Domenico34 – Le parabole di Gesù – Capitolo 20. PARABOLE CHE PARLANO DELL’AGIRE DECISAMENTE

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Domenico34
00mercoledì 11 maggio 2011 00:30

Capitolo 20




PARABOLE CHE PARLANO DELL’AGIRE DECISAMENTE




Il testo

Gesù diceva ancora ai suoi discepoli: «Un uomo ricco aveva un fattore, il quale fu accusato davanti a lui di sperperare i suoi beni.
Il fattore disse fra sé: Che farò, ora che il padrone mi toglie l’amministrazione? Di zappare non sono capace; di mendicare mi vergogno.
So quello che farò, perché qualcuno mi riceva in casa sua quando dovrò lasciare l’amministrazione.
Poi disse a un altro: E tu, quanto devi? Quello rispose: Cento cori di grano. Egli disse: Prendi la tua scritta, e scrivi: ottanta.
E il padrone lodò il fattore disonesto perché aveva agito con avvedutezza; poiché i figli di questo mondo, nelle relazioni con quelli della loro generazione, sono più avveduti dei figli della luce.
E io vi dico: fatevi degli amici con le ricchezze ingiuste; perché quando esse verranno a mancare, quelli vi ricevano nelle dimore eterne.
Chi è fedele nelle cose minime, è fedele anche nelle grandi; e chi è ingiusto nelle cose minime, è ingiusto anche nelle grandi.
Se dunque non siete stati fedeli nelle ricchezze ingiuste, chi vi affiderà quelle vere?
E, se non siete stati fedeli nei beni altrui, chi vi darà i vostri?
Nessun domestico può servire due padroni; perché o odierà l’uno e amerà l’altro, o avrà riguardo per l’uno e disprezzo per l’altro. Voi non potete servire Dio e Mammona»
(Luca 16:1-13).

NOTA INTRODUTTIVA

La parabola dell’amministratore infedele è riferita solo da Luca. Nel primo versetto si precisa che Gesù stava parlando con i Suoi discepoli. Quindi, con la parabola in questione Gesù non pensava ai capi religiosi giudei, ma ai Suoi discepoli, ed era a loro che Egli voleva insegnare qualcosa che aveva a che fare con la vita pratica, in vista di particolari situazioni che avrebbero potuto incontrare nel loro cammino. Parlando della parabola dell’amministratore disonesto, qualcuno l’ha definita difficile [C. H. Dodd, Le parabole del regno, pag. 32]. Qualche altro ha classificato il v. 8a «enigmatico che ha creato parecchie difficoltà agli esegeti: “E il padrone lodò l’accortezza di quell’amministratore disonesto”». Con la maggioranza degli interpreti odierni si deve ammettere che il v. 8a non fa più parte del discorso di Gesù. Anche il v. 8b: «“I figli di questo mondo nei rapporti con i loro pari sono più scaltri dei figli della luce”», non appartiene certamente alla parabola originale; quindi questa spiegazione non risale a Gesù. Anche il v. 9 è un’aggiunta secondaria, e inoltre dà alla parabola un’interpretazione del tutto diversa: «“Io vi dico: fatevi degli amici con l’aiuto dell’ingiusto mammona, affinché quando (per voi) sarà la fine, vi accolgono nelle dimore eterne”». Anche i vv. 10-12 non appartengono alla parabola originale, ma sono stati messi qui a proposito dell’evangelista e ne costituiscono un’ulteriore interpretazione”» [A. Kemmer, Le parabole di Gesù, pag. 126].

Come si può notare benissimo dalla citazione che abbiamo riportato di quest’autore, per aggirare le difficoltà che presenta la parabola, gli esegeti hanno pensato che i versetti in questione non siano da attribuire a Gesù, ma che sia stato Luca ad inserirli. Affronteremo questi elementi che sono stati evidenziati nel corso dell’Esame della parabola per vedere se confermarli o no.

Esame della parabola

Jeremias consiglia di «presupporre condizioni proprie della Galilea; il plousios è presumibilmente inteso come proprietario di un vasto terreno, con un amministratore sul posto. All’Oriente sono ignoti tanto la contabilità quanto ogni controllo regolare» [J. Jeremias, Le parabole di Gesù, pag. 121].

È abbastanza chiaro che al ricco padrone della parabola qualcuno avesse riferito che il suo fattore non era onesto nell’amministrazione. Davanti a questa notizia, il padrone ordinò al suo fattore di rendere conto dell’amministrazione, soggiungendogli anche che non avrebbe potuto continuare ad essere il suo amministratore. Davanti ad una simile comunicazione, il fattore escogitò una manovra volta ad assicurarsi il futuro, allorquando il suo padrone lo avrebbe sospeso dall’incarico:

egli convocò presso di sé uno per uno i debitori del suo padrone, e al primo chiese: Quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento bati di olio. Egli disse: Prendi la tua scritta, siedi, e scrivi presto: cinquanta.
Poi disse ad un altro: E tu, quanto devi? Quello rispose: Cento cori di grano. Egli disse: Prendi la tua scritta, e scrivi: ottanta
.

Davanti ad un simile procedimento, qualcuno ha chiesto: chi erano i debitori? La risposta è stata: gli affittuari,

«i quali devono versare una data parte del reddito della loro terra come fitto, o grossisti che hanno ottenuto forniture contro titoli di debito. 100 bath (= 36,5 hl. di olio corrispondono al provento di 146 olivi e ad un debito di circa 100 denari; 100 kor ( = 364,4 hl.) di frumento sono 275 quintali e corrispondono al reddito di 42 ettari per una somma di circa 2.500 denari. Si tratta dunque di debiti assai rilevanti. L’abbuono (18 hl. di olio, 73 hl. di grano) è di valore pressappoco pari in entrambi i casi, poiché è assai più caro del grano; espresso in denaro esso equivale a 500 denari» [Ibidem, pag. 222].

Poiché la parabola parla solo di due debitori, mentre risulta che furono chiamati tutti uno per uno, sicuramente gli altri che non vengono menzionati avranno avuto lo stesso trattamento, cioè avranno ricevuto l’abbuono del loro debito. Siccome un simile procedimento è stato compiuto a danno del padrone, dal punto di vista commerciale è pura disonestà, passibile di pena dal punto di vista legale. Il v. 8a afferma che il fattore disonesto fu lodato dal padrone. Siccome questo versetto presenta parecchie difficoltà, gli esegeti cercano di evitarle, mettendo in campo due interpretazioni. Alla domanda su chi fosse il padrone, alcuni hanno risposto il proprietario terriero. Se questi lodò il fattore, non lo fece per la sua disonestà, ma perché aveva agito con scaltrezza e avvedutezza. Si fa osservare che con quest’interpretazione il v. 8a fa ancora parte del discorso di Gesù. La lode del padrone non si riferisce alla disonestà del fattore, ma alla decisione con cui egli ha agito per assicurarsi l’avvenire.

Secondo un’interpretazione recente, il v. 8a andrebbe tradotto così: «E il padrone maledisse l’amministratore infedele, perché aveva agito subdolamente». Cioè condannerebbe il suo modo d’agire fraudolento. Si comprende subito come, con questa traduzione, diventi un problema mettere in bocca a Gesù il versetto in questione. Ecco perché diversi esegeti hanno preferito pensare che il v. 8a non faccia parte della parabola originaria, ma che fu aggiunto in seguito o da Luca o da qualcun altro. Dal confronto che abbiamo fatto di diverse traduzioni, non ci risulta che il versetto in questione sia stato tradotto nel modo in cui è stato suggerito. L’interpretazione che vede il proprietario lodare la scaltrezza e l’avvedutezza dell’amministratore volta ad assicurarsi il futuro, e non l’azione fraudolenta, ci sembra più coerente dell’altra interpretazione, anche perché non c’è bisogno, per evitare la difficoltà, di pensare ad un’aggiunta successiva, magari dell’evangelista Luca.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00giovedì 12 maggio 2011 00:13
L’uomo del v. 8a ha saputo afferrare la criticità della situazione: «Non ha lasciato correre le cose, egli ha agito all’ultimo minuto, prima che la sventura incombente precipitasse su di lui, certo ha agito fraudolentemente senza alcuno scrupolo, Gesù non lo nega, ma non è questa la questione: egli ha agito audacemente, con decisione e intelligenza, e si è rifatto una vita. Essere avveduti, questo è l’imperativo dell’ora anche per noi! Tutto è in gioco» [Ibidem, pag. 223].

Poi, per rafforzare il valore dell’avvedutezza, Gesù passa ad affermare che i figli di questo mondo, nelle relazioni con quelli della loro generazione, sono più avveduti dei figli della luce. Questo è vero! A volte, certi comportamenti delle persone di questo mondo sono ammirevoli rispetto a certe manifestazioni di chi (credente, s’intende) dovrebbe risplendere in questo mondo come un luminare, tenendo alta la parola della vita (Filippesi 2:15).

L’esortazione a farsi degli amici con le ricchezze ingiuste è stata a lungo dibattuta per cercare di capire che cosa intendesse Gesù con quel modo d’esprimersi. Quasi tutti i commentatori, antichi e moderni, per ricchezza ingiusta non intendono quella guadagnata con frode o inganno, ma quella che Dio ci dona per usarla, non solo per goderne, ma anche per venire incontro ai bisogni degli altri. La ricchezza viene definita ingiusta perché serve ai bisogni terreni, e non è da confondere con quella vera, cioè quella spirituale, che vale per la vita presente e anche per l’eternità. Per quanto riguarda la ricchezza terrena, ascoltiamo l’esortazione dell’apostolo Paolo:

di far del bene, d’arricchirsi di opere buone, di essere generosi nel donare, pronti a dare,
così da mettersi da parte un tesoro ben fondato per l’avvenire, per ottenere la vera vita
(1Timoteo 6:17-19).

Il testo

«C’era un uomo ricco, che si vestiva di porpora e di bisso, e ogni giorno si divertiva splendidamente;
e c’era un mendicante, chiamato Lazzaro, che stava alla porta di lui, pieno di ulceri,
E nel soggiorno dei morti, essendo nei tormenti, alzò gli occhi e vide da lontano Abraamo, e Lazzaro nel suo seno;
ed esclamò: Padre Abraamo, abbi pietà di me, e manda Lazzaro ad intingere la punta del dito nell’acqua per rinfrescarmi la lingua, perché sono tormentato in questa fiamma.
Ma Abraamo disse: Figlio, ricordati che tu nella tua vita hai ricevuto i tuoi beni e che Lazzaro similmente ricevette i mali; ma ora qui egli è consolato, e tu sei tormentato.
Oltre a tutto questo, fra noi e voi è posta una gran voragine, perché quelli che vorrebbero passare di qui a voi non possano, né di là si passi da noi.
Ed egli disse: Ti prego, dunque, o padre, che tu lo mandi a casa di mio padre,
Abraamo disse: Hanno Mosè e i profeti; ascoltino quelli.
Ed egli: No, padre Abraamo; ma se qualcuno dai morti va a loro, si ravvedranno.
Abraamo rispose: Se non ascoltano Mosè e i profeti, non si lasceranno persuadere neppure se uno dei morti risuscita
» (Luca 16:19-31).

NOTA INTRODUTTIVA

La parabola del ricco e del mendicante Lazzaro non è altro che la continuazione della precedente parabola: la prima, del fattore infedele, mira a far vedere l’agire tempestivo e avveduto dell’amministratore, davanti ad una particolare situazione concernente il licenziamento dall’incarico e la prospettiva del futuro; la seconda mostra il modo di vivere sia del ricco che del mendicante durante la loro esistenza terrena, nonché la sorte che avranno nell’altra vita, cioè dopo la morte, i due personaggi in questione. Inoltre, nella prima parabola si parla di come usare la ricchezza e nella seconda di come comportarsi con i bisognosi.

L’episodio della parabola del ricco e del mendicante Lazzaro, che riferisce solo Luca, non è un’allegoria, ma il racconto di un fatto realmente accaduto. Nell’utilizzare questa storia, Gesù ha voluto far comprendere ai Suoi ascoltatori il comportamento del ricco e del mendicante mentre hanno vissuto la loro esistenza terrena. Il fatto che in nessuna delle parabole di Gesù si faccia il nome di una persona sta a significare che Lazzaro non sia un nome fittizio, una figura rappresentativa, ma una persona reale che visse la sua vita in mezzo agli uomini al pari di quella del ricco epulone. Infine, la parabola in questione solleva il velo che avvolge il futuro, cioè l’oltretomba, permettendoci di vedere la sorte che toccò all’uno e all’altro dei due personaggi in questione.

Esame della parabola

Il ricco viene presentato con particolari accorgimenti, sia per quanto riguarda il suo abbigliamento e sia per ciò che concerne il suo modo di passare le giornate. In qualità di persona ricca, egli poteva disporre dell’abbigliamento che si addiceva al suo rango. Infatti, l’abito di porpora e di bisso non era un capo di vestiario che potesse indossare chiunque; solo la categoria dei ricchi poteva permettersi di comprarlo per l’abbondanza di denaro che disponeva. Non si fa alcun riferimento se il modo di vivere del ricco fosse dissoluto e licenzioso o se egli vivacchiasse in modo onesto e rispettoso. L’unica notizia che il racconto ci fa intravedere è il fatto che questo ricco non si interessava dei poveri. Viveva la sua vita in modo egoista, cioè pensava solamente a se stesso, a come trascorrere le giornate nel lusso e nel divertimento. Da questo ritratto che ci fornisce la parabola è facile intuire che il ricco pensasse solamente a vivere la sua esistenza terrena, e forse nei suoi pensieri non c’era posto per la vita futura, cioè quella dell’oltretomba, e probabilmente neanche per il giorno della sua morte.

Del povero Lazzaro non si afferma solo che fosse povero, mancante del cibo quotidiano, ma anche malaticcio, con delle piaghe addosso e con pochi vestiti che lo coprissero. Il fatto che i cani gli leccavano le ulcere denota che il suo corpo era seminudo. Nondimeno, egli stava alla porta del ricco a chiedere l’elemosina, e avrebbe voluto sfamarsi con le briciole che cadevano dal tavolo del ricco, ma nessuno gliene dava. Le immagini che ci offrono i due personaggi non solo sono diverse l’una dall’altra, ma si frappongono anche per ciò riguarda l’opulenza da una parte e la miseria dall’altra.

Con l’arrivo del giorno della morte, la scena si capovolge sia per il ricco come anche per il povero mendicante. Perché muoia prima il povero Lazzaro e poi il ricco benestante non ha alcuna importanza; quello che invece ha valore è il fatto che la morte venne sia per l’uno che per l’altro. Con il decesso, terminano le sofferenze e le miserie di Lazzaro, mentre per il ricco hanno fine l’agiatezza e il divertimento. Si precisa che Lazzaro fu portato dagli angeli nel seno d’Abraamo, mentre il ricco fu seppellito. Perché Gesù tralascia la descrizione riguardante il funerale del ricco, che senza dubbio sarà stato sontuoso, adatto al suo rango di appartenenza, e si limitata solamente a parlare della sua sepoltura? Per Gesù, quello che conta è parlare della destinazione dei due personaggi. Riguardo a questo aspetto, Gesù fa una descrizione dettagliata.

Che cos’è il seno d’Abraamo? Non è sicuramente il cielo, intesto come luogo definitivo di godimento, come alcuni pensano; è semplicemente il luogo intermedio tra la morte e la risurrezione, dove vengono accolti i santi. Non si trova nell’oscurità: è un posto in cui i suoi abitanti godono. Non è certamente il luogo definitivo del godimento, come il cielo, ma il luogo intermedio, dove i salvati attendono la risurrezione in vista di entrare, definitivamente, nel godimento eterno, cioè in cielo [Per un maggiore approfondimento, si veda la trattazione di R. Meyer del termine greco Kolpos in GLNT (Grande lessico del Nuovo Testamento), Volume V, colonne 761-768].

Poi si precisa che il ricco, trovandosi nell’Ades tra i tormenti, alzò gli occhi e vide Lazzaro che era nel seno d’Abraamo. Nel vederlo, egli riconobbe che era la stessa persona che chiedeva l’elemosina alla porta del suo palazzo. Ora, però, egli si trovava in un luogo di godimento, mentre lui stava tra i tormenti. Rivolgendosi al padre Abraamo, gli fece una prima richiesta: di mandare Lazzaro ad intingere la punta del dito nell’acqua per rinfrescargli la lingua, perché si trovava tormentato nella fiamma. Al che Abraamo rispose: Figlio, ricordati che tu nella tua vita hai ricevuto i tuoi beni e che Lazzaro similmente ricevette i mali; ma ora qui egli è consolato, e tu sei tormentato.

Il ricco implora pietà, ma la sua richiesta non viene esaudita, non solo per la voragine che c’è tra i due luoghi, ma anche perché ormai è troppo tardi, visto che egli, nel tempo della misericordia divina, quando era sulla terra non ha saputo approfittarne, e ora deve raccogliere il frutto di quello che ha seminato.

A questo punto, il ricco, comprendendo che per lui non ci sarà più niente da fare per cambiare la sua sorte, visto che è stato lui stesso a determinarla con le scelte che ha fatto quando era sulla terra, pensa ai suoi cinque fratelli: «Se non è possibile che Lazzaro venga da me, almeno mandalo a casa di mio padre, dove ci sono i miei cinque fratelli, affinché attesti loro queste cose, e non vengono anche loro in questo luogo di tormento».

È bizzarra, per non usare un altro termine, l’interpretazione che dà Girolamo ai cinque fratelli del ricco; per lui rappresentano i cinque sensi dell’uomo:
«Dal momento che quello era tuo padre, tu hai cinque fratelli: hai la vista, hai l’odorato, hai il gusto, hai l’udito, hai il tatto» [La Bibbia commentata dai padri, Nuovo Testamento 3, Luca, pag. 376].

Neanche quest’altra preghiera venne esaudita, con la specificazione che quelli che vivono sulla terra, per evitare di andare nel luogo di tormento dopo la morte, devono ascoltare Mosè e i profeti. Al che il ricco, incalzando, rispose: No, padre Abraamo; ma se qualcuno dai morti va a loro, si ravvedranno. Abraamo rispose: se non ascoltano Mosè ed i profeti, non si lasceranno persuadere neppure se uno dei morti risuscita.

La risurrezione di un morto è uno dei maggiori miracoli. Spesso si afferma che, davanti ad un miracolo, le persone si convertono e accettano Gesù Cristo come loro personale Salvatore. Questo però non è vero, dal punto di vista generale, anche se non si può negare che davanti ad una manifestazione di vero miracolo ci possano essere delle conversioni. La risurrezione di Tabita produsse un grande effetto nella popolazione di Ioppe: Ciò fu risaputo in tutta Ioppe, e molti credettero nel Signore (Atti 9:42).

In conclusione, quando l’essere umano si ostina a non ascoltare la Parola di Dio, cioè a riceverla nel suo cuore, sarà molto difficile che pervenga alla salvezza, per il semplice motivo che la fede per essere salvati viene dall’ascoltare la Parola di Cristo (Romani 10:17).

PS: Se ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo prontamente
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