un corpo, anche quello che è considerato più importante, è oggetto a sé stante; di conseguenza, non può vantarsi di non aver bisogno di altre membra. Siccome il corpo è l’insieme di molte membra e non di uno solo, ne consegue che se uno dovesse avere tante parti del corpo dello stesso tipo, formerebbe una mostruosità che spaventerebbe il più coraggioso.

PS: Se al termine del capitolo 1 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 2




NEHEMIA OTTIENE IL PERMESSO DI ANDARE A GERUSALEMME




Nel mese di Nisan, l’anno ventesimo del re Artaserse, come il vino era portato davanti a lui, io presi il vino e lo porsi al re. Ora io non ero mai stato triste in sua presenza.
Perciò il re mi disse: perché hai l’aspetto triste, anche se non sei malato? Non può esser altro che un’afflizione del cuore. Allora fui preso da una grandissima paura
(Nehemia 2:1-2).

1. Da Kisleu a Nisan

Quando Nehemia ricevette notizie dei Giudei scampati, superstiti della cattività, era il mese di Kisleu = Dicembre, mentre quando ottenne il permesso di andare a Gerusalemme, era il mese di Nisan = Aprile dell’anno ventesimo del re Artaserse. Confrontando Nehemia 1:1 con 2:1 si nota una certa difficoltà, per ciò che riguarda l’anno ventesimo, in cui le due testi fanno esplicito riferimento, per coincidere i due avvenimenti nello stesso anno. Sapendo che Nisan, è il primo mese dell’anno, diventa impossibile far combaciare nello stesso anno il mese di Kisleu, dato che è nominato prima di Nisan. Riportiamo qui di seguito quello che ha scritto R. De Vaux, O.P. nella sua opera “Istituzioni dell’Antico Testamento”.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00giovedì 19 gennaio 2012 00:08
«L’anno di primavera si è naturalmente mantenuto quando i nomi babilonesi dei mesi hanno sostituito i numeri ordinali. Un solo passo fa difficoltà. Secondo Nehemia 1:1 e 2:1, il mese di Kisleu e il mese seguente di Nisan sarebbero caduti nello stesso ventesimo anno di Artaserse e questo indicherebbe un anno d’autunno. Ma è inverosimile che Nehemia, che viveva alla corte di Persia, dove si seguiva il calendario babilonese, e che si serviva dei nomi babilonesi dei mesi, non abbia pure seguito, per l’anno, il computo ufficiale. D’altra parte il testo ebraico di Nehemia 1:1 porta solo «il ventesimo anno» senza il nome del re regnante, particolare molto strano. Il testo deve essere guasto e la cosa più verosimile è che non ha contenuto originariamente, o che abbia perduto accidentalmente, la menzione dell’anno, la quale in seguito è stata meccanicamente supplita secondo Nehemia 2:1: si tratterebbe, infatti, del diciannovesimo anno di Artaserse. Si è anche voluto ritrovare un anno d’autunno in un papiro di Elefantina, ma la data è chiaramente falsa» [Cfr. R. De Vaux, O. P. Le Istituzioni dell’Antico Testamento, pag. 199. Anche A. E. Cundall, Commentario Biblico, vol. I, pag. 497, dice quasi lo stesso, quando scrive: «V’è tuttavia l’errore di un copista o qui o in 2:1, dove la data è Nisan, il primo del mese. Probabilmente in 1:1 si deve leggere «dell’anno diciannovesimo»].

Se si accetta l’argomentazione dei due studiosi che abbiamo appena citato, lo spazio di tempo che intercorse tra le notizie ricevute e il permesso di andare a Gerusalemme fu di quattro mesi. Durante questo periodo, si aprì una nuova era nella vita di questo grande e zelante servitore di Dio, che in un certo senso trasformerà la sua stessa esistenza e la storia del popolo d’Israele. Però, durante l'attesa di quest'evento, Nehemia rimane ancora alla corte reale a porgere il vino al re Artaserse.

Il testo Sacro precisa che Nehemia, non era mai stato triste nella presenza del re; ma nel mese di Nisan, contrariamente a quella che era la normale regola per tutte le persone che servivano alla corte reale (poiché non era consentito di tenere un aspetto triste davanti al re, pena di essere punito anche con la morte), l’afflizione che aveva riempito il cuore di quest'uomo, nei mesi precedenti, non poté più mantenersi nascosta; si manifestò palesemente, attraverso l’aspetto triste, tanto che il re poté affermare che non si trattava di un male fisico, dato che Nehemia non era malato, ma certamente di un’afflizione del cuore. Davanti a questa precisa affermazione, appare più che giustificata la grandissima paura da cui Nehemia fu preso, pensando soprattutto alle norme severe che vigevano alla corte Persiana per ciò che riguardava il personale di servizio.

2. L’intervento di Artaserse nei confronti di Nehemia


Rendendosi conto che il re Artaserse avesse parlato seriamente, data la precisa domanda che gli venne rivolta, era necessario che Nehemia desse una altrettanto precisa risposta. Il testo dice:

... «Viva il re per sempre! Come potrebbe il mio volto non essere triste quando la città dove sono i sepolcri dei miei padri è distrutta e le sue porte sono consumate dal fuoco?» (2:3).

Con ogni probabilità, Nehemia, non si aspettava che proprio in quel giorno, seduta stante, il re, senza tener conto del regolamento severo che vigeva alla corte reale circa il personale di servizio, dovesse mostrarsi così benigno nei confronti del suo coppiere da chiedergli: Che cosa chiedi? La preghiera che Nehemia fece all’IDDIO del cielo, immediatamente, dimostra che non si aspettava una simile parola da parte del re e che la stessa richiesta non era preparata. Eppure Nehemia aveva pregato a lungo con lacrime e digiuni durante i quattro mesi che erano trascorsi da quando seppe che il suo popolo si trovava in gran miseria e la città di Gerusalemme devastata.

Ma nella richiesta del re: Che cosa domandi?, Nehemia intuisce che è il momento favorevole per capire quello che aveva progettato per il suo popolo e per Gerusalemme. Anche se il testo Sacro precisa che Nehemia prima di fare la sua richiesta al re pregherà l’Iddio del cielo, non per questo si deve pensare che egli si sia messo in ginocchio ed abbia elevato una preghiera a Dio a mani alzate. Sicuramente la preghiera che Nehemia fece nel suo cuore fu cortissima anche se le parole che avrà detto al Signore, non ci sono note. Ma è certo però che in quel momento, Nehemia ha compreso che le sue preghiere fatte al Signore in precedenza in favore del suo popolo e di Gerusalemme erano state esaudite e che la richiesta che si apprestava a formulare al re, per andare a Gerusalemme, era una chiara prova che il tempo era arrivato.

Dobbiamo imparare anche noi a rivolgerci al Signore prima di intraprendere una qualsiasi cosa, perché Egli possa guidare la nostra vita nei Suoi sentieri e condurla secondo il piano della Sua volontà.

...Se questo piace al re e il suo servo ha trovato favore agli occhi tuoi, lasciami andare in Giudea, nella città dei sepolcri dei miei padri, perché possa ricostruirla (2:5).

Con il permesso che ottiene da Artaserse e tutte le necessarie autorizzazioni, Nehemia, nel giro di poco tempo si trova a Gerusalemme.

Quando però Sanballat, l'Horonita, e Tobiah, il servo ammonita, vennero a saperlo, furono grandemente turbati, perché era giunto un uomo che cercava il bene dei figli d’Israele (2:10).

Quando ci sono persone che hanno in cuore dei buoni propositi e cercano il bene per gli altri, i nemici del popolo di Dio vengono grandemente turbati. Tutte le buone azioni tendenti a liberare qualcuno dalla miseria, a risollevare qualche problema, ad infondere sicurezza allo smarrito e speranza di vita al moribondo, tutte queste azioni hanno sempre infastidito Satana e tutti i suoi alleati.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00venerdì 20 gennaio 2012 00:07
Se le persone soffrono e vivono nella desolazione morale e spirituale, non c’è nessun dispiacere per le forze dell’inferno; ma quando appare all’orizzonte uno spiraglio di luce e di speranza per il peccatore ridotto nella miseria e alla devastazione e si leva il sole per risplendere là dove ci sono le tenebre dell’ignoranza e l’avvilimento di una vita disperata, allora la macchina infernale si mette in movimento per cercare di neutralizzare chi ha una chiara visione per l’opera che intendono svolgere.

Se non fai niente per nessuno, stai tranquillo che nessuno ti ostacolerà o cercherà di fermarti il passo; ma se invece sei spinto a fare qualcosa per qualcuno, avrai facilmente addosso a chi si opporrà e si turberà. Quando Dio aprirà una porta, si può verificare che ci saranno molti avversari (1 Corinzi 16:9). Però, forti della parola di Gesù: ...le porte dell’inferno non la potranno vincere (Matteo 16:18), e di quella del Signore: Nessun’arma fabbricata contro di te avrà successo... (Isaia 54:17) e della promessa divina, ...quando l’avversario verrà come una fiumana, lo Spirito del Signore alzerà contro di lui una bandiera (Isaia 59:19), si potrà andare avanti con la certezza che Se Dio e per noi chi sarà contro di noi? (Romani 8:31).

3. Nehemia ispeziona le mura di Gerusalemme


Quantunque Nehemia sapesse che le mura di Gerusalemme erano piene di brecce e le sue porte consumate dal fuoco, prima di intraprendere quello che Dio gli aveva messo in cuore, egli volle rendersi conto di persona facendo un’ispezione.

Dal suo giro notturno e solitario Nehemia costatò che la notizia avuta a suo tempo era esatta e non c’era niente di esagerato. Non si può tacciare Nehemia d'incredulità per avere eseguito l’ispezione come se egli non avesse creduto alle parole di Hanani. Se quest’uomo fece il giro delle mura di Gerusalemme di notte e solo, fu solamente per potere meglio valutare le cose per poi vedere come impostare tutta l’opera di riparazione.

Le persone, nei cui cuori Dio mette qualcosa da fare per il bene degli altri, spesso preferiscono trovarsi soli, almeno per un tempo e non per lavorare soli, ma per vedere le cose e valutarle, per poi escogitare un piano di lavoro. La loro solitudine non deve essere interpretata come un segno d'indipendenza o di voler creare problemi e dissensi in un’organizzazione, con la pretesa di saper fare le cose meglio degli altri se ci sono le prove che non si vuole fare il lavoro da soli ma come una dimostrazione di uno che vuole fare un’opera preparatoria, in vista di chiedere una larga partecipazione e impegnare molti.

I magistrati, i notabili, i sacerdoti e quelli che si occupavano dei lavori, pur sapendo che Nehemia era arrivato a Gerusalemme, non sapevano niente della sua uscita notturna e solitaria, perché lo stesso Nehemia non li aveva informati. Se lo avesse detto, probabilmente si sarebbero opposti, giudicando un simile programma inopportuno e privo di logica, consigliandolo piuttosto a farlo di giorno, alla luce del sole, e poi magari aggiungendo, che a quell’ora sarebbero impegnati, quindi non avrebbero potuto accompagnarlo. In questo modo il lavoro preparatorio sarebbe stato rimandato, durante l'attesa di un tempo migliore.

Mentre, agendo da solo, Nehemia, pur camminando di notte, non solo poteva ispezionare minuziosamente le mura, senza dilatazione ad un domani, ma anche le considerazioni e le valutazioni che faceva di fronte a quello che vedeva con i propri occhi, tutto ciò acquistava più significato e la stessa missione alla quale era stato chiamato veniva rinforzata con ulteriori convincimenti e presa di coscienza di una reale situazione catastrofica che si presentava davanti alla sua osservazione.

D’altra parte, i magistrati, i notabili, i sacerdoti e tutti quelli addetti ai lavori, non solo non parteciparono all’ispezione notturna, ma neanche loro, che abitavano in Gerusalemme, pensavano di voler fare qualcosa per venire incontro a quella disastrosa situazione. Erano fermi perché mancava loro la possibilità o piuttosto perché non avevano una chiara visione, una chiamata divina che li impegnava per quel lavoro? Non erano certamente le possibilità economiche che li rendevano inoperosi, anche se queste erano molto precarie ma piuttosto la mancanza di una presa di coscienza, di una chiamata divina e di una chiara visione.

Quando Nehemia, ebbe tutto chiaro davanti a sé, non titubò a parlare, e con voce chiara e ferma disse:

Voi vedete la misera condizione nella quale ci troviamo; Gerusalemme è distrutta e le sue porte sono consumate dal fuoco! Venite, ricostruiamo le mura di Gerusalemme, e così non saremo più nell’obbrobrio (2:17).

Ecco un uomo che dà una chiara dimostrazione di non volere fare il lavoro da solo! Un uomo che non vuole restare sempre isolato; uno che si rivolge agli altri e cerca di entusiasmarli per unirsi a lui, ma soprattutto un uomo che s’immedesima nel bisogno altrui, pronto a dedicarsi con tutte le sue forze per vedere il suo popolo ristorato e liberato da ogni forma di disprezzo. A questo punto, per dare più forza a quello che ha detto e peso all’invito che ha rivolto, rivela loro qualcosa che ancora non ha detto.

Raccontai quindi loro come la mano benefica del mio DIO era stata su di me e anche le parole che il re mi aveva detto... (2:18).

Udendo questo: Essi allora dissero, «Leviamoci e mettiamoci a costruire!»....

Davanti all’evidenza che si presentava davanti ai loro occhi, i sacerdoti, i notabili e i magistrati, non possono più avere alcun dubbio circa la persona di Nehemia, la visione e la determinazione con cui prospettava loro i lavori che si dovrebbero fare, poiché ciò non rappresentava la fantasia di un uomo che voleva emergere su agli altri, ma la dimostrazione più eloquente di una divina volontà che tutto aveva predisposto e appianato e che ora, attraverso la strumentalità di tanti che si uniranno, potranno vicendevolmente ripetere:

or su, coraggio per mettere mano a quest'importante lavoro.

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Domenico34
00sabato 21 gennaio 2012 00:12
4. La reazione di Sanballat, Tobiah e Gherscem

Non ci deve meravigliare né sorprendere che, Sanballat, l'Horonita, e Tobia, il servo Ammonita, e Ghescem, l’Arabo, una volta informati su quello che Nehemia, assieme agli altri, vogliono fare, manifestino sentimenti di scherno e di disprezzo. I nemici del popolo di Dio hanno sempre agito in questa maniera in tutti i tempi. Quando Nehemia arrivò a Gerusalemme, col permesso di Artaserse, per restaurare le rovine di Gerusalemme, gli uomini, cioè Sanballat e Tobiah,

furono grandemente turbati, perché era giunto un uomo che cercava il bene dei figli d’Israele (2:10).

Ora che sanno che Nehemia, assieme ai sacerdoti, ai notabili, ai magistrati e tutti quelli che si interessavano, hanno un piano di lavoro, non solo scherniscono e disprezzano, ma addirittura chiedono: Che cose state facendo? Volete forse ribellarvi al re? (2:19).

Le due domande formulate da Sanballat, Tobiah e Gherscem, hanno il significato di fare apparire Nehemia e i suoi alleati, come persone che non vogliono stare sotto l’autorità del re, come per dire: se mettete in pratica il piano di lavoro che vi siete proposti di attuare, siete persone ribelli, insubordinate; individui che vogliono fare delle cose, senza tener presente le autorità costituite. Ma era proprio vero che Nehemia con i suoi alleati, si prefiggevano di rivoltarsi all’autorità costituita, eseguendo il piano di lavoro che era stato approntato, o erano piuttosto Sanballat, Tobiah e Gherscem a pensarla in quella maniera?

La risposta di Nehemia, è abbastanza chiara da farci vedere la falsità e la calunnia di quegli uomini, i quali non hanno altro di mira che di creare uno stato di paura, con il preciso intento di neutralizzare l’inizio dei lavori.

Allora io risposi e dissi loro: «Sarà il DIO stesso del cielo a darci buon successo. Noi, suoi servi, ci metteremo a costruire, ma per voi non ci sarà né parte né diritto né ricordo in Gerusalemme (2:20).

L’intimidazione che Sanballat e compagni lanciano contro Nehemia, non ha nessun effetto negativo nella vita e nei sentimenti di questo nobile servitore del Signore; anzi, da questa specie di sfida, la fede di Nehemia ne esce rinforzata e la certezza che Dio darà il successo, rappresenta una chiara dimostrazione della fiducia che ha nell’Iddio del cielo. Se noi, disse Nehemia, ci metteremo a costruire, è perché siamo servi di Dio, di quell’Iddio che è sovrano sopra tutto e su tutti, e dal quale attingiamo coraggio per iniziare i lavori.

5. Un’applicazione per la vita pratica

Nella vita pratica, spesso si verifica che i servi di Dio, specie quelli che anno propositi ben saldi per un lavoro nell’opera di Dio o nel campo di una missione, possono essere attaccati da forze nemiche, che apparentemente non sembrano ispirate da potenze infernali, dato che le persone che vengono usate, non hanno l’aspetto di un demone, ma piuttosto di alcuni di un certo prestigio e riguardo e magari in vesti di un'autorità civile o ecclesiastica.

Quando però si considera la finalità di questi attacchi e si nota chiaramente un preciso intento di produrre un senso di paura, o si insinua una calunnia o una diffamazione, atte a far retrocedere o arrestare il proseguire di una buona causa, si hanno tutte le ragioni di pensare ad una forza infernale che ha sferrato il suo attacco.

Quando poi si accusano i servi di Dio, come persone che non vogliono sottostare alle autorità costituite, o peggio ancora, come individui che hanno sentimenti di rivolta pronti ad escogitare piani sovversivi, bisogna allora pensare al Diavolo in persona, che cerca di fermare l’avanzata dei figli di Dio, sotto forma del pretesto di voler difendere la dignità e l’autorità di un governante.

Lungi però, dall’essere scoraggiati e neutralizzati, quando i servi di Dio vengono assaliti dalle forze dell’inferno, essi traggono dal Signore, un rinnovato zelo e fresche energie che permetterà loro di affrontare con successo, le opposizioni e gli impedimenti e uscirne così come veri trionfatori. Ci sia pertanto d'incoraggiamento, l’esempio di Nehemia!

PS: Se al termine del capitolo 2 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura

Capitolo 3




INIZIA IL LAVORO DI RIPARAZIONE




Premessa

Il capitolo tre di Nehemia, non è solamente una sezione che elenca le tante persone che presero parte al gran lavoro di riparazione, ma è soprattutto il capitolo che parla dell’inizio dell'attività, la maniera come ciò venne impostato e la sua finalità. Inoltre, vi è la descrizione dettagliata per quanto riguarda la restaurazione delle mura, delle undici porte.

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Domenico34
00domenica 22 gennaio 2012 00:12
Le porte

1) Porta delle pecore
2) Porta dei Pesci
3) Porta Vecchia
4) Porta della Valle
5) Porta del Letame
6) Porta della Sorgente
7) Porta della casa di Eliascib
8) Porta delle Acque
9) Porta dei cavalli
10) Porta orientale
11) Porta di Mifkad

La menzione di quattro torri:

1) Torre di Meah = un centinaio
2) Torre di Hananeel = Dio è stato misericordioso.
3) Torre dei forni
4) Torre sporgente

E infine, si fa menzione di un capo di distretto e di quattro responsabili di mezza circoscrizione; ci sono alcune parole e frasi che hanno un particolare significato in tutto il contesto del racconto che può insegnarci delle grandi verità.

1. La frase: “Vicino a loro” e “vicino a lui” è ripetuta 15 volte.
(Questa frase ci suggerisce l’idea di una catena di persone intente a lavorare).

2. Le parole: “Riparò, ripararono, riparazione”, 38 volte.
(Ci fa vedere che tutte le persone che erano impegnate nel lavoro, erano animate di pazienza)?

3. La frase: “Dopo di lui” e “dopo di loro”, 16 volte.
(Ci suggerisce l’idea di un susseguirsi ininterrotto di persone nel lavoro di ricostruzione).

In vista di tutto quello che possa insegnarci questo passo scritturale, crediamo che valga la pena d’impostare un accurato ed approfondito esame, per meglio valutare gli insegnamenti che ci vengono offerti e coglierne tutte le riflessioni e le implicazioni che ne scaturiranno, sia per ciò che riguarda il ministero e sia per quanto concerne la vita del credente come individuo che vive in mezzo alla collettività di altri fedeli.

ALCUNE CONSIDERAZIONI DI CARATTERE GENERALE

Tutti i lavoratori conoscono la reale situazione in cui si trovano le mura di Gerusalemme

Tutte le persone che presero parte ai lavori di riparazioni, sapevano, prima di iniziare che,

le mura di Gerusalemme erano piene di brecce e le sue porte consumate dal fuoco

In conseguenza di questo fatto sapevano anche che a causa di questo stato di cose, i Giudei erano nell’obbrobrio. I sacerdoti, i notabili e i magistrati erano stati messi al corrente di lavori di restaurazione che Nehemia, assieme a loro, intendeva fare, per dare sollievo e liberazione ai figli d’Israele. Inoltre, si sapeva che i capi d’Israele avevano accolto l’invito di Nehemia a levarsi per costruire e che nel dire quelle parole avevano anche preso coraggio per metter mano a quell’importante impresa.

La conoscenza della reale situazione, dava senza dubbio, a quella schiera di lavoratori addetti alle riparazioni, non sola consapevolezza del loro ruolo, ma anche coscienza di ciò che li riguardava, per quello che si accingevano a fare. Sapevano inoltre, che il loro lavoro non era qualcosa che riguardava cose personali, ma un’opera che veniva fatta all’insegna del beneficio comune di tutto un popolo.

Senza dubbio, il fatto che i lavoratori sapessero la reale situazione delle rovine esistenti, e che la loro manodopera avrebbe contribuito al benessere comune, tutto questo dava più incisività a tutte le attività che avrebbero svolto e nello stesso tempo sentivano che ciò agiva come propulsore che li incitava con fervore e con prontezza, in quella nobile causa che si era messi in cuore di portare a termine.

Tutti i piani di lavoro che vengono prospettati nel campo del Signore, possono essere fatti e portati a buon fine, solo se c’è una forza motivante. A sua volta, questa forza deriva dal fatto di conoscere perché si vuole fare quel lavoro e qual è il suo scopo primario.

Tutti i lavoratori erano persone che si erano offerte volontariamente

Per nessuno dei lavoratori descritti nel capitolo terzo di Nehemia, c’è la minima traccia che furono presi con forza o che abbiano agito contro la loro volontà. Tutti, nessun'eccezione, si erano arruolati volontariamente ai lavori di riparazione, e nessuno di loro aveva patteggiato un salario da ricevere come paga settimanale.

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Domenico34
00lunedì 23 gennaio 2012 00:08
Quanto è diverso l’atteggiamento che certuni assumono, per l’opera del Signore, di chiedere in quale misura sarà la loro paga, prima di cominciare a lavorare! Quando si ha uno spirito umile, è facile di pregare come Davide:

Rendimi la gioia della tua salvezza e sostienimi con uno spirito volenteroso (Salmo 51:12).

Questo, naturalmente, non significa che chi lavora nel campo del Signore non debba pensare al suo sostentamento materiale e della propria famiglia o che chi è impegnato nell’opera del ministero non ha nessun diritto di chiedere una paga settimanale. Se dovessimo affermare una simile cosa, ci troveremmo in contrasto con Dio, il quale ha previsto che al bue che trebbia, non si deve mettere la museruola (Deuteronomio 25:4). L’apostolo Paolo, commentando questa Scrittura, afferma che Dio non diceva queste cose perché si dava pensiero dei buoi; ma era detto con riferimento all’uomo (1 Corinzi 9:10). Gesù Cristo stesso affermò che:

...l’operaio è degno del suo nutrimento (Matteo 10:0); della sua ricompensa (Luca 10:7); del suo salario (1 Tim 5:18).

Più tardi l’apostolo Paolo scriverà:

Non sapete voi che quelli che fanno il servizio sacro mangiano delle cose del tempio, e quelli che servono all’altare hanno parte dei beni della mensa sacra? Così pure il Signore ha ordinato che chi annunzia l’evangelo, vivano dell’evangelo (1 Corinzi 9:13,14).

Tutte le persone impegnate nei lavori di riparazione hanno lavorato con perseveranza


È ammirevole costatare come tutti gli operai descritti nel terzo capitolo di Nehemia, hanno svolto il loro lavoro con perseveranza, e come ognuno di loro manifesta un senso di attaccamento per la propria attività, senza mai sottovalutarlo o pensare di invadere il campo degli altri, come se il proprio fosse inferiore a quello che facevano gli altri o di fare concorrenza col proprio vicino. Inoltre, ognuno che si era impegnato nel settore del proprio servizio, non solo pensava di portarlo a termine, senza pensare di controllare gli altri per vedere se il lavoro veniva fatto bene, ma era principalmente interessato di poter dire: “L’impegno che ho assunto volontariamente, l’ho portato a buon fine”.

1. LE MURA DI GERUSALEMME

La prima cosa che deve essere considerata nel contesto di tutti i lavori di riparazione fatti ai tempi di Nehemia, è parlare delle mura di Gerusalemme. Non ha tanto valore ai fini di quello che ci proponiamo di scrivere (se fosse una ricerca storica sì), stabilire la lunghezza perimetrale della muraglia che circondava la città di Gerusalemme, chi la costruì, quanto era larga e quale era la sua altezza; quanto tempo venne impiegato per realizzare l’opera e quale fu il costo totale, quanto di sapere la funzione che aveva le mura intorno ad un centro abitato.

Si sa, con estrema certezza che, non era soltanto la città di Gerusalemme ad essere circondata di mura, c’erano tanti altri centri urbani disseminati in ogni parte e fuori del territorio d'Israele, le cui città erano circondate di muraglia. Per noi che conosciamo il valore del significato spirituale di Gerusalemme, (senza negare quello puramente geografico) nel contesto di quello che dice la Scrittura, fare certe considerazioni ed applicazioni per la vita spirituale del credente e del popolo di Dio in genere, è importante, soprattutto per conoscere ed apprezzare certi insegnamenti che la Bibbia ci dà al riguardo.

Basti pensare che, Gerusalemme, come nome di luogo, è menzionata nella Bibbia 820 volte: 675 nell’A.T. e 145 nel N.T. (secondo la “Nuova Diodati). È la località più ricordata nella Bibbia rispetto a tutte le altre che vengono nominate.

Diamo qui di seguito alcuni testi, così come appaiono nelle Scritture, per vedere come viene descritta questa città.

È la città che Dio ha scelto:
...per amor di Gerusalemme che ho scelto (1 Re 11:13; 2 Re 23:37).

Nonostante che spesse volte sia stata devastata e saccheggiata, nel corso dei secoli, nondimeno su di lei cadrà la scelta finale del Signore:

il Signore consolerà ancora Sion e sceglierà ancora Gerusalemme (Zaccaria 1:17; 2:12).

Questo perché il profeta Gioele aveva predetto:
Ma Giuda rimarrà per sempre e Gerusalemme di generazione in generazione (Gioele 3:20);

e Geremia aveva proclamato:

Allora Gerusalemme sarà chiamata ‘Il trono del Signore’... Geremia 3:17).

È la città dove Dio dimorava:
e per portare l’argento e l’oro che il re e i suoi consiglieri hanno spontaneamente offerto al Dio d’Israele, la cui dimora è a Gerusalemme (Esdra 7:15).

Il salmista afferma:
Da Sion sia benedetto il Signore, che abita in Gerusalemme. Alleluia (Salmo 135:21).

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Domenico34
00martedì 24 gennaio 2012 00:25
Isaia, proclama:
La luna sarà coperta di confusione e il sole di vergogna, perché il Signore degli eserciti regnerà sul monte di Sion e in Gerusalemme, e la sua gloria davanti agli anziani (Isaia 24:23),

e Zaccaria, sottolinea affermando:
Così dice il Signore: Io ritornerò a Sion e dimorerò in mezzo a Gerusalemme. Gerusalemme sarà chiamata la Città della fedeltà e il monte del Signore degli eserciti, il monte della santità (Zaccaria 8:3) e, molti popoli e nazioni potenti verranno a cercare il Signore degli eserciti a Gerusalemme e a supplicare la faccia del Signore (Zaccaria 8:22; Giovanni 4:20),
anche se poi Gesù specificherà:

Ma l’ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, perché tali sono gli adoratori che il Padre richiede. Dio è Spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità (Giovanni 4:23,24).

Gesù chiama Gerusalemme: La città del gran Re (Matteo 5:35).
Da parte sua Paolo, parlando di Agar, afferma che essa corrisponde alla Gerusalemme del tempo presente (Galati 4:25) e anche se non nomina Sara, l’altra moglie di Abramo, è però sottinteso che si riferisca a lei, quando dice, Invece la Gerusalemme di sopra è libera ed è la madre di noi tutti (Galati 4:26).

A sua volta l’epistola agli Ebrei, descrive Gerusalemme con queste belle parole:
Ma voi vi siete accostati al monte Sion e alla città dell’Iddio vivente, che è la Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli (Ebrei 12:22).

e l’Apocalisse parla specificatamente:
Chi vince io lo farò una colonna nel tempio del mio Dio, ed egli non uscirà mai più; e scriverò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio, della nuova Gerusalemme che scende dal cielo da presso il mio Dio, e il mio nuovo nome (Apocalisse 3:12; 21:2,10).

Benché che Gerusalemme viene descritta in tale maniera da questi testi, ve ne sono altri che parlano inversamente, per esempio:

...un’abominazione è stata commessa in Israele e in Gerusalemme... (Malachia 2:11);
O Gerusalemme, purifica il tuo cuore dalla malvagità (Geremia 4:14) e,
Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono mandati! Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come la gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! (Matteo 23:37).

2. LA FUNZIONE DELLE MURA IN UN CENTRO ABITATO

Le mura, in un centro abitato, servivano come fortezza e protezione per le persone che vi abitavano, come anche di riparo contro eventuali tentativi d'invasione nemica. Il libro dei Proverbi, usando un linguaggio metaforico, dice:
L’uomo che non sa dominare la propria ira è come una città smantellata senza mura (Proverbi 25:28).

Una città priva di muraglia, facilmente si poteva conquistare, mentre quella che era fortificata con spesse ed alte mura (Deuteronomio 3:5), opponeva una maggiore resistenza al nemico, e, prima di conquistarla, si doveva studiare un piano strategico particolare.

Salomone, dopo aver terminato la costruzione della casa del Signore, pensò di fortificare la città di Gerusalemme, costruendo delle mura (1 Re 9:15). Anche se il suo nome significa “pacifico”, tuttavia pensò ad un eventuale attacco nemico contro la casa del Signore e la città di Gerusalemme.

Per la costruzione della casa del Signore, ci viene detto chiaramente nella Bibbia che fu un piano approvato da Dio, anche se fu Davide ad avere nel cuore un simile progetto e suo figlio Salomone ad attuarlo (2 Samuele 7:1-16; 1 Re 8:13).

Ma per la costruzione delle mura di Gerusalemme, non sappiamo se nel progetto iniziale di Davide presentato a suo figlio Salomone, ci fosse stato anche quel riguardante le mura o se fu un piano di lavoro ideato da Salomone nel tempo successivo. Indipendentemente di come siano andate le cose, crediamo che Salomone, nel costruire le mura di Gerusalemme, abbia ricevuto una certa illuminazione da Dio, per fargli vedere la necessità di costruire una fortificazione attorno alla città di Gerusalemme. Anche se spesse volte il linguaggio dei Salmi è metaforico:

Fa’ del bene a Sion edifica le mura di Gerusalemme (Salmo 51:18) e quello d'Isaia profetico, Sulle tue cinta, o Gerusalemme, ho posto delle sentinelle... (Isaia 62:6),

c’è sempre uno spiraglio di luce che ci permette di pensare che la costruzione delle mura di Gerusalemme, rientrava nel disegno e nel piano di Dio. Queste considerazioni, ovviamente le facciamo, con riferimento al valore e all’importanza di quello che diremo, a proposito del lavoro di riparazione.

Ai tempi di Nehemia, le mura di Gerusalemme erano “piene di brecce”, vale a dire, il nemico aveva fatto tante rotture in questa cinta di protezione, da esporre e figli d'Israele all’obbrobrio. La ricostruzione (o riparazione) delle mura, aveva lo scopo, di tirar fuori il popolo da questa situazione (Nehemia 2:17).

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Domenico34
00mercoledì 25 gennaio 2012 00:28
3. IL SENSO FIGURATIVO CHE POTREBBERO AVERE LE MURA

Se si accetta che la costruzione delle mura di Gerusalemme rientrava in un disegno della volontà di Dio per quella città, anche se più tardi Il Signore prometterà di essere Lui stesso

un muro di fuoco tutt’intorno per lei (Gerusalemme) (Zaccaria 2:5),
e, se questa città può essere presa come una bella figura del popolo di Dio, Ebreo e Gentile, ne consegue che questa popolazione oltre ad essere circondato dalle mura di protezione, spesso viene attaccato dalle forze nemiche, quelle infernali, che molte volte riescono ad aprire molte brecce nella muraglia, da esporre lo stesso popolo al tiro delle armi nemiche e nello stesso tempo al disprezzo e all’obbrobrio di chi vive al di fuori di lei. Più rotture ci sono nelle mura, maggiore sarà la facilità di penetrazione delle forze nemiche, con una più accentuata probabilità di pericolo per il popolo. Che cosa bisogna fare quando si vedono rotture nel muro? Ripararle! E ancora una volta: ripararle!

Vedere le rotture, non per emanare un giudizio di condanna, ma per ripararle


La prima cosa che bisogna evidenziare è il fatto di saper vedere la rottura che il nemico ha fatto nella struttura di un muro di protezione. Vedere una devastazione che ha colpito una famiglia, un popolo, una chiesa, un movimento religioso, e poi sentenziare un severo giudizio di condanna, con le parole che pressappoco suonerebbero: “Questo è il risultato del tuo sviamento, della tua infedeltà, di una giusta punizione divina” (anche se in senso lato potrebbe essere vero), non gioverà certamente al bene di quella famiglia, di quel popolo, di quella chiesa o di quel movimento religioso.

Ma vedere le rotture ed essere profondamente addolorato, pensando soprattutto al moltiplicarsi dei pericoli, ed essere mossi da uno spirito compassionevole e di abnegazione, rendendosi disponibile per chiudere quella breccia, anziché lasciarla aperta, questo è vero amore. Qui, ovviamente, non si tratta di invocare uno spirito di commiserazione, si tratta invece di dimostrare che veramente si ama.

Prendendo come base (1 Corinzi 13), possiamo dire: l'amore non si rallegra del male altrui, non pensa soltanto al proprio benessere, non è egoista per non interessarsi di chi si trova in un particolare bisogno, non chiude gli occhi per non vedere una devastazione, non ha un cuore crudele per non invocare misericordia, non ha mani legate per non poterle distendere verso chi è caduto, non ha piedi immobilizzati per non portarsi vicino a chi piange e si lamenta, a causa delle ferite riportate, e soprattutto, l’amore non è insensibile per rimanere passivi ed indifferenti davanti ad un chiaro bisogno.

Chi veramente ama, è pronto ad aiutare, non con le semplici parole, ma con fatti tangibili; non delega altri a soccorrere, non ordina soltanto perché altri facciano qualche cosa, ma si porta di persona sul posto del bisogno, si dispone con tutte le sue possibilità, materiali e spirituali, perché l’obbiettivo venga raggiunto.

Le mura di Gerusalemme piena di brecce, non devono essere demolite, ma riparate

Oggi siamo in tempi in cui si fa presto ad affermare che una struttura dottrinale non serve più, non è più buona o di coloro che l’hanno insegnata e sostenuta, non capivano un gran che, mentre ora, alla luce della nuova e progredita scienza teologica, si vede in maniera diversa e tutto dorrebbe cambiare, come per dire: demoliamo quello che c’è stato nel passato e costruiamo tutto nuovo.

Se dovessimo fare un confronto con la maniera di costruire una muraglia al tempo di Salomone con quella dei nostri giorni, diremmo: la costruzione di quel periodo si poteva facilmente demolire producendo in lei anche delle brecce, mentre in quella di oggi è molto più difficile, perché è di gran lunga più forte. Eppure, non si può negare che quella costruzione, per diverso tempo, servì di protezione ad una città, ad un popolo.

Le mura dottrinali che sono state costruite per proteggere la vita di un popolo e della chiesa in generale dagli attacchi continui delle forze nemiche di ogni genere, sono state costruite con accorgimenti e discernimento spirituale, basati sull’autorità della Parola di Dio. Quando si pensa, per esempio, alle origini del movimento Pentecostale, (con questo riferimento specifico, non intendiamo degradare gli altri movimenti) e si tiene presente gli uomini che furono usati dallo Spirito Santo, si potrebbe obbiettare che il loro modo di costruire una muraglia dottrinale, non era solido, alla luce della nuova conoscenza biblica.

Eppure, quella rozza e non progredita conoscenza, ha durato per tanti anni ed ha protetto la vita di un movimento, di un popolo. Se durante gli anni che seguirono, il nemico ha fatto delle brecce nelle mura, non per queste quelle fortificazioni devono essere giudicate in blocco come inservibili, passate di moda, vecchie, da gettar via, da essere demolite e rimpiazzate con altre nuove, ma riparate.

Gli sbandamenti dottrinali, non bisogna considerarli come sinonimo di abrogazioni e tanto meno confonderli con gli sviamenti. Se la struttura è stata devastata, bisogna riparare la parte danneggiata; facendo così, si aiuterà a riportare sulla buona strada chi ne è uscito e si contribuirà al suo consolidamento. Poi, se pensiamo allo sviamento, si può benissimo adottare quello che scrisse l’apostolo Giacomo:

Fratelli, se uno di voi si svia dalla verità e qualcuno lo converte, sappia costui che chi allontana un peccatore dall’errore della sua vita, salverà un’anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati (Giacomo 5:19,20).

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00giovedì 26 gennaio 2012 00:16
Le mura della santità, hanno tante brecce; non devono essere diroccate, ma riparate

Oggi c’è una forte tendenza e una pressione non indifferente che cerca di minimizzare la santità, in ciò che riguarda la parte esterna della vita e colloca quasi nell'esistenza interiore. Non si mette in dubbio che l’interno di una persona, ha più valore della vita esterna, e che certe manifestazioni esterne hanno il senso dell’ipocrisia, atte a fare apparire una diversa realtà da quella vera. Tra la vita interiore e quell'esteriore, non ci deve essere collisione o contraddizione, ma armonia, se si vuole che l’azione resti integra e non subisca nessun'alterazione. Di solito, l’azione esterna che compiamo, quella cioè che controlliamo con i nostri sensi, è una chiara rivelazione di quello che abbiamo veramente nell’interno. Quest'affermazione la facciamo sull’autorità della parola di Gesù:

Ma le cose che escono dalla bocca procedono dal cuore...Poiché dal cuore provengono pensieri malvagi, omicidi, adulteri, fornicazioni, furti, false testimonianze, maldicenze (Matteo 15:18,19).

Una santità che si localizza soltanto nel pensiero e sull’astratto e non dà nessun peso ad un'azione esterna, è falsa, non è quella insegnata dalle Scritture; come pure quella che si attiene solamente alle cose esterne è ugualmente falsa, e rischia facilmente di diventare fanatismo.

Per evitare di avere idee e convinzioni contrarie a quello che insegna la Scrittura, per ciò che riguarda la santità, e non farla apparire come una verità del lontano passato e non più compatibile con i tempi della vita moderna, e, soprattutto per costatare se esiste un certo legame di continuità, tra l'esistenza interiore dell’anima e dello spirito con quell'esteriore del nostro corpo, è necessario sapere cosa ha da dirci la Bibbia, la Suprema Autorità in materia di fede e di condotta. Il credente viene esortato a:

camminare secondo lo Spirito e non adempiere i desideri della carne (Galati 5:16); a, procacciare...la santificazione, senza la quale nessuno vedrà il Signore (Ebrei 12 14); a, ...purificarsi da ogni contaminazione di carne e di spirito, compiendo la propria santificazione nel timore di Dio (2 Corinzi 7:1); ed infine, Siate santi, perché io (Eterno) sono santo (1 Pietro 1:16; Levitico 11:44).

Per la donna nubile, si afferma che
...si preoccupa delle cose del Signore per essere santa nel corpo e nello spirito... (1 Corinzi 7:34).

Dei credenti in genere si afferma che sono:
...una stirpe eletta, un regale sacerdozio, una gente santa... (1 Pietro 2:9).

L’apostolo Paolo conosce ed insegna un modo di vivere che si addice ai santi.
Ma come si conviene ai santi, né fornicazione, né impurità alcuna, né avarizia non siano neppure nominate fra di voi (Efesini 5:3), ed esorta di camminare con diligenza non da stolti, ma come saggi (Efesini 5:15).

Per dimostrare che Paolo non concepiva la santità, solamente dal punto di vista della vita interiore dell’anima e dello spirito, egli scriveva ai Tessalonicesi:

Voi siete testimoni, e lo è anche Dio, come ci siamo comportati santamente, giustamente, senza biasimo verso di voi che credete (1 Tessalonicesi 2:10).

Ed ancora ai Corinzi:
Il nostro vanto, infatti, è questo: la testimonianza della nostra coscienza, che nel mondo e specialmente davanti a voi, ci siamo comportati con la semplicità (un’altra versione rende “santità”) e sincerità di Dio, non con sapienza carnale, ma con la grazia di Dio (2 Corinzi 1:12).

L’apostolo Pietro, aveva la stessa convinzione di Paolo, e insegnava la santità nella stessa maniera di Paolo. Ecco le sue parole:

Poiché dunque tutte queste cose devono essere distrutte, come non dovreste voi avere una condotta santa e pia, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, a motivo del quale i cieli infuocati si dissolveranno e gli elementi consumati dal calore si fonderanno? (2 Pietro 3:11,12).

Senza dover ricorrere ad altri testi, crediamo che quelli che abbiamo citato siano più che sufficienti per farci comprendere che la santità che la Bibbia insegna, coinvolge in pieno le azioni esterne che gli altri possono vedere e notare. Infatti, i termini: comportarsi, condotta, camminare, adempiere e compiendo, che abbiamo letto nei testi suesposti, sono parole che esprimono eloquentemente che la santità non può essere dissociata dalle azioni esterne e collocarla nel mondo delle idee, dell’invisibile, dell’uomo interiore senza che la stessa perda la sua vera fisionomia.

Per illustrare ulteriormente questo concetto, prendiamo com'esempio l’amore. Tutti sappiamo che l’amore è un sentimento e come tale non sarebbe possibile dimostrarlo, se non ci fosse un’azione visibile che provi la sua esistenza. Allo stesso modo sarebbe equiparata la santità se non si potesse dimostrare con azioni tangibili che tutti possono vedere e controllare. Se vediamo che le mura della santità sono piene di brecce quelli nei cui occhi è versato il collirio dello Spirito Santo ha una buona vista per vederle?, non bisogna abbatterle, in modo che non si parli più di brecce, ma piuttosto ripararle.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00venerdì 27 gennaio 2012 00:11
Il nemico ha devastato quello che un tempo si chiamava “sensibilità”, “scrupolosità”, che rappresentava la forza e la protezione del popolo di Dio contro l’invasione delle maree delle potenze distruttrici del male e ha fatto tante forature che si potrebbero chiamare: “Indulgenza”, “licenziosità”, “mondanità”. Alziamoci per chiudere queste brecce; mettiamo fuori delle mura tutto quello che il nemico vi ha portato dentro, così che la città di Dio potrà ritornare ad essere quella di una volta; il popolo sarà liberato dal disprezzo e dall’obbrobrio, e Gerusalemme continuerà a chiamarsi: Il Signore è là (Ezechiele 48:35).

PS: Se al termine del capitolo 3 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 4




NOTE PRELIMINARI AL GRANDE LAVORO DI RIPARAZIONE




Poiché Gerusalemme è completamente devastata: le mura piene di brecce, le sue porte consumate dal fuoco, la popolazione in gran miseria e obbrobrio, e, sapendo soprattutto che questo stato di cose lo ha causato l’invasione nemica, non serve a nulla discutere come si è potuto verificare ciò o magari mettere sotto processo Tizio e Caio, addossando responsabilità di ogni genere a questo e a quello, quanto invece di pensare di prendere sul serio il problema e dedicarsi con tutte le forze perché queste rotture siano riparate e il popolo di Dio possa essere tirato fuori di quest'opprimente situazione, ritornare insomma alla serenità, al riposo, al prestigio e soprattutto ad essere un popolo allegro e felice che loda e glorifica Dio, per la manifestazione della Sua clemenza e della Sua bontà.

1. IL LAVORO DI RIPARAZIONE NON È DI UNO SOLO, MA DI TANTI MESSI INSIEME

Per ogni progetto di lavoro che l’uomo vuole eseguire, è necessario la collaborazione di tanti, affinché tutto possa andare a buon fine. È una pura follia quando qualcuno pensa di poter fare un lavoro da solo, senza chiedere la collaborazione degli altri. Nessuno deve credersi autosufficiente, anche se sia dotato di una particolare intelligenza e può disporre le cose con ordine stendendo un piano di lavoro ben coordinato. Credersi capace di fare tutto da solo, significa esporsi ad un serio rischio di logoramento, con conseguenze che tante volte potrebbero assumere proporzioni disastrose.

Il lavoro di riparazione, di cui ci accingiamo a parlare, oltre a non essere semplice, per il fatto che richiede molta pazienza ed attenzione, non può essere fatto da una sola persona, poiché vi sono moltissime cose da riparare, come il caso specifico delle tante brecce nelle mura di Gerusalemme e le sue porte consumate dal fuoco, e inoltre la particolare circostanza che richiedeva di fare presto, per porre fine ad uno stato di desolazione.

Chi legge il capitolo terzo del libro di Nehemia, noterà subito che tutto il lavoro, è essenzialmente di riparazione. Non è detto che costruirono nuove strutture o che abbiano demolito quelle esistenti per ricostruirle di nuovo. Tutti gli operai impegnati in questo tipo di lavoro sanno che gli attrezzi che hanno, non devono usarli per fare altre devastazioni o rotture, ma per riparare quelle esistenti, perché a questo sono state chiamate. Non è un puro caso che i termini: “Riparò, ripararono e riparazione”, sono ripetuti 38 volte nei 32 versetti che compongono questo capitolo, parole che ci permettono di costatare che tutte le persone addette in questo lavoro, erano animate di pazienza.

Da questo primo elemento che emerge dalla lettura del testo sacro, possiamo fare una prima pausa di riflessione:

a) Chi fa una qualsiasi rottura o devastazione, nella vita di un credente, di una famiglia, di una chiesa, di un movimento, è il nemico; e le forze che agiscono per fare tale lavoro, vengono dall’inferno, da Satana, che in persona guida e coordina quest'attività.

b) Chi si presta a fare un simile lavoro, è un emissario di Satana, un lavoratore dell’inferno, un cooperatore delle forze delle tenebre.
Colui invece che si presta alle riparazioni di una struttura danneggiata, sia che si tratti della vita di un singolo credente, di una famiglia, di una chiesa o di un popolo, oltre a svolgere un nobile lavoro che soltanto l’eternità darà una giusta ricompensa, è un servo e cooperatore di Dio, di Gesù Cristo e dello Spirito Santo; uno che con ragione può essere chiamato:

...riparatore di brecce, restauratore dei sentieri per abitare nel paese (Isaia 58:12).

c) Inoltre, tutti quelli che lavorano alle riparazioni, se non hanno pazienza, faranno bene di andarsene a casa e lasciare in pace gli altri, anziché infastidire quelli che si sono impegnati in questo tipo di lavoro. Come il pauroso, in mezzo ad un esercito che si prepara per scendere in battaglia, può scoraggiare ed indurre altri ad avere paura, in questo caso è meglio che torni indietro e si allontani dall’esercito (Giudici 7:3) così dicasi di chi non hanno pazienza per riparare una rottura, aggiustare una devastazione, in un’anima, in una famiglia, in una chieSamuele

Le forze infernali, capitanate da Satana, sono più che mai impegnate a fare rotture e devastazioni quanto più possibile a tutti i livelli e dovunque, sia nel mondo e soprattutto in mezzo al popolo di Dio. L’esercito volontario di Gesù Cristo, che è composto di persone che amano come Lui ed hanno a cuore il bene delle anime e l’interesse per l’opera di Dio, si alzi compatto, unito e determinato, per darsi ai lavori di riparazioni con tutte le sue energie!

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Domenico34
00sabato 28 gennaio 2012 00:28
2. IMPORTANZA DELLE FRASI: “VICINO A LUI, VICINO A LORO. DOPO DI LUI, DOPO DI LORO”

Queste quattro frasi: “Vicino a lui, vicino a loro”, ripetute 15 volte e, “Dopo di lui, dopo di loro”, 16, non sono proposizioni messe a caso in questo testo di Nehemia; hanno senza dubbio un significato importante e profondo che ci permettono di apprezzare meglio il lavoro che viene fatto.

Le prime due frasi: “Vicino a lui, vicino a loro”, ci suggeriscono l’idea di una catena di persone intente a lavorare; mentre le altre due frasi, “Dopo di lui, dopo di loro”, ci mostrano il susseguirsi d'individui nel lavoro di ricostruzione.

Spesso si sente parlare di “catena di preghiera”. Che cosa si intende dire esattamente con quest'espressione? Tante persone che pregano ininterrottamente per un certo tempo, dandosi il turno. Anche se difficilmente si sente parlare di una catena di lavoratori ai nostri tempi, vale la pena pensare e meditare, quando si ha a che fare con impiegati addetti alle riparazioni.

Che cosa è una catena? L’insieme di tante maglie. Una maglia è una parte a sé stante completa, ma non forma una catena; mentre i tanti intrecci di fili insieme, formano una serie di anelli. Inoltre, la catena non ci dà solamente l’idea di forza, ma anche di comunione, di unità.

Si sa che ogni persona è distinta dall’altra: c’è differenza di cultura, di posizione sociale, di razza, di sesso, di capacità a tutti i livelli e di responsabilità. Nonostante ciò, si può stare insieme, vicino l’uno all’altro e svolgere ognuno il proprio lavoro nel proprio ruolo e secondo le proprie capacità, specie quando lo scopo e la finalità convergono allo stesso punto.

Questo però non significa che chi ha un ruolo di dirigente, o delle diverse capacità lavorative, sia autorizzate ad ignorare il proprio compagno o peggio ancora a disprezzarlo. Coloro che sono impegnati in un’unica causa e servono principalmente lo stesso Signore, devono pensare, singolarmente e collegialmente, come fare per portare avanti il lavoro e non criticarsi, o peggio ancora giudicarsi reciprocamente.

Le critiche, le censure, i biasimi, i giudizi severi e intolleranti, non servono alla causa dell’Opera del Signore e al benessere del popolo di Dio; favoriscono invece il lavoro di Satana, che cerca sempre di aprire una nuova falla anziché chiuderla; di ingrandire un dissidio, anziché eliminarlo; di erigere un più robusto muro di separazione anziché rimuoverlo; di accentuare l’impossibilità della comunione fraterna, anziché rimuovere gli ostacoli che hanno ostruito il cammino della pace e della concordia.

È tempo, che i riscattati col sangue dell’Agnello, abbiano davanti a loro una chiara visione e sappiano vedere nello stesso momento, tutto il male che il nemico ha fatto, attraverso tanti anni, nell’aprire brecce dovunque, bruciare porte e ridurre il popolo del Signore in uno stato di obbrobrio e di disprezzo, davanti agli increduli e ai materialisti. Quando gli occhi si apriranno al reale bisogno che c’è in mezzo all’Opera del Signore, questo immancabilmente contribuirà a portare i sinceri lavoratori ad unire le loro forze per dedicarle a qualcosa, che poi riuscirà per il bene comune e dell’intero popolo di Dio.

PS: Se al termine del capitolo 4 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 5




DIECI GRUPPI DI LAVORATORI




Leggendo attentamente il capitolo terzo di Nehemia, notiamo che ci furono dieci gruppi di lavoratori che si susseguirono nell’opera di restaurazione delle mura e delle porte di Gerusalemme, oltre ad un bel nutrito numero di singole persone, appartenenti a diverse famiglie. Ecco qui di seguito i dieci gruppi di lavoratori, così come vengono presentati dal testo Sacro.

1) I sacerdoti (3:1,22,28)
2) Gli uomini di Gerico (3:2)
3) I figli di Senaah (3:3)
4) I Tekoiti (3:5,27)
5) Melatiah, Jadon, gli uomini di Gabaon e di Mitspah (3:7)
6) Shallum insieme alle sue figlie (3:12)
7) Hanun e gli abitanti di Zanoah (3:13)
8) I Leviti, sotto il comando di Rehum (3:17)
9) I loro fratelli, sotto il comando di Bavvai (3:18)
10) I Nethinei (3:26).

Per potere giustamente valutare l’opera che questi volontari lavoratori svolgano, è necessario che prendiamo in esame tutto quello che essi fecero, non solo per avere una panoramica completa, ma anche e soprattutto per poterne valutare la portata sotto il profilo delle varie riflessioni.

LA PORTA DELLE PECORE

Il gruppo dei sacerdoti

Il primo lavoro che venne fatto, riguarda la porta delle Pecore. Tutte le porte menzionate nel capitolo tre di Nehemia sono undici, e precisamente:

1) La porta delle Pecore,
2) La porta dei Pesci,
3) La porta Vecchia,
4) La porta della Valle,
5) La porta del Letame,
6) La porta della Sorgente,
7) La porta della casa di Eliascib,
8) La porta delle Acque,
9) La porta dei Cavalli, o Hammfkad (Luzzi)
10) La porta orientale
11) La porta di Mifkad o portone del Carcere (Diodati).

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Domenico34
00domenica 29 gennaio 2012 00:25
Delle porte delle mura di Gerusalemme, è detto chiaramente che sono state bruciate dal fuoco (Nehemia 1:3), (probabilmente non tutte), perché cinque di loro, cioè, La porta della casa di Eliascib, la porta delle Acque, il portone dei Cavalli, l'apertura Orientale e quella di Mifkad o uscio del Carcere, non fu riparato (Nehemia 3:26,28,31), di conseguenza, prima che si montassero i battenti, le intelaiature, le serrature e le sbarre, era necessario riparare la struttura murale.

Non è un puro caso che la prima persona menzionata in questo lavoro di riparazione è un sommo sacerdote di nome Eliaschib, il cui termine significa: “Dio vuole restaurare”, il quale assieme ai suoi fratelli religiosi, si levò per costruire la porta delle Pecore.

Nel significato etimologico del nome Eliascib, si può intravedere una bella verità, cioè: Dio vuole l’opera di restaurazione. Questo vuol dire in ultima analisi che detta opera non ha solo a che fare col volere dell’uomo e tanto meno che è lui ad ispirarla, ma con Dio stesso, anche se per eseguirla, si serve e mette in movimento uomini come Nehemia. Quando si accetta che in un’opera di riparazione non importa quale si può vedere chiaramente il “volere di Dio”, l’attività in sé acquista valore, non solo perché viene vista e valutata con differente visuale, ma soprattutto perché c’è il pensiero e il convincimento di avere a che fare col volere divino, che è di gran lungo superiore a tutti i desideri umani.

Leggendo per esteso Nehemia 3:1:
Eliascib, sommo sacerdote, si levò allora assieme ai suoi fratelli ecclesiastici e costruirono la porta delle Pecore; la consacrarono e vi misero i suoi battenti. Continuarono a costruire fino alla Torre di Meah, che poi consacrarono, e fino alla Torre di Hananeel,

dove si afferma che Eliascib assieme ai suoi fratelli sacerdoti costruirono la porta delle Pecore, si sarebbe potuto pensare che questa porta non era stata devastata come le altre aperture, dato che viene usato il termine “costruirono” o addirittura che essa non esistesse prima. Per meglio chiarire le cose, diciamo subito che il termine ebraico bânâh, impiegato in questo primo verso come in altri del capitolo terzo di Nehemia, significa prevalentemente “costruire”, ma ha anche il senso di “riparare”.

«Nelle diverse versioni si possono trovare, oltre a ‘costruire’, altri verbi come ‘rialzare, ricostruire, compiere, erigere, rompere, fondare, innalzare, istituire, fortificare, restaurare, fabbricare, fare’» [Per l’esame del termine ebraico bânâ, si veda la trattazione ampia che ne fa S. Wagner, nel GLAT (Grande lessico dell’Antico Testamento) Vol. 1, Col. 1399-1434)].

Controllando molte traduzioni, si può notare come un buon numero di traduttori, abbiano reso il termine ebraico bânâh, “costruire”, dandogli questo senso, di conseguenza l’ha tradotto “costruirono, edificarono”; mentre altri, lo hanno tradotto “riedificarono” (S. Garofalo); “rebuilt = ricostruire” (New International). Così facendo, non si può affermare che gli uni hanno tradotto bene e gli altri no, perché sia i primi che i secondi, hanno messo in risalto il significato che il termine ebraico ha, a proposito del concetto di “costruire” e a quello di “riparare”. Che poi il concetto di riparare appaia più appropriato a tutta la descrizione che ne fa il capitolo terzo di Nehemia, appare abbastanza evidente da preferirlo a quello di costruire. Effettivamente, Eliascib, assieme ai suoi fratelli sacerdoti, intrapresero una vera e propria opera di restaurazione nel costruire la porta delle Pecore.

Se quest'Eliascib, sommo sacerdote, che era alla testa degli altri religiosi convinto della necessità e dell’importanza di cominciare un’opera di restaurazione, non si fosse alzato, ma avesse solamente parlato agli altri i suoi fratelli sacerdoti di dedicarsi a questo lavoro, difficilmente il suo appello sarebbe andato a buon fine. Ma dato che lui “si levo” il primo, con il suo esempio poté incoraggiare altri a seguirlo.

I capi di cariche religiose, non devono solamente: parlare, ordinare come fare un certo tipo di lavoro, insegnare certe tecniche e certe regole da osservare, parlare di avere una buona moralità, sia per quanto riguarda la vita singola come anche quell'associata, ma devono soprattutto dare l’esempio, sul piano pratico, cioè, rimboccarsi le maniche e dimostrare di non essere semplicemente degli abili teorici, se vogliono che la loro parola, i loro ordini impartiti, abbia l’effetto desiderato, e, soprattutto, se desiderano entusiasmare altri a compiere un’azione pratica.

Se Eliascib si fosse levato solo a costruire la porta delle Pecore, sicuramente avrebbe fatto un ottimo lavoro, ed altri, probabilmente, l’avrebbero seguito in altri compiti. Ma poiché egli lo fece assieme ai suoi fratelli sacerdoti, ciò manifesta che questo sommo ecclesiastico non si considerava autosufficiente, capace di fare tutto da solo, senza l’aiuto degli altri, ma ci permette anche di vedere com'egli ha apprezzato il lavoro dei suoi compagni anche se la sua carica era ben diversa (non lo era però lo scopo e la finalità dell'attività che venne fatto).

Uno dei grandi scogli che si può notare e che si deve superare ai nostri giorni, è costituito dalla quasi impossibilità di poter lavorare “insieme” con altri, specie quando ci sono: differenziazioni di posizioni sociali, di cultura, (e perché no), anche di conoscenze e valutazioni delle cose di Dio. Però, se risulta chiaro nella mente di una persona, che il lavoro di restaurazione di un’anima, di una famiglia, di una chiesa o di un popolo, è qualcosa che “Dio vuole”, si accantonerà ciò che potremmo chiamare: egoismo, vana gloria, superiorità su altri e settarismo, per unire le forze in favore di una causa comune, che poi immancabilmente riuscirà alla lode e gloria di Dio e per il bene delle anime.

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Domenico34
00lunedì 30 gennaio 2012 00:09
APPLICAZIONE SPIRITUALE PER LA PORTA DELLE PECORE

L’ubicazione della porta delle Pecore


La porta delle Pecore, secondo una precisa topografia dei tempi di Nehemia, era situata nelle mura di Gerusalemme, nelle vicinanze del Tempio, all’estremità orientale della parete settentrionale, e quest'ubicazione, probabilmente, era con riferimento al fatto che gli agnelli e le pecore erano spesso offerti al Signore nel Tempio, e questo naturalmente facilitava enormemente il lavoro dei sacerdoti e dei leviti che scannavano queste bestie e le offrivano al Signore.

Dato che questa porta era stata devastata nella sua struttura muraria e bruciata dal fuoco nei suoi battenti, era necessario ripristinarla, in modo che le pecore potessero passare ed arrivare nel Tempio e i sacerdoti utilizzarle per i regolari sacrifici offerti a Dio.

Chi facesse una simile devastazione, era stato senza dubbio il nemico, e sperare che egli la riparasse, era oltremodo impensabile, per il fatto che l'avversario = il diavolo, non ha mai fatto lavori di restaurazione, ha sempre fatto quello di devastazione a tutti i livelli. Giustamente, Gesù, poteva dire di lui, paragonandolo ad un ladro:

Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; ma io sono venuto affinché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Giovanni 10:10.

Gesù, porta delle Pecore

Un giorno Gesù Cristo, parlando del buon pastore, disse di se stesso: In verità, in verità vi dico, io sono la porta delle Pecore (Giovanni 10:7).

L’apostolo Pietro, a sua volta, chiama Gesù: Il sommo pastore (1 Pietro 5:4), e l’Epistola agli Ebrei lo definisce sommo sacerdote.

Avendo dunque un gran sommo sacerdote che è passato attraverso i cieli, Gesù, il Figlio di Dio, riteniamo fermamente la nostra confessione di fede (Ebrei 4:14); e avendo un sommo sacerdote sopra la casa di Dio (Ebrei 10:21).

I sacerdoti restauratori della porta delle Pecore

Coloro che si levarono per riparare la porta delle Pecore, furono i sacerdoti nei cui cuori c’era il desiderio di fare un lavoro che fosse accetto al Signore e che nello stesso tempo esprimesse l’interessamento che questi servitori di Dio avevano per il servizio del Signore e per l’Opera del Signore in generale. Infatti, essere un sacerdote, non implicava solamente un privilegio per ciò che riguardava il rango, era essenzialmente una chiara dimostrazione di un ministero di origine divina che si eseguiva in favore degli uomini, dato che quest’ultimi venivano presentati al Signore e per i quali il sacerdote pregava ed intercedeva, presso il trono della grazia di Dio.

Considerando il sacerdote sotto l'aspetto del ministero e non come una comune professione, il lavoro che svolgono, è un continuo “servizio” per il bene delle anime, e nello stesso tempo non possono ignorare le parole del sommo pastore Gesù Cristo:

Io ho anche altre pecore che non sono di quest’ovile; anche quelle io devo raccogliere, ed esse ascolteranno la mia voce, e vi sarà un solo gregge e un solo pastore (Giovanni 10:16),

essendo Gesù Cristo stesso il Sommo Pastore, il buon Pastore, chi sacrifica la sua vita per le pecore (Giovanni 10:11).

Chi si leverà per riparare la porta delle Pecore, per riportarla nel suo stato originale? Allora furono i sacerdoti, assieme al sommo ecclesiastico Eliascib; oggi saranno una stirpe di persone, che hanno caratteristiche ben diverse da quelli del tempo di Nehemia.

Quando si parla della nuova stirpe di sacerdoti, il nostro pensiero non può fare a meno di ricordare le parole dell’apostolo Pietro:

Ma voi siete una stirpe eletta, un regale sacerdozio, una gente santa, un popolo acquistato per Dio, affinché proclamiate le meraviglie di chi vi ha chiamato dalle tenebre alla sua mirabile luce; voi che un tempo non eravate un popolo, ma ora siete la popolazione di Dio; voi, che non avevate ottenuto misericordia, ma ora avete ottenuto misericordia (1 Pietro 2:9,10).

Indubbiamente, le parole di questo testo, si riferiscono ai cristiani, cioè a quelli che hanno fatto un’esperienza nella loro vita, e che la fede in Cristo Gesù, ne rappresenta il solido fondamento. Se poi dobbiamo usare la stessa fraseologia di Pietro, dobbiamo affermare che sono persone che risiedono o vivono come stranieri o forestieri (1 Pietro 1:1) su questa terra.

Senza sminuire il valore del sacerdozio universale di tutti i credenti in Cristo, il testo su indicato è molto importante per un altro motivo: parla chiaramente di tutto ciò che questi fedeli hanno esperimentato nella loro vita e di quello che hanno ricevuto e ottenuto dal Signore. Le persone in questione, hanno le seguenti caratteristiche:

1) Sono una stirpe eletta;
2) un regale sacerdozio;
3) una gente santa;
4) un popolo acquistato per Dio;
5) un popolo chiamato dalle tenebre alla luce;
6) un popolo che è stato fatto popolazione di Dio;
7) un popolo che ha ottenuto misericordia.

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Domenico34
00martedì 31 gennaio 2012 00:10
La caratteristica di essere un regale sacerdozio, riferendoci al nostro caso denota la posizione in cui è stato messo il credente da un punto di vista generale, posizione che parla non di merito, ma di privilegio per la grazia ricevuta.

Che poi il concetto della grazia, venga sviluppato con ulteriori parole, appare chiaramente, quando si pensa che questo tipo di credente deve proclamare le meraviglie di chi l’ha chiamato dalle tenebre alla sua mirabile luce. In pratica, questo vuol assicurare che, la persona in questione, ha conosciuto uno stato di tenebre, non ipotetico ma reale, nella vita interiore, da portarlo a fargli fare una reale constatazione tra il buio di un tempo e la luce attuale.
Se poi si prendono in esame i concetti della santità, dell’essere stati acquistati per Dio, della realtà diventato popolo di Dio e della misericordia ottenuta, non si può negare che si ha a che fare con una persona, nella cui vita si è verificato qualcosa, da essere paragonato ad una reale esperienza di liberazione e di cambiamento.

Tutto questo, naturalmente, per affermare che, i sacerdoti che si leveranno per restaurare la porta delle Pecore, non saranno persone che avranno acquisito un privilegio di nascita o tramandatogli dai genitori; ma saranno invece degli individui il cui stato primiere è stato molto bene evidenziato, dato che sono stati acquistati dirà lo stesso Pietro.
Non con oro o argento...ma con il prezioso sangue di Cristo... (1 Pietro 1:18,19).

Insomma, non sono dei professionisti che hanno di mira il guadagno e l’esaltazione della propria personalità, ma delle persone realmente liberate e rinnovate, che hanno da raccontare e proclamare quello che Gesù ha fatto per loro e in loro.

Il significato spirituale della riparazione della porta delle Pecore


Prima di andare avanti nell’analisi del significato spirituale per ciò che riguarda la riparazione della porta delle Pecore, crediamo necessario rifarci a due testi bibliche, che servono come fondamento e, nello stesso tempo, riferimento a tutte le considerazioni che possono essere fatte. Le due testi sono: Isaia 53:7:

Maltrattato e umiliato, non aperse la bocca. Come un agnello condotto al macello, come una pecora muta davanti ai suoi tosatori non aperse bocca.
Il giorno seguente, Giovanni vide Gesù che veniva verso da lui e disse: ‘Ecco l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo!’
(Giovanni 1:29).

Del primo testo, si sa con certezza che, il profeta Isaia quando parlava dell’agnello condotto al macello e della pecora muta davanti ai suoi tosatori, si riferiva profeticamente al Messia, al servo del Signore, che nel N.T. aveva trovato il suo letterale adempimento nella persona di Cristo Gesù, nel giorno del suo processo e della crocifissione.

Il secondo testo, invece, parla dell’opera che Gesù Cristo avrebbe fatto, nel togliere il peccato del mondo, quando, come agnello di Dio, sarebbe stato offerto sull’altare = (la croce del Golgota) e avrebbe preso su di sé il peccato del mondo = (umanità) per procurare una salvezza eterna (Ebrei 5:9).

Davanti alla prospettiva di lavorare per la riparazione della porta delle Pecore, sorge spontaneo chiedere il significato che potrebbe avere questo lavoro, se è vero che ai nostri giorni questa Porta è stata danneggiata e in che consista la sua devastazione, dovendo farne una chiara applicazione.

Dato per scontato che Gesù è la porta delle Pecore, e che nessuno va al Padre se non per mezzo di Lui (Giovanni 14:6), e tenendo in debito conto come la persona di Gesù, Porta delle Pecore, è stata aggredita con estrema violenza dalle forze nemiche, è facile intravedere, in questo violento attacco, la devastazione operata dal nemico nei confronti della persona e dell’opera di Gesù, l’inviato del Padre. Nonostante che di lui hanno parlato, non solamente la letteratura cristiana e il N.T. in particolare ma anche quella profana si continua a martellare incessantemente che, questo personaggio è leggendario, cioè che non è mai esistito, storicamente parlando.

Dall’altro fronte (e qui non ci riferiamo agli atei e ai materialisti, ma ai religiosi che hanno tendenze diverse) il quale, pur credendo che Gesù è un personaggio storico, con una reale umanità, lo hanno spogliano della sua divinità, e del suo potere miracoloso, riducendolo alla stregua di un comune mortale, di un personaggio storico del lontano passato. Siccome questa specie d'invasione teologica, paragonata ad una spietata e accanita battaglia, si è protratta nel tempo, vale a dire ha avuto inizio già ai giorni degli apostoli e si è estesa fino al presente, non è difficile notare che intorno alla persona e all’opera di Gesù Cristo, si sono levate tante forze nemiche, da farlo apparire, non solo davanti all’umanità, ma anche in mezzo alla cristianità, come una Porta bruciata e devastata.

Se si riconosce che il maggiore attacco l’inferno l’ha sferrato contro la persona di Cristo Gesù per farlo scomparire dalla scena e sradicarlo dalla coscienza umana, si deve convenire, dato che questo personaggio non è un semplice uomo, ma Dio-uomo, che non è stato possibile eliminarlo e farlo scomparire. Nonostante ciò, non si può negare il danno che ha fatto le forze invadenti intorno alla persona del Cristo. La porta delle Pecore è stata bruciata dal fuoco di una prolungata polemica e devastata dalla lotta accanita della teologia liberale, per non parlare di certe tendenze teologiche che hanno dato man forte a quest’opera devastatrice.

Questa porta, seriamente danneggiata e devastata, deve essere riparata e riportata nel suo stato originale, in modo che tutti sappiano chi è veramente Gesù, per ciò che riguarda la sua persona e la sua natura, e quello che Egli ha fatto per l’intera umanità, e che la salvezza dell’uomo non dipende da quello che egli può fare, ma unicamente da quello che Gesù Cristo ha fatto, morendo sulla croce del Calvario come vittima propiziatoria:

...l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo (Giovanni 1:29).

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00mercoledì 1 febbraio 2012 00:10
Il lavoro dei sacerdoti si completa, quando il testo Sacro ricorda che
Meremoth, figlio di Uria, figlio di Kots, ne riparò un’altra parte, dalla porta della casa di Eliascib fino all’estremità della casa di Eliascib. Dopo di lui lavorarono alle riparazioni i sacerdoti che abitavano nei dintorni (Nehemia 3:21,22).

Al di sopra della porta dei Cavalli, i sacerdoti lavorarono alle riparazioni, ciascuno di fronte alla propria casa (Nehemia 3:28).

Si alzino, dunque, tutti insiemi, i sacerdoti, ministri dell’Iddio del cielo, dal più grande, ecclesiasticamente parlando al più piccolo?; uniscano le loro forze quelli che sono stati liberati da uno stato tenebroso, e, con rinnovato zelo e vita permeata dalla potenza del vangelo e santificati dallo Spirito Santo, portino a termine i lavori di riparazione e li consacrino alla lode e gloria di Dio!

PS: Se al temine del capitolo 5 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 6




LE QUATTRO TORRI




1,2. LE TORRI DI MEAH E DI HANANEEL

Terminato il lavoro di restauro alla porta delle Pecore, e la consacrazione che di lei se ne fece, il gruppo dei sacerdoti non si fermò, ma proseguì le riparazioni della muraglia fino alle due torri di: Meah e di Hananeel. Ci sono altre due torri menzionate in questo capitolo terzo di Nehemia: la Torre dei Forni e la Torre sporgente (vv. 11,25).

Meah, Ebrei mê’âh = un centinaio e Hananeel, Ebrei Chânan’êl = Dio è stato misericordioso [Cfr. René Pache, Nuovo Dizionario Biblico, pagg. 420, 543, Centro Biblico, Napoli 1987], erano due torri vicino alla porta delle Pecore.

Le torri, strutture sopraelevate che univano l’alto col basso, servivano generalmente come posti di osservazioni. In esse, le sentinelle potevano controllare situazioni, uomini e cose, e farne i dovuti rapporti (2 Re 9:17). In tempo di guerra si montavano macchine belliche e vari arnesi per meglio colpire il nemico (2 Cronache 26:15), e servivano anche come rifugio alla popolazione della città (Giudici 9:51).

Nel deserto si costruivano torri per meglio salvaguardare il bestiame da facili nemici (2 Cronache 26:10), e il proprietario di terre e di vigne vi costruiva una Torre per difendere la sua proprietà dai predoni (Isaia 5:2).

Davide, dal canto suo, poteva fare della Torre una bell'illustrazione, quando cantava:

perché tu sei stato un rifugio per me e una Torre fortificata davanti al nemico (Salmo 61:3,

e suo figlio Salomone poteva affermare:
Il nome del Signore è una forte Torre; a lui corre il giusto ed è al sicuro (Proverbi 18:10).

Se poi si pensa al Cantico dei Cantici che paragonano il collo della sposa alla Torre di Davide, o come una Torre d’avorio e il suo naso come la Torre del Libano (Cantico dei Cantici 4:4; 7:4), si hanno delle buone premesse per fare varie e significative applicazioni spirituali.

La Torre non ci parla solamente di fortezza, di rifugio, di protezione e di difesa, parla anche di superbia e vanagloria. (Genesi 11:4) è un testo che illustra molto bene questa verità.

Quando le persone pensano di elevarsi troppo in alto al disopra di tutti, con la scusa di voler conoscere di più, per raggiungere quella notorietà che è una facile esca per l’uomo di tutti i tempi, non solo si credono di essere migliore degli altri, ma finiscono col disprezzarli sottovalutandoli.

Un simile atteggiamento, causerà inevitabilmente quello che afferma la Scrittura:
...Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili (1 Pietro 5:5); Quando viene la superbia, viene anche il disonore; ma la sapienza è con gli umili (Proverbi 11:2); e, Prima della rovina viene l’orgoglio, e prima della caduta lo spirito altero (Proverbi 16:18

Dalle parole che si leggono nel primo versetto del capitolo tre, di Nehemia non si può stabilire con certezza se le due torri menzionate, si trovassero devastate e quindi bisognose di essere riparate. Dal momento che i sacerdoti compirono il lavoro di riparazione partendo dalla porta delle Pecore fino alle due torri di Meah e Hananeel, non è difficile pensare che se ce ne fu bisogno, l’avrebbero fatto senza dubbio.

Nell’eventualità che le due torri in questione sono state danneggiante, il lavoro di restauro acquista più importanza, soprattutto con riferimento alla vicinanza della porta delle Pecore. Avere un'efficiente Torre da dove si può guardare verso questa porta, sotto il profilo di un'eventuale presenza nemica o di lupi rapaci, che rappresentano seri pericoli e minacce per le pecore, animali che non sanno difendersi ciò è molto importante per la loro vita.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00mercoledì 1 febbraio 2012 00:11
Il lavoro dei sacerdoti si completa, quando il testo Sacro ricorda che
Meremoth, figlio di Uria, figlio di Kots, ne riparò un’altra parte, dalla porta della casa di Eliascib fino all’estremità della casa di Eliascib. Dopo di lui lavorarono alle riparazioni i sacerdoti che abitavano nei dintorni (Nehemia 3:21,22).

Al di sopra della porta dei Cavalli, i sacerdoti lavorarono alle riparazioni, ciascuno di fronte alla propria casa (Nehemia 3:28).

Si alzino, dunque, tutti insiemi, i sacerdoti, ministri dell’Iddio del cielo, dal più grande, ecclesiasticamente parlando al più piccolo?; uniscano le loro forze quelli che sono stati liberati da uno stato tenebroso, e, con rinnovato zelo e vita permeata dalla potenza del vangelo e santificati dallo Spirito Santo, portino a termine i lavori di riparazione e li consacrino alla lode e gloria di Dio!

PS: Se al temine del capitolo 5 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 6




LE QUATTRO TORRI




1,2. LE TORRI DI MEAH E DI HANANEEL

Terminato il lavoro di restauro alla porta delle Pecore, e la consacrazione che di lei se ne fece, il gruppo dei sacerdoti non si fermò, ma proseguì le riparazioni della muraglia fino alle due torri di: Meah e di Hananeel. Ci sono altre due torri menzionate in questo capitolo terzo di Nehemia: la Torre dei Forni e la Torre sporgente (vv. 11,25).

Meah, Ebrei mê’âh = un centinaio e Hananeel, Ebrei Chânan’êl = Dio è stato misericordioso [Cfr. René Pache, Nuovo Dizionario Biblico, pagg. 420, 543, Centro Biblico, Napoli 1987], erano due torri vicino alla porta delle Pecore.

Le torri, strutture sopraelevate che univano l’alto col basso, servivano generalmente come posti di osservazioni. In esse, le sentinelle potevano controllare situazioni, uomini e cose, e farne i dovuti rapporti (2 Re 9:17). In tempo di guerra si montavano macchine belliche e vari arnesi per meglio colpire il nemico (2 Cronache 26:15), e servivano anche come rifugio alla popolazione della città (Giudici 9:51).

Nel deserto si costruivano torri per meglio salvaguardare il bestiame da facili nemici (2 Cronache 26:10), e il proprietario di terre e di vigne vi costruiva una Torre per difendere la sua proprietà dai predoni (Isaia 5:2).

Davide, dal canto suo, poteva fare della Torre una bell'illustrazione, quando cantava:

perché tu sei stato un rifugio per me e una Torre fortificata davanti al nemico (Salmo 61:3,

e suo figlio Salomone poteva affermare:
Il nome del Signore è una forte Torre; a lui corre il giusto ed è al sicuro (Proverbi 18:10).

Se poi si pensa al Cantico dei Cantici che paragonano il collo della sposa alla Torre di Davide, o come una Torre d’avorio e il suo naso come la Torre del Libano (Cantico dei Cantici 4:4; 7:4), si hanno delle buone premesse per fare varie e significative applicazioni spirituali.

La Torre non ci parla solamente di fortezza, di rifugio, di protezione e di difesa, parla anche di superbia e vanagloria. (Genesi 11:4) è un testo che illustra molto bene questa verità.

Quando le persone pensano di elevarsi troppo in alto al disopra di tutti, con la scusa di voler conoscere di più, per raggiungere quella notorietà che è una facile esca per l’uomo di tutti i tempi, non solo si credono di essere migliore degli altri, ma finiscono col disprezzarli sottovalutandoli.

Un simile atteggiamento, causerà inevitabilmente quello che afferma la Scrittura:
...Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili (1 Pietro 5:5); Quando viene la superbia, viene anche il disonore; ma la sapienza è con gli umili (Proverbi 11:2); e, Prima della rovina viene l’orgoglio, e prima della caduta lo spirito altero (Proverbi 16:18

Dalle parole che si leggono nel primo versetto del capitolo tre, di Nehemia non si può stabilire con certezza se le due torri menzionate, si trovassero devastate e quindi bisognose di essere riparate. Dal momento che i sacerdoti compirono il lavoro di riparazione partendo dalla porta delle Pecore fino alle due torri di Meah e Hananeel, non è difficile pensare che se ce ne fu bisogno, l’avrebbero fatto senza dubbio.

Nell’eventualità che le due torri in questione sono state danneggiante, il lavoro di restauro acquista più importanza, soprattutto con riferimento alla vicinanza della porta delle Pecore. Avere un'efficiente Torre da dove si può guardare verso questa porta, sotto il profilo di un'eventuale presenza nemica o di lupi rapaci, che rappresentano seri pericoli e minacce per le pecore, animali che non sanno difendersi ciò è molto importante per la loro vita.

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Domenico34
00giovedì 2 febbraio 2012 00:16
Se poi si pensa alla parola di Gesù, quando parlando delle pecore, e rifacendosi a quelli che erano venuti prima di Lui li paragonò a ladri e briganti (Giovanni 10:8); ed ancora, Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere (Giovanni 10:10), svolgere un lavoro di vigilanza per difendere la vita della pecora, è qualcosa che rientra nel piacere e nel desiderio di Gesù, il Pastore Supremo delle pecore.

I lupi che assalgono il gregge, non vengono respinti dai mercenari (e di avventurieri, ai nostri giorni, ce ne sono tanti), perché Gesù dice chiaramente che il

mercenario, che non è pastore e cui non appartengono le pecore, (se) vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge; e il lupo rapisce e disperde le pecore. Or il mercenario fugge, perché è mercenario e non si cura delle pecore (Giovanni 10:12,13).

Infine, per quanto riguarda la torre di Hananeel, c’è da aggiungere due testi profetici: 1) Geremia 31:38; 2) Zaccaria 14:10. Questi testi dicono:

Ecco, verranno i giorni, dice il Signore, nei quali questa città sarà ricostruita per il Signore dalla torre di Hananeel alla porta dell’Angolo;
Tutto il paese sarà cambiato in pianura, da Gheba a Rimmon, a sud di Gerusalemme; e Gerusalemme sarà innalzata e abitata nel suo luogo, dalla porta di Beniamino, al posto della prima apertura, fino all'uscio dell’Angolo, e dalla torre di Hananeel ai torchi del re
.

3. LA TORRE DEI FORNI

Malkijah, figlio di Harim, e Hashshub, figlio di Pahath-Moab, ripararono un’altra parte delle mura e la torre dei Forni (v. 11).

Due uomini: Malkijah, che significava, “il Signore è Re” e Hashshub, oltre a riparare una parte delle mura, si presero l’impegno di riparare la torre dei Forni.

La parola Ebraica fannûwr, tradotta Forni, significa “recipiente di fuoco, forno”, e ci dà l’idea di un luogo dove si ammassavano legne per bruciarle, o per cuocere il pane, o anche come posto dove venivano gettate persone che trasgredivano un ordine di un monarca (Cfr. Daniele 3:13-21).

Dal momento che viene specificato che la torre dei Forni fu riparata, ne consegue che questo luogo, oltre ad essere stato danneggiato nella sua struttura, non era in condizione di funzionare come prima. In conseguenza di ciò, per dirla con altre parole aveva solamente la forma esteriore di essere un “recipiente di fuoco”, ma, in effetti, ne era sprovvisto.

RIFLESSIONI SULLA TORRE DEI FORNI

Un recipiente


La prima riflessione che balza alla nostra mente riguarda il termine “recipiente”. Non importa la sua grandezza o meno, se è fatto di argilla e d’altra materia, quello che conta e ha significato, ai fini della nostra riflessione è il fatto che il recipiente può contenere un determinato quantitativo di oggetti, preziosi o meno, che gli dà valore e importanza. Se a questo si aggiunge che nel recipiente vi possono essere delle screpolature che causerebbero inevitabilmente l’uscita delle sostanze liquide o gassose, appare più evidente quanto siano dannose quelle crepe e quali danni possono arrecare.

Il Signore, il Signore, per mezzo del suo servitore Geremia, faceva arrivare al suo popolo d’Israele, il seguente messaggio:

il mio popolo ha commesso due mali: ha abbandonato me, la sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne rotte, che non tengono l’acqua (Geremia 2:13).

Una cisterna è un recipiente destinato a mantenere l’acqua; ma se questo si rompe e si producono delle screpolature, liquido non potrà più rimanere, a causa di questo, la persona che dipende da lei per il suo fabbisogno giornaliero, si troverà in serio disagio. Scavare delle cisterne che hanno delle screpolature, e che poi non possono mantenere l’acqua, specialmente l’acqua viva (Giovanni 4:10,11) o acqua della vita (Apocalisse 21:6; 22:1,17) ci domandiamo: a che servono?

Il fuoco

Il fuoco, spesse volte nelle Scritture, ci parla dello Spirito Santo e del lavoro che compie nella vita di una persona. Come il fuoco brucia ciò che è legno, fieno e stoppia (1 Corinzi 3:12), allo stesso modo lo Spirito Santo compie un’opera purificatrice da ogni impurità e da ogni forma di contaminazione, di carne e di spirito (2 Corinzi 7:1), attraverso i tanti interventi nella vita di una persona.

Anche se il fuoco brucia tutto ciò che è infiammabile, (e da un punto di vista spirituale significa: ciò che non serve e rende nociva la vita interiore), esso agisce anche per riscaldare un ambiente freddo.

La vita umana, attraverso mille circostanze, spessissimo si raffredda nel suo fervore e nel suo entusiasmo, per ciò che riguarda il servizio del Signore e l’Opera Sua.

Le attività che una volta si svolgevano con interesse e premura, vengono facilmente accantonate come qualcosa di secondario, specialmente quando viene a mancare la dovuta priorità che le caratterizzava e tutto si riduce a forme e atti formalistici, che non hanno alcun valore davanti a Dio (anche se spessissimo vengono apprezzate e messe in risalto dagli uomini, con il preciso intento di attirare gli sguardi degli altri e il loro compiacimento).

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00venerdì 3 febbraio 2012 00:52
Tutto quello che si fa nell’Opera e per l’Opera del Signore, senza il fervore spirituale che valorizza l’opera stessa, non solo può prendere facilmente l’aspetto del formalismo, ma può essere paragonato ad un “fuoco di paglia”, che getta solamente “fumo negli occhi”.

Una vita spenta e priva del fervore e del fuoco dello spirito di Dio, può avere anche una bell'apparenza: magari attirare gli sguardi degli uomini e diventare centro di attenzione e d'interesse, senza peraltro avere quella genuina e dovuta consacrazione che la rende interessante in tutte le sue attività, svolte all’insegna di una giusta causa e in accordo col piano divino che la giustifica.

La torre dei Forni, che il nemico ha seriamente danneggiato, (e anche ai nostri giorni in tanti cristiani e predicatori), ha bisogno di essere riparata in modo che possa ritornare, non solo ad avere il nome di “recipiente di fuoco”, ma contenere veramente la fiamma, sia per riscaldare e infervorare la vita nelle sue varie attività e nel ministero in modo particolare, e sia per bruciare e purificare tutto ciò che non è secondo Dio, la Sua Parola e la Sua volontà.

4. LA TORRE SPORGENTE

Palal, figlio di Uzai, fece riparazioni di fronte alla svolta e alla torre sporgente dalla casa superiore del re, che era vicino al cortile della prigione... (Nehemia 3:25).

Palal, il cui significato etimologico è: “Dio ha giudicato”, fu chi si interessò di riparare la torre sporgente, che era vicino al cortile della prigione.

Una torre vicino ad una prigione, a che serve? Si direbbe. Certamente per avere una buona visuale e sorvegliare i detenuti da un'eventuale rivolta, fuga o disordini che potrebbero facilmente verificarsi in questi luoghi.

UN’APPLICAZIONE SUL SIGNIFICATO DELLA “TORRE SPORGENTE”

Il giudizio di Dio


Prigione, luogo in cui sono rinchiusi persone che hanno commesso qualche crimine o sospettate di averlo commesso. Di solito le persone sono preoccupate dal giudizio umano, e non pensano che al disopra di quello dell’uomo, c’è quello di Dio, il Giudice Supremo, che conosce tutto e davanti al quale nessuna cosa può sfuggire.

Il giudizio dell’uomo comune in genere e quello della magistratura in particolare, non è sempre preciso e impeccabile, nel senso che non sempre il colpevole viene condannato e l’innocente assolto. Spesse volte i termini di “colpevolezza” e di “innocenza” vengono capovolti, talché il colpevole viene messo in libertà e l’innocente rinchiuso in prigione.

Quando invece Dio emana una sentenza e questo non solamente al Giudizio Universale, giorno della resa dei conti di tutta l’umanità, (anche se è vero in maniera inequivocabile) ma anche ai nostri dì non esiste autorità terrena, (o come si dice più precisamente appello al suo giudizio) che possa modificarla e dare così speranza alla persona giudicata.

Il caso di Belshatsar, narrato da Daniele, è un classico esempio molto eloquente:
...tu sei stato pesato sulle bilance e sei stato trovato mancante (Daniele 5:27). In quella stessa notte Belshatsar, re dei Caldei fu ucciso: e Dario, il Medo, ricevette il regno all’età di sessantadue anni (Daniele 5:30-31).

Quando poi pensiamo alle parole dell’apostolo Giovanni:
Chi crede in lui (Gesù) non è condannato, ma chi non crede è già condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. Ora il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno amato le tenebre più che la luce, perché le loro opere erano malvagie (Giovanni 3:18-19);

o a quelle parole di Gesù: ...il principe di questo mondo (il diavolo) è stato giudicato (Giovanni 16:11), appare chiaro che quando Dio giudica, la Sua parola ferma ed irrevocabile, non può essere cambiata da nessuno.

La casa del re

Ritornando alla torre sporgente, che si trovava vicino alla residenza reale e al cortile della prigione, senza dubbio questa era stata costruita da servire come osservatorio per la casa del re e anche per il carcere.

Il re, anche se in questo passo non ci viene fornito il nome è sempre una persona di autorità, che merita (almeno da parte dei suoi sudditi), un trattamento particolare e una sorveglianza meticolosa, non tanto quanto uomo particolare, quanto per l’autorità che personifica. Il fatto stesso che questa torre sporgente si trova nelle vicinanze della residenza reale, è di per sé una chiara indicazione per farci riflettere che, le persone in autorità devono essere custodite e protette, in maniera particolare, da eventuali pericoli.

Custodire e proteggere una persona in autorità, in pratica non significa solamente pensare e badare alla sua incolumità, ma anche pensare di salvaguardare il bene di tutti quelli che sono sotto quell'autorità.

Il tema “delle autorità costituite”, viene trattato chiaramente dall’apostolo Paolo, nel tredicesimo capitolo dell’Epistola ai Romani, con termini precisi ed inequivocabili. Paolo è molto dogmatico quando afferma:

Ogni persona sia sottoposta alle autorità superiori, poiché non c’è potere se non da Dio; e i poteri che esistono sono istituiti da Dio (Romani 13:1).

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00sabato 4 febbraio 2012 00:12
Che le autorità di cui parla l’apostolo non siano quelle “spirituali”, bensì quelle terrene, è fuori d’ogni dubbio. Infatti, quando Paolo menziona i “magistrati”, che “non portano invano la spada”, fa esplicito riferimento alle persone di legge, cioè a chi è stato investito dallo Stato, per amministrare la giustizia legale.

Indipendentemente dal fatto che in seno alla magistratura vi sarebbero potuti essere dei cristiani che oltre a praticare la giustizia, professano anche la fede in Cristo, non si dovesse pensare, tuttavia che, quelli che non la professano, non siano degni di rispetto e sottomissione.

Indipendentemente dall’ideologia che un magistrato può professare, per Paolo, l’autorità che ha questa persona, viene da Dio. Davanti alla dogmatica affermazione dell’apostolo:

chi resiste all’autorità, resiste all’ordine di Dio; e quelli che vi resistono attireranno su di sé la condanna (Romani 13:2),

non ci sono argomenti validi, che possono cambiare quello che l’apostolo insegnò. L’insegnamento di Paolo non era valido solo per quei tempi; esso è valido anche oggi, per il credente, e per tutti gli altri.

Il credente, quindi, in virtù della sua fede in Cristo, non deve ribellarsi né opporsi a simili autorità, senza trasgredire l’insegnamento della Parola di Dio (salvo il caso di un ordine contrario alla legge di Dio). (vedere a questo proposito Atti 4:15-20).

Il fatto poi che in questo capitolo tredici dell’Epistola ai Romani, nei vv. 1-7 i magistrati vengono chiamati, per tre volte, “ministri di Dio”, ciò giustifica in pieno l’esortazione dell’apostolo:

Rendete dunque a ciascun ciò che gli è dovuto: il tributo a chi dovete la tassa, l’imposta a chi dovete l’imposta, il timore a chi dovete il timore, l’onore a chi l’onore.

In quale maniera si può proteggere l’autorità costituita


Non è soltanto in virtù del “corpo di guardia”, appositamente istituito che si protegge un’autorità costituita, esistono altre possibilità, soprattutto dal punto di vista prettamente cristiana e scritturale. Le parole che leggiamo in (1 Tim 2:1-2):

Ti esorto dunque prima di ogni cosa che si facciano suppliche, preghiere, intercessioni e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che sono in autorità, affinché possiamo condurre una vita tranquilla e quieta in ogni pietà e decoro,

rappresentano un solido fondamento biblico ed un chiaro richiamo sul tema “dell’autorità costituita”.

Anche se l’apostolo motiva la sua esortazione: Affinché possiamo condurre una vita tranquilla e quieta in ogni pietà e decoro (che potrebbe farci pensare solamente al beneficio che ne ricavano i soli credenti), il fatto stesso però che si innalzino, suppliche, preghiere e intercessioni, per i re e per tutti quelli che sono in autorità, denota sufficientemente che le persone, oggetto di queste suppliche, preghiere e intercessioni (re e tutti quelli che sono in potere), usufruiscono immancabilmente di tale beneficio.

Il cristiano, in modo particolare davanti alla suesposta esortazione, che secondo noi è una norma divina da mettere in pratica alla lettera anche ai nostri giorni supplicando, pregando ed intercedendo davanti a Dio per le “autorità costituite”, rappresenta una sicura protezione per quelle persone, ed è come (spiritualmente parlando) se sale sopra una torre per svolgere un lavoro di vigilanza. Questo tipo di lavoro, naturalmente, che noi preferiamo specificatamente chiamare “pio esercizio” potrà farsi, se la “torre sporgente”, simbolo di suppliche, preghiere e intercessioni è stata restaurata.

Altre autorità costituite

Oltre alle “autorità costituite”, = re e magistrati, ci sono quelle spirituali, che hanno ricevuto la loro autorità direttamente da Gesù Cristo, in relazione al loro ministero (Efesini 4:11), nonché quello che Dio ha costituito nella chiesa (1 Corinzi 12:28).

Riconoscere un’autorità spirituale, nell’ambito di una chiesa o Comunità, in pratica significa riconoscere ciò che Dio ha fatto nella comunità dei credenti e ciò che Gesù Cristo ha dato ad una persona.

Tenendo presente quest'elemento fondamentale, chiaramente specificato nella Parola di Dio, si possono capire meglio le parole dell’Epistola agli Ebrei, e valutarle nella maniera come Dio vuole:

Ubbidite ai vostri conduttori e sottomettetevi a loro, perché essi vegliano sulle anime vostre, come chi ha da rendere conto, affinché facciano questo con gioia e non sospirando, perché ciò non sarebbe di alcun vantaggio (Ebrei 13:17).

A loro volta, quelli che sono stati posti in autorità da Dio, devono frequentemente ricordarsi (se non vogliono essere trascinati dal più potente e pericoloso nemico: L’orgoglio), le chiare parole degli apostoli Paolo e Pietro:

Non già che dominiamo (o “signoreggiamo”) (come dicono: G.Diodati, G. Luzzi e la Nuova Riveduta) sulla vostra fede, ma siamo collaboratori della vostra gioia, perché voi state saldi per la fede (2 Corinzi 1:24);

e non signoreggiando su coloro che vi sono affidati, (si intende da Dio) ma essendo i modelli del gregge (1 Pietro 5:3).

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00domenica 5 febbraio 2012 00:13
Dominare o signoreggiare, (nel senso dittatoriale: se non fai questo o quello sei scomunicato e non sei considerato uno di noi) è la nota caratteristica dei “sovrani”, secondo l’autorevole parola di Gesù,

...Voi sapete che i sovrani delle nazioni le signoreggiano e che i grandi esercitano il potere su di esse, ma tra voi non sarà così; anzi chiunque tra di voi vorrà diventare grande sia vostro schiavo (Matteo 20:25-26).

Qualunque sia il ministero che Gesù Cristo ti ha dato, (e dal ministero bisogna escludere categoricamente le cariche amministrative di: Presidente, Segretario, ecc. perché non fanno parte dei ministeri secondo l’insegnamento specifico del N.T.) ricordati sempre che nessun ministero degno di questa qualifica è dato per l’utilità della persona che lo riceve, ma sempre e specificatamente per il bene degli altri, cioè della collettività (Efesini 4:12).

Usare l’autorità del ministero per scopi e fini prettamente umani e personali, è pura disonestà e significa distorcere volutamente i voleri divini, e ridurli alla stregua di una comune professione, per reclamare alte paghe e nutrite ricompense. Inoltre, il ministero, è essenzialmente “servizio” e non “comando”; è dedizione e non rendere schiavi le persone, per farli apparire come sudditi e subalterni.

Puntualizzato l’aspetto e il valore del ministero, e con lui l’autorità costituita da Dio passiamo ad esaminare il dovere di chi è posto sotto un potere spirituale, per capire come devono comportarsi nei confronti delle persone che Dio hanno messo in autorità.

La migliore protezione che si può dare ad una persona posta in autorità, non è tanto quando gli si assegna un favoloso stipendio (e una doverosa ed equa paga, è necessaria ai fini del suo fabbisogno o sostentamento) quanto piuttosto di sapere supplicare, pregare e intercedere presso il trono della grazia per lei. Comportarsi in questa maniera è come un salire sulla “torre sporgente” ai fini di vedere se ci sono pericoli o minacce per la persona posta in autorità.

Una comunità o una chiesa che prega per il proprio conduttore o pastore (non solo quando il popolo si raduna per celebrare il culto al Signore, ma principalmente quando si trova nei propri case), è una Comunità o una chiesa che in pratica ha un’efficiente “torre sporgente”, debitamente riparata.

Crediamo che, in ogni Comunità o chiesa ci sia la “torre sporgente” che in origine è stata costruita come protezione per le persone in autorità, ma disgraziatamente spesse volte (specie ai nostri giorni) è inefficiente, perché è stata rovinata e devastata da pregiudizi e critiche inesorabili persistenti.
Si levino, dunque i vari “Palal” per fare opera di riparazione a questa importane struttura, che unisse l’alto col basso.

Il cortile della prigione


Come abbiamo detto all’inizio della nostra riflessione sulla “torre sporgente”, ripetiamo ancora una volta che detta torre era situata dal lato superiore della casa del re e vicino al cortile della prigione. Probabilmente questa torre serviva, sia per guardare la casa reale come anche la prigione.

Col termine “prigione” si vuole significare un luogo appositamente costruito per rinchiudere persone che hanno commesso qualche crimine, in parte grave o che sono sospettate di averlo commesso. Nonostante ciò, non si può negare che in questi luoghi ci possono andare a finire anche persone innocenti.

Citiamo qualche esempio dalla Bibbia: Giuseppe, il figlio di Giacobbe, andò a finire in carcere (e vi rimase per due anni) perché accusato ingiustamente da una donna, moglie di un nobile Ufficiale egiziano, per tentata violenza carnale (Cfr. il capitolo 39 della Genesi)

Geremia, un grande e coraggioso profeta del Signore che, per mantenersi fedele alla parola del Signore e dire con coraggio al popolo e ai regnanti, quello che Dio gli aveva ingiunto di comunicare loro, andò a finire in prigione (Cfr. Geremia 32:2; 37:21; 38:6; 39:14).

Giovanni Battista, colui che in un primo momento andò a finire in carcere e successivamente gli venne tagliata la testa, a seguito della ferma ed autorevole parola che spesso rivolgeva al re Erode: ... Non ti è lecito di convivere con lei! (Matteo 14:4) cioè con la moglie di suo fratello, con la quale conviveva in concubinaggio.

Anche se in prigione vanno a finire persone innocenti, non si può negare che la stragrande maggioranza sono individui che hanno infranto le leggi dello Stato, commettendo vari crimini che il codice penale punisce.

Le prigioni, da un punto di vista obbiettivo, dovrebbero servire non solo come luogo per punire i criminali, ma anche per insegnare loro una certa morale in modo che, una volta che è scontata la pena, il malvivente messo in libertà, non abbia a ritornarvi per gli stessi crimini. Questo però in pratica non accade, ammenoché la vita del criminale non venga cambiata dal di dentro, e questo naturalmente non è il lavorio che può fare una dura punizione in un'isolata ed oscura cella di un carcere, è unicamente l’opera di Gesù Cristo che, entrando nella vita del criminale lo fa diventare una “nuova creatura”.

Ora qui, abbiamo davanti a noi (ai fini di questa riflessione) una persona che si trova in prigione per avere commesso qualche crimine. Non serve a nulla tanto parlare della diversità della gravità di un crimine rispetto ad un altro. Sì, è vero che in prigione ci sono colpevoli che sono stati condannati a 10 anni di reclusione e quelli che sono stati condannati all’ergastolo; per i primi c’è speranza di uscire, mentre per i secondi la vita si consumerà in prigione senza nessun'aspettativa di rivedere la libertà.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00lunedì 6 febbraio 2012 14:07
Qual è l’applicazione che possiamo fare, per ciò che riguarda la “torre sporgente”, con riferimento alla prigione? Se è vero che questa torre serviva per la casa reale = “autorità costituita” (sia quell'umana che quella spirituale), e, dal momento che a questa torre, abbiamo dato un simbolo di: “Suppliche, preghiere e intercessioni”, che si elevano a Dio in favore dei re e dei magistrati come anche in benevolenza di tutti quelli che hanno ricevuto il ministero da Gesù Cristo, va da sé, (perché rientra in una logica conseguenza) che la stessa cosa si faccia, per gli abitanti delle prigioni, specialmente per chi hanno commesso veramente dei reati.

Questo discorso e quest'applicazione, forse risuonano stranamente alle orecchie della chiesa di oggi. Ma se si pensano e si valutano giustamente le due domande che Dio fa:

Provo forse piacere nella morte dell’empio, dice il Signore, il Signore, e non piuttosto che egli si converte dalle sue vie e vive? (Ezechiele 18:23),

allora le cose possono essere viste in modo diverso e i cristiani in modo particolare possono prendere un atteggiamento consone ai voleri divini e si possono innalzare suppliche, preghiere e intercessioni a Dio in favore dei criminali, dei colpevoli, di tutti quelli insomma che hanno recato danni morali e materiali irreparabili alla società, perché la loro vita sia raggiunta dalla potenza della grazia di Dio.

Ora, mi rivolgo a quei i cristiani, laici o predicatori, che si sono resi colpevoli di gravissime colpe (specie quei missionari che con i loro scandali hanno infangato la dignità del popolo di Dio e resa la testimonianza evangelica come un’arma offensiva nelle mani degli increduli.

Se la chiesa accetta questo messaggio, come veniente da Dio e comincia ad elevare suppliche, preghiere e intercessioni al Signore dei signori, nella maniera come faceva Mosè quando si gettava a terra e con digiuno e preghiera, prolungati otteneva l’assicurazione da Dio che il peccato del popolo era stato perdonato, si potranno allora vedere vite restaurate, sanate e liberate dalla disperazione e strappate dalla voragine del suicidio, e soprattutto ci saranno risultati di persone che saranno veramente perdonate e riabilitate per ritornare ad essere utile nell’opera del Signore, e nello stesso tempo infliggere una pesante sconfitta alle forze delle tenebre e dell’inferno, perché il glorioso nome di Cristo Gesù venga nuovamente esaltato, magnificato e lodato per come Lui ne è sommamente degno e i voleri divini del Signore, pienamente appagati. A Lui la gloria!

PS: Se al termine del capitolo 6 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 7




IL GRUPPO DEGLI UOMINI DI GERICO





Per quanto riguarda questo gruppo di lavoratori, il sacro testo dedica poche parole:

Vicino a Eliascib edificarono gli uomini di Gerico (Nehemia 3:2).

Questo scarno riferimento, costituito da otto parole, nessun'altra possibilità di altre notizie in questo libro di Nehemia per arricchire la nostra conoscenza su questi uomini, anche se non ha niente di spettacolare, serve ugualmente ad inserirlo nel numero di tutti quelli che lavorarono alle riparazioni, ponendolo nel frattempo allo stesso livello di tutti gli altri.

Il fatto poi, che gli uomini di Gerico senza nomi e qualifiche edificarono vicino ad Eliascib, è una prova storica della loro attività e un'eloquente testimonianza della loro laboriosità per la causa di una città e di un popolo seriamente danneggiati e ridotti allo stremo. Inoltre, il fatto stesso che viene menzionato subito dopo il gruppo dei sacerdoti, vale a dire nelle primissime posizioni di classifica, prova quanto sono stati solleciti e premurosi nel rispondere ad una precisa richiesta di lavoro.

Inizia la lunga seria dei “Vicino a lui, vicino a loro”

Come abbiamo detto in altra parte di questo libro, le due frasi: “Vicino a lui” e “vicino a loro”, vengono ripetute 38 volte nei 32 versi che compongono il terzo capitolo di Nehemia. Queste due frasi non servono solamente per indicare che tra un gruppo e l’altro di lavoratori c’era come un filo conduttore che li legava insieme, formando una catena, – non solo tra due gruppi, ma anche per ciò che riguardava due lavoratori di due differenti famiglie, dato che queste due frasi vengono ripetute con insistenza, anche per i singoli lavoratori –, ma anche per mettere in evidenza il valore della comunione che intercorreva tra l’uno e l’altro.

A parte la collocazione che la Scrittura fa degli uomini di Gerico quando li inserisce vicino al gruppo dei sacerdoti, è impensabile supporre che tra gli uni e gli altri, non ci fosse stata nessuna forma di comunione e che questi lavoratori si ignorassero a vicenda, nel senso di lavorare come se non ci fosse stato nessun altro. Se poi si terrà presente che il gruppo degli uomini di Gerico non cominciò a lavorare quando i sacerdoti terminarono il loro lavoro, ma mentre questi ultimi lo svolgano, la loro attività, si capisce ancor meglio quanto sia assurdo supporre che tra i due gruppi non ci sia nessun rapporto di comunione, inteso come mezzo di comunicazione tra l’uno e l’altro.

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Domenico34
00martedì 7 febbraio 2012 00:12
Anche se la Scrittura non ci afferma che il gruppo dei sacerdoti parlava amichevolmente con gli uomini di Gerico e viceversa, c’è tuttavia da supporlo per il semplice fatto che l’opera che gli uni e gli altri stavano svolgendo, non riguardava qualcosa di personale e di privato, ma era una prestazione comune nel senso che lo scopo degli uni e degli altri era di restaurare le rotture di una città e di aiutare nello stesso tempo un popolo che si trovava in miseria e in obbrobrio presso le altre popolazioni per uscirne.

Il valore di un impegno assunto per il bene degli altri


Quanto lavoro di riparazione abbiano potuto fare gli uomini di Gerico nelle mura di Gerusalemme, non ci viene dato da sapere, per il fatto che il testo non lo dice. Anche se non si può parlare in termini di “quantità”, cioè quante giornate lavorative e quante brecce abbiano potuto chiudere, si può comunque affermare che gli uomini di Gerico “lavorarono”.

Il fatto stesso che il testo precisi di loro, che “edificarono”, ciò è più che sufficiente non solo per affermarci che questi uomini non produssero altre rovine, ma si affaticarono per eliminare quelle esistenti.

A che vale avere una grande schiera di lavoratori, magari con splendide qualifiche e nomi altisonanti, quando il lavoro che viene svolto non risulta per il bene degli altri? Oppure: fare un lavoro che invece di “edificare” produce altre rotture e altri disastri? Ed ancora: a che serve avere persone che quando viene rivolto loro un appello, fa orecchie da mercante, e trovano mille giustificazioni per addossare su altro ogni forma di attività lavorativa?

Anche se per “gli uomini di Gerico”, viene solamente affermato che “edificarono”, senza nessun’altra specificazione; riguardante il loro numero; senza indicazioni delle loro famiglie, le loro posizioni sociali, la loro cultura e le loro qualifiche, è sempre un grande elogio che viene rivolto loro, elogio che echeggia con tutta la sua forza e che li distingue dai fannulloni e dai vagabondi.

Spessissimo si parla, con insistenza e accentuazione, delle grandi imprese, dei grandi programmi, dei molteplici impegni ad alto livello, delle spiccate qualifiche d'idoneità, atte a mettere in risalto l’uomo nelle sue iniziative e nei suoi obblighi. Ma si parla poco o quasi niente, delle piccole iniziative, delle modeste imprese, delle piccole attività missionarie, operosità che non hanno niente di spettacolare; eppure sono dei lavori che vengono fatti all’insegna e per il bene degli altri.

Come si potrebbero descrivere gli uomini di Gerico e il lavoro che fecero nelle mura di Gerusalemme? Non abbiamo elementi per sapere a quale rango sono appartenuti; se erano persone raffinate o rozze; se erano dotati di cultura o analfabeti; se avevano grandi capacità di programmazione; e, infine, se il loro lavoro poteva essere collocato nel numero degli impegni spettacolari di una certa risonanza.

Non si possono dire tante cose di queste persone, né si può fare una descrizione dettagliata del loro lavoro; l’unica cosa, che vale più di ogni altra espressione, è quella che “edificarono vicino ad Elisciab”. Questo prova che:

1) Erano persone impegnate, fin dal primo giorno di lavoro, a edificare (nel nostro caso a restaurare);
2) il lavoro lo fecero vicino ad altri operai che agivano per la stessa causa,
3) non ebbero nessuna difficoltà a svolgere il loro lavoro vicino a persone che avevano un differente ruolo rispetto a loro, ma che in quella condizione potevano “concatenarlo” a quello dei sacerdoti.
4) Questo serviva loro come di una chiara testimonianza, non solo per la loro laboriosità, (in virtù della quale potevano portare a compimento il lavoro prefissato), ma soprattutto nel portarlo a termine, non avevano né denigrato né criticato gli altri, né si erano ingeriti in quello degli altri.
5) Infine, erano consapevoli che a lavori terminati, quello che faceva l’uno e l’altro, aveva un solo scopo e una precisa finalità: portare sollievo e fare del bene ad un popolo che era stato danneggiato e ridotto al disprezzo dai nemici che avevano fatto tante brecce in quelle mura e bruciate col fuoco le sue porte.

PS: Se al temine del capitolo 7 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 8




IL GRUPPO DEI FIGLI DI SENAAH




SI' RIPARA LA PORTA DEI PESCI

Nota preliminare

Il terzo gruppo di lavoratori riguarda i figli di Senaah, i quali si occuparono della porta dei Pesci. Di questa porta, il testo sacro dice:

I figli di Senaah costruirono la porta dei Pesci, ne fecero l’intelaiatura e vi misero i suoi battenti, le serrature e le sbarre (v. 3).

Di questi lavoratori, si parla anche in due altri passi, precisamente in Esdra 2:35 e in Nehemia 7:38, dove si tratta del loro rimpatrio dalla cattività babilonese, sotto la guida di Zorobabel. L’unica differenza che esiste in questi due passi, consiste nel fatto che secondo Esdra 2:35 i figli di Senaah erano tremilaseicentotrenta, mentre secondo Nehemia 7:38 tremilanovecentotrenta.

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Domenico34
00mercoledì 8 febbraio 2012 00:11
Il nome Senaah, etimologicamente significa: “Spinoso, punta, puntura, pungolo, puntino” e può avere anche significato di luogo, “Eusebio e Girolamo l’hanno identificato con Magdalsenna, a 11 Km a Nord di Gerico” [Cfr. René Pache, Nuovo Dizionario Biblico, pag. 63, Centro Biblico, Napoli 1987].

Indipendentemente dalle considerazioni che si potrebbero fare per ciò che riguarda il significato del nome Senaah, - che poi potrebbero essere in parte giustificabile -, secondo il nostro modestissimo modo che vedere, non è tanto importante mettere in risalto il carattere “spinoso”, quanto quello di evidenziare che una numerosa famiglia si dedicò ad un nobile lavoro di costruzione, e precisamente a quello della porta dei Pesci.

Anche se i figli di Senaah erano più di tremila persone, non possiamo dire con altrettanta precisione se tutti lavorarono alla costruzione della porta dei Pesci o se invece furono alcuni di loro, dato che il testo biblico non lo specifica.

Non importa tanto mettere in risalto un numero, in parte elevato di una famiglia, quanto evidenziare l’unità e la determinazione dei suoi membri che intrapresero un lavoro e lo portarono a termine.

Stando alla descrizione dettagliata che ne fa il capitolo terzo di Nehemia, risulta chiaramente che una buona parte dei lavoratori addetti alle riparazioni, appartenevano a diverse famiglie, come singole unità.

La frase al singolare: Figlio di..., ripetuta per ben 34 volte nei 32 versi di questo capitolo, e serve essenzialmente a mettere in evidenza la provenienza del singolo lavoratore.

Dal momento che Nehemia appare come il coordinatore generale dell’opera, non sarebbe fuori posto chiederci se ai figli di Senaah venne assegnato l’incarico di costruire la porta dei Pesci, (o se lo scelsero loro stessi?). Ma poiché la Scrittura non specifica questo dato, importa tanto sapere quanto andarono le cose in quel tempo, quanto invece di vedere una famiglia (molti o pochi?) uniti ed impegnati a costruire la porta dei Pesci.

L’unità e la determinazione di un gruppo di lavoratori -, non importa se appartengono alla stessa famiglia o a diversi nuclei familiari -, ha invece la sua importanza ai fini di portare a termine il lavoro, non solo dal punto di vista umano, ma soprattutto dal punto di vista di Dio, quando specialmente si tratta di un'attività che riguarda l’opera del Signore.

Il pesce, come alimento venduto al mercato


Il Dr. H. G. M. Williamson nel suo commentario ai libri di Esdra e Nehemia, afferma che il pesce che arrivava nel mercato della città di Gerusalemme, non si sa se proveniva da Galilea o dalle coste del Mediterraneo [Cfr. H.G.M. Williamson, Word Biblical Commentary, Ezra, Nehemiah, pag. 204].

Indipendentemente da dove proveniva il pesce, la porta dei Pesci indicava che di lì passava questa merce destinata al mercato della città. Che poi i venditori del pesce fossero locali o stranieri, non voleva dire niente dal momento che la merce era destinata agli abitanti della città di Gerusalemme.

Davanti alle tante devastazioni che ci siano nella città di Gerusalemme, (e la porta dei Pesci non era stata risparmiata), non è difficile pensare che sia estremamente importante rimuovere le macerie e costruire quell'apertura, in modo da facilitare l’entrata e la vendita di quest'importante alimento.

Che poi, per dare maggiore sicurezza al rifornimento del mercato dei pesci, i restauratori pensassero di mettere “l’intelaiatura, i battenti, le serrature e le sbarre” alla porta che costruirono, dimostra quanto erano interessati e intelligenti nello stesso tempo al lavoro che fecero.

La cosa importane da considerare intorno alla porta dei Pesci

Se abbiamo scritto qualche parola circa il rifornimento e la vendita del pesce nel mercato di Gerusalemme, non l’abbiamo fatto perché siamo interessati ai prodotti ittici (che nessuno ci fraintenda come se volessimo denigrare quest'attività commerciale o fare della pubblicità a favore di questo tipo di merce, come se tutta l’attenzione della nostra riflessione fosse basata su un cibo che è di nutrimento al corpo umano), siamo invece interessati a capire che cosa potrebbe insegnarci la porta dei Pesci e di quali verità parlarci.

A base delle nostre riflessioni (ovviamente di carattere spirituale) stanno i seguenti testi:

1) Proverbi 11:30: Il frutto del giusto è un albero di vita, e chi fa conquista di anime è saggio;
2) Daniele 12:3: Quelli che hanno sapienza risplenderanno come lo splendore del firmamento e quelli che avranno condotti molti alla giustizia, risplenderanno come le stelle per sempre;
3) Matteo 4:19: e disse loro: Seguitemi e io vi farò pescatori di uomini.

Su quest’ultimo testo evangelico, - che è la parola chiave di tutto quello che diremo in questa nostra riflessione - è principalmente accentrata la nostra attenzione, per sapere se la promessa fatta a Pietro e ad Andrea nel giorno che furono chiamati da Cristo a seguirlo, riguarda solamente loro, o può essere usata come punto di riferimento anche per noi, vale a dire per tutti quelli che il Gesù Signor chiamerà a seguirlo, con particolare allusione a chi vengono chiamati al ministero.

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Domenico34
00giovedì 9 febbraio 2012 00:16
L’IMPORTANZA DI SEGUIRE GESÙ

Indubbiamente, ascoltare e seguire Gesù, in tutto quello che Egli dice e vuole, ciò ha un compito determinante, e, senza dubbio, può essere additato come un segreto per la buona e sicura riuscita. Dal momento che la promessa a “diventare pescatori di uomini”, è condizionata dal seguire Gesù, vale quindi la pena fare qualche considerazione per meglio capire cosa significhi.

Ascoltare e credere la parola di Gesù


Non si può parlare di seguire Gesù, se prima non si è pronti ad ascoltare e a credere a tutto quello che Egli dice. Che il Signore rivolge ancora oggi la sua Parola, a tutti quelli che hanno principalmente “orecchi per ascoltare”, è senza dubbio fuori di ogni discussione. Bisogna però vedere se coloro ai quali è rivolta la Sua Parola, l’ascoltano e la credano, come parola divina e vincolante nello stesso tempo per la vita di ogni giorno.

Nell’azione di “seguire”, c’è, infatti, l’implicazione della decisione e della determinazione di chi, dopo avere ascoltato e creduto, è pronto a mettere in pratica e a vivere secondo la volontà di chi lo ha chiamato a seguirlo. Inoltre, ci parla pure di uno stato di cambiamento volontario di propositi, di scopi e di fini, tutti convogliati nella nuova direzione che c'è proposta.

Seguire Gesù per diventare pescatori di uomini

Seguitemi, e io vi farò diventare pescatori di uomini, disse Cristo a Pietro e ad Andrea. Questo voleva dire in termini spiccioli che se questi due uomini non fossero stati disposti a seguire Gesù, non sarebbero mai “diventati pescatori di esseri umani”, anche se sono conosciuti come comuni pescatori di pesci.

Il termine “seguire”, - specie quando si pensa alle tante volte che Cristo l’adoperò -, ci porta a considerare, non solo le persone cui Gesù rivolgeva la Sua parola, ma anche alle varie situazioni nelle quali esse si trovavano prima di quel momento, per meglio apprezzare e valorizzare, la decisione e la determinazione, nei confronti del volere del Signore.

Dei primi quattro che Cristo chiamò, cioè: Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni, il vangelo ci dice che, erano occupati con il loro mestiere di pescatori, gettando e riparando le reti con il loro padre e con gli operai che avevano (Matteo 4:18-21; Marco 1:17-20. La risposta di questi quattro uomini fu pronta ed immediata, e senza pensarci tre volte, (come si dice comunemente), lasciarono ogni cosa e si misero a seguire Gesù.

Una simile prontezza -, anche se più tardi in situazione di scoraggiamento e di sbandamento ritornarono al vecchio mestiere (Giovanni 21:3) -, è sempre apprezzabile poiché fa riscontro ad una speciale chiamata del Cristo.

Per Luca, anche se ometterà il nome di Andrea, fratello di Pietro, rispetto a Matteo e Marco, nel passo parallelo, non solo li presenta in una diversa circostanza, ma precisa anche che quando questi tre uomini decisero di lasciare le loro barche e ogni cosa per seguire Gesù, non lo fecero ha seguito di un invito rivolto loro dal Cristo, ma perché furono convinti dell’evidenza del potere miracoloso di Gesù, quando ha seguito del comando che diede a Pietro di “prendere il largo, e calare le reti per pescare”, vennero presi tanti pesci che la maglia si rompeva (Luca 5:4-11).

Pietro, che forse prima di quell’evento non aveva realizzato di essere “un uomo peccatore”, davanti alla chiara manifestazione di quel miracolo, non solo i suoi occhi si aprirono per fargli vedere il suo stato di uomo peccatore, ma lo spinse ad una ferma e determinata decisione a seguire Cristo.

Gesù, comprendendo molto bene la situazione di “stupore” che si era venuta a formare nella vita di quegli uomini, rivolgendo la parola a Simone, gli disse:

Non temere; da ora in avanti tu sarai pescatore di uomini vivi (Luca 5:10).

In altra circostanza, quando Cristo rivolse l’invito a seguirlo ad un uomo di nome Levi o Matteo che era impegnato come collettore di tasse, il testo sacro precisa che:

Egli, alzatosi, lo seguì (Matteo 9:9; Marco 2:14; e Luca aggiunge: lasciata ogni cosa... (5:28).

Ecco qui un’altra situazione e una diversa circostanza. Matteo, non ragionò, nella maniera moderna, vale a dire come noi oggi avremmo fatto. Prendere la decisione di lasciare un impiego per andare dietro a Gesù che non ha “dove posare il capo”, rappresentava una vera pazzia e un’incognita che una persona che ponderava bene le cose, non avrebbe mai fatto. Ma Matteo, con la sua pronta e decisa determinazione che prese in quel giorno a seguire Cristo, vuole insegnare agli uomini di oggi, e per il tempo in cui viviamo che, quando ci viene chiesto di seguire il Signore, non bisogna fare calcoli umani, mettendo al primo posto quello che potrebbe essere una buona sistemazione. Quando si ragiona in questa maniera, la logica umana prende il sopravvento e si finisce col rimandare, o peggio ancora, respingere una precisa chiamata da parte del Signore.

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Domenico34
00venerdì 10 febbraio 2012 00:15
La storia dello scriba che vuole seguire il Maestro dovunque andrà, secondo Matteo 8:19; (anche se Luca 9:57 non specifica che si trattasse di uno scriba, è senza dubbio però il racconto parallelo a quello di Matteo), non è certamente un esempio da imitare. Il fatto che Cristo risponde:

Le volpi hanno delle tane, e gli uccelli del cielo dei nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha neppure dove posare il capo (v. 20),

di per se stesso dimostra che le intenzioni dello scriba, non erano sincere. Probabilmente quest’uomo pensava più a una buona sistemazione di un impiego, anziché seguire Cristo senza aver di mira pretese umane. Di conseguenza, la sua apparente disposizione, non corrispondeva ai fini per cui Cristo lo invitava a seguirlo.

Quando poi Gesù rivolse la Sua Parola, ad un altro a seguirlo, la risposta fu:

Signore, permettimi prima di andare a seppellire mio padre (Luca 9:59).

Non dobbiamo pensare che quell’uomo abbia veramente il padre morto in casa, a causa di questo era necessario accudire ai doveri di figlio per ciò che riguardava il funerale. Era invece l’usanza degli Ebrei di quei tempi che quando un padre raggiungeva l’età della vecchiaia, il figlio maggiore era tenuto ad assumersi la responsabilità della famiglia, di conseguenza non poteva fare una decisione, che andasse contro gli interessi della stessa famiglia, durante tutto il tempo che il padre viveva. Con la risposta che Cristo diede:

Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; ma tu va’ ad annunziare il regno di Dio (Luca 9:60).

Egli volle chiaramente mettere in luce che non ci fu nessun obbligo di famiglia, che possa ritenere o rimandare l’obbedienza alla Sua Parola, come se le Sue cose, fossero meno importanti dello stesso nucleo familiare. Gesù, per dare forza e valore alla sua Parola, precisò:

Chi ama padre o madre più di me, non è degno di; e chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me (Matteo 10:37).

Dalla risposta che l’uomo del nostro testo diede al Signore, possiamo dedurre che non gli mancava certamente una buon'intenzione a rispondere alla chiamata del Signore, voleva solo temporeggiare, rimandare tutto al domani. Facendo ciò, prevalevano in lui gli interessi di famiglia. Quando si agisce in questa maniera, si dimostra di non tener conto della Parola scritta:

Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte (Matteo 6:33).

Il giovane ricco, che chiamò Gesù: Maestro buono, di cui parlano gli evangelisti Matteo, Marco e Luca, chiese, che devo fare di buono per avere la vita eterna? (Matteo 19:16). Da queste parole, ci sembra che questo giovane fosse veramente interessato alla vita d’oltre tomba. Però, quando Cristo gli disse:

va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e tu avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi (v. 21),

il giovane prese un atteggiamento che rivelò che tra il dire e il fare c’era di mezzo il mare (come si dice comunemente).

Il vangelo precisa a questo proposito che quel giovane al sentire quel parlare se ne andò rattristato (v. 22). Questo particolare del racconto evangelico, mette abbastanza in evidenza che nel suo cuore non c’era quella vera disposizione che l’avrebbe portato a fare quello che Cristo diceva.

Molti ai nostri giorni, dicono tante cose, fanno tante promesse, esprimono tanti buoni propositi, ma lo dicono solamente con le parole, mentre il loro cuore resta lontano e non sono disposti a pagarne il prezzo.

Seguire Cristo in ciò che Egli dice, comporta sempre per l’uomo che lo vuole ascoltare, un impegno e una precisa determinazione di volontà nell’accettare le condizioni poste. Davanti al deciso rifiuto, di fare quello che il Signore vuole, non ci sono parole, per belle che siano, che lo possono giustificare davanti a Dio.

Per comprendere che cosa significava “seguire Cristo”, un giorno Gesù affermò categoricamente:

Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita (Giovanni 8:12).

Se per colui che segue Gesù ci sarà ci sarà “la luce della vita” che brillerà sul suo cammino per dargli certezza e tranquillità, all’opposto, per colui che non lo segue vi sarà un “camminare nelle tenebre” dell’incertezza, dell’inquietitudine, come conseguenza del suo rifiuto a seguire Cristo: “Via, Verità e Vita” (Giovanni 14:6).

Ancora un altro riferimento, e poi chiuderemo questa parentesi che ci ha portato a fare delle brevissime considerazioni sul valore e sull’importanza di seguire Gesù.

Se uno mi serve, mi segua; e là dove sono io, là sarà anche il mio servo; se uno mi serve, il Padre l’onorerà (Giovanni 12:26).

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Domenico34
00sabato 11 febbraio 2012 00:11
Non c’è vero “servizio”, nel senso più profondo che questo termine, senza seguire il Cristo. Lui, il Signore dei signori, è l’esempio più perfetto e sublime di tutto il servizio, dato che Egli stesso non è venuto in questo mondo.

per essere servito, ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti (Matteo 20:28).

Il Gesù Signor, che sa bene apprezzare chi che lo serve, - si intende tra gli uomini e mentre si vive su questa terra -, promette al suo servo, di essere là, dove Egli si trova, (sicuramente in cielo) e di ricevere anche l’onore del Padre, che è di gran lungo superiore e più significativo di tutte le correttezze degli uomini.

Se abbiamo fatto un piccolo elenco di persone che sono state invitate a seguire Cristo, senza peraltro accennare ad altri tanti casi di cui parla chiaramente il N.T., l’abbiamo solamente fatto per mettere in evidenza quanto sia importante, e nello stesso tempo, imparare da queste persone a fare quello che essi hanno fatto. La prontezza e la determinazione a seguire Cristo Gesù, avrà senza dubbio un effetto benefico e un ruolo primario, nella vita della persona; i risultati di questa scelta, saranno immancabilmente palesi davanti agli altri, mettendo in chiara evidenza la reale differenza tra chi segue Cristo e chi non lo segue.

Ritornando alla frase: Io vi farò..., che Cristo pronunciò nei confronti di Andrea e Pietro, dobbiamo subito affermare che, essa denota in maniera chiara e inconfondibile, l’azione che Cristo compirà nella vita di chi sarà pronto a seguirlo, (che in altri termini, equivale alla nostra “abilitazione”).

Quando però si parla di abilitazione, = capacità di saper fare, si usano certi concetti tendenti a mettere in evidenza le qualità e le ampiezze umane, (come intelligenza, cultura, preparazione accademica, ecc., ecc.). Senza sminuire o degradare l’intelligenza e la preparazione accademica della persona che è stata chiamata a seguire Cristo Gesù, se è venuto però a mancare l’azione poderosa e miracolosa del Figlio di Dio, il saper fare dell’uomo, non avrebbe nessun successo, e gli stessi risultati stenterebbero a venire.

Anche se un Paolo, poté dire ai suoi giorni di avere faticato più degli altri apostoli, non poteva però ignorare che tutto il lavoro che aveva fatto nell’Opera del Signore, l’aveva fatto per la grazia di Dio (1 Corinzi 15:10).

Le reti, attrezzature necessarie per la pesca, non devono essere trascurate; se si rompe una maglia, bisogna ripararla, se si vuole che il pesce rimanga nella rete e sia portato fuori delle acque in terra asciutta. L’uomo si può affaticare “tutta la notte”, nel gettare continuamente le reti, “senza prendere nulla” (Luca 5:5). Fare confluire i pesci nella rete, (spiritualmente parlando), nella zona dove l’attività umana è stata incessante, non è certo da addebitare alla bravura dell’uomo. Quando il potere divino non si manifesta, ogni attività umana è destinata al sicuro fallimento. Il potere divino si manifesta, però, quando l’uomo è disposto ad obbedire alla Suprema, ed Autorevole Parola di Gesù. Ci sia pertanto, di monito e di sprone la parola che Pietro disse a Gesù:

alla tua parola, calerò la rete (Luca 5:5).

La porta de Pesci fu riparata dai figli di Senaah, mettendo intelaiature, battenti, serrature e sbarre. Questo lavoro equivaleva a chiudere tutte le brecce che c’erano. Quando la rete da pescare, ch’è la figura della porta dei Pesci, viene riparata, cioè vengono chiusi i vari squarci che il nemico ha fatto, il pesce che il divin Signore dirigerà in essa resterà, e il pescatore, persona che sta seguendo Gesù, non mancherà di dire: Questa non è opera mia; non è stata la mia intelligenza, la mia bravura, il mio saper fare, ma è opera Tua, Signore e a Te vadano tutto l’onore e la gloria, ora e per sempre. Amen!

PS: Se al termine del capitolo 8 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 9




I TERMINI: LAVORARONO, LAVORAVA, LAVORÒ




Una nota introduttiva

I termini: lavorarono, lavorava e lavorò, nei 32 versetti che compongono il capito 3 di Nehemia, vengono ripetuti per ben 23 volte. Di per se stesso, questo dato statistico, nel contesto di tutto il lavoro che venne fatto nella ricostruzione delle mura di Gerusalemme, oltre a non essere casuale, ha la sua enorme importanza, per il semplice fatto che ci porta a guardare la lunga schiera di persone che sono nominate, come lavoratori che presero parte attiva in tutto quello che venne fatto in quei tempi. Infatti, parlare di operai, vuol dire parlare di persone impegnate attivamente in un determinato campo di lavoro, ove svolgono la loro attività con cura e determinazione.

Non sempre i lavoratori, nello svolgimento della loro funzione, trovano terreno facile, o come si direbbe con altre parole: trovano tutto a loro favore e tutto appianato. Spesse volte devono affrontare serie difficoltà di varia natura, sormontare enormi ostacoli, specie quando nascono delle incomprensioni e il sentiero si presenta tortuoso e incerto davanti a loro. Se poi si aggiunge che non sempre il lavoro viene apprezzato e giustamente retribuito, aumentano ulteriormente le difficoltà, che nuocciono alla buona determinazione di un onesto lavoratore.

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Domenico34
00domenica 12 febbraio 2012 02:15
Mentre per chi ha solamente la qualifica di essere un lavoratore, ma gli manca l’impegno e la determinazione, alla minima difficoltà che si presenta, oltre a trovare mille scuse, finirà col rinunciare e rendersi indisponibile, anche per il lavoro meno impegnativo.

Il lavoro che venne fatto nelle mura di Gerusalemme


Come abbiamo detto in altri capitoli di questo libro, ribadiamo ancora una volta che, tutto il lavoro fatto ai tempi di Nehemia, consisteva nel chiudere brecce che erano state fatte nelle mura di Gerusalemme e riparare strutture di porte danneggiate dal fuoco.

Il lavoro, quindi, non era spettacolare (come quando si costruisce una bella casa), non era pulito (per la molta polvere che si sollevava facilmente da quelle strutture danneggiate), ma era sempre un lavoro, destinato a ridare sollievo ad un popolo che si trovava nel disprezzo e nell’obbrobrio.
Si dice spesso che il lavoro non degrada l’uomo, ma lo nobilita. Se questo è vero dal punto di vista sociale, è altrettanto vero per ciò che riguarda il lavoro che viene fatto nell’opera del Signore, anche per quello meno appariscente e insignificante, dal punto di vista umano.

Quando si tratta di riparare la struttura di una famiglia danneggiata dal fuoco del litigio e dalla discordia, o riparare le rovine di una Comunità ridotta in pezzi dai malumori e dalle divisioni, non sono certo lavori che tutti vorrebbero fare, come quando si costruisce una bella chiesa, un ospedale, una scuola o un orfanotrofio.

Quando però si considera il fine di un'attività lavorativa e si inquadra in previsione del bene degli altri, allora vale la pena arruolarsi nel numero di tutti chi è disposto a questi lavori.

Il lavoro nell’Opera del Signore

Ogni lavoratore impegnato in questo campo, dovrà sempre tenere presente il detto della Scrittura:

Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso (Filippesi 2:3 / La Nuova Riveduta).

Questo testo paolino, è uno dei tanti principi divini, che non deve essere accantonato nella Bibbia, poiché si tratta di un principio fondamentale di Dio. Il suo valore non fu solamente per i tempi dell’apostolo, ma è anche per i nostri, se si vuole l’approvazione Divina in quello che si esercita e l’attività contribuisca al bene degli altri.

La rivalità (o come dice un’altra versione: “Lo spirito di parte”) e la vanagloria, sono due atteggiamenti estremamente dannosi per una persona impegnata nell’Opera del Signore, (non importa il tipo di lavoro che svolge, sia come semplice lavoratore o come dirigente di un movimento religioso o di una chiesa). Questi due atteggiamenti, rappresentano soprattutto due autentici nemici, sul piano della vita cristiana e di quell'associata in maniera particolare.

Che cosa significa, “rivalità”, dal punto di vista prettamente linguistico?
Ecco come viene definita, dal GDLI = (Grande Dizionario della Lingua Italiana), di S. Battaglia.

«Atteggiamento di emulazione, di competitività, di antagonismo tra due o più persone, associazioni, gruppi, entità politiche, Città, Stati, ecc. in vista del raggiungimento di una posizione di superiorità o del godimento esclusivo di un bene, di un vantaggio.
In senso concreto: persona o gruppo rivale, concorrente.
Per estens. Spirito polemico nei confronti di un avversario» [S. Battaglia, GDLI, (Grande Dizionario della Lingua Italiana), Vol. XVI, pag. 1025, UTET, Torino, 1994].

Anche se il detto paolino si trova in un'epistola indirizzata alla chiesa dei Filippesi, quindi ad una Comunità, questo però non toglie di poterlo applicare, in maniera particolare, a chi è impegnato nell’opera del ministero, che svolge un lavoro nella gran vigna del Signore.

La rivalità, che difficilmente si manifesta nella vita dei pigri, cioè di chi non svolge nessun'attività, spiritualmente parlando trova invece la sua espressione più marcata nell'esistenza di chi è impegnato nell’opera del ministero, nell’Opera del Signore. Questa nostra affermazione non deve essere però generalizzata, cioè, come se tutti quelli che sono impegnati nell’opera del ministero, fossero rivali gli uni contro gli altri. Vuole semplicemente mettere in evidenza che quest'infausto atteggiamento può trovarsi anche nella vita di certuni operai, cioè in quelli che sono addetti nel campo di Dio, cioè in mezzo ai credenti, vale a dire nella chiesa, per usare l’antologia di Paolo: Voi siete il Campo di Dio... (1 Corinzi 3:9).

La chiesa del Signore Gesù Cristo, (intesa come collettività di credenti) o la chiesa di Dio, come l’apostolo Paolo la chiama (1 Corinzi 1:2) e i ministri del vangelo in maniera particolare, biblicamente parlando dovrebbero essere in questo mondo oscuro come dei “luminari”, (Mat. 5:14; Filippesi 2:15), ma spesse volte agiscono al contrario, e, invece di diffondere la luce divina, spandono ombre tenebrose in mezzo all’umanità.

Non disse Gesù, che il Padre celeste, sarebbe stato glorificato, a motivo delle buone opere che i suoi discepoli avrebbero fatto vedere? (Matteo 5:16). Se il Padre celeste viene glorificato, cioè esaltato e magnificato, (in mezzo all’umanità), e non soltanto tra gli esseri angelici in cielo quando i credenti agiscono secondo i dettami del vangelo e della Parola di Dio in senso generale, avviene il contrario, quando i figli di Dio e i predicatori del vangelo non compiono opere di bene, in accordo con la vocazione alla quale sono stati chiamati.

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