Domenico34 – Il comportamento dell’uomo in conformità a quel che crede – Sommario, Presentazione, Introduzione. Capitoli 1-10

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Domenico34
00venerdì 16 marzo 2012 00:18


L’UOMO SI COMPORTA ED AGISCE IN CONFORMITÀ

A QUEL CHE CREDE



INDICE DEL VOLUME




Presentazione
Introduzione

Capitolo 1
SU CHE COSA È BASATA LA CREDENZA DELL’UOMO
La sfera terrena
a) Il comando a lavorare
b) L’intelligenza nell’eseguire il lavoro
LA SFERA SPIRITUALE - L’OPERA DEL MINISTERO
a) Lo zelo nel ministero di Cristo
b) Il compito del Cristo
c) Il Cristo come un messaggero
d) Le opere del Cristo
e) Il peso del dovere
f) Rimanere fermi
g) Le attività spirituali svolte con zelo e con diligenza
PROMESSE PER GLI OPERAI DI DIO

Capitolo 2
LA DIMOSTRAZIONE BIBLICA
a) Gesù parla della Sua morte e della Sua resurrezione
b) Una domanda
c) I preparativi per imbalsamare Gesù
ALCUNI ESEMPI PER CAPIRE MEGLIO LA VERITÀ
1) Credere il giorno della resa dei conti
2) Credere che si commette peccato quando si ha la possibilità di fare il bene e non si fa
3) Credere che la salvezza si ha solamente per mezzo di Gesù
4) Credere che Gesù è con noi tutti i giorni
5) Credere che se non si perdona non si può ricevere il perdono

Capito 3
SO IN CHI HO CREDUTO
a) Ricordi di un passato
b) Il motivo perché Paolo non si vergogna
L’INNO TRIONFALE
a) Ho combattuto il buon combattimento
b) Ho finito la corsa
c) Ho conservato la fede

Capito 4
PAOLO APOSTOLO DI GESÙ CRISTO
a) Il significato etimologico del termine “apostolo”
b) La forma linguistica che viene adoperata

Capitolo 5
DANIELE E I SUOI TRE COMPAGNI
Nota introduttiva
a) La giovinezza di Daniele e dei suoi tre compagni
b) La decisione che i quattro presero
c) La ricompensa che Daniele, Anania, Misael e Azaria ricevettero
La lezione che si impara da questa storia

Capitolo 6
I TRE COMPAGNI DI DANIELE NELLA FORNACE
a) I tre giovani Ebrei, amministratori della provincia di Babilonia
b) Nabucodonosor costruì una statua d’oro
c) L’ordine di adorare la statua d’oro
d) I tre giovani Ebrei accusati davanti al re
e) La risposta dei tre giovani Ebrei e il suo epilogo
RIFLESSIONI

Capitolo 7
DANIELE MESSO ALLA PROVA
a) Daniele al servizio del re Dario
b) Il decreto di proibizione che il re Dario firmò
c) Una prova seria per Daniele
d) Daniele nella fossa dei leoni e la sua liberazione
CONSIDERAZIONI

Capitolo 8
LA BEATITUDINE DI CHI CREDE
a) La certezza che Dio ha parlato
b) Come si è comportato l’uomo dell'antichità, davanti alla parola di Dio
c) Spiegazione sulla beatitudine di chi crede
d) Altri esempi di persone che agirono con riferimento a quello che credevano

Capitolo 9
IL COMPORTAMENTO E L’AGIRE DI DUE DONNE
1.LA DONNA CON IL FLUSSO DI SANGUE
a) La donna sentì parlare di Gesù
b) La donna si mette in cammino per andare da Gesù
c) La donna arrivò da Gesù
d) Gesù parlò
2. LA DONNA CANANEA O SIROFENICIA
a) La Cananea sentì parlare di Gesù
b) Il gesto che compì la donna
c) L’intervento dei discepoli di Gesù
d) L’intervento di Gesù
e) Il comportamento e l’agire della Cananea

Capitolo 10
QUEL CHE COMPIE CHI CREDE
1) Cantare le lodi del Signore
2) I Niniviti che credettero a Dio
3) Il miracolo in Cana di Galilea
4) La risurrezione di Gesù
5) I segni miracolosi che Gesù compiva
6) L’allegrezza che provavano gli stranieri
7) Credere a ciò che si chiede a Dio

COCLUSIONE

Bibliografia



P R E S E N T A Z I O N E



“L’UOMO SI COMPORTA ED AGISCE IN CONFORMITÀ A QUEL CHE CREDE”


Il titolo di questo libro mette l’accento sulla fede. Credere, infatti, è avere certezza che qualche cosa o qualcuno esiste veramente, che la sua esistenza riflette verità profonde, e che ha effetti specifici, positivi o negativi, nella vita dei credenti, invitando a un certo comportamento.

Abramo, per esempio, è chiamato il “padre dei credenti”. A Dio, che ha preso l’iniziativa e gli promette una terra e una posterità, egli risponde ubbidendo alla sua parola.

Fede ed azione sono conseguenti, concomitanti, e questa illustra bene il titolo del libro e quanto l’autore, il pastore Domenico BARBERA ha esposto in quest’opera.

Siccome è per la fede che l’uomo vive, senza di essa egli non può sussistere. La fede infatti è la risposta personale dell’uomo all’iniziativa di Dio. Essa è anche il risultato della riflessione umana, in quanto questi, cioè l’uomo, si comporta in base alla sua fede.

Gli esempi che l’autore cita per corroborare la sua tesi (Gesù, Paolo, Daniele, i suoi compagni di deportazione, l’emorroissa, la Cananea ecc.) stanno a dimostrare brillantemente che

L’uomo si comporta ed agisce in conformità a quel che crede

* * * *


Possa il lettore realizzare che i suoi atti non sono il frutto di un istinto, ma l’effetto della sua fede, cioè di quello che lui stesso crede.
L’agire o il non agire è prodotto da quello che lui (l’uomo) ha nel suo subcosciente, vale a dire dalla sua fede o credenza.

Nino Tirelli


INTRODUZIONE

Una delle verità ferme, di portata universale che riguarda la vita degli esseri umani, è quella relativa alla credenza. Questo concetto, non vale solamente in campo religioso, quando si parla della fede e delle cose di Dio; vale anche per ciò che riguarda le varie attività lavorative, non solamente quelle che si eseguono con le braccia, ma anche quelle che impegnano l’intelletto umano. In conformità a questa constatazione, si può affermare che il comportamento e l’agire dell’uomo, dal punto di vista generale, sono in conformità a ciò che si crede.

Non ha nessun'importanza, (per quello che stiamo dicendo) se una persona segue l’errore o la verità. Tutto il comportamento e l’agire, sono generalmente pilotati, da ciò che si crede: giusto o sbagliato. Che poi, attraverso le riflessioni, possano verificarsi dei cambiamenti: dall’errore alla verità, da una fede ad un’altra, da una certa filosofia ad altro, non significa che il comportamento e l’agire rimangano invariati. Come cambiano le idee, le convinzioni, così cambiano pure il comportamento e l’agire. Tutto viene inquadrato e pilotato, in conformità a ciò che si crede.

Non c’è da formulare severi giudizi, se una persona percorre un sentiero diverso, rispetto agli altri; o se professa una fede differente, rispetto alla maggioranza. Ognuno agisce, non solamente con la propria volontà e con la propria scelta, ma principalmente in conformità a ciò che crede. È, infatti, la credenza che fa la differenza, tra l’uno e l’altro, che conduce l’individuo a comportarsi in un determinato modo! Il comportamento e l’agire di una persona, non riguardano solamente la sfera terrena: il lavoro, in tutti i settori della vita associata, gli impegni a tutti i livelli, ma determinano anche il futuro, quello che comunemente si chiama l’eternità.

Quando si pensa all’eternità, cioè alla vita d’oltretomba senza fine, si sa che non tutti credono nella stessa maniera. Mentre, per quanto riguarda la morte fisica, ch’è una tragica realtà della vita, è accettata da tutti, e nessuno può sfuggire al suo dominio, o rimandarla indietro, indipendentemente se si è interessati alle cose di Dio, o no. Quando parliamo dell’eternità, intendiamo riferirci “allo stato in cui si vivrà”, dopo la morte: sia che si tratti di andare ad “abitare col Signore”, (il cielo, cristianamente parlando) o che si finisca lontani da Lui, (cioè nell’inferno).

Trattandosi di realtà spirituali che riguardano l’eternità, non tutti credono che dopo la morte fisica, tutto finisce. Chi non crede all’eternità, cioè all’esistenza d’oltretomba, si comporta ed agisce secondo quel che crede, cioè vive la sua esistenza terrena, basandosi su ciò che vede e tocca con le mani. Mentre per chi crede che, il vero godimento e la vera felicità eterna, non hanno rapporto con quello che si prova sulla terra, bensì quello che ci sarà in cielo, alla presenza di Dio, il comportamento e l’agire, saranno immancabilmente, in conformità a ciò che si crede per l’eternità.

Ci sono realtà eterne, cioè che non passeranno mai, che l’uomo, chiunque esso sia, non ha la facoltà di eliminarle. Non solo, ma: non è neanche richiesta la sua credenza, per il semplice fatto che esisteranno, indipendentemente se si crede o no.

Valutato l’argomento in questo contesto, vale la pena vivere la nostra vita terrena, seguendo Gesù: via, verità e vita, (Giovanni 14:6) e non andare dietro le varie filosofie degli uomini, che spesso ci portano lontani dalla verità, dalla sorgente di ogni bene, dal nostro Dio, e Salvatore, Gesù Cristo.
Il testo biblico che useremo in questo nostro lavoro, sarà quello della Nuova Riveduta. Quando riteniamo opportuno rifarci ad altre traduzioni, non mancheremo ad indicarle chiaramente. L’augurio più sincero che formuliamo per ognuno che avrà modo di avere tra le mani il nostro lavoro, è che possa fare tesoro di quello che seguirà, in questa trattazione.

Un sentito rigraziamento di cuore, va al caro fratello Nino Tirelli, con sentimenti di riconoscenza, per il lavoro di revisione che ha condotto, dandone atto pubblicamente.

Domenico Barbera

Niagara Falls, 2006

Si continuerà il prossimo giorno…
Domenico34
00sabato 17 marzo 2012 00:57
Capitolo 1




SU CHE COSA È BASATA LA CREDENZA DELL’UOMO




Sapere su che cosa è basata la credenza dell’uomo è molto importante, perché da essa si possono delineare e stabilire gli orientamenti in materia di comportamenti e di agire. Che l’essere umano — a qualsiasi condizione e ceto sociale appartenga — si comporti ed agisca in conformità a quel che crede, è una verità ferma che, difficilmente potrà essere contestata, a qualsiasi campo della vita lo si voglia applicare.

Chi crede nell’ateisno, per esempio, il comportamento e l’agire saranno senza dubbio orientato a negare l’esistenza di un essere Supremo, che comunemente si chiama Dio. Mentre, chi ci crede, il comportamento e l’agire, saranno orientati in un’altra direzione. Non ci sarà bisogno di passare alla fase dimostrativa, per sapere dove sta la verità, perché ognuno delle due parti, si comporterà ad agirà, in conformità a quel che crede. Se poi uno si trova nell’errore e l’altro nella verità, quello è tutto un’altra storia che, semmai, condurrà la persona a valutare la propria posizione, e, se si convincerà, potrà cambiare direzione.

Quelli che credono nel materialismo, di solito escludono le realtà dello spirito e tutto ciò che appartiene al divino e al soprannaturale. Il comportamento e l’agire, ad una simile tendenza, saranno immancabilmente orientati verso quella direzione, senza pensare necessariamente a dovere formulare giudizi di bigottismo, per coloro la vedono e la pensano in maniera diversa. Mentre, chi crede che oltre al materiale, esistono anche realtà spirituali e soprannaturali, ovviamente il comportamento e l’agire, saranno senza dubbio, incanalati e manifestati, in conformità alla sua fede. Se la convinzione di una persona è basata, per esempio, sulle capacità umane: intelligenza di saper programmare le cose e disponibilità economica, il comportamento e l’agire, saranno pilotati da queste due componenti. Tutto quello che si fa o le iniziative che si vorranno intraprendere, immancabilmente rispecchieranno questi elementi. Se poi le cose non dovessero andare in porto come si avrebbe voluto, ciò non mette in discussione la nostra base di partenza, visto che possibilmente, intervengono fattori non previsti.

Per chi fonda la sua credenza su quello che Dio dice nella Sua Parola, logicamente l’orientamento sarà tutto diverso. Con ciò, non vogliamo assolutamente affermare che, non debba procedere nel suo cammino, nelle sue iniziative, con intelligenza e saggezza. Rientrerà nella logica delle cose, pianificare tutto, in modo da renderle attuabili. Traducendo in pratica quello che Dio dice nella Sua Parola, si può partire, com'esempio, dal seguente testo biblico:

Tutto quello che la tua mano trova da fare, fallo con tutte le tue forze… (Ecclesiaste 9:10).

Questo però non significa, se si vede un pericolo, far finta di non vederlo; e, come se fosse tutto normale, continuare nel proseguimento del cammino, pensando che non accadrà niente di fatale. Il fatto stesso di vedere un pericolo, per la persona intelligente ed accorta, porta a pensare come fare per evitarlo. Quest'accorgimento si trova in piena sintonia con quello che Dio dice nella Sua Parola:

L’uomo accorto vede venire il male, e si nasconde; ma gli ingenui tirano avanti e ne subiscono le conseguenze (Proverbi (22:3).

L’uomo accorto vede il male e si mette al riparo, ma gli ingenui proseguono e ne pagano le conseguenze (Proverbi 27:12).

Ritornando al testo dell’Ecclesiaste, l’affermazione in questione, può riguardare la sfera terrena, e investire anche quella spirituale. Per quanto riguarda le varie attività lavorative di ogni genere, ogni impegno che si assume, sarà saggiamente valutato, per evitare che accada, quello che Gesù prevede nel vangelo.

Chi di voi, infatti, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolare la spesa per vedere se ha abbastanza da poterla finire?
Perché non succeda che, quando ne abbia posto le fondamenta e non la possa finire, tutti quelli che la vedranno comincino a beffarsi di lui, dicendo:
"Quest’uomo ha cominciato a costruire e non ha potuto terminare".
Oppure, qual è il re che, partendo per muovere guerra a un altro re, non si sieda prima a esaminare se con diecimila uomini può affrontare colui che gli viene contro con ventimila?
Se no, mentre quello è ancora lontano, gli manda un’ambasciata e chiede di trattare la pace
(Luca 14:28-32).

Anche per le varie attività spirituali, soprattutto l’opera del ministero, vale pure la parola di Gesù. Così dicendo, abbiamo già tracciato un ampio schema che, ci terrà impegnati, a sviluppare le due linee direttive: la sfera terrena e quella spirituale.

Si continuerà il prossimo giorno…
Domenico34
00domenica 18 marzo 2012 00:03
LA SFERA TERRENA

Le varie attività lavorative terrene, vengono pilotate da almeno due linee di condotta: a) il comando a lavorare; b) l’intelligenza nell’eseguirlo Questi due punti della nostra riflessione, saranno massimamente affrontati in conformità a quello che dice la Parola del Signore.

a) Il comando a lavorare

Nelle prime pagine della Genesi, che è il primo libro della Bibbia, si trova il primo riferimento al lavoro:

Dio il SIGNORE prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo lavorasse e lo custodisse (Genesi 2:15).

Non è affatto vero, come afferma qualcuno, che il lavoro l’abbia inventato il diavolo. Il testo appena citato, afferma che è stato Dio a comandare all’uomo, da lui creato, di lavorare. Lavorare e custodire il giardino, nel quale era stato posto, l’uomo si sarebbe mantenuto impegnato. Il vagabondaggio, oltre ad essere il padre dei vizi, non fa bene, alla salute de corpo, né permette di sviluppare, quelle capacità che Dio ha infuso nell’essere umano. Anche se più tardi, a causa del peccato, le condizioni del lavoro cambieranno, nel senso che, l’uomo:

mangerà il pane con il sudore del suo volto, finché ritorni nella terra da cui è stato tratto; perché è polvere e in polvere ritornerà» (Genesi 3:19),

nondimeno, nulla sarebbe cambiato nel progetto iniziale divino, per le creature umane. Tanto è vero che Dio, l’ha voluto inserire nei Suoi comandamenti:

Lavora sei giorni e fa’ tutto il tuo lavoro,
ma il settimo è giorno di riposo, consacrato al SIGNORE Dio tuo; non fare in esso nessun lavoro ordinario, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né lo straniero che abita nella tua città
(Esodo 20:9-10).

Per evitare che il suo popolo dimentichi quello che gli era stato raccomandato, Dio, parlando a Mosè, gli ordina:

«Parla ai figli d’Israele e di’ loro: "Ecco le solennità del SIGNORE, che voi celebrerete come sante convocazioni. Le mie solennità sono queste.
Per sei giorni si attenderà al lavoro; ma il settimo giorno è sabato, giorno di completo riposo e di santa convocazione. Non farete in esso nessun lavoro; è un riposo consacrato al SIGNORE in tutti i luoghi dove abiterete
(Levitico 23:2-3).

Questo, ovviamente, per salvaguardare il comandamento che prevedeva che nel giorno di sabato, non era permesso eseguire nessun tipo di lavoro, cioè quello servile, in modo che il tempo di quella giornata, doveva essere dedicato al Signore. Secondo quello che viene detto nel libro di Giobbe:

Gli empi spostano i confini, rapiscono greggi e le conducono al pascolo;
portano via l’asino dell’orfano, prendono in pegno il bue della vedova;
mandano via dalla strada i bisognosi, i poveri del paese si nascondono tutti insieme.
Eccoli, che come onagri del deserto escono al loro lavoro in cerca di cibo; solo il deserto dà pane ai loro figli
(Giobbe 24:2-5).

Gli onagri sono «Equidi selvatici poco più grossi dell’asino, di colore bianco argenteo, giallastro nelle parti superiori, che vivono nelle zone steppose della Persia e dell’Afghanistan; ricercati dai cacciatori per la carne e per la pelle pregiata, sono diventati ormai molto rari; asini selvatici» [S. Battaglia, GDLI, Vol. XI, pag. 953 ].

Nonostante che si parli di animali selvatici, molto diversi dall’uomo, anche loro sono impegnati a compiere il loro lavoro nel deserto, che consiste nell’andare a cercarsi il cibo. L’uomo però, che è diverso dagli animali selvatici, esce all’opera sua e al suo lavoro fino alla sera (Salmo 104:23).
Il savio Salomone, che parla molto delle attività lavorative dell’uomo, in uno dei suoi Proverbi, fa quest'affermazione:

La ricchezza male acquistata va diminuendo, ma chi accumula a poco a poco, l’aumenta (Proverbi 13:11).

Che cosa voleva dire il saggio con queste parole? Pensando alle diverse attività lavorative illecite, in cui si può facilmente guadagnare molto, Salomone mette in guardia che la stessa ricchezza guadagnata in quella maniera, può presto diminuire, vuoi per una cosa o per un’altra; mentre quella accumulata a poco alla volta, potrà aumentare, visto che non è basata sulla disonestà, bensì sull’onestà. Ecco, perché la Scrittura esorta a non avere fretta nell’accumulare ricchezza, poiché esistono dei pericoli.

L’uomo fedele sarà colmato di benedizioni, ma chi ha fretta di arricchire non rimarrà impunito (Proverbi 28:20).
L’uomo invidioso ha fretta di arricchire, e non sa che gli piomberà addosso la miseria
(Proverbi 28:22).

Si continuerà il prossimo giorno…
Domenico34
00lunedì 19 marzo 2012 00:49
….quelli che vogliono arricchire cadono vittime di tentazioni, di inganni e di molti desideri insensati e funesti, che affondano gli uomini nella rovina e nella perdizione (1 Timoteo 6:9).

A sua volta, l’insegnamento del Nuovo Testamento, è maggiormente imperniato, sull’esortazione che dà l’apostolo Paolo:

Chi rubava non rubi più, ma si affatichi piuttosto a lavorare onestamente con le proprie mani, affinché abbia qualcosa da dare a colui che è nel bisogno (Efesini 4:28).

e a cercare di vivere in pace, di curare i vostri beni e di lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ordinato di fare (1Tessalonicesi 4:11).

Ordiniamo e esortiamo, nel Signore Gesù Cristo, a mangiare il proprio pane, lavorando tranquillamente (2Tessalonicesi 3:12).

b) L’intelligenza nell’eseguire il lavoro


L’intelligenza nell’eseguire il lavoro, oltre a risparmiare l’operaio da certi mali corporali, quali: la forzatura del sistema muscolare, la stanchezza derivata da un prolungato affaticamento, può rendere il lavoro piacevole, se viene svolto con accortezza e intelligenza. Imparare certe tecniche di movimento, per esempio, cioè com'eseguire gesti col corpo, quando il lavoro è manuale e pesante. La prima cosa necessaria da fare, è guardare come gli altri lo fanno. Apprese le tecniche, certi lavori, si possono eseguire con minore spreco di energie fisiche. Il consiglio che Salomone dà, può essere inquadrato sotto questo profilo.

Va’, pigro, alla formica; considera il suo fare e diventa saggio!
Essa non ha né capo, né sorvegliante, né padrone;
prepara il suo nutrimento nell’estate e immagazzina il suo cibo al tempo della mietitura.
Fino a quando, o pigro, te ne starai coricato? Quando ti sveglierai dal tuo sonno?
Dormire un po’, sonnecchiare un po’, incrociare un po’ le mani per riposare…
La tua povertà verrà come un ladro, la tua miseria, come un uomo armato
(Proverbi 6:6-11).

Il pigro ha tanto da imparare dalla formica, per ciò che riguarda la laboriosità. Infatti, questo insetto, pur essendo senza capo, senza sorvegliante e senza padrone, riesce ad immagazzinare tanto cibo per l’inverno. La caratteristica principale della formica è, la sua attività instancabile. L'intelligenza, non consiste solamente nel muoversi, con destrezza, in mezzo alle zolle del terreno, ma soprattutto nel lavorare nel tempo della mietitura. Se la formica, per un'assurda ipotesi dicesse: non oggi; domani uscirò per raccogliere il cibo, quando il tempo è più favorevole. Può darsi, che quel giorno, non arriverà mai. In altre parole, la formica, non usa il linguaggio del pigro, che di solito dice sempre domani; impiega invece quello dell’oggi, cioè del presente.

Un detto dell’Ecclesiaste precisa: chi bada al vento non seminerà; chi guarda alle nuvole non mieterà (Ecclesiaste 11:4). Una parafrasi, presenta questo testo nel seguente modo: “Se aspetti le condizioni perfette, non farai mai niente”.

Tre massime, dal libro dei Proverbi, si esprimono in questo modo:

Chi lavora con mano pigra impoverisce, ma la mano laboriosa fa arricchire.
Chi raccoglie durante l’estate è un figlio prudente, ma chi dorme durante la mietitura è un figlio che fa vergogna
(Proverbi 10:4-5).

Il pigro desidera, e non ha nulla, ma l’operoso sarà pienamente soddisfatto (Proverbi 13:4).

Hai visto un uomo sollecito nel suo lavoro? Egli comparirà alla presenza dei re e non resterà davanti a gente oscura (Proverbi 22:29; N. Diodati)

I testi che abbiamo riportato, illustrano magistralmente il concetto della laboriosità: l’intelligenza e la saggezza, che fanno da legame, nell’eseguire l’attività lavorativa in questo mondo.

LA SFERA SPIRITUALE - L’OPERA DEL MINISTERO

Quando si parla del ministero, che è la sfera spirituale, non si può trovare un modello migliore di Gesù. Per meglio capire la portata del tema del nostro libro, prendiamo in esame il ministero di Gesù, svolto durante il tempo della sua permanenza sulla terra. Partiamo dal seguente testo:

Bisogna che io compia le opere di colui che mi ha mandato mentre è giorno; la notte viene in cui nessuno può operare (Giovanni 9:4).

Questo testo ci fornisce i seguenti punti di riflessioni:
a) Lo zelo del Cristo;
b) Il compito del Cristo;
c) Il Cristo come un messaggero;
d) Il peso del dovere;
e) Le opere del Cristo

Si continuerà il prossimo giorno…
Domenico34
00martedì 20 marzo 2012 00:07
Compiere le opere di chi lo ha mandato, rappresenta per Gesù, il punto focale di tutto il suo ministero. D’altra parte, Egli è consapevole, (com'ebbe modo di metterlo in risalto più volte tra i Giudei) che l’opera del Suo ministero sulla terra, era essenzialmente imperniata, nell’eseguire scrupolosamente e pienamente, il volere di suo Padre. Ecco, perché Gesù affermava con risolutezza:

...son disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato (Giovanni 6:38).

Questa determinazione incondizionata di Gesù di attenersi a quello che Suo Padre aveva stabilito per Lui, lo mise in evidenza, fin da quando aveva dodici anni, cioè, diciotto anni prima che entrasse nel pubblico ministero. Il testo di Luca, non lascia alcun dubbio a tal proposito:

Quando i suoi genitori lo videro, rimasero stupiti; e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io ti cercavamo, stando in gran pena».
Ed egli disse loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io dovevo trovarmi nella casa del Padre mio?»
(Luca 2:48-49).

L’espressione greca della parte terminale del (v. 49) en tois tou patros mou dei einai me, è stata interpretata dai traduttori in due modi:

a) «Non sapevate che io dovevo trovarmi nella casa del Padre mio?»
b) «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?»

Il lettore, giustamente, si chiede: perché questo? Non sono espressi due concetti diversi, uno che mette in risalto la «casa» e l’altro le «cose?» Certamente! Allora, come inquadrare la questione, per comprendere cosa voleva dire effettivamente Gesù?

Secondo R. Stewart, l’espressione greca:
en tois tou patros mou (letteralmente, le del Padre mio), è ellittica; cioè mancante e richiede l’aggiunta di pragmasin, (cose, affari), oppure di oikemasin; (case, o casa composta, come il tempio, di diversi fabricati) per essere compiuta. Diodati, Calvino, Beza, Maldonat, de Witte, Alford, Stier, Ryle, Van Oosterzee, e molti altri adottano la prima (le cose); invece molti dei Padri, Erasmo, Grozio, Bengel, Olshausen, Meyer, Trench, Brown, Webster e Wilkinson adottano l’ultima (la casa), essendo loro opinione che il Signore allude al tempio, alla visibile dimora dell’invisibile Iddio» [Roberto G. Stewart, Commentario esegetico pratico del Nuovo Testamente, S. Luca, pag. 50].

Anche se Schürmann, afferma che « — la risposta di Gesù è data nel tempio — si riferisce a questo tempio come proprietà e luogo della presenza (cfr. Mt. 20:21) del «Padre» [H. Schürmann, Il vangelo di Luca, Parte prima, pag. 266],

resta a vedere se l’espressione in questione e la sua interpretazione, si accordano con l’ampio contesto neotestamentario, riguardante la missione di Gesù in mezzo agli uomini.

A parere di John A. Martin: «Rispondendo alla domanda di Maria che gli chiedeva perché si era comportato in quel modo, Gesù tracciò una netta distinzione fra loro e Dio, il suo vero Padre (2:49). La sua risposta conferma che egli conosceva la sua missione e che anche i suoi genitori avrebbero dovuto esserne consapevoli, ma essi non capirono» [John A. Martin, Investigate le Scritture, Nuovo Testamento, pagg. 226-227].

Eduard Schweizer, spiega l’episodio nel seguente modo:
«Le prime parole che Gesù pronuncia nel vangelo di Luca rimandano a colui che è al di sopra di lui e al quale egli è legato come a nessun altro. Gesù «deve» stare in ciò che appartiene a suo Padre. Con quest’espressione non è intesa soltanto la casa di Dio, che tra l’altro Gesù sta per lasciare, bensì tutto ciò che appartiene a Dio e dal quale né leggi né ordinamenti terreni non potranno mai escluderlo» [Eduard Schweizer, Il vangelo secondo Luca, pag. 69].

L’interpretazione che Gesù sì «deve trovare nella casa del Padre suo», a nostro parere, è «restrittiva» in quanto si limita a quella particolare circostanza e a quella sua età. È vero che Gesù nella sua giovanissima età, comprende e rivela nello stesso tempo, che il suo vero Padre non è Giuseppe, ma quello che sta nei cieli. A lui deve prestare la sua massima attenzione, lasciarsi guidare dalla Sua volontà, in modo da trovarsi costantemente in piena sintonia con i piani della volontà di Suo Padre, sotto la cui autorità deve sottostare, e non solamente alla custodia di Maria e di Geuseppe.

Se invece l’interpretazione in questione si focalizza «nelle cose del Padre suo», come noi crediamo debba intendersi, è chiaro che la restrizione per quanto riguarda il luogo e l’età, scompaiono, e tutto si concentra nell’attività del suo ministero che, in senso pratico, dovrà ancora manifestarsi, e che per altro abbraccia l’interezza della sua missione sulla terra. Se poi a queste considerazioni si collegano le stesse parole che Gesù pronunziò quando era in piena attività nel suo pubblico ministero, la nostra argomentazione diventa più chiara e convincente.

Ma egli disse loro: «Io ho un cibo da mangiare che voi non conoscete».
Perciò i discepoli si dicevano gli uni gli altri: «Forse qualcuno gli ha portato da mangiare?»
Gesù disse loro: «Il mio cibo è far la volontà di colui che mi ha mandato, e compiere l’opera sua
(Giovanni 4:32-34).

Si continuerà il prossimo giorno…
Domenico34
00mercoledì 21 marzo 2012 00:31
Fare la volontà di chi l’aveva mandato, e, compiere l’opera Sua, Gesù non poteva mai riferirsi a “trovarsi nella casa di Dio”, cioè nel tempio di Gerusalemme, perché quella non era l’opera che suo Padre gli aveva affidata. Sappiamo che ‘l’opera di Dio’, Gesù l’ha compiuta stando in mezzo ai peccatori, mangiando con loro; accogliendo ogni persona che andava a lui, e, per ultimo, offrendo se stesso a morire sulla croce, per riconciliare l’umanità a Dio suo Padre. Ecco perché, nell’ampio contesto dell’insegnamento del Nuovo Testamento, le parole di Luca 2:49, si armonizzano meglio «devo occuparmi delle cose del Padre mio», anziché «dovevo trovarmi nella casa del Padre mio».

a) Lo zelo nel mistero di Cristo


…Vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio lo ha unto di Spirito Santo e di potenza; e com’egli è andato dappertutto facendo del bene e guarendo tutti quelli che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui (Atti 10:38).

Lo zelo del ministero di Gesù, è messo in chiaro dall’apostolo Pietro, facendoci vedere in che cosa consistesse. Gesù andava in giro dappertutto. Questo ci dimostra che, Egli non si fermava in una località, aspettando che i bisognosi andassero da Lui. Sì, è vero che tante volte le persone accorrevano da Gesù, e non aspettavano che Egli andasse da loro; ma non era sempre così. Negli spostamenti che Gesù compiva, spesso gli scrittori sacri vedevano il compimento di qualche profezia che lo riguardava. Prendiamo per esempio lo spostamento che Gesù fece da Nazaret a Capernaum (Matteo 4:13). In questo movimento, l’evangelista precisa che ciò avvenne, per adempiere quello che il profeta Isaia aveva predetto alcuni secoli prima della venuta di Gesù.

Le tenebre non dureranno sempre sulla terra che è ora nell’angoscia. Come nei tempi passati Dio coprì di obbrobrio il paese di Zabulon e il paese di Neftali, così nei tempi a venire coprirà di gloria la terra vicina al mare, di là dal Giordano, la Galilea dei Gentili.
Il popolo che camminava nelle tenebre, vede una gran luce; su quelli che abitavano il paese dell’ombra della morte, la luce risplende
(Isaia 8:23; 9:1).

Il fatto stesso che Cristo affermava di sé:

«Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo hanno dei nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Matteo 8:20),

mette in risalto che Egli è pienamente impegnato nell’opera del ministero che il Padre gli aveva affidato; e in questa sua attività, gli imprimeva tutto il suo zelo e il suo entusiasmo, nel portarlo a compimento. Questo, naturalmente lo faceva, senza tirarsi mai indietro, ma essendo sempre pronto e disponibile in tutto ciò che il Padre gli metteva davanti.

Il bene che Gesù faceva e le liberazioni che produceva in quelli che si trovavano sotto il potere del diavolo, parla eloquentemente del suo pronto intervento e interessamento, in favore dei bisognosi, senza nessuna discriminazione.

b) Il compito del Cristo

Allo zelo, nell’opera del ministero, bisogna aggiungere il compito specifico che Cristo aveva in mezzo agli uomini. Questo si può ricavare da alcuni testi, che qui di seguito elenchiamo.

Io ho una testimonianza maggiore di quella di Giovanni; perché le opere che il Padre mi ha date da compiere, quelle stesse opere che faccio, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato (Giovanni 5:36).

Queste parole ci fanno vedere la specificità delle opere che Gesù compiva, attività che il Padre gli aveva dato da compiere, perché attraverso di esse, venisse resa la testimonianza che il mandato di Gesù era di origine divina.

Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l’opera che tu mi hai data da fare (Giovanni 17:4).

Nel compimento dell’opera che gli era stata affidata, Gesù vedeva la glorificazione del Padre suo sulla terra, cosa che Egli faceva continuamente attraverso quello che compiva. Gesù, nella Sua attività ministeriale, non cercava mai la sua gloria, ma sempre quella di Suo Padre

Chi parla di suo cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che l’ha mandato, è veritiero e non vi è ingiustizia in lui (Giovanni 7:18).

Io non cerco la mia gloria; v’è uno che la cerca e che giudica (Giovanni 8:50).

Gesù rispose: «Se io glorifico me stesso, la mia gloria è nulla; chi mi glorifica è il Padre mio, che voi dite essere vostro Dio (Giovanni 8:54).

Infine, il compimento totale dell’opera del ministero di Gesù sulla terra, lo vediamo alla croce, quando Egli, pronunciò le ultime parole:

Quando Gesù ebbe preso l’aceto, disse: «È compiuto!» E, chinato il capo, rese lo spirito (Giovanni 19:30).

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Domenico34
00giovedì 22 marzo 2012 00:27
c) Il Cristo come un messaggero

Gesù Cristo, durante tutto il tempo della Sua permanenza sulla terra, si comportò come un vero messaggero, perché, in effetti, Egli era l’inviato del cielo, cioè, Chi portava un messaggio divino, ambasciata che il Padre gli aveva affidato, perché venisse proclamato in mezzo agli uomini. Profeticamente parlando, il profeta Isaia, prima che Gesù Cristo venisse sulla terra, aveva previsto quello che il Messia avrebbe fatto

«Io, il SIGNORE, ti ho chiamato secondo giustizia e ti prenderò per la mano; ti custodirò e farò di te l’alleanza del popolo, la luce delle nazioni (Isaia 42:6).

Che questa profezia si riferisca a Gesù Cristo, è abbastanza chiaro, soprattutto con riferimento all’alleanza del popolo e alla luce delle nazioni. Appare più chiara la visione, quando si ricordano le parole di Gesù:

Nella parabola dei malvagi vignaioli, il riferimento dell’invio del figlio, è un chiaro richiamo a Gesù Cristo.

Finalmente, mandò loro suo figlio, dicendo: "Avranno rispetto per mio figlio” (Matteo 21:37).

Anche le stesse parole di Gesù, in varie riprese, compresa la grande preghiera sacerdotale di Giovanni 17, danno più forza al ragionamento che stiamo facendo

Io lo conosco, perché vengo da lui, ed è lui che mi ha mandato» (Giovanni 7:29).

Gesù disse loro: «Se Dio fosse vostro Padre, mi amereste, perché io sono proceduto e vengo da Dio; infatti io non son venuto da me, ma è lui che mi ha mandato (Giovanni 8:42),

come mai a colui che il Padre ha santificato e mandato nel mondo, voi dite che bestemmia, perché ho detto: "Sono Figlio di Dio?" (Giovanni 10:36).
Poiché le parole che tu mi hai date le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute e hanno veramente conosciuto che io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.
Che siano tutti uno; e come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato
(Giovanni 17:8,21).

Per completare il quadro, ci penseranno gli apostoli Paolo e Giovanni:

quando giunse la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge (Galati 4:4),

In questo è l’amore: non che noi abbiamo amato Dio, ma che egli ha amato noi, e ha mandato suo Figlio per essere il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati (1Giovanni 4:10).

Questi testi che abbiamo riportato, sono abbastanza chiari da farci vedere Gesù, come il divino messaggero mandato dal cielo, sulla terra, in favore dell’umanità.

d) Le opere del Cristo

Per completare la sezione riguardante il ministero di Gesù sulla terra, ponderiamo alcuni testi che, qui di seguito, riportiamo.

Giovanni, avendo nella prigione udito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli:
«Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?»
Gesù rispose loro: «Andate a riferire a Giovanni quello che udite e vedete:
i ciechi ricuperano la vista e gli zoppi camminano; i lebbrosi sono purificati e i sordi odono; i morti risuscitano e il vangelo è annunciato ai poveri
(Matteo 11:2-5).

Allora egli prese a rimproverare le città nelle quali era stata fatta la maggior parte delle sue opere potenti, perché non si erano ravvedute (Matteo 11:20).

Recatosi nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga, così che stupivano e dicevano: «Da dove gli vengono tanta sapienza e queste opere potenti? (Matteo 13:54).

Venuto il sabato, si mise ad insegnare nella sinagoga; molti, udendolo, si stupivano e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? Che sapienza è questa che gli è data? E che cosa sono queste opere potenti fatte per mano sua? (Marco 6:2)

Quando fu vicino alla città, alla discesa del monte degli Ulivi, tutta la folla dei discepoli, con gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutte le opere potenti che avevano viste (Luca 19:37).

Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto, e non lo credete; le opere che faccio nel nome del Padre mio, sono quelle che testimoniano di me (Giovanni 10:25).

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Domenico34
00venerdì 23 marzo 2012 00:04
E cantavano il cantico di Mosè, servo di Dio, e il cantico dell’Agnello, dicendo: «Grandi e meravigliose sono le tue opere, o Signore, Dio onnipotente; giuste e veritiere sono le tue vie, o Re delle nazioni (Apocalisse 15:3).

e) Il peso del dovere


Sotto questa voce, vogliamo mettere in evidenza l’importanza del dovere, a proposito del ministero dei discepoli di Gesù. Il ministero di Gesù, così come l’abbiamo tratteggiato, ci serve come modello. In esso i suoi discepoli di tutti i tempi, si possono rispecchiare, per meglio valorizzare il mandato ricevuto da Dio e comportarsi in merito.

Non sempre quelli che compiono il ministero ricevuto da Dio, vengono risparmiati da critiche. A volte, ci sono addirittura ferme ostilità, che scoraggiano i meglio intenzionati, portandoli alle volte sul punto di rinunciare al mandato divino e finirla con l’opera del ministero. Il profeta Geremia, è un classico esempio dell’antichità.

Se dico: «Io non lo menzionerò più, non parlerò più nel suo nome», c’è nel mio cuore come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzo di contenerlo, ma non posso (Geremia) 20:9).

Perché Geremia si esprimeva in quei termini? Era forse per l’incerto che il suo ministero profetico gli era stato dato da Dio? No, certamente! Egli non aveva nessun'incertezza riguardante la sua missione; sapeva che Dio lo aveva costituito profeta delle nazioni, addirittura prima della sua nascita (Geremia 1:5). Ma le ostilità che incontrava nel popolo quando proclamava la parola del Signore, lo portarono allo scoraggiamento, e, se non ci fosse stato il fuoco divino, che bruciava dentro di se, avrebbe preso la drastica decisione di farla finita con l’opera del ministero.

Le ostilità o i contrasti che si incontrano nell’espletamento del ministero, non devono essere mai interpretati come se fossero sinonimi, di non essere nel centro della volontà divina. Al contrario, spesso devono servire come “segni” rivelatori, di trovarci sul sentiero della volontà del Signore (cfr. Luca 2:34).

Gli apostoli, ci forniscono degli esempi mirabili, e, nello stesso tempo, ci fanno vedere, il peso del dovere, che avvertivano dentro di loro, nonostante che le cose non andassero nel giusto verso.

Quanto a noi, non possiamo non parlare delle cose che abbiamo viste e udite» (Atti 4:20).

Quando poi Sila e Timoteo giunsero dalla Macedonia, Paolo si dedicò completamente alla Parola, testimoniando ai Giudei che Gesù era il Cristo (Atti 18:5).

Se Paolo si comportava in quel modo, era essenzialmente perché aveva compreso che c’era una necessità divina, che pesava su di lui.

Se evangelizzo, non devo vantarmi, poiché necessità me n’è imposta; e guai a me, se non evangelizzo! (1Corinzi 9:16).

Ed ecco che ora, legato dallo Spirito, vado a Gerusalemme, senza sapere le cose che là mi accadranno.
So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni.
Ma non faccio nessun conto della mia vita, come se mi fosse preziosa, pur di condurre a termine con gioia la mia corsa e il servizio affidatomi dal Signore Gesù, cioè di testimoniare del vangelo della grazia di Dio
(Atti 20:22-24).

f) Rimanere fermi

Nell’espletamento dell’opera del ministero, di fronte alle varie ostilità e contrasti che si possono incontrare, bisogna rimanere fermi. I seguenti testi ci aiutano maggiormente a capire l’aspetto di quest'argomento, anche se, non hanno in vista la fermezza nell’opera del ministero. Applicandoli, però, si possono agevolmente ricavare benefici, soprattutto con la consapevolezza che serviranno per ispirare tutti quelli che sono impegnati nelle varie attività ministeriali.

…Senza mischiarvi con queste nazioni che rimangono tra voi; non pronunciate neppure il nome dei loro dèi, non ne fate uso nei giuramenti; non li servite e non vi prostrate davanti a loro;
ma tenetevi stretti al SIGNORE, che è il vostro Dio, come avete fatto fino a oggi
(Giosuè 23:7-8).

…non ve ne allontanate, perché andreste dietro a cose vane, che non possono giovare né liberare, perché sono cose vane (1Samuele 12:21).

Quand’egli giunse e vide la grazia di Dio, si rallegrò, e li esortò tutti ad attenersi al Signore con cuore risoluto (Atti 11:23).

fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore (1Corinzi 15:58).

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Domenico34
00sabato 24 marzo 2012 00:19
Cristo ci ha liberati perché fossimo liberi; state dunque saldi e non vi lasciate porre di nuovo sotto il giogo della schiavitù (Galati 5:1).

…affinché non siamo più come bambini sballottati e portati qua e là da ogni vento di dottrina per la frode degli uomini, per l’astuzia loro nelle arti seduttrici dell’errore;
ma, seguendo la verità nell’amore, cresciamo in ogni cosa verso colui che è il capo, cioè Cristo
(Efesini 4:14-15).

comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo (Filippesi 1:27).

fratelli miei cari e desideratissimi, allegrezza e corona mia, state in questa maniera saldi nel Signore, o diletti! (Filippesi 4:1).

…di non lasciarvi così presto sconvolgere la mente, né turbare sia da pretese ispirazioni, sia da discorsi, sia da qualche lettera data come nostra, come se il giorno del Signore fosse già presente (2Tessalonicesi 2:2).

…Resistetegli stando fermi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze affliggono i vostri fratelli sparsi per il mondo (1Pietro 5:9).

Voi dunque, carissimi, sapendo già queste cose, state in guardia per non essere trascinati dall’errore degli scellerati e scadere così dalla vostra fermezza (2Pietro 3:17).

g) Le attività spirituali svolte con zelo e con diligenza


I seguenti testi, illustrano chiaramente che le varie attività spirituali devono essere svolte con zelo e con diligenza.

Figli miei, non siate negligenti; perché il SIGNORE ha scelto voi affinché stiate davanti a lui per servirlo, per essere suoi ministri, e per offrirgli incenso» (2 Cronache 29:11).

sii forte, Zorobabel", dice il SIGNORE, "sii forte, Giosuè, figlio di Iosadac, sommo sacerdote; sii forte, popolo tutto del paese", dice il SIGNORE! "Mettetevi al lavoro! Perché io sono con voi," dice il SIGNORE degli eserciti (Aggeo 2:4).

Quanto allo zelo, non siate pigri; siate ferventi nello spirito, servite il Signore (Romai 12:11).

…anche voi, poiché siete desiderosi di capacità spirituali, cercate di abbondarne per l’edificazione della chiesa (1Corinzi 14:12).

Ora è una buona cosa essere in ogni tempo oggetto dello zelo altrui nel bene, e non solo quando sono presente tra di voi (Galati 4:18).

Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te mediante l’imposizione delle mie mani (2 Timoteo 1:6).

ritengo che sia giusto, finché sono in questa tenda, di tenervi desti con le mie esortazioni (2 Pietro 1:13).

Carissimi, avendo un gran desiderio di scrivervi della nostra comune salvezza, mi sono trovato costretto a farlo per esortarvi a combattere strenuamente per la fede, che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre (Giuda 3).

Tutti quelli che amo, io li riprendo e li correggo; sii dunque zelante e ravvediti (Apocalisse 3:19).

Tutto quello che è comandato dal Dio del cielo sia puntualmente fatto per la casa del Dio del cielo. Perché infatti l’ira di Dio dovrebbe riversarsi sopra il regno, sul re e i suoi figli? (Esdra 7:23).

Io poi, i miei fratelli, i miei giovani e gli uomini di guardia che mi seguivano, non ci spogliavamo; ognuno teneva le armi a portata di mano (Neemia 4:17).

…se di esortazione, all’esortare; chi dà, dia con semplicità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le faccia con gioia (Romani 12:8).

desideriamo che ciascuno di voi dimostri sino alla fine il medesimo zelo per giungere alla pienezza della speranza (Ebrei 6:11).

fratelli, impegnatevi sempre di più a render sicura la vostra vocazione ed elezione; perché, così facendo, non inciamperete mai (2Pietro 1:10).

carissimi, aspettando queste cose, fate in modo di essere trovati da lui immacolati e irreprensibili nella pace (2 Pietro 3:14).

Si continuerà il prossimo giorno…
Domenico34
00domenica 25 marzo 2012 00:04
PROMESSE PER GLI OPERAI DI DIO

Non possiamo chiudere questo capitolo, senza parlare delle promesse per gli operai di Dio. Lo facciamo, con i seguenti passaggi biblici:

I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento e quelli che avranno insegnato a molti la giustizia risplenderanno come le stelle in eterno (Daniele 12:3).

Qual è mai il servo fedele e prudente che il padrone ha costituito sui domestici per dare loro il vitto a suo tempo?
Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà così occupato!
Io vi dico in verità che lo costituirà su tutti i suoi beni
(Matteo 24:45-47).

Chiunque vi avrà dato da bere un bicchiere d’acqua nel nome mio, perché siete di Cristo, in verità vi dico che non perderà la sua ricompensa (Marco 9:41).

Il mietitore riceve una ricompensa e raccoglie frutto per la vita eterna, affinché il seminatore e il mietitore si rallegrino insieme (Giovanni 4:36).

Ora, colui che pianta e colui che annaffia sono una medesima cosa, ma ciascuno riceverà il proprio premio secondo la propria fatica.
Se l’opera che uno ha costruita sul fondamento rimane, egli ne riceverà ricompensa
(1Corinzi 3:8,14).

Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore (1Corinzi 15:58).

…sapendo che ognuno, quando abbia fatto qualche bene, ne riceverà la ricompensa dal Signore, servo o libero che sia (Efesini 6:8).

Dio, infatti, non è ingiusto da dimenticare l’opera vostra e l’amore che avete dimostrato per il suo nome con i servizi che avete resi e che rendete tuttora ai santi (Ebrei 6:10).

chi guarda attentamente nella legge perfetta, cioè nella legge della libertà, e in essa persevera, non sarà un ascoltatore smemorato ma uno che la mette in pratica; egli sarà felice nel suo operare (Giacomo 1:25).

Di fronte a tutti i testi che abbiamo citato, la domanda che poniamo, si impone d’obbligo: su che cosa è basata la tua credenza? Se la tua credenza è basata su quello che Dio dice nella Sua Parola, agirai e ti comporterai in base ad essa; mentre, se è basata su quello che tu pensi sia migliore, ti comporterai ed agirai con riferimento a ciò. Poiché non tutto quello che l’uomo pensa è migliore, e sempre in armonia con la Parola del Signore, conviene credere alla Parola di Dio, e comportarsi ed agire con riferimento ad essa.

PS: Se al termine del capitolo 1 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura



Capitolo 2




LA DIMOSTRAZIONE BIBLICA



Per essere valida la nostra affermazione, cioè che l’uomo si comporta ed agisce in conformità a quello che crede, è necessario provarlo con la Parola di Dio. Per fornire questa dimostrazione, ci serviamo di un racconto evangelico, precisamente quello concernente le donne che vanno al sepolcro, per imbalsamare il corpo di Gesù.

Passato il sabato, Maria Maddalena, Maria, madre di Giacomo, e Salome comprarono degli aromi per andare ad ungere Gesù (Marco 16:1). ...per andare ad imbalsamare Gesù (N. Diodati).
il primo giorno della settimana, la mattina prestissimo, esse si recarono al sepolcro, portando gli aromi che avevano preparati.
E trovarono che la pietra era stata rotolata dal sepolcro.
Ma quando entrarono non trovarono il corpo del Signore Gesù.
Mentre se ne stavano perplesse di questo fatto, ecco che apparvero davanti a loro due uomini in vesti risplendenti;
tutte impaurite, chinarono il viso a terra; ma quelli dissero loro: «Perché cercate il vivente tra i morti?
Egli non è qui, ma è risuscitato; ricordate come egli vi parlò quand’era ancora in Galilea,
dicendo che il Figlio dell’uomo doveva essere dato nelle mani di uomini peccatori ed essere crocifisso, e il terzo giorno risuscitare».
Esse si ricordarono delle sue parole.
Tornate dal sepolcro, annunziarono tutte queste cose agli undici e a tutti gli altri.
Quelle che dissero queste cose agli apostoli erano: Maria Maddalena, Giovanna, Maria, madre di Giacomo, e le altre donne che erano con loro.
Quelle parole sembrarono loro un vaneggiare e non prestarono fede alle donne.
Ma Pietro, alzatosi, corse al sepolcro; si chinò a guardare e vide solo le fasce; poi se ne andò, meravigliandosi dentro di sé per quello che era avvenuto
(Luca 24:1-12).

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Domenico34
00lunedì 26 marzo 2012 00:09
a) Gesù parla della Sua morte e della Sua resurrezione

In varie riprese, prima che venisse condannato a morte, Gesù parlò ai suoi discepoli della Sua morte e della Sua resurrezione.
Ci sono cinque testi, nel Nuovo Testamento, che parlano di ciò. Li riportiamo così come sono stati registrati nei vangeli sinottici.

Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molte cose da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti, degli scribi, ed essere ucciso, e risuscitare il terzo giorno (Matteo 16:21).

…e lo consegneranno ai pagani perché sia schernito, flagellato e crocifisso; e il terzo giorno risusciterà» (Matteo 20:19).

Infatti, egli istruiva i suoi discepoli, dicendo loro: «Il Figlio dell’uomo sta per essere dato nelle mani degli uomini ed essi l’uccideranno; ma tre giorni dopo essere stato ucciso, risusciterà» (Marco 9:31).

…i quali lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e l’uccideranno; ma, dopo tre giorni, egli risusciterà» (Marco 10:34).

«Bisogna che il Figlio dell’uomo soffra molte cose e sia respinto dagli anziani, dai capi dei sacerdoti, dagli scribi, sia ucciso, e risusciti il terzo giorno» (Luca 9:22).

Attraverso questi interventi diretti, Gesù, mise al corrente i Suoi discepoli, che Egli sarebbe messo a morte dagli uomini, ma il terzo giorno sarebbe risuscitato. Anche se la Scrittura afferma che i Suoi, non compresero quel parlare, ciò non toglie però che Egli ne abbia parlato chiaramente, e non in forma di parabola.

… Essi tennero per sé la cosa, domandandosi tra di loro che significasse quel risuscitare dai morti (Marco 9:10).
… Perché non avevano ancora capito la Scrittura, secondo la quale egli doveva risuscitare dai morti
(Giovanni 20:9).

b) Una domanda

Il messaggio della morte e della risurrezione di Gesù, venne comunicato ai Suoi discepoli. Le donne, non vengono menzionate nei cinque testi riportati. Erano presenti quando Gesù ne parlò, oppure venne loro riferito?

Non ha nessun'importanza stabilire se le donne hanno sentito parlare Gesù della Sua morte e della Sua risurrezione, o se è stato loro riferito dai discepoli. Quello che ha valore, per quello che stiamo dicendo, è che loro erano a conoscenza. Luca, riportando le parole dei due uomini in vesti risplendenti, ci fornisce la prova: Ricordate come lui vi parlò... (v 6). Esse si ricordarono delle sue parole, (v. 8), visto che le avevano dimenticate.

c) I preparativi per imbalsamare Gesù

I preparativi per imbalsamare Gesù, li fecero le donne (cfr. Marco 16:1; Luca 23:53).

Per quello che ci proponiamo, non ha importanza stabilire il numero delle donne che andarono al sepolcro e i loro nomi. Le discussioni che gli esegeti hanno fatto, nel commentare l’episodio della risurrezione di Gesù, visto che gli evangeli non sono unanimi nel raccontare l’evento, soprattutto per quanto riguarda le donne, li lasciamo a loro; a noi interessa mettere in luce, quello che esse fecero.

Che le donne menzionate nel racconto evangelico, non si siano recate al sepolcro per fare una semplice visita, è dimostrato dagli aromi e dagli unguenti che comprarono. Se nella loro intenzione ci fosse stata semplicemente il pensiero di fare una visita al sepolcro, come segno di affetto e di simpatia, secondo l’usanza che vigeva in quei tempi, presso i Giudei, non ci sarebbe stato nessun bisogno di preparare quegli aromi e quegli unguenti. Il fatto poi che loro sapevano che una grande pietra era stata posta sull’apertura del sepolcro, e, pensando ad essa, giustamente si domandavano: «Chi ci rotolerà la pietra dall’apertura del sepolcro?» (Marco 16:3). Questo modo di parlare, sta a dimostrare che la loro reale intenzione era di “entrare nel sepolcro”, per versare sopra il corpo di Gesù, gli aromi e gli unguenti che avevano preparato. I loro preparativi e il loro piano, erano essenzialmente intenti per imbalsamare Gesù. Che poi i loro piani non si attuarono, non fu perché vennero meno i loro propositi, ma solamente perché Gesù, nel frattempo, era risuscitato dai morti.

Stando al racconto di Luca, quando le donne arrivarono al sepolcro, vedendo che la pietra era stata rotolata dal sepolcro, entrarono, ma non trovarono il corpo del Signore Gesù. Però, il fatto stesso che esse entrarono, rappresenta un’ulteriore prova, che la loro effettiva intenzione, era quella di imbalsamare il corpo di Gesù. Ora, tenendo presente che le donne, sapevano della morte e della risurrezione di Gesù, si impone d’obbligo, una domanda: la loro è stata una pura dimenticanza, o mette in evidenza la loro incredulità a quell’evento straordinario? Dal modo come si comportarono e come agirono, possiamo vedere la seguente verità:

Le persone che credono ad una cosa, si comportano ed agiscono con riferimento a quello che credono. L’agire dell’uomo, rivela se crede o no. Questa è una verità incontestabile, di portata universale.

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Domenico34
00martedì 27 marzo 2012 00:06
Se le donne avessero realmente creduto alla risurrezione di Gesù, non si sarebbero interessate a comprare gli aromi e gli unguenti; non sarebbero andate al sepolcro, perché appunto il loro Gesù, aveva parlato chiaramente della Sua risurrezione. Ai fini pratici, che cosa avrebbero dovuto fare? Semplicemente aspettare il compimento del terzo giorno! Non erano solamente gli uomini-discepoli, che non credevano alla risurrezione di Gesù; lo erano anche le donne, nonostante che loro amassero grandemente il loro maestro.

ALCUNI ESEMPI PER CAPIRE MEGLIO LA VERITÀ

Per meglio capire ed approfondire la verità suesposta, facciamo degli esempi (ognuno potrà allungare la lista).

1) Credere il giorno della resa dei conti


Se si crede che ci sarà un giorno nel quale tutti dovranno rendere conto, cioè, si dovrà rendere conto di quello che si sarà fatto, ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio (Romani 14:12) e di ogni oziosa parola che si avrà detta;

Io vi dico che di ogni parola oziosa che avranno detta, gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio;
poiché in base alle tue parole sarai giustificato, e in base alle tue parole sarai condannato»
(Matteo 12:36-37);

la conseguenza logica di questa credenza, sarà che l’uomo si comporterà ed agirà in maniera consona a quello che crede; cioè, farà del tutto per evitare di compiere azioni cattive e deplorevoli e farà del suo meglio per non usare un parlare ozioso. Mentre, per chi non crede a quello che dice il Signore, il suo comportamento e il suo agire, sarà tutto diverso.

2) Credere che si commette peccato quando si ha la possibilità di fare del bene e non si fa

Se si crede che si commette peccato quando si ha la possibilità di fare del bene e non si fa,

Chi dunque sa fare il bene e non lo fa, commette peccato (Giacomo 4:17),

l’agire sarà in riferimento a quello che si crede. Ovviamente, chi crede a questo detto della Scrittura, non farà finta di non capire, quando si presenterà l’occasione di fare del bene a chi ne ha bisogno; anzi sarà spinto ad essere generoso e largo nel donare. Mentre, se non si crede a ciò, l’egoismo e l’avarizia, (che sono insiti nella natura umana), avranno il sopravvento sulle decisioni che si prenderanno, rendendo l’essere umano indifferente e inoperoso.

3) Credere che la salvezza si ha solamente per mezzo di Gesù

Se si crede che la salvezza si ha solamente per mezzo di Gesù, secondo quello che afferma la Parola di Dio:

In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati» (Atti 4:12), e per la fede in lui.
Infatti, è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio.
Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti
(Efesini 2:8-9),

l’azione dell’uomo sarà in riferimento a quello che crede. Credendo che Gesù è il solo mediatore tra Dio e l’uomo,

infatti, c’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo (1Timoteo 2:5),

l’essere umano, non andrà in cerca di altri mediatori, ammesso che riuscisse a trovarne; si atterrà a quello che afferma la Scrittura. L’agire e il comportamento di quella persona, sarà incontestabilmente, in riferimento a quello che crede. Sia che ci creda in modo giusto o sbagliato, la persona sarà orientata ad agire, in base alla propria convinzione, cioè alla propria credenza.

Ecco perché, in mezzo alla società di tutti i tempi, ci sono stati e ci saranno, i diversi orientamenti e le svariate azioni, (in materia religiosa, poiché è su quest'argomento che maggiormente insistiamo) perché ognuno agisce, secondo com'è stato educato e a misura che ha creduto a quello che gli è stato insegnato.

Una persona che crede che si può essere salvato, senza dover credere in Cristo Gesù, ed accettarlo nella propria vita, come il suo Salvatore, sarà orientato a rimanere indifferente davanti all’offerta di salvezza, in Cristo, e attenersi a quello che crede, cioè che si può essere salvati anche senza Cristo. Per chi sarà, invece, fermamente ancorato, su quello che afferma la Parola di Dio, è una pura illusione e un inganno del diavolo, credere che si possa essere salvati senza Cristo Gesù. Il fatto stesso che si creda che Dio ha dato all’umanità, il Suo unico Figlio, come mezzo di salvezza e di riscatto, preclude ogni altra alternativa; di conseguenza, l’individuo, agirà in conformità a quello che crede fermamente, basandosi sull’autorità della Parola del Signore.

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Domenico34
00mercoledì 28 marzo 2012 13:44
Quelli che credono che, la salvezza si ottiene mediante le “buone opere”, fanno a gara per produrne il maggior numero possibile, in mancanza delle quali, c’è poca certezza di ottenerla. Come si può ben vedere, ognuno è guidato nelle scelte che fa, non tanto seguendo la prassi comune, cioè comportarsi come si comportano gli altri, o la maggioranza, ma secondo il tipo di credenza che possiede. Certamente, per quelli che tengono la Parola di Dio, come norma divina per tutti e per tutto, senza fare nessuna discriminazione, non conta tanto quello che pensa l’uomo: conta solamente quello che dice Dio.

Dal momento che, la salvezza è un dono divino, secondo quello che il Signore ha stabilito, e che l’ha procurata Gesù Cristo, mediante il sacrificio di se stesso, morendo sulla croce per tutti gli uomini, non ci sono varie alternative per riceverla. C’è una sola possibilità, che conta ed ha valore: quello che Dio indica nella Sua Parola, cioè credere in Cristo Gesù ed accettarlo come il proprio personale Salvatore. Tutte le altre alternative che l’uomo ha inventato e che ha messo a disposizione, a buon mercato, credendole valide, non sono altro che palliativi, inganni e illusioni di Satana.
Siccome l’uomo non può fare assolutamente niente per la propria salvezza, né procurarsi il prezzo del proprio riscatto (Salmo 49:7), conviene ascoltare Dio, in quello che Egli ci dice, tramite la Sua Parola, la Bibbia. Comportandoci ed agendo nel modo indicato dal Signore, cioè, ponendo la propria fede in Cristo Gesù, si ha la certezza che: chi crede del Figlio, ha la propria salvezza, (Giovanni 3:16,17) cioè la vita eterna (1Giovanni 5:11,13).

4) Credere che Gesù è con noi tutti i giorni


Se si crede che Gesù è con noi tutti i giorni:
Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente (Matteo 28:20,

Anche in quelli in cui si attraversa la valle dell’ombra della morte:

Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte, io non temerei alcun male, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga mi danno sicurezza (Salmo 23:4),

si hanno tutte le ragioni per comportarsi ed agire in conformità a ciò che si crede.

La promessa di Gesù, contenuta in (Matteo 28:20), è rivolta a tutti i credenti di qualsiasi epoca. Se si dovesse pensare che le parole di Gesù, erano per i soli apostoli, del suo tempo, ogni credente che non rientra in quell’epoca, verrebbe categoricamente escluso, con disastrose conseguenze per la vita cristiana. Mentre, se si accetta che la promessa di Gesù è per tutti i Suoi seguaci di ogni tempo, tutti potranno ricavarne grandi benefici. Sul piano pratico, a volte si sente ripetere: “Non sento la presenza di Gesù nella mia vita”. A quest'angosciosa constatazione, rispondiamo in maniera ferma: “Non devi sentire la presenza di Gesù nella tua vita; devi solamente crederla”. Se si crederà alla veracità e all’attualità della parola di Gesù, senza esitazione di sorta, allora si potrà sperimentare la fedeltà della Sua parola.

Una delle tante strategie che il diavolo usa per inquinare la serenità dei figli di Dio, è seminare nei loro cuori, il dubbio; oppure, far credere che quella promessa non è per loro, ma per altri. Quando Satana riesce a convincere il credente che, Gesù non è con lui, ha fatto il suo lavoro; di conseguenza, il fedele rimane solo nel cammino della sua vita, specie quando viene a trovarsi in mezzo a prove e a difficoltà di ogni genere. Subire lo smacco dello scoraggiamento, e a volte, anche quello della disperazione, non sarà difficile. Ma se il credente fa sua la promessa di (Matteo 28:20), da essa ricaverà tutto quello di cui ha bisogno, sia per affrontare le varie situazioni dell’esistenza umana, come anche per rimanere fermo nella fede, e non essere travolto dalle onde furiose delle varie circostanze.

Con la certezza che il Signore è con noi, si possono affrontare le più difficili situazioni; superare gli affronti più spietati del nemico; vincere le più aspre e impegnative battaglie, e, nello stesso tempo cantare l’inno del vincitore:
Se Dio è per noi chi sarà contro di noi? (Romani 8:31).

Siccome i giorni del cristiano non sono tutti uguali, nel senso che, non sempre il sole brilla sul nostro orizzonte, e non sempre il mare della vita è calmo, ma spesso si agita furiosamente, e a volte, la stessa salute fisica, viene tartassata, nel senso che possono piombare addosso malattie e sofferenze, di ogni genere, quando ciò accade, credere che il Signore è con noi, significa comportarsi ed agire con la certezza che non siamo soli in quelle circostanze.

Non credete a quelli che predicano che, se uno ha fede nel Signore, non soffrirà mai di malattie nella sua vita; non andrà incontro alle varie sofferenze fisiche. Tutto sarà, come si dice in gergo: rosa e fiori. Questo insegnamento, non è quello che la Bibbia contiene. Non è il messaggio di Dio, ma è un chiaro traviamento dell’insegnamento biblico.

Ricordiamoci sempre che i figli di Dio, i santi di Cristo Gesù, anche quelli che spiccano sugli altri per la loro alta spiritualità, a volte non vengono risparmiati da certe esperienze dolorose. L’apostolo Paolo può essere preso com'esempio.

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Domenico34
00giovedì 29 marzo 2012 00:04
Nessuno, ripeto, mi prenda per pazzo; o se no, accettatemi anche come pazzo, affinché anch’io possa vantarmi un po’.
Quel che dico quando mi vanto con tanta sicurezza, non lo dico secondo il Signore, ma come se fossi pazzo.
Poiché molti si vantano secondo la carne, anch’io mi vanterò.
Or voi, pur essendo savi, li sopportate volentieri i pazzi!
Infatti, se uno vi riduce in schiavitù, se uno vi divora, se uno vi prende il vostro, se uno s’innalza sopra di voi, se uno vi percuote in faccia, voi lo sopportate.
Lo dico a nostra vergogna, come se noi fossimo stati deboli; eppure, qualunque cosa uno osi pretendere (parlo da pazzo), oso pretenderla anch’io.
Sono Ebrei? Lo sono anch’io. Sono Israeliti? Lo sono anch’io. Sono discendenza d’Abraamo? Lo sono anch’io.
Sono servitori di Cristo? Io (parlo come uno fuori di sé), lo sono più di loro; più di loro per le fatiche, più di loro per le prigionie, assai più di loro per le percosse subite. Spesso sono stato in pericolo di morte.
Dai Giudei cinque volte ho ricevuto quaranta colpi meno uno;
tre volte sono stato battuto con le verghe; una volta sono stato lapidato; tre volte ho fatto naufragio; ho passato un giorno e una notte negli abissi marini.
Spesso in viaggio, in pericolo sui fiumi, in pericolo per i briganti, in pericolo da parte dei miei connazionali, in pericolo da parte degli stranieri, in pericolo nelle città, in pericolo nei deserti, in pericolo sul mare, in pericolo tra falsi fratelli;in fatiche e in pene; spesse volte in veglie, nella fame e nella sete, spesse volte nei digiuni, nel freddo e nella nudità.
Oltre a tutto il resto, sono assillato ogni giorno dalle preoccupazioni che mi vengono da tutte le chiese
(2 Corinzi 11:16-28).

E perché io non avessi a insuperbire per l’eccellenza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un angelo di Satana, per schiaffeggiarmi affinché io non insuperbissi.
Tre volte ho pregato il Signore perché l’allontanasse da me;
ed egli mi ha detto: «La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza». Perciò molto volentieri mi vanterò piuttosto delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo riposi su di me.
Per questo mi compiaccio in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecuzioni, in angustie per amor di Cristo; perché, quando sono debole, allora sono forte
(2 Corinzi 12:7-10).

Voi non mi faceste torto alcuno; anzi sapete bene che fu a motivo di una malattia che vi evangelizzai la prima volta;
e quella mia infermità, che era per voi una prova, voi non la disprezzaste né vi fece ribrezzo; al contrario mi accoglieste come un angelo di Dio, come Cristo Gesù stesso
(Galati 4:13-14).

Davanti ad un simile scenario, il comportamento e l’agire, sarà senza dubbio a proposito di ciò che si crede.

La valle dell’ombra della morte, stando all’autore del “Pellegrinaggio del cristiano”, è quel luogo in cui, non ci sono solo tenebre e oscurità, ma anche dove si sentono le varie voci di spiriti infernali, che incutono terrore. In quella circostanza, non serve impugnare una spada per combattere, perché, in effetti, non si vede nessuno con cui lottare; serve l’arma della fiducia e della certezza che Dio e con noi. In quelle difficili situazioni, si possono cantare le parole del Salmo:

Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso (Salmo 27:3).

Oppure:
Certo egli ti libererà dal laccio del cacciatore e dalla peste micidiale.
Egli ti coprirà con le sue penne e sotto le sue ali troverai rifugio. La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza.
Tu non temerai gli spaventi della notte, né la freccia che vola di giorno,
né la peste che vaga nelle tenebre, né lo sterminio che imperversa in pieno mezzogiorno.
Mille ne cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra; ma tu non ne sarai colpito
(Salmo 91:3-7).

Con questa certezza nella mente e nel cuore, per chi crede che, quando si attraversa la valle dell’ombra della morte, non c’è di aver paura, perché il Signore è con il credente, il comportamento e l’agire, saranno, senza dubbio, in conformità a ciò che si crede!

5) Credere che se non si perdona non si può ricevere il perdono


Se si crede che se non si perdona, non si può essere perdonati, secondo l’autorevole parola di Gesù:

Rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori;
e non ci esporre alla tentazione, ma liberaci dal maligno. Perché a te appartengono il regno, la potenza e la gloria in eterno, amen."
Perché se voi perdonate agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi;
ma se voi non perdonate agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.
Così vi farà anche il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello»
((Matteo 6:12-15; 18:35).

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Domenico34
00venerdì 30 marzo 2012 00:19
Una simile precisazione, non lascia spazi a nessuna alternativa: se si perdona, si riceve il perdono; se non si perdona, non si ottiene il perdono. Davanti a una precisione dogmatica di questo genere, non solo non esistono diverse soluzioni, ma lo stesso futuro, cioè l’eternità, è subordinata alla scelta che si farà. Che il testo suesposto riguardi l’eternità, e non miri solamente al tempo della dimora sulla terra, non c’è nessun dubbio. Inoltre, i due testi di Matteo, fanno chiaramente riferimento a due diverse realtà: una riguarda “gli uomini”, e l’altra “i fratelli”. Il perdono di cui si parla, non è diverso nella sua struttura, sia che riguardi il primo caso, come anche il secondo; sono diversi i soggetti a cui è destinato.

Per gli “uomini”, Gesù si riferiva, senza dubbio, a tutte quelle persone che sono al di fuori del cerchio dei Suoi seguaci, cioè che non appartengono ai credenti, cioè che non sono membri della famiglia di Dio. In termini moderni si direbbe: tutti quelli che non sono convertiti. Il riferimento al perdono, si trova alla fine della preghiera che Gesù insegnò ai Suoi discepoli, cioè il “Padre nostro”. Tenuto conto che in questa preghiera, il credente chiede al Padre celeste il perdono dei propri debiti, cioè dei propri peccati, come anche lui perdona ai propri debitori, era l’occasione propizia per insegnare la verità riguardante il perdono, dal punto di vista pratico. Infatti, una cosa è pregare che i peccati, o come precisa il testo “le offese”, (N. Diodati) siano perdonate, e ben altro è che l’orante perdoni le offese degli uomini.

Nel caso specifico, sono gli “uomini” che hanno recato offese al credente, e non il fedele agli uomini. Visto che il credente ha ricevuto questo torto, (prima della conversione, o dopo?), deve essere lo stesso a perdonare. Se per “uomini”, Gesù intendeva parlare degli inconvertiti (e non vediamo come possa avere un diverso significato), l’iniziativa di perdonare, non poteva essere affidata a quest’ultimi, in quanto gli inconvertiti, non hanno quella sensibilità che deriva loro dalla conoscenza della verità, mentre il credente la possiede, di conseguenza deve essere lui a fare il passo, e dimostrare all’inconvertito, dal punto di vista pratico, la differenza che c’è tra chi conosce la verità e chi l’ignora.

Notate che Gesù non dà un comando al suo discepolo; si limita a consigliarlo. Però, nell’eventualità che il discepolo respinga la Sua parola, deve prendere atto che, a sua volta, lo stesso Padre celeste, al qual è stata avanzata la richiesta di perdonare il proprio debito = peccato, sarà Colui che non concederà il perdono al richiedente. Come si può notare, non è una cosa di poca importanza, ma riveste una tale portata, che tocca da vicino l’eternità, cioè il destino per la vita d’oltretomba.

L’altro caso invece, riguarda i “fratelli”, cioè i credenti della stessa fede. Qui il discorso è tutto diverso, rispetto al precedente caso, per il semplice fatto che si tratta di pensare a persone della stessa fede. Trattandosi di fratelli in fede, (non necessariamente della stessa chiesa o comunità), si possono applicare le parole di Paolo:

Siate benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda come anche Dio vi ha perdonati in Cristo (Efesini 4:32).

Infatti, il credente sà, per propria esperienza, che il perdono che Dio gli ha concesso, gli è stato accordato in Cristo, cioè per i Suoi meriti. Di conseguenza, non può pensare che si tratti di un atto meritorio, ma unicamente per la grazia divina. E, visto che si tratta di un atto della misericordia di Dio, il credente deve tenere presente che la stessa bontà che il Signore ha avuto per lui, lui deve usarla nei confronti degli altri. A questo punto, la parabola del creditore spietato, secondo il testo dell’evangelista Matteo, si adatta benissimo, per farci comprendere il comportamento che deve tenere chi è stato beneficato dalla bontà del Signore.

«Se tuo fratello ha peccato contro di te, va’ e convincilo fra te e lui solo. Se ti ascolta, avrai guadagnato tuo fratello;
ma, se non ti ascolta, prendi con te ancora una o due persone, affinché ogni parola sia confermata per bocca di due o tre testimoni.
Se rifiuta d’ascoltarli, dillo alla chiesa; e, se rifiuta d’ascoltare anche la chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano.
Io vi dico in verità che tutte le cose che legherete sulla terra, saranno legate nel cielo; e tutte le cose che scioglierete sulla terra, saranno sciolte nel cielo.
E in verità vi dico anche: se due di voi sulla terra si accordano a domandare una cosa qualsiasi, quella sarà loro concessa dal Padre mio che è nei cieli.
Poiché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».
Allora Pietro si avvicinò e gli disse: «Signore, quante volte perdonerò mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?»
E Gesù a lui: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Perciò il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi.
Avendo cominciato a fare i conti, gli fu presentato uno che era debitore di diecimila talenti.
E poiché quello non aveva i mezzi per pagare, il suo signore comandò che fosse venduto lui con la moglie e i figli e tutto quanto aveva, e che il debito fosse pagato.
Perciò il servo, gettatosi a terra, gli si prostrò davanti, dicendo: "Abbi pazienza con me e ti pagherò tutto".
Il signore di quel servo, mosso a compassione, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Ma quel servo, uscito, trovò uno dei suoi conservi che gli doveva cento denari; e, afferratolo, lo strangolava, dicendo: "Paga quello che devi!"
Perciò il conservo, gettatosi a terra, lo pregava dicendo: "Abbi pazienza con me, e ti pagherò".

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Domenico34
00sabato 31 marzo 2012 00:03
Ma l’altro non volle; anzi andò e lo fece imprigionare, finché avesse pagato il debito.
I suoi conservi, veduto il fatto, ne furono molto rattristati e andarono a riferire al loro signore tutto l’accaduto.
Allora il suo signore lo chiamò a sé e gli disse: "Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito, perché tu me ne supplicasti;
non dovevi anche tu aver pietà del tuo conservo, come io ho avuto pietà di te?"
E il suo signore, adirato, lo diede in mano degli aguzzini fino a quando non avesse pagato tutto quello che gli doveva.
Così vi farà anche il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello»
(Matteo 18:15-35).

L’evangelista Luca, dal canto suo aggiunge: se ha peccato contro di te sette volte al giorno, e sette volte torna da te e ti dice: "Mi pento", perdonalo» (Luca 17:4).

L’unica condizione che non permette di “perdonare”, è il mancato “pentimento” da parte di chi ha fatto l’offesa. Se questo, però c’è, (non importa se il “fratello pecca sette volte al giorno”); l’altro fratello, è tenuto, per comando del Signore, a perdonare; perché, se non lo farà, neanche il Padre celeste, perdonerà i suoi peccati. Come si può ben notare, l’argomento è molto serio e impegna da vicino, tutti i discepoli di Gesù, a qualsiasi livello appartengono.

A questo punto, fare una domanda che riguarda il “tipo” di peccati da perdonare, s’impone d’obbligo. Quali sono i peccati che si possono perdonare e quelli per i quali non è previsto nessun atto di clemenza?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo innanzi tutto tener presente il detto dell’apostolo Paolo:

Voi, che eravate morti nei peccati e nella incirconcisione della vostra carne, voi, dico, Dio ha vivificati con lui, perdonandoci tutti i nostri peccati (Colossesi 2:13).

Dal momento che questo testo stabilisce, in forma dogmatica, che Dio ci ha perdonati TUTTI i nostri peccati, va da sé che anche noi, quali imitatori di Dio (Efesini 5:1), dobbiamo perdonare tutti i peccati dei nostri fratelli. Se poi il suddetto testo viene messo a confronto con un altro testo paolino, cioè Efesini 4:32, che invita la fratellanza a perdonarsi reciprocamente, la parte terminale del testo, come anche Dio vi ha perdonati in Cristo, deve essere l’unità di misura e il modello da seguire.

La parabola del creditore spietato che abbiamo riportato, è abbastanza eloquente da farci vedere come dobbiamo agire nei confronti dei nostri simili. L’enorme debito di “diecimila talenti” che il servo aveva con il suo padrone, a parte che, umanamente parlando, per tutta la durata della sua vita, non gli sarebbe stato facile saldare, nostro Signore, non ha ricordato quella parabola, con lo scopo di farci fare i calcoli, per conoscere l’ammontare della somma. Questo non era sicuramente il suo scopo, ma per mostrarci che il nostro peccato davanti a Dio, era talmente grande che, solo un atto della clemenza divina, avrebbe potuto cancellare. Il debito che aveva, invece, il suo conservo, confrontato con quello che egli aveva col suo padrone, era quasi insignificante, perché appunto si trattava di soli “cento denari”, anche se a quei tempi, equivaleva a cento giornate lavorative.

Però, dal punto di vista umano e secondo una certa logica, non sarebbe stato impossibile pagare, un po’ alla volta, s’intende. Con la decisione che il servo prende, maltrattando atrocemente il creditore, fino al punto di farlo mettere in prigione, l’agire crudele e privo di compassione di quell’uomo, si palesa in tutta la sua gravità. Quando non si tiene conto di quanto si riceve da Dio, si finisce con l'essere spietato e senza compassione, verso gli altri. Questo è il nocciolo dell’insegnamento della parabola che Gesù volle insegnare ai Suoi in quel tempo, e vuole insegnare a noi oggi.

PS: Se al termine del capitolo 2 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura



Capitolo 3




SO IN CHI HO CREDUTO




È anche per questo motivo che soffro queste cose; ma non me ne vergogno, perché so in chi ho creduto, e sono convinto che egli ha il potere di custodire il mio deposito fino a quel giorno[/C[ (2 Timoteo 1:12).

La certezza di sapere in chi ha creduto, porta l’apostolo Paolo a non vergognarsi per quello che sta soffrendo.

Si sa, infatti, che al tempo in cui è stata scritta la seconda lettera a Timoteo, Paolo si trovava in carcere, nell'attesa che la condanna a morte che gli era stata inflitta, venisse eseguita. Sapendo anche che la carcerazione e la condanna, non gli erano state inflitte, per essersi macchiato di qualche crimine, ma unicamente per l’evangelo di Gesù Cristo, l’apostolo, giustamente, non aveva da vergognarsi, per non trovarsi nella condizione di un libero cittadino.

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Domenico34
00domenica 1 aprile 2012 00:48
Se la condizione in cui si trova l’apostolo, fosse derivata da una condotta dissoluta e depravata; da un comportamento anarchico e disprezzante le autorità costituite, avrebbe poco da gioire. Egli sa, infatti, che le catene che porta addosso, la prigione in cui è stato rinchiuso e la condanna a morte che gli è stata inflitta, non sono quelle di un malfattore incallito. Non sono quelle di un criminale che si fa beffe della severità della giustizia terrena, ma sono invece quelle di un’innocente; di uno che non ha commesso nessun crimine, o che si sia ribellato contro il potere dello Stato.

Davanti ad una simile prospettiva, (che umanamente parlando avrebbe dovuto portare l’apostolo ad apparire disgustato, a dir poco) lungi dall’apparire esasperato, abbattuto, distrutto e disperato, soprattutto per l’ingiustizia subita, egli trova la forza e il modo di pensare ad altri. Egli sa, infatti, che c’è il giovane Timoteo, che ha bisogno di essere incoraggiato, perciò non esita a rivolgergli la sua paterna esortazione:

Non aver dunque vergogna della testimonianza del nostro Signore, né di me, suo carcerato; ma soffri anche tu per il vangelo, sorretto dalla potenza di Dio (2 Timoteo 1:8).

Che questo coraggio e franchezza gli venisse, non solo dalla consapevolezza di sapere in chi aveva creduto, ma anche dalla certezza che il suo Signore, che lo aveva chiamato al Suo servizio, aveva il potere di custodire il suo deposito fino a quel giorno, ciò appariva come un baluardo nella sua vita.

Quello che l’apostolo scrive, non è solamente un modo di parlare e di esprimersi; ma mette soprattutto in evidenza, il suo comportamento, fermo, tranquillo e sereno, davanti ad una particolare situazione in cui si trova. Egli, infatti, sa molto bene che, se si trova carcerato, con una condanna a morte a suo carico, non è stato per aver sostenuto un ideale politico, un movimento eversivo, con atti di ribellioni contro il potere dello Stato, ma semplicemente per essere stato ubbidiente alla visione celeste (Atti 26:19) e fedele all’incarico affidategli da Gesù Cristo, suo Signore (2 Timoteo 1:11).

a) Ricordi di un passato


Pensando poi a quelli dell’Asia, specialmente a Figello ed Ermogene, che lo avevano abbandonato, (v. 15) egli avrebbe avuto motivo di sentirsi abbattuto e scoraggiato. Siccome l’apostolo non guarda agli uomini, né a quelli che un tempo gli erano stati vicini con il loro affetto e la loro simpatia, ma a Colui in cui ha creduto, (Gesù Cristo) egli trova conforto e sollievo in quell’ora tragica della sua vita.

b) Il motivo perché Paolo non si vergogna

Perché, dunque, Paolo, dovrebbe vergognarsi per la condizione in cui si trova? Non c’è nessuna ragione valida, per lasciarsi trascinare dallo sconforto e dalla solitudine. Anche se sa che molti lo hanno abbandonato, però, sa anche che, il suo Signore gli è stato vicino (4:17). Sapendo, infatti, che l’evangelo è la potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede (Romani 1:16), potrà continuare a perseverare nelle vie del Signore, avendo la certezza di ricevere, dal suo Signore e Salvatore, Gesù Cristo, la giusta ricompensa.

Con questa chiara prospettiva davanti a sé, e, soprattutto, pensando alla sua imminente “partenza” (cioè la sua morte, non come conseguenza di una condanna, ma come offerta in libazione), è pronto per alzare la vela del suo naviglio per raggiungere la destinazione finale. Ecco, in quale maniera si preparò, per questo suo ultimo viaggio.

L’INNO TRIONFALE

Quanto a me, io sto per essere offerto in libazione, e il tempo della mia partenza è giunto.
Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede.
Ormai mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi assegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti quelli che avranno amato la sua apparizione
(2 Timoteo 4:6-8).

Davanti a queste parole, Paolo fa conoscere se stesso: il suo comportamento, il suo agire e la sua fede nel Signore e Salvatore, Gesù Cristo.

a) Ho combattuto il buon combattimento

La prima cosa che va notata, e accreditata all’apostolo Paolo, in quest'inno trionfale, è il coraggio e la costanza, che non lo hanno mai abbandonato nel combattere, il buon combattimento. Questo, naturalmente lo ha fatto, nel corso della sua esistenza terrena, principalmente dopo la sua conversione al cristianesimo, cioè da quando ha dato tutta la sua vita, a Gesù Cristo.

Ora che si trova sulla pista di partenza, sul terminale della sua carriera, non lo vediamo come un perdente, con la testa china, in segno di vergogna per le sconfitte subite, ma come un vero trionfatore; come uno che sta per spiccare il volo, per la destinazione finale. Si può vedere Paolo che, tenendo la sua testa alzata, pronto per specificare con tutta chiarezza, il motivo del suo finale comportamento, affermare: Posso ogni cosa in colui che mi fortifica (Filippesi 4:13).

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Domenico34
00lunedì 2 aprile 2012 00:17
b) Ho finito la corsa

Paolo considera tutta la sua vita, come una corsa, (naturalmente, in senso figurativo). Si sa che quest’uomo, in tutto il tempo del suo ministero, in modo particolare, ha incontrato tanti ostacoli nel suo cammino, che potevano fermarlo nella sua corsa. Egli però, da bravo atleta che era, non si perde d’animo, non si fermò; non alzò le sue mani in segno di arresa, come per dire: non ce la faccio più; non avverto in me le forze necessarie per continuare, conviene fermarmi nella mia corsa. No! Egli non si arrende; non si ferma, davanti al tracciato del suo percorso, ma continua a correre fino alla fine.

Ecco perché ora può affermare: Ho finito la corsa. Non sono stati gli altri che hanno portato a termine la corsa; anche se ci sono stati tanti, prima di lui, che l’hanno fatto e portata a termine, ma è stato lui. La sua affermazione non ha il senso di sentirsi meglio degli altri; più abile e fortunato, ma vuole esprimere la sua tenace e persistente resistenza, davanti a tutto ciò che ha incontrato nella sua vita. E, pensare che l’apostolo, durante tutto l’arco del suo pellegrinaggio, ha dovuto fare fronte a dure persecuzioni, maltrattamenti, battiture; esposto a vari pericoli (anche quello di trovarsi tra falsi fratelli) (cfr. 2 Corinzi 11:16-26). Ma nonostante ciò, non si è mai arreso; non si è fermato, ma ha continuato fino alla fine della corsa.

c) Ho conservato la fede

La fede, non in se stesso o in altri, ma quella in Cristo Gesù, era per l’apostolo Paolo, l’elemento primario e fondamentale di tutta la sua esistenza. Egli ben sapeva, che la sua salvezza, aveva le sue radici, in Cristo Gesù, e per la fede in Lui (Efesini 2:8).

Le varie imprese che aveva portato a termine, nel suo ministero apostolico, le aveva compite per la grazia di Dio (1 Corinzi 15:10). Non aveva seguito l’esempio di certuni ...che avevano fatto naufragio quanto alla fede (1 Timoteo 1:19). Neanche era andato dietro a coloro che si erano sviati, come Dema, per avere amato il mondo (2 Timoteo 4:10). Non aveva considerato la fede, come qualcosa di poco valore, da lasciarla e buttarla via, ma la valutava come un gioello di gran valore, da meritare di essere conservata.

In vista di queste precise considerazioni, e, valutando il tracciato che aveva percorso e la sua perseveranza nel combattere il buon combattimento, nel terminare la corsa e nel conservare la fede, può ora volgere il suo sguardo verso il suo Signore, che è anche il giusto giudice, dal quale riceverà la corona di giustizia, (a dispetto di tutte le ingiustizie che ha subito nella sua vita), e non solo lui, ma anche tutti quelli che avranno amato la sua apparizione (v. 8).

Non c’è espressione più significativa, che chiuda la storia della vita di un sant'uomo di Dio, quale era Paolo, nella situazione di quello che abbiamo detto, di sentirgli dire, scandendo bene le parole: A Lui sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen! (4:18).

PS: Se al termine del capitolo 3 ci sono domande da fare, fateleliberamente e risponderemo con premura




Capitolo 4




PAOLO APOSTOLO DI GESÙ CRISTO



Il ministero apostolico di Paolo, è ben documentato nel Nuovo Testamento. Anche se la forma è varia, non cambia però il significato. In questo capitolo, esamineremo i diversi elementi che lo compongono.

a) Il significato etimologico del termine apostolo


Il significato del termine apostolo (gr. apostolos) significa “inviato”.
«Nel N.T. non designa mai l’atto dell’inviare o, in senso traslato, l’oggetto dell’invio, ma è la designazione di un uomo che è inviato e precisamente di un plenipotenziario» [Per conoscere la storia del concetto di apostolo, il suo sviluppo e la sua possibile derivazione, cfr. K.H. Rengstorf, GLNT, Vol. I, col. 1088-1192; J.A. Bühner, Dizionario Esegetico del N.T., Vol 1, col. 379-388. Cfr. particolarmente D. Müller, in Dizionario dei concetti del Nuovo Testamento, pagg. 127-136, per conoscere le varie spiegazioni che gli studiosi hanno dato all’argomento].

Dei dodici, con la qualifica di apostoli, che vengono nominati nel Nuovo Testamento (Matteo 10:2), solo Pietro si presenta col titolo di “apostolo di Gesù Cristo”, nelle sue due epistole (1 Pietro 1:1; 2 Pietro 1:1). Gli altri apostoli-scrittori: Giacomo, Giovanni e Giuda, non si presentano con questo titolo, non perché non lo siano, ma perché hanno preferito presentarsi come servo di Dio e di Gesù Cristo (Giacomo 1:1); servo di Gesù Cristo (Giuda 1), mentre Giovanni non usa nessuna forma di presentazione per farsi riconoscere; lo si riconosce dallo stile e dal frasario che egli adopera. Poiché Giovanni viene abitualmente definito l’apostolo dell’amore, e tenuto conto che nelle tre epistole che portano il suo nome, i termini: “Amore”, “amare”, vengono spesso ripetuti, da questo si deduce che chi ha scritto queste tre lettere, è Giovanni, l’apostolo, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo (Matteo 4:21).

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Domenico34
00martedì 3 aprile 2012 00:13
Ora il nostro scopo è di parlare dell’apostolato di Paolo, — non perché il suo apostolato sia più importante o diverso degli altri — ma semplicemente perché ci aiuta meglio a capire e sviluppare il nostro tema: “L'uomo si comporta ed agisce in conformità a quello che crede”.

b) La forma linguistica che viene adoperata


1. Apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio

Paolo, con riferimento al suo apostolato, ci tiene a precisare che egli è un apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio (cfr. 1 Corinzi 1:1; 2 Corinzi 1:1; Efesini 1:1; Colossesi 1:1; 2 Timoteo 1:1).

Se egli si presenta in questo modo, non è solamente per difendersi da coloro che gli contestavano il suo apostolato, ma principalmente per mettere in risalto la sua provenienza. Specificando che egli è apostolo per volontà di Dio, i destinatari delle sue epistole, dovevano escludere, in maniera categorica che, il suo apostolato, non gli era stato conferito da qualche autorità umana.

Questa sua affermazione, specialmente per i contestatari, poteva suonare come un’esaltazione personale. Per Paolo, però, che non teneva conto cosa pensassero i suoi oppositori, era la maniera più concisa, semplice e ferma nello stesso tempo, per far conoscere a chiunque, la volontà di Dio per la sua vita. Che in lui ci fosse la certezza di essere un apostolo di Gesù Cristo, non perché lui l’avesse scelto o desiderato, ma semplicemente per avere accettato “la volontà di Dio”, era abbastanza evidente. Era, infatti, questa sua consapevolezza, che nella vita pratica si trasformava in una ferma convinzione, che gli dava forza e coraggio, per superare i tanti ostacoli che si presentavano nel suo cammino. Il suo comportamento e il suo agire, nel mandato del suo apostolato, affondavano le sue radici e lo motivavano, proprio in conformità a ciò che egli credeva.

Se Paolo, per un'assurda ipotesi, non avesse avuto la certezza che il suo apostolato era per la volontà di Dio, al primo ostacolo, o alla prima contestazione, egli si sarebbe arreso, fermato e ritornato indietro.

Questo è vero anche per i nostri giorni e per tutti i servitori del Signore! Gli ostacoli, gli impedimenti, le contestazioni, ci sono stati sempre e sempre ci saranno! È necessario, per superare ogni forma d'impedimento che, la persona che svolge un’attività ministeriale, abbia la certezza di trovarsi nella volontà di Dio. Sarà, infatti, in conformità a questa certezza, che il nostro comportamento e il nostro agire, avranno piena validità e giustificazione.

2. Servo di Dio e apostolo di Gesù Cristo

Nell’epistola a Tito, viene affermato che Paolo è un servo di Dio e apostolo di Gesù Cristo (Tito 1:1). In questa presentazione, l’elemento principale che viene messo in risalto, è la dipendenza di Paolo. I servi erano persone dipendenti, cioè al servizio dei loro padroni. Di conseguenza, non potevano agire di propria volontà e ignorare l’autorità che stava sopra di loro. Tutto quello che compivano, era sempre subordinato all’approvazione dei loro signori. Se qualcuno li contestava in ciò che compivano, potevano rispondere con fermezza: nel nostro comportamento e nel nostro agire, stiamo facendo quello che ci ha detto il nostro padrone. Quello che contava, non era tanto quello che altri potevano pretendere da loro, quanto piuttosto quello che esigevano i loro signori.

Con la qualifica di servo di Dio, non solo Paolo dichiarava la sua dipendenza, ma metteva anche in risalto che quello che egli stava compiendo, nel proclamare l’evangelo di Gesù Cristo, in effetti, era un “servizio” che compiva al suo padrone che lo aveva chiamato a sé, per svolgere quel lavoro. Egli, infatti, si sentiva obbligato di ringraziare il suo Signore, per la consapevolezza che aveva che Gesù Cristo, gli aveva accordato la sua fiducia.

Io ringrazio colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù, nostro Signore, per avermi stimato degno della sua fiducia, ponendo al suo servizio me 1 Timoteo 1:12).

Questo naturalmente, lo spingeva nel suo comportamento e nel suo agire, ad essere fedele all’incarico ricevuto.

3. Paolo si presenta come servo di Cristo Gesù

Paolo, ai credenti di Roma, si presenta come servo di Cristo Gesù, chiamato ad essere apostolo, messo a parte per il vangelo di Dio (Romani 1:1). Lui è consapevole che il suo apostolato, cioè l’essere stato inviato, è una chiamata divina; e se Dio lo ha messo a parte, lo ha fatto esclusivamente per il Suo vangelo. Ecco, perché, in un altro passaggio, afferma:

se evangelizzo, non devo vantarmi, poiché necessità me n’è imposta; e guai a me, se non evangelizzo! (1 Corinzi 9:16).

Quando era prigioniero a Roma, scrivendo la sua epistola ai Filippesi, così si esprime:

Desidero che voi sappiate, fratelli, che quanto mi è accaduto ha piuttosto contribuito al progresso del vangelo;

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Domenico34
00mercoledì 4 aprile 2012 00:06
al punto che a tutti quelli del pretorio e a tutti gli altri è divenuto noto che sono in catene per Cristo;
e la maggioranza dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, hanno avuto più ardire nell’annunciare senza paura la parola di Dio.
Vero è che alcuni predicano Cristo anche per invidia e per rivalità; ma ce ne sono anche altri che lo predicano di buon animo.
Questi lo fanno per amore, sapendo che sono incaricato della difesa del vangelo;
ma quelli annunziano Cristo con spirito di rivalità, non sinceramente, pensando di provocarmi qualche afflizione nelle mie catene.
Che importa? Comunque sia, con ipocrisia o con sincerità, Cristo è annunziato; di questo mi rallegro, e mi rallegrerò ancora
(Filippesi 1”12-18).

Quello che Paolo afferma, rispecchia la certezza che egli ha, per essere stato incaricato della difesa del vangelo.

4. Paolo sa che il suo apostolato è per gli stranieri

Parlo a voi, stranieri; (cioè gentili) in quanto sono apostolo degli stranieri faccio onore al mio ministero (Roma 11:13;

colui che aveva operato in Pietro per farlo apostolo dei circoncisi aveva anche operato in me per farmi apostolo degli stranieri) (cioè gentili) (Galati 2:8).

Se Paolo svolgeva il suo mandato apostolico presso i gentili, non era solamente per l’accordo che aveva raggiunto con i fratelli di Gerusalemme, [C[essi ai circoncisi e noi agli stranieri
(v.9), ma essenzialmente perché sapeva che Dio lo aveva inviato ai gentili. Questo egli lo conosceva fin dalla sua conversione (cfr. Atti 9:15; 22:14-15,21; 26:16-18).

Infine, scrivendo ai Corinzi, poteva esprimersi nel seguente modo:
Se per altri non sono apostolo, lo sono almeno per voi; perché il sigillo del mio apostolato siete voi, nel Signore (1 Corinzi 9:2).

5. Paolo sa di essere stato chiamato ad essere apostolo di Gesù Cristo

I seguenti testi lo dimostrano:

— [CPaolo, chiamato ad essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sostene (1 Corinzi 1:1).

Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Timoteo, alla chiesa di Dio che è in Corinto, con tutti i santi che sono in tutta l’Acaia (2 Corinzi 1:11).

Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, ai santi che sono in Efeso e ai fedeli in Cristo Gesù (Efesini 1:1).

Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Timoteo (Colossesi 1:1).

Paolo, apostolo di Cristo Gesù per ordine di Dio, nostro Salvatore, e di Cristo Gesù, nostra speranza (1 Timoteo 1:1).

6. Paolo conosce bene il suo apostolato

Paolo sa, infatti, che se egli è un apostolo, lo è per mezzo di Gesù Cristo, e per ordine di Dio, e di Cristo Gesù

Paolo, apostolo non da parte di uomini né per mezzo di un uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti (Galati 1:1);

Paolo, apostolo di Cristo Gesù per ordine di Dio, nostro Salvatore, e di Cristo Gesù, nostra speranza (1 Timoteo 1:1).

Davanti a questa presentazione, Paolo, non solo sa di essere un apostolo di Gesù Cristo, per la volontà di Dio; un servo di Dio e di Gesù; di essergli stata accordata la fiducia dal suo Signore, per predicare il Suo vangelo; di essere stato chiamato, a tale scopo; di sapere di non essere stato costituito apostolo da parte di uomini o per mezzo di essi; ma anche e soprattutto di essere stato “inviato” come apostolo, per ordine di Dio e di Gesù Cristo.

In quale altra maniera, l’apostolo Paolo avrebbe potuto esprimersi, per meglio far comprendere, sia alle chiese, cui indirizzò le sue epistole e a quelli che gli contestavano il suo apostolato, che il suo ministero apostolico era di origine divina? E se durante la sua vita, in mezzo ai tanti ostacoli e impedimenti che incontrò, non venne meno di obbedire alla celeste visione (Atti 26:19), il suo comportamento ed il suo agire, erano fortemente motivati, affondavano le sue radici su ciò che egli credeva. Questo è valido per tutti i servitori del Signore, che sono stati chiamati a compiere un qualsiasi ministero, di ogni tempo!

PS: Se al termine del capitolo 4 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura

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Domenico34
00giovedì 5 aprile 2012 02:18
Capitolo 5




DANIELE E I SUOI TRE COMPAGNI




Il terzo anno del regno di Ioiachim re di Giuda, Nabucodonosor, re di Babilonia, marciò contro Gerusalemme e l’assediò.
Si continuerà il prossimo giorno…

Il Signore gli diede nelle mani Ioiachim, re di Giuda, e una parte degli arredi della casa di Dio. Nabucodonosor portò gli arredi nel paese di Scinear, nella casa del suo dio, e li mise nella casa del tesoro del suo dio.
Il re disse ad Aspenaz, capo dei suoi eunuchi, di condurgli dei figli d’Israele, di stirpe reale o di famiglie nobili.
Dovevano essere ragazzi senza difetti fisici, di bell’aspetto, dotati di ogni saggezza, istruiti e intelligenti, capaci di stare nel palazzo reale per apprendere la scrittura e la lingua dei Caldei.
Il re assegnò loro una razione giornaliera dei cibi della sua tavola e dei vini che egli beveva; e ordinò di istruirli per tre anni dopo i quali sarebbero passati al servizio del re.
Tra di loro c’erano dei figli di Giuda: Daniele, Anania, Misael e Azaria;
il capo degli eunuchi diede loro altri nomi: a Daniele pose nome Baltazzar; ad Anania, Sadrac; a Misael, Mesac e ad Azaria Abed-Nego.
Daniele prese in cuor suo la decisione di non contaminarsi con i cibi del re e con il vino che il re beveva; e chiese al capo degli eunuchi di non obbligarlo a contaminarsi;
Dio fece trovare a Daniele grazia e compassione presso il capo degli eunuchi.
Questi disse a Daniele: «Io temo il re, mio signore, che ha stabilito quello che dovete mangiare e bere; se egli vedesse le vostre facce più magre di quelle dei giovani della vostra stessa età, voi mettereste in pericolo la mia testa presso il re».
Allora Daniele disse al maggiordomo, al quale il capo degli eunuchi aveva affidato la cura di Daniele, di Anania, di Misael e di Azaria:
«Ti prego, metti i tuoi servi alla prova per dieci giorni; dacci da mangiare legumi e da bere acqua;
in seguito confronterai il nostro aspetto con quello dei giovani che mangiano i cibi del re e ti regolerai su ciò che dovrai fare».
Il maggiordomo accordò loro quanto domandavano e li mise alla prova per dieci giorni.
Alla fine dei dieci giorni, essi avevano miglior aspetto ed erano più prosperosi di tutti i giovani che avevano mangiato i cibi del re.
Così il maggiordomo portò via il cibo e il vino che erano loro destinati, e diede loro legumi.
A questi quattro giovani Dio diede di conoscere e comprendere ogni scrittura e ogni saggezza. Daniele aveva il dono di interpretare ogni specie di visioni e di sogni.
Giunto il momento della loro presentazione, il capo degli eunuchi condusse i giovani da Nabucodonosor.
Il re parlò con loro; ma fra tutti quei giovani non se ne trovò nessuno che fosse pari a Daniele, Anania, Misael e Azaria, i quali furono ammessi al servizio del re.
Su tutti i punti che richiedevano saggezza e intelletto, sui quali il re li interrogasse, li trovava dieci volte superiori a tutti i magi e astrologi che erano in tutto il suo regno.
Daniele continuò così fino al primo anno del re Ciro
(Daniele 1:1-21).

Nota introduttiva


Da Daniele, il nobile funzionario statale e profeta del Signore nello stesso tempo, abbiamo tanto da imparare, sia dal punto di vista umano relativamente per ciò che riguarda le responsabilità amministrative ad alto livello, e sia per quanto concerne la sua vita devozionale con Dio. Per quanto riguarda, la qualifica di profeta del Signore, anche se il libro che porta il suo nome, non gli attribuisce questo titolo, basta però rifarsi all’affermazione di Gesù, per riconoscerlo come un vero profeta del Signore.

«Quando dunque vedrete l’abominazione della desolazione, della quale ha parlato il profeta Daniele, posta in luogo santo (chi legge faccia attenzione!) (Matteo 24:15).

Lo scopo di questo capitolo, non è di parlare di Daniele come un profeta del Signore. Quest’aspetto dell’argomento, lo sorvoliamo; visto che non rientra in previsione di questo libro. Non prenderemo neanche in esame, la discussione che si è fatta, circa il riconoscimento e la posizione che gli Ebrei diedero al libro che porta il suo nome, nel canone Ebraico, dei libri sacri dell’Antico Testamento.

Lo scopo che ci proponiamo nel parlare di Daniele e dei suoi tre compagni, è quello di esaminare la loro vita, così come il libro ce li presenta, per vedere se il loro comportamento e il loro agire, erano in conformità a quello che credevano. Con questa premessa, esccludiamo ogni altra considerazione che non rientra nel tema del nostro libro. Per chi, invece, volesse approfondire la conoscenza sull’argomento riguardante la natura, lo stile dello scritto di Daniele, e come venne considerato da chi compilò il canone dei libri ispirati dell’Antico Testamento, possiamo rimandarlo alle varie introduzioni di diversi autori che hanno scritto sul libro di Daniele [Cfr. Norman W. Porteous, Antico Testamento, Daniele, pagg. 15-26; Gleason L. Archer, La parola del Signore, Vol. 1, pagg. 454-479; J. Dwight Pentecost, Investigate le Scritture, Antico Testamento, pagg. 1387-1391; Edward J. Young, Commentario Biblico, Vol. 2, pagg. 362-364].

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Domenico34
00venerdì 6 aprile 2012 00:15
a) La giovinezza di Daniele e dei suoi tre compagni

Il testo che abbiamo riportato, ci parla di Daniele e dei suoi tre compagni, che vengono come proveniente da stirpe reale o da famiglie nobili. Le caratteristiche somatiche erano eccellenti:

senza difetti fisici, di bell’aspetto, dotati di ogni saggezza, istruiti e intelligenti, capaci di stare nel palazzo reale per apprendere la scrittura e la lingua dei Caldei (1:4).

Se Daniele e i suoi tre compagni non avessero avuto le caratteristiche summenzionate, non sarebbero stati selezionati, poiché era stato Nabucodonosor, re di Babilonia, ad esigere tali caratteristiche per ogni giovane che sarebbe stato selezionato, tra tutti i giovani deportati d’Israele.

Il testo sacro non ci fa conoscere il numero dei giovani Israeleti che sono stati deportati a Babilonia e selezionati, secondo la volontà del re. Senza dubbio, erano in tanti; ma solamente quattro di loro, vengono presentati con i loro nomi, cioè: Daniele, Anania, Misael e Azaria. Perché i nomi degli altri non vengono nominati, non possiamo dirlo, e, neanche possiamo indicare le ragioni. Sarà stato il significato etimologico dei loro nomi, che spinse l’autore del libro a nominarli? Probabilmente! Però, non possiamo affermarlo.

Daniele significa: «Dio ha giudicato»; Anania, «Jahvè ha mostrato grazia»; Misael, «chi è ciò che Dio è?» e Azaria «Jahvè ha soccorso» [Norman W. Porteous, Antico Testamento, Daniele, pag. 22].

Aspenaz, l’incaricato del re, ricevette l’ordine dal sovrano di mettere a disposizione dei selezionati, una razione giornaliera dei cibi della tavola del monarca e il vino del suo bere. Istruirli per un periodo di tre anni dopo i quali sarebbero passati al servizio del re.

b) La decisione che i quattro presero

A questo punto entra in scena Daniele, e, a nome dei tre compagni, chiese ad Aspenaz di dar loro a mangiare dei legumi e bere semplicemente acqua. In conseguenza di ciò, il testo afferma che Dio fece trovare a Daniele grazia e compassione presso il capo degli eunuchi (v. 9).

Perché Daniele prese quest'iniziativa? È detto chiaramente: Per non contaminarsi con i cibi del re e con il vino del suo bere. Visto che si trovava in Babilonia, in terra straniera e lontano dalla sua patria, tenuto conto che il re, che aveva ordinato il cibo da mangiare, era un pagano, quel cibo che veniva dalla sua tavola, facilmente era contaminato, nel senso che ciò che veniva preparato, non era consentito agli Ebrei di mangiarlo. Questo naturalmente, in virtù del divieto della loro legge divina. Anche se non tutti i cibi che il monarca offriva, erano contaminati, c’erano senza dubbio quelli che la legge proibiva. Per evitare di essere considerati trasgressori della legge di Dio, Daniele decise di agire in quel modo.

Pur essendo stato Daniele a prendere quella decisione, sicuramente l’avrà presa con l’approvazione e il consenso dei suoi tre compagni. Sono, infatti, tutti e quattro che aderiscono a quell'iniziativa, di cibarsi di legumi e di bere acqua. Superata la prova di dieci giorni, e tenuto conto del risultato che il “maggiordomo” vide con i suoi occhi, cioè:

Alla fine dei dieci giorni, essi avevano miglior aspetto ed erano più prosperosi di tutti i giovani che avevano mangiato i cibi del re (v. 15), fu concesso loro di mangiare legumi e di bere acqua, fino al termine dei tre anni.

A questi quattro giovani Dio diede di conoscere e comprendere ogni scrittura e ogni saggezza. Daniele aveva il dono di interpretare ogni specie di visioni e di sogni (v. 17).

Quando poi, al termine fissato dal re, Daniele, Anania, Misael e Azaria comparvero davanti a Nabucodonosor, il sacro testo precisa che, tra tutti i selezionati, non si trovò nessuno pari a loro, aggiungendo anche che, Su tutti i punti che richiedevano saggezza e intelletto, sui quali il re li interrogasse, li trovava dieci volte superiori a tutti i magi e astrologi che erano in tutto il suo regno (v. 20).

c) La ricompensa che Daniele, Anania, Misael e Azaria ricevettero

Poiché l’esame fu brillantemente superato, il punteggio ottenuto superiore del previsto, Nabucodonosor, soddisfatto di tutte le risposte che ottenne alle sue domande, Daniele, Anania, Misael e Azaria, furono ammessi al servizio del re. Anche se la promozione a quel rango elevato, fu assegnato dal re Nabucodonosor, tuttavia, rappresentava la ricompensa che il loro Dio volle dar loro, come risposta alla loro fedeltà alla Sua legge. C’è un detto nella Scrittura che afferma:

così dice il SIGNORE, il Dio d’Israele: "Io avevo dichiarato che la tua casa e la casa di tuo padre sarebbero state al mio servizio per sempre"; ma ora il SIGNORE dice: "Lungi da me tale cosa! Poiché io onoro quelli che mi onorano, e quelli che mi disprezzano saranno disprezzati (1 Samuele 2:30).

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Domenico34
00sabato 7 aprile 2012 00:06
Il migliore modo per onorare Dio, consiste nell’obbedirlo in quello che Egli dice nella Sua Parola. Questo vale, sia per le persone dell’antichità e sia per noi che viviamo nel ventunesimo secolo.

LA LEZIONE CHE SI IMPARA DA QUESTA STORIA

Gli ammaestramenti che possiamo ricavare da quello che viene narrato nel primo capitolo di Daniele, sono diversi, possono essere sintetizzati nel seguente modo:

1) In Babilonia, nella terra straniera, lontani dalla loro patria, Daniele, Anania, Misael e Azaria, seppero mantenere la loro fede in Dio e nella Sua Parola, professandola con fermezza, senza venir meno nella loro fedeltà al loro Signore. Questa loro fedeltà acquista più valore, quando si tiene conto della loro giovanissima età. Quando si è giovani, si può facilmente venir meno, soprattutto quando si pensa a quello che altri potrebbero dire di noi, specialmente quando non si tiene conto dell’evoluzione dei tempi, cioè quando non c’è un certo conformismo con l’ambiente che ci circonda.

2) La decisione che Daniele prese di non contaminarsi, non è stata presa avventatamente, cioè senza riflettere; fu certamente presa a seguito di una ponderata valutazione di quello che si presentava davanti a sé. Egli doveva fare una sceltà: o rimanere fedele alla legge del suo Signore, con tutte le conseguenze del caso, oppure conformarsi a quello che facevano gli altri, senza tener conto della Parola dell’Eterno, così da evitare critiche, biasimi, o peggio ancora, essere considerato un bigotto, un fanatico.

Egli preferì affrontare in pieno il problema con ferma determinazione, senza preoccuparsi di quello che gli sarebbe potuto accadere. Siccome egli credeva fermamente in ciò che professava, la sua professione di fede non poteva rimanere sulle sole parole, era necessario che venisse accompagnata da un’azione ben determinata e visibile.

Probabilmente, all’inizio, avrà pensato solamente a se stesso; ma parlandone con i suoi compagni, se ne accorse che, la sua determinazione ad agire nella maniera voluta, ebbe un impatto buono, ed esercitò un’influenza nella vita dei suoi amici. Nel giro di poco tempo, tutti tre si trovarono d’accordo, nel seguire l’esempio di Daniele. Infatti, tutti e quattro, decisero di non contaminarsi, rimanendo così fedeli al loro Dio e alla Sua legge.

Le buone scelte che si fanno, specialmente quando si vuole rimanere fedeli al Signore, avranno senza dubbio, ripercussioni nella vita degli altri, specie in chi vive vicino a noi.

3) La fermezza che i quattro giovani manifestarono, nel rifiutare le vivande succulenti che il re offriva loro e scegliere come cibo i legumi e acqua semplice per bere, fu motivata dalla ferma volontà di vivere la loro vita, coerentemente con quello che credevano. Il comportamento e l’agire dell’uomo, (giovane o vecchio che sia) è sempre in conformità a ciò che si crede.

La fermezza di Daniele, di Anania, di Misael e di Azaria, non fu per un certo numero di giorni, ma per tutto il tempo della loro preparazione, cioè tre anni. È ammirevole che in tutto questo tempo, la loro determinazione non vacillò, ma seppero perseverare fino alla fine. La prova di dieci giorni che offrirono al capo degli eunuchi, agì come un potente propulsore nella loro vita, e rese più forte la loro fede.

Con la forza di perseverare nelle nostre determinazioni, specie quando si ha la certezza che si agisce secondo la volontà di Dio, viene da quello che noi crediamo.

4) La buona riuscita che, Daniele, Anania, Misael ed Azaria ebbero, non fu solamente per la loro ferma determinazione a non “contaminarsi”, ma anche e soprattutto perché il loro Dio, li onorò, poiché loro onorarono Lui.
Se viviamo la nostra vita coerentemente con quello che crediamo, sia in privato che in pubblico, la nostra testimonianza che daremo, oltre ad essere a lode e gloria di Dio, sarà anche efficace nella vita degli altri.

PS: Se al termine del capitolo 5 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 6




I TRE COMPAGNI DI DANIELE NELLA FORNACE




Il re Nabucodonosor fece una statua d’oro, alta sessanta cubiti e larga sei cubiti, e la collocò nella pianura di Dura, nella provincia di Babilonia.
Poi il re Nabucodonosor fece convocare i satrapi, i prefetti, i governatori, i consiglieri, i tesorieri, i giureconsulti, i magistrati e tutte le autorità delle provincie perché venissero all’inaugurazione della statua che egli aveva fatto erigere.

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Domenico34
00domenica 8 aprile 2012 00:24
Allora i satrapi, i prefetti e i governatori, i consiglieri, i tesorieri, i giureconsulti, i magistrati e tutte le autorità delle provincie vennero all’inaugurazione della statua che il re Nabucodonosor aveva fatto erigere. Tutti stavano in piedi davanti alla statua eretta da Nabucodonosor.
Allora l’araldo gridò forte: «A voi, gente di ogni popolo, nazione e lingua, si ordina quanto segue:
nel momento in cui udrete il suono del corno, del flauto, della cetra, della lira, del saltèrio, della zampogna e di ogni specie di strumenti, vi inchinerete e adorerete la statua d’oro che il re Nabucodonosor ha fatto erigere.
Chi non si inchina per adorare, sarà immediatamente gettato in una fornace ardente».
Non appena tutti i popoli ebbero udito il suono del corno, del flauto, della cetra, della lira, del saltèrio e di ogni specie di strumenti, gli uomini di ogni popolo, nazione e lingua si inchinarono e adorarono la statua d’oro che il re Nabucodonosor aveva fatto erigere.
In quello stesso momento, alcuni Caldei si fecero avanti e accusarono i Giudei,
dicendo al re Nabucodonosor: «O re, possa tu vivere per sempre!
Tu hai decretato, o re, che chiunque ha udito il suono del corno, del flauto, della cetra, della lira, del saltèrio, della zampogna e di ogni specie di strumenti deve inchinarsi per adorare la statua d’oro.
Chiunque non s’inchina e non adora deve essere gettato in una fornace ardente.
Ora ci sono dei Giudei, ai quali tu hai affidato l’amministrazione della provincia di Babilonia, cioè Sadrac, Mesac e Abed-Nego, che non ti danno ascolto, non adorano i tuoi dèi e non s’inchinano alla statua d’oro che tu hai fatto erigere».
Allora Nabucodonosor, irritato e furioso, ordinò che gli portassero Sadrac, Mesac e Abed-Nego; questi furono condotti alla presenza del re.
Nabucodonosor disse loro: «Sadrac, Mesac, Abed-Nego, è vero che non adorate i miei dèi e non vi inchinate davanti alla statua d’oro che io ho fatto erigere?
Ora, appena udrete il suono del corno, del flauto, della cetra, della lira, del saltèrio, della zampogna e di ogni specie di strumenti, siate pronti a inchinarvi per adorare la statua che io ho fatta; ma se non la adorerete, sarete immediatamente gettati in una fornace ardente; e quale Dio potrà liberarvi dalla mia mano?»
Sadrac, Mesac e Abed-Nego risposero al re: «O Nabucodonosor, noi non abbiamo bisogno di darti risposta su questo punto.
Ma il nostro Dio, che noi serviamo, ha il potere di salvarci e ci libererà dal fuoco della fornace ardente e dalla tua mano, o re.
Anche se questo non accadesse, sappi, o re, che comunque noi non serviremo i tuoi dèi e non adoreremo la statua d’oro che tu hai fatto erigere».

Allora Nabucodonosor s’infuriò e l’espressione del suo viso mutò completamente nei riguardi di Sadrac, Mesac e Abed-Nego. Egli ordinò che si arroventasse la fornace sette volte più del solito;
poi ordinò agli uomini più vigorosi del suo esercito di legare Sadrac, Mesac e Abed-Nego, e di gettarli nella fornace ardente.
Allora i tre uomini furono legati con le loro tuniche, le loro vesti, i loro mantelli e tutti i loro indumenti e furono gettati in mezzo alla fornace ardente.
Poiché l’ordine del re era perentorio e la fornace era arroventata, il calore uccise gli uomini che avevano gettato Sadrac, Mesac e Abed-Nego nel fuoco.
E questi tre uomini, Sadrac, Mesac e Abed-Nego, caddero legati in mezzo alla fornace ardente.
Allora il re Nabucodonosor fu spaventato e andò in gran fretta a dire ai suoi consiglieri: «Non erano tre, gli uomini che abbiamo legati e gettati in mezzo al fuoco ardente?» Quelli risposero e dissero al re: «Certo, o re!»
«Eppure», disse ancora il re, «io vedo quattro uomini, sciolti, che camminano in mezzo al fuoco, senza avere sofferto nessun danno; e l’aspetto del quarto è simile a quello di un figlio degli dèi.
Nabucodonosor si avvicinò alla bocca della fornace ardente e disse: «Sadrac, Mesac, Abed-Nego, servi del Dio altissimo, venite fuori!» E Sadrac, Mesac e Abed-Nego uscirono dal fuoco.
I satrapi, i prefetti, i governatori e i consiglieri del re si radunarono, osservarono quegli uomini e videro che sopra i loro corpi il fuoco non aveva avuto nessun potere e che neppure un capello del loro capo era stato bruciato, che le loro tuniche non erano alterate e che essi non avevano neppure odore di fuoco.
Nabucodonosor prese a dire: «Benedetto sia il Dio di Sadrac, di Mesac, e di Abed-Nego, il quale ha mandato il suo angelo e ha liberato i suoi servi che hanno confidato in lui, hanno trasgredito l’ordine del re, hanno esposto i loro corpi per non servire né adorare alcun altro Dio che il loro.
Perciò ordino quanto segue: Chiunque, a qualsiasi popolo, nazione o lingua appartenga, dirà male del Dio di Sadrac, Mesac e Abed-Nego, sia fatto a pezzi e la sua casa ridotta in un letamaio; perché non c’è nessun altro dio che possa salvare in questo modo».
Allora il re fece prosperare Sadrac, Mesac e Abed-Nego nella provincia di Babilonia
(Daniele 3:1-30).

a) I tre giovani Ebrei, amministratori della provincia di Babilonia

Nel primo capitolo di Daniele, i tre giovani Ebrei, vengono presentati con i loro nomi ebraici di Anania, Misael e Azaria. Il capo degli eunuchi Aspenaz, gli mise altri nomi: ad Anania, Sadrac,

«probabilmente dalla forma saduraku di un verbo accadico che significa «io temo (un dio)».; a Misael, Mesac, «che probabilmente derivava dal verbo accadico che significa «io sono sprezzato, spregevole, umiliato (davanti al mio dio)» e ad Azaria Abed-Nego, «servo di Nebo» (Nebo è una variazione ebraica del nome babilonese del dio Nebo). Nebo (cfr. Is. 46:1), figlio di Bel, era la divinità babilonese della scrittura e della vegetazione. Era anche conosciuto come Nabu.
Così il capo degli eunuchi (Aspenaz, v. 3) sembrava determinato a cancellare ogni testimonianza dell’Iddio d’Israele dalla corte babilonese. I nomi che egli diede ai tre ragazzi significavano che essi sarebbero stati sottomessi agli dei di Babilonia» [J. Dwight Pentecost, Investigate le Scritture, Antico Testamento, pag. 1394].

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Domenico34
00lunedì 9 aprile 2012 00:06
Se questa era veramente l’intenzione di Aspenaz, la storia del capitolo tre di Daniele, dimostra il contrario. Sì, è vero che ai tre giovani Ebrei (Daniele, per ragioni che non sappiamo spiegare, esce dalla scena) fu affidata l’amministrazione della provincia di Babilonia, in seguito alla richiesta che fece Daniele al re, (v. 2:49) con l’incarico di curare gli interessi del regno babilonese, ma questo non vuol dire che essi erano stati disposti a rinnegare la fede nell’Iddio d’Israele, per sottomettersi agli dèi babilonesi. L’esame che condurremo su di loro nel terzo capitolo di Daniele, metterà in evidenza tutti gli elementi della fermezza e della costanza, di Sadrac, Mesac e Abed-Nego, nel rimanere fedeli alla legge del loro Dio.

b) Nabucodonosor costruì una statua d’oro


Il progetto del re di Babilonia nel fare costruire una grande statua d’oro nella pianura di Dura, non era sicuramente stato ideato per costringere i tre amministratori Ebrei, all’adorazione di quella statua. Senza dubbio mirava a mettere in risalto la grandezza del monarca e la sottomissione alla sua volontà, di tutti gli abitanti del suo regno, compresi i tre giovani Ebrei, naturalmente. Quando si pensa che quella statua d’oro, era alta 28,8 m. e l’arga 2,88 m. si può, con ragione, valutare il costo di quell’opera (e solamente un impero come quello babilonese poteva sostenerlo) tutto questo parla eloquentemente dello sfarzo che venne messo in atto, in quel progetto per realizzarlo.

Dal punto di vista della “collettività”, (pensando che l’invito venne rivolto a tutti i funzionari del regno babilonese), Sadrac, Mesac e Abed-Nego, amministratori della provincia di Babilonia, non potevano essere esclusi, dall’essere invitati dal monarca ad assistere a quell’evento. La faccenda della loro fede Ebraica, non li esonerava dall'essere presenti a quella manifestazione pubblica.

Il fatto stesso che all’inaugurazione della statua d’oro siano presenti i satrapi, i prefetti, i governatori, i consiglieri, i tesorieri, i giureconsulti, i magistrati e tutte le autorità delle provincie (v. 2), ci porta a pensare che, anche i tre giovani Ebrei, vi partecipino. È forse una strana ipotesi, se si pensa alla loro presenza? La loro presenza, infatti, non deve essere considerata come un sinonimo di aderire e sottomettersi all’adorazione di quella statua, soprattutto se si tiene presente che l’invito era stato fatto per inaugurare la statua d’oro che era stata eretta. Che poi nella mente del monarca vi fosse la volontà di farla adorare, (com'è chiaramente affermato nel testo), è cosa che venne rivelato dopo.

Se Sadrac, Mesac ed Abed-Nego, non avessero aderito all’invito del re di trovarsi nella pianura di Dura, ciò sarebbe stato difficile, in quello stesso giorno, affermare che i tre funzionari Ebrei, non tenevano conto della parola del regnante. Mentre se si pensa alla loro presenza, in mezzo a tantissimi altri funzionari del regno, questo non diventa un problema, inquadrare nel contesto della narrazione, il momento in cui il re ordinò di inchinarsi e adorare la statua d’oro.

c) L’ordine di adorare la statua d’oro

Lo scopo principale di Nabucodonosor, nel fare erigere la grande statua d’oro, era solamente per fare sfoggio della ricchezza dell’impero babilonese, o nascondeva qualche altra cosa? L’idea di fare adorare la statua, il re l’aveva fin dall’inizio dei lavori, o gli venne ad opera compiuta? Non è facile rispondere a queste due domande! Leggendo il testo attentamente, si può intuire che, davanti al fasto di quell’opera mastodontica, e, vedendo tutti i suoi funzionari in piedi davanti alla statua eretta, non è strano pensare che al re venne l’idea di farla adorare.

L’invito rivolto a tutti i funzionari del regno, era quello di assistere all’inaugurazione della grande statua. Forse i partecipanti non pensavano che, mentre loro erano in piedi, sarebbe seguito un perentorio ordine imperiale di inchinarsi e adorare quella statua.

L’araldo a voce forte gridò:
«A voi, gente di ogni popolo, nazione e lingua, si ordina quanto segue:
nel momento in cui udrete il suono del corno, del flauto, della cetra, della lira, del saltèrio, della zampogna e di ogni specie di strumenti, vi inchinerete e adorerete la statua d’oro che il re Nabucodonosor ha fatto erigere.
Chi non si inchina per adorare, sarà immediatamente gettato in una fornace ardente»
(vv. 4-6).

Ora, ai presenti, non viene solamente ordinato di inchinarsi e adorare la statua d’oro che sta davanti a loro, ma viene anche fatto conoscere la punizione che andrà incontro, colui che non ubbidirà all’ordine del regnante, cioè verrà gettato in una fornace di fuoco. Inoltre, l’ordine di inchinarsi e adorare la statua d’oro, non è solamente per i presenti, ma si estende alla gente di ogni popolo, nazione e lingua. Al suono dei vari strumenti musicali, tutti dovranno obbedire all’ordine del monarca. È a questo punto che i tre giovani Ebrei vengono accusati d'infedeltà e fatti comparire alla presenza del re.

Come mai i tre giovani Ebrei, vengono subito accusati di essere stati disubbidienti all’ordine del monarca? Per il semplice fatto che, fra tutti i presenti che dovevano inchianarsi e adorare la statua che Nabucodonosor aveva fatto erigere, solamente Sadrac, Mesac ed Abed-Nego, erano rimasti in piedi e non avevano ubbidito all’ordine imperiale.

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Domenico34
00martedì 10 aprile 2012 00:04
d) I tre giovani Ebrei accusati davanti al re

Poiché i tre giovani Ebrei non si sono inchinati per adorare la statua d’oro, non fu difficile per i “Caldei”, presentarsi davanti a Nabucodonosor per accusare Sadrac, Mesac ed Abed-Nego d’infedeltà davanti al regnante. Il re che, certamente stimava i tre giovani Ebrei, per la straordinaria sapienza e saggezza che dimostravano nel condurre brillantemente gli affari della provincia di Babilonia, stentò, in un primo momento a credere che, quei suoi bravi amministratori, avessero osato mettere in discussione i suoi ordini.

L’interrogazione che il re rivolge ai tre giovani Ebrei: È vero che non adorate i miei dèi e non vi inchinate davanti alla statua d’oro che io ho fatto erigere? (v.14), rivela proprio questo. Siccome il monarca deve far valere la sua autorità, non esita ad aggiungere: Ma se non la adorerete, sarete immediatamente gettati in una fornace ardente; e quale Dio potrà liberarvi dalla mia mano?» ( v. 15).

Le parole del re, non solo mettono in evidenza la sua autorità e la fermezza della sua decisione, ma suonano anche come una sfida al Dio di Sadrac, Mesac ed Abed-Nego. Come significato, si rassomigliano alle parole che Rabsaché, l’inviato del re d’Assiria, pronunciò davanti ai servitori del re Ezechia:

fra tutti gli dèi di quei paesi quali sono quelli che hanno liberato il loro paese dalla mia mano? Il SIGNORE potrà forse liberare Gerusalemme dalla mia mano?» (2 Re 18:35).

e) La risposta dei tre giovani Ebrei e il suo epilogo

Lungi dall’essere intimoriti dall’autorità di Nabucodonosor e dalla sua sprezzante arroganza, Sadrac, Mesac ed Abed-Nego, con voce ferma e determinata, risposero:

...«O Nabucodonosor, noi non abbiamo bisogno di darti risposta su questo punto.
Ma il nostro Dio, che noi serviamo, ha il potere di salvarci e ci libererà dal fuoco della fornace ardente e dalla tua mano, o re.
Anche se questo non accadesse, sappi, o re, che comunque noi non serviremo i tuoi dèi e non adoreremo la statua d’oro che tu hai fatto erigere»
(vv. 16-16).

Era pertanto naturale che, davanti ad una simile risposta, il re s’infuriasse e mutasse completamente l’espressione del suo viso nei confronti di Sadrac, Mesac ed Abed-Nego. Probabilmente, Nabucodonosor, durante il tempo del suo governo, non aveva mai incontrato persone del suo regno che, con tanta audacia, osavano sfidare la sua autorità. Siccome la sfida riguardava la persona del re e metteva in discussione la validità dei suoi ordini, il monarca non esitò a ordinare di arroventare la fornace sette volte più del solito, e gettarvi dentro i tre giovani Ebrei.

Gli uomini più vigorosi del suo esercito, vennero incaricati di legare Sadrac, Mesac ed Abed-Nego con i loro abiti e di gettarli nella fornace del fuoco ardente.

Il Porteous, nel suo commento al libro di Daniele, scrive:

«Montgomery è certamente nel giusto quando dice che la fornace in questione è «simile ai nostri comuni forni da calce con in alto un pozzo perpendicolare per l’alimentazione e un’apertura in fondo per estrarre la calce fusa». Una struttura del genere spiegherebbe sia il modo in cui le vittime vengono gettate nella fornace sia il fatto che il re potesse osservare ciò che succedeva all’interno» [Norman W. Porteous, Antico Testamento, Daniele, pag. 70].

Davanti alla scena che si è presentata agli occhi di Nabucodonosor, il monarca che credeva di vedere consumati dal fuoco i tre giovani ribelli, ha dovuto ammettere che ciò non si era verificato. Infatti, i tre giovani Ebrei che furono gettati legati, nella fornace, ora li vede sciolti dai legami camminano in mezzo ad essa. Non solo questo, ma si trovano in compagnia con una quarta persona, che è simile a quello di un figlio degli dèi.

Davanti a questa constatazione, il prepotente ed orgoglioso Nabucudonosor, tutto spaventato, è stato costretto a riconoscere, davanti ai suoi funzionari che, Sadrac, Mesac ed Abed-Nego, sono servi del Dio Altissimo. E, senza perdere tempo, chiama i tre giovani Ebrei ad uscire subito dalla fornace. Usciti, Sadrac, Mesac ed Abed-Nego vennero esaminati e si costatò che il fuoco non aveva avuto nessun potere sui loro corpi, i capelli non erano stati bruciati, gli indumenti che aveva addosso, non erano stati alterati e neanche l’odore del fuoco si era attaccato su di loro. L’unica cosa che il fuoco consumò, furono i “legami” che gli uomini incaricati dal re, misero addosso ai tre giovani Ebrei. Se questi legami sono stati consumati dal fuoco, è stato essenzialmente perché non facevano parte dei loro indumenti.

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Domenico34
00mercoledì 11 aprile 2012 00:15
Ora il monarca, davanti a quell'evidenza, afferma ed ordina nello stesso tempo:

«Benedetto sia il Dio di Sadrac, di Mesac, e di Abed-Nego, il quale ha mandato il suo angelo e ha liberato i suoi servi che hanno confidato in lui, hanno trasgredito l’ordine del re, hanno esposto i loro corpi per non servire né adorare alcun altro Dio che il loro.
Perciò ordino quanto segue: chiunque, a qualsiasi popolo, nazione o lingua appartenga, dirà male del Dio di Sadrac, Mesac e Abed-Nego, sia fatto a pezzi e la sua casa ridotta in un letamaio; perché non c’è nessun altro dio che possa salvare in questo modo»
(vv. 28-29).

RIFLESSIONI

Davanti al racconto biblico, alcune riflessioni si impongono, per dare forza al tema del nostro libro: L’uomo si comporta ed agisce in conformità a ciò che crede.

1. La fermezza e la costanza dei tre giovani Ebrei, per ciò che riguardava la loro fede in Dio e la fedeltà alla Sua legge, è stata dimostrata nei momenti più difficili della loro esistenza. Parlare di credere in Dio e alla Sua Parola, quando tutto è calmo e le cose attorno a noi vanno nel giusto verso, è una cosa, mentre sostenerli davanti ad una prova di fuoco, è tutto diverso. Sadrac, Mesac ed Abed-Nego, non erano dei credenti superficiali, pronti a sbandierare la loro credenza in Dio, quando erano soli nelle loro case e quando si trovavano nei loro posti di lavoro. Erano veri credenti, nel senso che, non avevano nessuna difficoltà a rivelare pubblicamente, e davanti a chiunque, quello che essi credevano. Se avessero potuto esprimersi nella stessa maniera come ha fatto l’apostolo Paolo: So in chi ho creduto (2 Timoteo 1:12), l’avrebbero fatto con piena cognizione di causa, ripetendo le stesse parole.
Un vero credente, non ha paura delle minacce che potrebbe subire a motivo della sua fede in Cristo; ma sarà pronto a subire qualsiasi disprezzo, privazioni e finanche la confisca dei suoi beni, pur di rimanere fedele al suo Signore e Salvatore, Gesù Cristo.

2. La fedeltà di una persona alla legge divina, sarà messa alla prova, non con le sole parole, ma con azioni ferme e decise che tutti possono vedere. Un credente che vuole piacere a chi lo ha salvato, non cercherà di attirarsi la simpatia e l’approvazione di chi gli sta vicino; sarà cordiale ed amichevole con tutti, ma terrà in debita considerazione, la volontà del suo Signore. Si possono benissimo applicare le parole di Gesù:

Non chiunque mi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli (Matteo 7:21).

Davanti ad una minaccia che imponeva di non parlare a nessuno del nome di Gesù, Pietro e Giovanni risposero:

«Giudicate voi se è giusto, davanti a Dio, ubbidire a voi anziché a Dio.
Quanto a noi, non possiamo non parlare delle cose che abbiamo viste e udite»
(Atti 4:19-20).

3. La Bibbia afferma che Dio onora quelli che l’onorano (1 Samuele 2:30). La migliore maniera di onorarlo, è quando si mette in pratica la Sua Parola. I tre giovani Ebrei si ricordarono sicuramente, del divieto divino, di servire e adorare altri dèi (Esodo 20:3-5; Deuteronomio 6:13-14). In conseguenza di ciò, si rifiutarono di servire e adorare gli dèi babilonesi. Ogni forma d'idolatria, è abominevole al Signore; i veri credenti sanno ben guardarsi da essa (1 Giovanni 5:21) e adoreranno solo Dio in spirito e verità (Giovanni 4:24).

4. La fermezza e la determinazione di affrontare l’autorità di Nabucodonosor e sfidare la morte, per i tre giovani Ebrei, ciò derivava dalla loro fedeltà alla Parola del Signore e dalla certezza, che il loro Dio, aveva il potere di salvarli e di liberarli dal fuoco della fornace ardente e dalla mano del re di Babilonia. Quando la nostra fede è ferma e non traballa, sia davanti alle minacce e sia davanti alla morte, sarà da essa che si ricaveranno le forze necessarie, per sfidare ogni potenza diabolica, e uscirne vittoriosi.

Il fuoco della fornace ardente potrebbe essere una serie di prove particolari, che tocca gli interessi economici di una nostra attività commerciale; una sofferenza fisica prolungata nel tempo, derivata da malattie; difficoltà di ogni genere nella nostra vita di famiglia; scarsezza economica e mancanza di risorse materiali, necessarie alla nostra sopravvivenza. Qualunque nome si dia al fuoco ardente della fornace, se si crede che il nostro Dio ha il potere di salvarci e liberarci da essa, il fuoco di questa fornace, consumerà solamente i “legami” che altri ci hanno messo addosso. Tutto ciò che appartiene a noi, cioè che fa parte della nostra vita, della nostra esperienza cristiana: la fede in Cristo, la certezza che Egli è con noi, il potere divino a nostro favore, la giustizia di Cristo che ci copre e ci adorna, il fuoco della prova, della malattia, della difficoltà di ogni genere, non potrà distruggerci. Dio stesso che a volte permette di essere gettati in questa fornace, sarà Colui che ci farà uscire da essa, non come sconfitti e distrutti, ma come veri trionfatori, a lode e gloria del Suo Nome.

Nessuno si alluda: ognuno di noi si comporterà ed agirà, sempre in conformità a ciò che si crede. Dio è fedele in tutto ciò che promette:

Quando dovrai attraversare le acque, io sarò con te; quando attraverserai i fiumi, essi non ti sommergeranno; quando camminerai nel fuoco non sarai bruciato e la fiamma non ti consumerà (Isaia 43:2),

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Domenico34
00giovedì 12 aprile 2012 00:08
Egli non è venuto mai meno, e sarà sempre eternamente fedele. A Lui l’onore e la gloria!

PS: Se al termine del capitolo 6 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 7




DANIELE MESSO ALLA PROVA




Parve bene a Dario di affidare l’amministrazione del suo regno a centoventi satrapi distribuiti in tutte le province del regno.
Sopra di loro nominò tre capi, uno dei quali era Daniele, perché i satrapi rendessero conto a loro e il re non dovesse soffrire alcun danno.
Questo Daniele si distingueva tra i capi e i satrapi, perché c’era in lui uno spirito straordinario; il re pensava di stabilirlo sopra tutto il suo regno.
Allora i capi e i satrapi cercarono di trovare un’occasione per accusare Daniele circa l’amministrazione del regno, ma non potevano trovare alcuna occasione né alcun motivo di riprensione, perché egli era fedele e non c’era in lui alcuna mancanza da potergli rimproverare.
Quegli uomini dissero dunque: «Noi non avremo nessun pretesto per accusare questo Daniele, se non lo troviamo in quello che concerne la legge del suo Dio».
Allora capi e satrapi vennero tumultuosamente presso il re e gli dissero: «Vivi in eterno, o re Dario!
Tutti i capi del regno, i prefetti e i satrapi, i consiglieri e i governatori si sono accordati perché il re promulghi un decreto e imponga un severo divieto: chiunque, per un periodo di trenta giorni, rivolgerà una richiesta a qualsiasi dio o uomo tranne che a te, o re, sia gettato nella fossa dei leoni.
Ora, o re, promulga il divieto e firma il decreto, perché sia immutabile conformemente alla legge dei Medi e dei Persiani, che è irrevocabile».
Il re Dario quindi firmò il decreto e il divieto.
Quando Daniele seppe che il decreto era firmato, andò a casa sua; e, tenendo le finestre della sua camera superiore aperte verso Gerusalemme, tre volte al giorno si metteva in ginocchio, pregava e ringraziava il suo Dio come era solito fare anche prima.
Allora quegli uomini accorsero in fretta e trovarono Daniele che pregava e invocava il suo Dio.
Poi si recarono dal re e gli ricordarono il divieto reale: «Non hai tu decretato che chiunque per un periodo di trenta giorni farà una richiesta a qualsiasi dio o uomo tranne che a te, o re, sia gettato nella fossa dei leoni?» Il re rispose e disse: «Così ho stabilito secondo la legge dei Medi e dei Persiani, che è irrevocabile».
Allora quelli ripresero la parola e dissero al re: «Daniele, uno dei deportati dalla Giudea, non tiene in nessun conto né te, né il divieto che tu hai firmato, o re, ma prega il suo Dio tre volte al giorno».
Udito questo, il re ne fu molto addolorato; si mise in animo di liberare Daniele e fino al tramonto del sole fece di tutto per salvarlo.
Ma quegli uomini vennero tumultuosamente dal re e gli dissero: «Sappi, o re, che la legge dei Medi e dei Persiani vuole che nessun divieto o decreto promulgato dal re venga mutato».
Allora il re ordinò che Daniele fosse preso e gettato nella fossa dei leoni. E il re parlò a Daniele e gli disse: «Il tuo Dio, che tu servi con perseveranza, sarà lui a liberarti».
Poi fu portata una pietra e fu messa sull’apertura della fossa; il re la sigillò con il suo anello e con l’anello dei suoi grandi, perché nulla fosse mutato riguardo a Daniele.
Allora il re ritornò al suo palazzo e digiunò tutta la notte; non fece venire nessuna delle concubine e non riuscì a dormire.
La mattina il re si alzò molto presto, appena fu giorno, e si recò in fretta alla fossa dei leoni.
Quando fu vicino alla fossa, chiamò Daniele con voce angosciata e gli disse: «Daniele, servo del Dio vivente! Il tuo Dio, che tu servi con perseveranza, ha potuto liberarti dai leoni?»
Daniele rispose al re: «Vivi per sempre o re!
Il mio Dio ha mandato il suo angelo che ha chiuso la bocca dei leoni; essi non mi hanno fatto nessun male perché sono stato trovato innocente davanti a lui; e anche davanti a te, o re, non ho fatto niente di male».
Allora il re fu molto contento e ordinò che Daniele fosse tirato fuori dalla fossa; Daniele fu tirato fuori dalla fossa e non si trovò su di lui nessuna ferita, perché aveva avuto fiducia nel suo Dio.
Per ordine del re, gli uomini che avevano accusato Daniele furono presi e gettati nella fossa dei leoni con i loro figli e le loro mogli. Non erano ancora giunti in fondo alla fossa, che i leoni si lanciarono su di loro e stritolarono tutte le loro ossa.
Allora il re Dario scrisse alle genti di ogni popolo, nazione e lingua che abitavano su tutta la terra: «Pace e prosperità vi siano date in abbondanza!
Io decreto che in tutto il territorio del mio regno si tema e si rispetti il Dio di Daniele, perché è il Dio vivente che dura in eterno; il suo regno non sarà mai distrutto e il suo dominio durerà sino alla fine.
Egli libera e salva, fa segni e prodigi in cielo e in terra. lui che ha liberato Daniele dalle zampe dei leoni».
Daniele prosperò durante il regno di Dario e durante il regno di Ciro, il Persiano
(Daniele 6:1-28).

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Domenico34
00venerdì 13 aprile 2012 00:04
a) Daniele al servizio del re Dario

Al tempo dei fatti narrati in questo capitolo sei, Daniele aveva più di ottanta anni. Ne aveva circa sedici quando è stato deportato sessantasei anni prima (605 a.C). Così a causa dell’età, aveva molta esperienza maturata sotto Nabucodonosor (2:48) per circa trentanove anni [Cfr. J. Dwight Pentecost, Investigate le Scritture, Antico Testamento, pagg. 1412-1413), per conoscere anche le quattro spiegazioni che sono state date, in risposta ai critici che hanno a lungo discusso sulla storicità di Daniele].

Lasciando da parte quello che hanno discusso i critici sulla storicità di Daniele, concentriamo la nostra attenzione su quello che narra il testo biblico su quest'illustre servitore del Signore e alto funzionario statale, qual è stato appunto Daniele. La sua straordinaria intelligenza e saggezza, l’abbiamo notata fin dalla sua giovinezza, narrata nel capitolo uno. Che poi si è sviluppata nel corso degli anni, lo dimostrano i capitoli 1,2,4,5 e 6.

È stato in virtù della sua saggezza, nel sapere bene amministrare gli affari pubblici che, Dario, dopo la morte di Baldassar, prendendo in mano il regno, elevò ad un rango superire Daniele, costituendolo uno dei tre capi del suo regno. Tenuto conto della correttezza e della fedeltà, e, soprattutto del fatto che in Daniele c’era uno spirito straordinario, Dario pensava addirittura di stabilirlo sopra tutto il suo regno.

Una simile posizione e un simile prestigio, causò l’invidia dei suoi colleghi. Eppure Daniele non era un personaggio invidioso della posizione che altri avevano raggiunto; ma gli altri lo erano nei suoi confronti. Poiché i colleghi di Daniele non potevano vederlo di buon occhio, questi fecero del tutto per indagare sul suo comportamento, nella speranza di trovare qualche difetto di cattiva amministrazione, per poi accusarlo davanti al re Dario.

Sappiamo però, nonostante che quei due colleghi avessero svolto un lavoro meticoloso di controllo nei confronti del lavoro di Daniele, che essi non trovarono nessun difetto di cattiva amministrazione, come loro speravano, perché appunto Daniele era fedele e non c’era in lui alcuna mancanza da potergli rimproverare.

Pensando al fattore religioso (Daniele senza dubbio avrà parlato con i suoi colleghi della sua fede e della legge del suo Dio, e anche della sua abitudine di pregare tre volte al giorno) pensarono di colpirlo, nella parte ispirata a devozione della sua vita religiosa, nella speranza di riuscirvi. Ma come fare per riuscire nella loro impresa? Potevano farlo desistere dal parlare del suo Dio, e impedirgli nella sua attività giornaliera di pregare? Non era facile raggiungere il loro scopo. D’altra parte, Daniele non era un ragazzino da lasciarsi convincere facilmente a desistere da quella sua attività religiosa. Era un uomo maturo con tanti anni sulle sue spalle, possibilmente di età più avanzata dei suoi colleghi. Come fare allora per centrare il bersaglio? Ecco l’idea che balenò nella loro testa.

b) Il decreto di proibizione che il re Dario firmò

Con ogni probabilità, gli invidiosi di Daniele, non erano i satrapi, i prefetti, i consiglieri e i governatori, ma quelli di pari grado a lui, cioè gli altri due capi. Per dare credito e autorità alla loro parola, quando questi due capi si presentarono davanti a Dario, affermarono che

tutti i capi del regno (quindi inclusero anche Daniele), i prefetti, i satrapi, i consiglieri e i governatori si sono accordati perché il re promulghi un decreto e imponga un severo divieto: chiunque, per un periodo di trenta giorni, rivolgerà una richiesta a qualsiasi dio o uomo tranne che a te, o re, sia gettato nella fossa dei leoni (v. 7).

La proposta formulata in quella maniera, non dava il minimo sospetto al monarca, che la cosa non fosse come quei due capi gliela avevano presentata. Il fatto poi che la persona di Dario veniva elevata al rango di un dio, attirò l’approvazione del regnante, il quale non esitò a firmare il decreto propostogli. Certo, se egli avesse intuito che quel decreto era stato concepito per colpire Daniele, egli non l’avrebbe mai firmato, soprattutto per la fiducia e la stima che aveva nei suoi confronti.

c) Una prova seria per Daniele

Che una copia del decreto che il re aveva firmato di recente, fosse arrivata sulla scrivania di Daniele, è cosa certa, soprattutto se si pensa alla carica che egli rivestiva. Daniele avrebbe potuto contestare quel decreto, rivelando al re che egli non era stato consultato per quella faccenda, e non era affatto vero che per quel divieto, ci fosse stata l’unanimità di tutti i funzionari del regno. Se Daniele avesse fatto una simile mossa, non solo avrebbe svelata la trama dei suoi colleghi, ma il re stesso, avrebbe creduto più a Daniele che a tutti gli altri funzionari del suo regno. Però, questo, Daniele non lo fece. Perché? Egli, non avendo uno spirito vendicativo, non volle mostrare i suoi sentimenti e il suo giudizio intorno a quel decreto; preferì mettere tutta quella faccenda nelle mani del suo Signore, con la certezza che il suo Dio, si sarebbe occupato di quella situazione e avrebbe messo al riparo la vita del suo servitore.

Conosciuto il testo del decreto, e, tenendo conto che quel divieto era stato concepito per colpire lui, fece finta di ignorarlo. Infatti, senza apportare modifiche alla sua usanza, continuò a pregare, tre volte al giorno il suo Dio, tenendo aperte le finestre della sua camera superiore verso Gerusalemme.

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Domenico34
00sabato 14 aprile 2012 00:10
Se egli avesse chiuso le finestre, avrebbe dato l’impressione di temere il decreto del re; ma tenendole aperte, dimostrò il suo coraggio e la ferma determinazione a continuare la sua vita ispirata a devozione con il suo Dio, come aveva fatto per tanti anni, senza farsi intimorire dai suoi avversari.

Quel suo atteggiamento fermo e deciso, non gli veniva certamente dalla carica che rivestiva e dai buoni rapporti che c’erano tra lui e il re, ma dalla fede nel suo Dio. Poiché egli credeva fermamente ai principi di fedeltà e di obbedienza alla legge del suo Signore, il suo comportamento e il suo agire era in coerenza con la sua fede.

Il termine dei 30 giorni che, quei due capi avevano fatto inserire nel decreto, era una forma per eludere il tranello che concepivano contro Daniele. Essi, infatti, sapevano che, non sarebbe occorso tutto quel tempo, per trovare Daniele impegnato nella sua attività giornaliera di pregare il suo Dio. Sarebbe bastato un solo giorno, per accusare Daniele davanti a Dario, come persona che non teneva conto dell’autorità del monarca. Ma se loro avessero concepito il divieto in quel modo, cioè con la scadenza di un solo giorno, facilmente la loro insincerità sarebbe venuta a galla, e il re, avrebbe chiesto spiegazioni e chiarimenti, prima di apporre la sua firma. Mentre con la durata di trenta giorni, la proposta nella sua forma, non appariva viziata, il piano rimaneva bene camuffato e il regnante non avrebbe avuto motivi di esitare a firmare il documento.

Tenuto conto che gli avversari di Daniele conoscevano bene la sua usanza di pregare tre volte al giorno il suo Dio, non hanno avuto bisogno di predisporre servizi informativi segreti, tendenti ad assicurarsi se Daniele era rimasto fermo nelle sue pratiche religiose. Avranno agito subito dopo che il decreto del re entrò in vigore, per mettere sotto accusa Daniele? Crediamo che avranno atteso alcuni giorni, prima di presentarsi davanti al re, per accusare Daniele d’infedeltà nei suoi confronti. Se gli avversari di Daniele avessero agito subito, avrebbero data la possibilità al monarca di sospettare un complotto nei confronti di Daniele. Mentre, tardando alcuni giorni, (sempre entro i limiti dei trenta giorni previsti dal decreto), tutto sarebbe apparso normale.

L’accusa non poteva essere presentata al regnante sulla base del “sentito dire”; ci doveva essere una prova diretta, cioè di prima mano. Ecco perché il testo precisa:

Allora quegli uomini accorsero in fretta e trovarono Daniele che pregava e invocava il suo Dio (v. 11).

Avuta la prova in mano, gli accusatori di Daniele, possono subito correre dal re, per annunciargli che Daniele si rendeva colpevole. Pur essendo quello lo scopo di correre in fretta dal monarca, non fecero subito il nome dall’accusato, ma vollero accertarsi, se il regnante teneva in mente il decreto del divieto che aveva firmato.

Poi si recarono dal re e gli ricordarono il divieto reale: «Non hai tu decretato che chiunque per un periodo di trenta giorni farà una richiesta a qualsiasi dio o uomo tranne che a te, o re, sia gettato nella fossa dei leoni?» Il re rispose e disse: «Così ho stabilito secondo la legge dei Medi e dei Persiani, che è irrevocabile» (v. 12).

Avuta la certezza che non è avvenuto alcun ripensamento da parte del re, circa il divieto, gli accusatori di Daniele, possono parlare liberamente e fare il nome del trasgressore. A sentire che Daniele aveva trasgredito il divieto, Dario che non aveva avuto il minimo sospetto che il decreto propostogli, mirava a colpire il suo stimato ed apprezzato funzionario, in un primo momento sì addolorò, e in secondo tempo si mise in animo di liberare Daniele e fino al tramonto del sole fece di tutto per salvarlo. Però, visto che il suo tentativo non andò in porto, per l’incalzare deciso e insistente degli accusatori, Dario, a malincuore, fu costretto ad ordinare che Daniele venisse gettato nella fossa dei leoni.

d) Daniele nella fossa dei leoni e la sua liberazione


Prima che Daniele venisse consegnato nelle mani di chi l’avrebbe gettato nella fossa dei leoni, il re parlò a Daniele e gli disse: «Il tuo Dio, che tu servi con perseveranza, sarà lui a liberarti».

La pietra che venne messa sull’apertura della fossa e il sigillo reale che venne apposto, erano la garanzia, che nulla fosse mutato riguardo a Daniele.
Poiché Dario era profondamente addolorato per la sorte che era toccata a Daniele, ritornando nel suo palazzo, digiunò tutta la nottata; non fece venire nessuna delle sue concubine e non riuscì a dormire.

La mattina quando si alzò, invece di pensare ad altre cose, corse alla fossa dei leoni, per vedere se l’Iddio di Daniele, l’aveva salvato dai leoni. Nonostante che la sera prima avesse detto a Daniele che il suo Dio avrebbe pensato a liberarlo, appena si trova nelle vicinanze della fossa, a gran voce chiamò Daniele, per sapere se veramente il suo Dio lo aveva liberato dai leoni. È importante mettere in risalto che, prima ancora che il re avesse detto altre parole, definì Daniele servo del Dio vivente!

Si continuerà il prossimo giorno…
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