Capitolo 14
LA PARABOLA DEL BUON SAMARITANO
Gesù rispose: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, e s’imbatté nei briganti che lo spogliarono, lo ferirono e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.
Per caso un sacerdote scendeva per quella stessa strada; e lo vide, ma passò oltre dal lato opposto.
Ma un samaritano che era in viaggio, passandogli accanto, lo vide e ne ebbe pietà;
avvicinatosi, fasciò le sue piaghe, versandovi sopra olio e vino; poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse ad una locanda e si prese cura di lui.
Il giorno dopo, presi due denari, li diede all’oste e gli disse: Prenditi cura di lui; e tutto ciò che spenderai di più, te lo rimborserò al mio ritorno.
Quegli rispose: «Colui che gli usò misericordia». Gesù gli disse: «Va’, e fa’ anche tu la stessa cosa» (Luca 10:30-37).
Per comprendere nel modo giusto la parabola del
buon samaritano (anche se poi non si tratterebbe di una vera parabola, come consideriamo le altre, ma del racconto di un fatto realmente accaduto?), è importante dare il giusto peso al contesto, cioè mettere in risalto la posizione del dottore della legge che pose una domanda a Gesù. Ammesso che Luca ci avesse rivelato il nome del dottore della legge, non avrebbe avuto alcuna importanza; ciò sarebbe valso solamente ad appagare una mera curiosità. Quello, invece, che è importante è conoscere la posizione, e con essa la convinzione, che aveva l’interrogante su questioni di grandi rilevanze, sia dal punto di vista di una retta interpretazione delle Scritture (A.T.) e sia per quanto riguardava la vita pratica.
Se si segue l’interpretazione che dava Agostino alla parabola in questione — e con lui anche Ambrogio, per non parlare di altri padri della chiesa —, non ha senso sostenere l’esistenza di un fatto accaduto che Cristo raccontò al dottore della legge per rispondere alla sua domanda e, nello stesso tempo, illuminarlo.
Come spiegava Agostino la parabola in questione? Ecco il suo commento:
«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico: l’uomo è Adamo stesso e
Gerusalemme è la città celeste della pace dalla cui beatitudine Adamo decadde;
Gerico significa la luna, cioè il nostro stato di mortali, perché nasce, cresce, cala e muore. I
ladri sono il diavolo ed i suoi angeli i quali
spogliarono l’uomo, cioè lo privarono dell’immortalità, e lo
batterono, cioè lo indussero nel peccato, e lo
lasciarono mezzo morto: qui si precisa
mezzo morto perché in quanto l’uomo intende e conosce Dio, egli vive; ma in quanto è deturpato e oppresso dal peccato, è morto. Il
sacerdote e il
levita che lo videro e passarono oltre significano il clero e il ministero dell’A.T. che non potevano alcunché per la salvezza.
Samaritano vuol dire
‘Guardiano’ ed indica perciò il Signore stesso;
fasciare le ferite significa porre un freno al peccato; l’
olio è il sollievo della buona speranza e il
vino è l’esortazione ad operare con uno spirito fervente. La
cavalcatura è la carne nella quale Egli si degnò di venire a noi e l’essere messo
sulla cavalcatura significa credere nell’incarnazione di Cristo. La
locanda è la chiesa dove i viaggiatori che tornano nella patria celeste sono ristorati dopo il pellegrinaggio; il
giorno dopo è il tempo dopo la risurrezione del Signore e i
due denari sono i due precetti dell’amore o la promessa di questa vita e di quella a venire. Il
locandiere è l’apostolo Paolo e ciò che egli
spende in più rappresenta o il consiglio che egli dà di restar celibi o il fatto che egli lavorò con le proprie mani per non esser di peso ad alcuno dei fratelli quanto all’Evangelo era recente, benché gli fosse lecito ‘vivere dell’Evangelo’» [C. H. Dodd,
Le parabole del regno, pagg. 15-16].
Se abbiamo riportato il commento di Agostino non è perché lo vogliamo discutere, ma solamente per far conoscere al lettore come i padri della chiesa spiegavano le Scritture, sia dell’A.T. come anche del N.T.
Il racconto della parabola nasce in seguito alla domanda che il dottore della legge rivolge a Gesù. C’è da tener presente che, se egli chiese:
Maestro, che devo fare per ereditar la vita eterna?, non fu solo perché considerava Gesù un rabbì, ma anche e soprattutto
per metterlo alla prova (v. 25). Tra la domanda del dottore della legge e quella del giovane ricco, che usò quasi le stesse parole,
Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna? (Marco 10:17), c’è una certa differenza, non tanto nella forma, quanto nella posizione che i due occupavano nella società. Infatti, Gesù, nel rispondere alla domanda del ricco, gli disse:
Tu sai i comandamenti: Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre».
Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».
Gesù, guardatolo, l’amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va’, vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi» (Marco 10:19-21).
Al dottore della legge, invece, visto che questi era un conoscitore della legge e apparteneva alla classe di quelli che discutevano su come interpretarla, Gesù chiese:
Nella legge che cosa sta scritto? Come leggi? Queste due domande che Gesù pose all’interrogante, principalmente la prima, probabilmente lo colsero di sorpresa, perché forse non se le aspettava, e lo obbligarono, in certo qual modo, a dichiarare quello che sta scritto nella legge.
Gesù gli disse: «Hai risposto esattamente; fa’ questo, e vivrai» (vv. 27-28).
Perché il dottore della legge rispose in quella maniera? Solamente perché comprese con esattezza quello che gli chiese Gesù? Sì, perché comprese bene la domanda, ma anche perché sapeva molto bene che tutta la legge si racchiudeva in due precetti: amare Dio e il prossimo come se stessi. Inoltre, con l’esortazione che Gesù gli rivolse a mettere in pratica quei due precetti, che poi erano i due grandi
comandamenti della legge, Gesù gli precisò nel frattempo che quello sarebbe stato sufficiente per vivere, cioè per avere la vita eterna.
A questo punto, il dottore della legge chiese a Gesù:
E chi è il mio prossimo? Luca precisa che egli pose quella domanda per
giustificarsi. Ma era proprio vero che l’interpellante non sapeva chi fosse il suo prossimo? Certamente no! Allora, perché la pose? Gesù sapeva che, per quanto riguardava l’amore che si deve a Dio, come prescriveva la legge, non c’era discordanza tra i dottori della legge; mentre per ciò che concerneva l’amore per il prossimo non c’era unanimità d’interpretazioni tra loro.
Il problema che in quei giorni i dottori della legge dibatteva, consisteva nel definire chi era il prossimo.
«C’erano quelli che riconoscevano come il prossimo solamente i connazionali, inclusi i pagani che si erano convertiti all’ebraismo, oppure anche i pagani e gli eretici? I farisei tendevano ad escludere da quest’amore tutti gli altri; gli esseni arrivavano a pretendere che si odiassero i “figli della tenebra”; una dichiarazione rabbinica insegnava che eretici, denunciatori e apostati “si gettano già (in una fossa) e non si tirano fuori”; e una diffusa massima popolare escludeva l’avversario personale dal comandamento d’amore (“Voi avete udito che Iddio ha detto: Tu devi amare il tuo ‘compatriota’; solo il tuo avversario non hai bisogno di amarlo”» [Cfr. J. Jeremias,
Le parabole di Gesù, pagg. 247-248; A. Kemmer, Le parabole di Gesù, pag.62].
Siccome l’intento di Gesù era sempre quello di portare convincimento nelle persone che Lo ascoltavano e, principalmente, in quelli che si rivolgevano a Lui, senza discriminare nessuno, il racconto-parabola che Egli propose al dottore della legge aveva tale scopo. È del tutto possibile che Egli si riferisse ad un fatto veramente accaduto, come sostengono, con ragione, alcuni commentatori. Il racconto è particolarmente dettagliato e ricco di particolari che corrispondevano alla realtà del tempo, cioè a quello che accadeva nel tratto di strada che da Gerusalemme conduceva a Gerico, esattamente come lo descrisse Gesù.
Si continuerà il prossimo giorno...