Capitolo 6
LE PARABOLE DEI QUATTRO DEBITORI
Il testo
«Perciò il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi.
Avendo cominciato a fare i conti, gli fu presentato uno che era debitore di diecimila talenti.
E poiché quello non aveva i mezzi per pagare, il suo signore comandò che fosse venduto lui con la moglie e i figli e tutto quanto aveva, e che il debito fosse pagato.
Il signore di quel servo, mosso a compassione, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Ma quel servo, uscito, trovò uno dei suoi conservi che gli doveva cento denari; e, afferratolo, lo strangolava, dicendo: Paga quello che devi!
Perciò il conservo, gettatosi a terra, lo pregava dicendo: Abbi pazienza con me, e ti pagherò.
Ma l’altro non volle; anzi andò e lo fece imprigionare, finché avesse pagato il debito.
I suoi conservi, veduto il fatto, ne furono molto rattristati e andarono a riferire al loro signore tutto l’accaduto.
Allora il suo signore lo chiamò a sé e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito, perché tu me ne supplicasti;
non dovevi anche tu aver pietà del tuo conservo, come io ho avuto pietà di te?
E il suo signore, adirato, lo diede in mano degli aguzzini fino a quando non avesse pagato tutto quello che gli doveva.
Così vi farà anche il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello» (Matteo 18:23-35).
Nella spiegazione della parabola del creditore spietato, va messa subito in risalto la verità che Gesù ha voluto insegnare con questa similitudine. Non c’è dubbio: la verità riguarda il perdono nella sua dimensione effettiva, cioè il fatto di essere compassionevoli con gli altri nel modo in cui Dio lo è stato con noi. Tenendo presente questo punto di riferimento, sarà molto più facile capire l’insegnamento di Gesù sotto il profilo della vita pratica e, nello stesso tempo, non dimenticare a quali disastrose conseguenze si esporrà chi rifiuta di praticare la compassione nei confronti degli altri.
La parabola nasce in seguito alle due domande che Pietro rivolge a Gesù e alla risposta che ne riceve:
E Gesù a lui: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette (Matteo 18:21-22).
Che Pietro tenesse presente la preghiera del Padre Nostro, insegnata da Gesù, è possibile supporlo, visto che in quella preghiera si specifica:
e non ci esporre alla tentazione, ma liberaci dal maligno. Perché a te appartengono il regno, la potenza e la gloria in eterno, amen.
Perché se voi perdonate agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi;
ma se voi non perdonate agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe (Matteo 6:12-15).
Certamente Pietro non poteva tener presente l’esortazione dell’epistola agli Efesini:
Siate invece benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda come anche Dio vi ha perdonati in Cristo (Efesini 4:32), o quella di Giacomo:
Perché il giudizio è senza misericordia contro chi non ha usato misericordia. La misericordia invece trionfa sul giudizio (Giacomo 2:13), perché a quei tempi queste direttive non esistevano. Mentre quella di Gesù era stata proclamata di recente, per cui era facile ricordarla.
Crediamo che Pietro avesse compreso la verità relativa al perdono dei fratelli; non gli era però chiaro quante volte avrebbe dovuto farlo. Perché chiede:
«Fino a sette volte?» Probabilmente teneva presente quello che dicevano i rabbini, che limitavano il perdono a tre volte:
«Una Tosefta dice: «“ “» Se un uomo pecca una sola volta, due volte, o tre volte, essi lo perdonano; se pecca una quarta volta, non lo perdonano” (Joma 5,13). Allora suggerisce come limite sette volte» [F. W. Beare,
Il vangelo secondo Matteo, pag. 426].
La risposta di Gesù,
fino a settanta volte sette, non dev’essere intesa in senso letterale, cioè 70 x 7 = 490 volte, ma nel senso di “all’infinito”, cioè senza alcun limite. Se non si accetta una simile norma come parola divina, non è facile per l’uomo di qualunque tempo metterla in pratica. Se l’accetta il discepolo di Gesù (in maniera particolare) o chiunque altro, ed è disposto a lasciare da parte il cosiddetto risentimento e lo spirito vendicativo, sarà facile comportarsi in maniera diversa da come agiscono le persone che non hanno timore di Dio.
La parabola del creditore spietato, cioè dell’uomo che non ha avuto compassione nei confronti del suo conservo, illustra magistralmente questa importante verità cristiana. Gesù comincia con l’affermare che uno dei servi del re che fu chiamato a fare i conti era debitore di 10.000 talenti. Con il termine servo non bisogna intendere una persona al servizio del monarca, come per esempio il personale di servizio nel palazzo reale. In effetti, si trattava di un satrapo di una grande provincia dell’Impero Persiano, incaricato di riscuotere le entrate del re nel territorio dove egli svolgeva il suo incarico. I 10.000 talenti erano una somma elevatissima, corrispondente a cento milioni di denari. Un denaro era l’equivalente di una giornata lavorativa di un operaio.
«L’incredibile cifra di diecimila talenti rappresenterebbe la rendita di un’intera provincia ricca. Secondo Giuseppe [Flavio], le tasse pagate in un anno dalla Giudea, dall’Idumea, dalla Samaria, dalla Galilea, e dalla Perea ammontavano a soli 800 talenti» [F. W. Beare,
Il vangelo secondo Matteo, pag. 427].
La supplica che il satrapo rivolge al re,
gettandosi a terra, fu quella di avere pazienza, perché egli si impegnava a pagare tutto il suo debito. Umanamente e praticamente parlando, però, il debitore, con lo stipendio che percepiva, non avrebbe mai potuto saldare il suo debito nel corso della vita. Il sovrano, davanti a quella scena, fu mosso a compassione, condonò l’enorme debito e lasciò andare a casa libero il suo servitore.
Le stesse parole che il satrapo aveva pronunciato davanti al monarca, le ripetè un suo conservo che gli doveva solamente 100 denari. Il trattamento che egli riservò al supplicante fu crudele, non solo perché lo stava strangolando, ma anche perché lo fece imprigionare. Il satrapo, che in un primo tempo aveva ricevuto il condono del suo debito, in un secondo tempo fu definito dal re servo malvagio per il semplice motivo che non aveva avuto pietà del suo conservo, dandolo in mano a degli aguzzini fino a quando non avesse pagato tutto quello che gli doveva. La conclusione tratta da Gesù racchiude la verità della parabola:
Così vi farà anche il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello.
Il perdono di cuore, a differenza di quello che si concede con le labbra, è il vero perdono, cioè quello che ha valore davanti a Dio. Il peccato dell’uomo davanti a Dio è paragonato a un enorme debito che, umanamente parlando, non è possibile pagare. Chi ha pagato avendo saldato il conto è stata la misericordia divina, manifestata per mezzo di Cristo Gesù mediante lo spargimento del Suo sangue sulla croce del Calvario. Se il credente tiene presente che i suoi peccati davanti a Dio erano molti di più di quelli del proprio fratello, sarà facile perdonare i torti o le offese subiti dagli altri.
C’è un solo modo per perdonare di cuore, ed è quello che l’apostolo Paolo indica nell’epistola agli Efesini:
Siate invece benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda come anche Dio vi ha perdonati in Cristo.
Siate dunque imitatori di Dio (Efesini 4:32; 5:1).
Il paragone va fatto non in base a quello che l’uomo compie, ma su quello che fa Dio. Ecco perché l’apostolo usa la frase
come anche Dio vi ha perdonati in Cristo.
Si continuerà il prossimo giorno...