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La Vita di Cristo non è racchiusa in un pensare. E se invece di un pensiero tu portassi la Vita?
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Domenico34 - Insegnando le cose che Gesù ha comandato di osservare

Ultimo Aggiornamento: 02/09/2011 00:08
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17/08/2011 00:12

Niente è insignificante in tutto ciò che Gesù dice ai suoi discepoli, se viene giustamente interpretato. Anche se il nostro testo parla specificatamente della missione dei dodici apostoli, ciò non vuol affermare che la stessa non possa essere presa come modello per tutti gli altri incarichi che vengono svolte per la stessa causa. Anticamente il profeta Isaia metteva in risalto il valore di un'opera missionaria, con queste parole:

Quanto son belli, sui monti, i piedi del messaggero di buone novelle, che annunzia la pace, ch'è araldo di notizie liete, che annunzia la salvezza, che dice a Sion: Il tuo Dio regna (Isaia 52:7).

A questo testo faceva eco l'apostolo Paolo, quando chiedeva:
Come dunque invocheranno ui nel quale non ha creduto? E come crederanno in ui del quale non hanno udito parlare? E come udiranno, se non v'è chi predica? Come predicheranno se non sono mandati? (Romani 10:14,15).

Le quattro domande formulate, hanno una dipendenza l'una dall'altra, che non è possibile ignorare. Non si può invoca il Signore per essere salvati se non si crede in chi si invoca. Non si può credere, se non si asti; non si può astare se manca il predicatore e non si potrà predicare se non c'è il mandato. Tutto viene messo in ordine, per dare peso e valore al mandato. Che qui non si tratta di un mandato umano, bensì divino, appare abbastanza specificato, soprattutto quando il tutto si svolge per la salvezza di un'anima. Sarà possibile valutare la portata teologica delle quattro domande, senza mettere in debito risalto il comando divino.

Quello che dà valore e peso ad una qualsiasi attività missionaria, non è tanto l'abilità del missionario, quanto l'autorità del mandato divino. Ai giorni nostri non si può ignorare che si dia più importanza alla preparazione accademica, agli attestati sastici, anziché al mandato divino. Con ciò non vogliamo assolutamente affermare che la preparazione accademica non sia importante o che il missionario, quando parla, non debba sapere quello che dice, o peggio ancora che debba ripudiare una qualsiasi preparazione sastica, come inutile e nociva. È il mandato divino che abilita al ministero, e la preparazione sastica senza l'incarico divino, diventa un facile motivo d'innalzamento e di vanagloria. Ma quando alla preparazione accademica si associa il mandato divino, lo stesso allestimento sastico, non solo non sarà motivo di vanagloria e di grandezza, ma contribuirà all'espletamento del ministero nella dimensione voluta da Dio.

In altre parole, non è affatto vero che tutti gli accademici abbiano il mandato divino, sol perché hanno un attestato comprovante la loro preparazione. Qui non si tratta di stabilire se l'idoneità va considerata in base ad un certificato sastico, si tratta invece di vedere se c'è il mandato divino, che dia valore ed importanza all'attività missionaria. Anche se leggiamo parole come queste:

Essi dunque, mandati dallo Spirito Santo scesero a Seleucia (Atti 13: 4),
o:
E lo Spirito disse a Filippo: Accostati, e raggiungi codesto carro (Atti 8:29), si tratta sempre di un mandato e di un ordine divino.

In base a queste considerazioni, si hanno buoni motivi per chiedere se un mandato divino ha dei segni visibili che l'autenticano. Una persona che dovesse agire con il pretesto di essere stato mandato a compiere una determinata missione, senza esibire le sue credenziali, rischierebbe di non essere accettata e il suo mandato sarebbe considerato come un'opera fasulla. A chi Dio manda, Egli dà anche le sue credenziali, in modo che il mandato divino, non solo sia accettato, ma favorito nel suo svolgimento. Non è possibile accettare questa spiegazione per quanto riguarda gli apostoli, e negarla per i discepoli del ventesimo seo.

La missione degli apostoli, anche se si considera unica per quanto riguarda il loro ufficio, non è tale per quanto riguarda l'opera del ministero, inteso come continuazione dell'attività del Signore. Gli apostoli compierono la loro missione al loro tempo e con riferimento al loro partiare ufficio; i discepoli d'oggi, eseguono il loro mandato, con allusione a questo periodo. Ma gli uni e gli altri, vengono avvalorati nel loro lavoro, in funzione del mandato divino che li ha chiamati in quest'opera missionaria. Il sanare gli infermi, risuscitate i morti, mondare i lebbrosi e, cacciate i demoni, costituiva le credenziali per gli apostoli nell'espletamento della loro missione.

Il tempo della missione della Chiesa, non si è esaurito con l'attività apostolica, e tanto meno le manifestazioni miracolose devono intendersi un'esclusiva degli apostoli, all'infuori dei quali non è più possibile vedere le stesse cose. Se la missione della Chiesa continua ancora nel ventesimo seo, con la stessa finalità di quella del primo seo, perché Gesù, ch'è lo stesso: Ieri, oggi e in eterno (Eb 13:8), non dovrebbe Egli dare le stesse credenziali ai discepoli di oggi? C'è forse cambiamento o annullamento nei piani divini per quanto riguarda l'opera missionaria? Si è forse esaurita l'opera missionaria? È venuto meno il potere miracoloso di Dio? O la generazione d'oggi, non ha più bisogno del soprannaturale?

Quant'altro si potrebbe chiedere, trova la risposta in quell'unica e semplice parola: Gesù Cristo è lo stesso: Ieri, oggi e in eterno. Se i segni del miracoloso, non sono più evidenti, nella stessa maniera come lo furono ai tempi degli apostoli, non è perché Gesù sia cambiato, o che il suo potere si sia estinto, ma è prova ch'è venuto meno il divino nel mandato.

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18/08/2011 00:08

Sembrerebbe un paradosso venire fuori con queste affermazioni in un tempo in cui si intraprendono le più svariate iniziative, si svolgono le più svariate attività e si compiono le più ardite imprese. Sì, sembrerebbe strano, ma non lo è se si considera che le tante cose che si fanno nel nome del Signore, non vengono fatte con l'autorità di un mandato divino, ma probabilmente con l'entusiasmo della vanagloria umana. Dio dice che Egli onora quelli che l'onorano (1 Samuele 2:30), e questo suo principio non è venuto mai meno e mai sarà annullato. Viviamo in tempi in cui il miracoloso, non solo viene criticato, ma addirittura scambiato come manifestazione satanica. È strano a dirlo, ciò non si manifesta in un mondo ateo ma in un mondo chiamato cristiano, ove quasi tutte le manifestazioni miracolose vengono valutate e misurate raziocinio umano.

Non fate provvisione né d'oro, né d'argento, né di rame nelle vostre cinture, né di sacca da viaggio, né di due tuniche, né di calzari, né di bastone, perché l'operaio è degno del suo nutrimento (Matteo 10:9,10).

Marco e Luca al posto del rame hanno denaro, perché era appunto il contante che veniva messo nella cintura. È impensabile, nel ventesimo seo, un simile ordine, e si può domandare se le parole della disposizione di Gesù, devono essere prese in considerazione, cioè se il missionario non debba pensare al suo fabbisogno per le necessità della vita.

Gesù, con queste sue parole, non ha voluto insegnare che il missionario non deve avere tutto ciò che è necessario per la sua missione. Egli ha voluto soltanto sottolineare, con la sua affermazione, che l'operaio è degno del suo nutrimento, che il missionario non deve più pensare ai bisogni, come al mangiare e al vestire, ma piuttosto alla sua missione alla qual è stato chiamato. In altre parole, Gesù ha voluto ammonire i suoi discepoli, che non bisogna pensare al cosiddetto rifornimento, per avere assicurato il domani, perché ciò non entra nella logica di una persona e di una missione che dipende da Dio. Il divino Signore, ha tutto sotto controllo.

Quando il missionario vuole sapere, prima di iniziare la sua missione, in che misura sarà il suo salario, o che un'organizzazione missionaria non manda un missionario, se prima non c'è in cassa quanto si è preventivato per quella missione, è qcolui che si rivela l'infondatezza di quell'approvvigionamento, di cui parla specificatamente Gesù.

Se un missionario (non importa che tipo di missione svolge, se in pico o in grand, che deve portare agli uomini la parola di Dio, la parola della fede, ha lui stesso dei dubbi, circa il suo sostentamento, che tipo d'insegnamento porterà agli uomini, e su che cosa inviterà ad aver fede? Un missionario che dovesse manifestare un simile atteggiamento, rivelerebbe non solo la sua mancanza di fede, ma metterebbe in seria diffità il suo mandato, se questo è venuto veramente da Dio o se è stato invece affidato da un uomo. Parlare che Dio prende cura dei nostri bisogni, non solo quelli spirituali, ma anche quelli materiali, è la cosa più semplice e più facile a dire, ma non lo è altrettanto sul piano pratico.

Gesù, per il suo discepolo che Egli manda, ha previsto un'assistenza generale per tutte le evenienze che andrà incontro. Bisogna credere che la parola di Gesù, sia stabile in eterno. Quindi, niente paura; niente apprensioni, niente sollecitudini; tutto è sotto il controllo del divino direttore, e quando sembra che la situazione peggiora, interviene lo Spirito Santo, per prendere le difese (Matteo 10:20).

Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Anticamente, l'Eterno, per mezzo d'Isaia, aveva rivolto quest'invito a tutti i popoli:

O voi tutti che siete assetati, venite alle acque, e voi che non avete denaro venite... comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte (Isaia 55:1).

Tutti i beni della grazia, Dio li offre e li dona gratuitamente. Tutto è stato pagato, e chi ha pagato il prezzo di tutti i beni, è stato Gesù, con la sua stessa vita che offrì, soprattutto quando è morto sulla croce del Calvario. L'unica cosa che l'uomo deve fare, è di accettare il dono che gli viene offerto gratuitamente, che corrisponde al comprare senza denaro d'Isaia. Dal momento che il discepolo di Gesù, che viene mandato in missione, sa di aver ricevuto gratuitamente, deve tener presente, che deve altrettanto dare gratuitamente. Il discepolo di Gesù non ha una merce da vendere in cambio del denaro.

La sua missione non consiste in un affare commerciale; non è un certo convincere l'astatore per comprare il suo prodotto; lo scopo della sua missione non è quello di raccogliere denaro (e certe volte si fa in un modo disonesto e scandaloso), ma di predicare e dire: il regno dei cieli è vicino. Come non denunciare certi imperi economici, che vengono costituiti con il pretesto che il Gesù Signor ha dato di fare quel dato lavoro, di svolgere quel tipo di missione! Certi cristiani, così chiamati, con i loro inganni e con la loro sete di denaro, hanno messo l'opera del Signore in ridio e in cattiva fama e di procurare più scandali, di tutti gli atei e i materialisti messi insieme. Non è difficile, ai giorni nostri, specie in terra americana sentire dire:

«Se hai un bisogno, di qualsiasi genere, e hai necessità che si preghi per te, più denaro sarà inviato a questa missione, più presto sarà esaudita la tua preghiera, e più presto riceverai quello che chiedi».

Si vuole assicurare l'esaurimento della preghiera e il ricevere di una grazia, a suon di dollari. Questa è pura disonestà e simonia! Non ha niente a che vedere con un'attività missionaria, tendente a portare agli uomini la parola di Dio, l'Evangelo di Gesù Cristo. Coloro che si comportano in questa maniera, non solo sono operai fraudolenti, persone che

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19/08/2011 00:19

fanno professione di conoscere Iddio; ma lo rinnegano con le loro opere ( Tito 1:16), si può anche dire di loro che il loro Dio è il ventre (Filippesi 3:19).

23. UNA PRECISA DISPOSIZIONE PER QUANTO RIGUARDA L'AMORE PER LA FAMIGLIA

Chi ama padre e madre più di me, non è degno di me; e chi ama figliolo o figliola più di me, non è degno di me (Matt 10:37).

La famiglia, costituita generalmente da genitori e figli (salvo eccezioni quando non ci sono figl, è l'organismo che Dio stesso ha costituito, dichiarandolo sacro, agli occhi suoi (Ebrei 13:4). Il quinto comandamento stabilisce di Onorare padre e madre (Esodo 20:12). Gesù, ai suoi giorni ribadì questo comandamento quando disse:

Mosè infatti ha detto: Onora tuo padre e tua madre (Marco 7:10),
e poi aggiunse:
Chi maledice padre o madre sia punito di morte (Marco 7:10); Levitico 21:17).

Più tardi l'apostolo Paolo darà dettagliate spiegazioni per quanto riguarda l'intera famiglia, in modo che ogni componente, sappia come deve comportarsi, intorno a questa norma divina (cfr. Efesini 6:1-4; Colossesi 3:20,21. Da questi testi appare chiaro in che posizione Dio abbia messo i genitori nell'ambito della famiglia. Ignorare questa precisa norma, significa non tener conto della parola di Dio e dell'importanza che Dio ha dato ai genitori nell'ambito della famiglia. Gesù conosceva molto bene quello che Dio aveva stabilito, tramite Mosè, per quanto riguarda l'onore che si deve al padre e alla madre.

Nonostante ciò, stabilì un ordine nuovo per quanto riguarda l'amore che si deve manifestare nei confronti dei genitori, amore che i figli devono confrontare con l'amore che si deve nei confronti di Gesù. Gesù vuole essere amato nella stessa maniera come lo vuole Dio Padre. Ma l'amore per lui, non può essere nella stessa misura come quello che i figli hanno verso i propri genitori. Un simile amore manifestato in questa proporzione, è un amore che Gesù non accetta e di cui non è interessato.

Amare Gesù nella stessa misura come si amano il padre e la madre, significa in ultima analisi, mettere i genitori alla pari del Figlio di Dio, come se fossero anche loro essere divini. Perciò, Gesù afferma chiaramente: Chi ama padre e madre più di me non è degno di me. Quanto grande possa essere l'amore di un figlio verso il proprio genitore, non deve mai superare quello per Gesù. Dal momento che questo amore filiale supera, nella sua manifestazione, quello del Signore, la persona che si comporta in questa maniera, non è degna di Lui.

Ci viene da domandare perché mai Gesù dà questa precisa e categorica disposizione?

1) Egli non vuole affatto insinuare che i genitori non si devono onorare. Una simile conclusione, è senza dubbio in contrasto con quello che Gesù insegnò, durante il tempo della sua permanenza in mezzo agli uomini, e interpretare la sua parola in questo senso, significa errare enormemente, con le tragiche conseguenze che ne derivano.

2) I genitori, quantunque meritino un amore partiare, genuino e profondo, non devono mai essere considerati come divinità incarnata. Non si deve mai dimenticare che tra il divino e l'umano, c'è un abisso che li separa. I genitori non possono pretendere, in nessun modo, il posto della divinità, (questo è il caso di Gesù) anche se Dio li abbia messi in una nobile posizione ed abbia ordinato per quanto riguarda loro.

3) Se Gesù viene considerato diverso dai genitori, non solo dal punto di vista personale, ma soprattutto per quanto riguarda la sua posizione di essere divino, ne deriva che l'amore per lui deve essere un amore diverso, non soltanto per quanto riguarda la qualità, ma anche e soprattutto per quanto concerne la quantità. Lo stesso discorso con le medesime considerazioni va fatto per quanto riguarda l'amore dei genitori nei confronti dei figli.

Non ha alcun'importanza stabilire se l'amore dei figli verso i genitori, è differente per qualità e quantità, dall'affetto dei padri per i ragazzi. La parola di Gesù è ferma e categorica: chi ama figliolo o figliola più di me, non è degno di me. Non si tratta quindi di porre come pietra di paragone i figli da una parte e i genitori dall'altra; si tratta invece di confrontarsi con Gesù. È lui la pietra di paragone: È lui la misura con cui misurarsi, e quando ciò è tenuto in debito conto, non è possibile che i figli da una parte e i genitori dall'altra, abbiano a manifestare un amore quantitativo e qualificativo come quello per Gesù.

24. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A PRENDERE LA CROCE E SEGUIRE GESÙ

Chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per cagione mia, la troverà (Matteo 10:38,39; 16:24,25; Marco 8:34-38; Luca 9:23-27).

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20/08/2011 00:11

La condizione preliminare di seguire Gesù, è di rinunciare a se stessi. Se quest'azione preliminare non viene assolta, non sarà facile, prendere la croce, e tanto meno seguire Gesù. È bene dunque, considerare la parola di Gesù, non solo per capirla, ma soprattutto per trarne il maggior vantaggio possibile. La prima cosa che dobbiamo mettere in risalto è che nessuna rinuncia sarà fatta, se non si è disposti a seguire Gesù. Il volere seguire Gesù (e questo è sempre un atto libero della volontà dell'uomo), porterà inesorabilmente alla rinuncia di se stesso. Ogni rinuncia ha con se un motivo partiare come obbiettivo da raggiungere; in mancanza di questo, tutte le iniziative tese verso una certa direzione, saranno destinate al fallimento.

L'obbiettivo o la meta da raggiungere, agisce nella vita dell'uomo, convogliando anche la sua volontà, come un mordente ed un eccitante, atti a dare forza, coraggio e determinazione per raggiungere lo scopo. Nessuna rinuncia approderà a buon fine, se questa non è spontanea, personale e libera da imposizioni. In altre parole: è l'uomo che deve decidere cosa vorrà fare nella sua vita, nella sua carriera, non spinto da una forza esterna, bensì da un'energia interna. Solo quando l'uomo avrà agito con un atto spontaneo della sua volontà, interverrà lo Spirito Santo che lo aiuterà a raggiungere quelle mete e quei traguardi che si è prefisso. Seguire Gesù nel senso evangelico, implica la determinazione di pagarne il prezzo. Solo quando sì e pronti a pagarne il prezzo, allora si potrà pensare alla croce.

Perché portare la propria croce. Portare la propria croce, è un requisito per essere un discepolo di Gesù.

E chi non porta la sua croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo (Luca 14: 27).

Di solito, il discepolo rassomiglia al suo maestro, cerca di imitarlo, assorbendone l'esempio e tutto l'insegnamento. Gesù disse:

Un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo signore. Basti al discepolo di essere come il suo maestro (Matteo 10:24,25).

Un discepolo non deve seguire il maestro solo in quella parte di vita dove ci sono travagli e dolori; lo deve seguire anche là dove si realizzano le conquiste, si godono le più svariate allegrezze.

In verità, in verità vi ricordo che voi piangerete e farete cordoglio, e il mondo si rallegrerà. Voi sarete contristati, ma la vostra tristezza sarà mutata in letizia. La donna, quando partorisce, è in dolore, perché è venuta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell'angoscia, per l'allegrezza che sia nata al mondo una creatura umana. E così anche voi siete ora nel dolore; ma io vi vedrò di nuovo, e il vostro cuore si rallegrerà, e nessuno vi toglierà la vostra allegrezza (Giovanni 16:20-22).

Quando si parla di prendere la croce, spesso si pensa e si crede che sia Gesù stesso che l'addossa all'uomo. Non c'è niente di vero in tutto questo. Non si possono citare parole e versi della Scrittura per provare questa convinzione. Al contrario, dalle parole di Gesù: chi non prende la sua croce, appare in tutta la sua evidenza, che è l'uomo che deve prendere la sua croce. Questo significa, in ultima analisi, che l'uomo ha la fatà di evitare o rifiutare di prendere la sua croce. A questo punto la parola di Gesù, oltre ad essere illuminante, risulta determinante ai fini di essere un suo discepolo. Non esiste discepolo di Gesù, degno di questo nome, che possa seguire il Maestro senza portare la sua croce. Anche se la croce è comune a tutti i discepoli del Cristo, non è fatta della stessa misura per tutti. Ognuno deve portare la propria e non si deve pensare alla croce di un altro.

Si racconta di un tale che si lamentava perché la sua croce era troppo lunga, di conseguenza risultava più pesante delle altre. Un giorno decise di tagliarne un pezzo al solo scopo di alleggerirla. La sua decisione però risultò fatale, allorquando, trovandosi di fronte ad un burrone, e non sapendo come fare per attraversarlo perché mancava una passerella, pensò che la sua croce poteva risolvere il problema. Quando però, la sua croce venne adagiata, l'uomo fece un'amara constatazione: non era abbastanza lunga, mancava proprio di quel pezzo che in precedenza era stato tagliato.

A questo punto siamo interessati di sapere che cosa significa esattamente la croce. Ci sono errate convinzioni, che si tramandano di generazione in generazione, che è assolutamente necessaria correggere. Un tale che soffre a causa di una certa malattia, e se questa si prolunga nel tempo, specie quando viene a mancare la certezza di una guarigione, si fa presto a concludere:

«Questa è la mia croce che devo portare, oppure: questa è la volontà di Dio, bisogna rassegnarsi ed andare avanti nel cammino della vita».

Una persona che non sa niente del vangelo e dell'opera di Gesù Cristo che venne a compiere per l'intera umanità, potrebbe essere giustificata, se dovesse parlare in questa maniera; ma non lo sarebbe un discepolo di Gesù, perché si presuppone che egli conosca l'evangelo e sappia che cosa venne a fare Gesù su questa terra. Isaia, 750 anni prima della venuta di Gesù, aveva scritto a proposito del Messia:

Erano le nostre malattie ch'egli portava, erano i nostri dolori quelli di cui s'era caricato (Isaia 53:4).

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21/08/2011 00:09

Quando Gesù, esercitando il suo ministero di guarigione, all'occhio di Matteo appariva come una schiacciante prova dell'adempimento della profezia d’Isaia (Matteo 8:17). Se Gesù ha portato su di sé le nostre malattie e i nostri dolori, conseguenza specifica del peccato dell'uomo, nella stessa maniera come Egli ha portato i nostri peccati (1 Pietro 2:24), ciò l'ha fatto per liberare l'uomo dal suo peccato e dalle sue conseguenze, una volta e per sempre. È chiaro che a questo punto deve intervenire la fede, in virtù della quale l'uomo può appropriarsi l'opera compiuta da Cristo. In mancanza di questa fede, non solo l'uomo penserà ai suoi peccati, alle sue malattie e ai suoi dolori, ma si priverà del beneficio della morte di Cristo, per ciò che riguarda specificatamente le sue malattie. Pietro espone chiaramente questa verità, quando afferma: Mediante le cui lividure siete stati sanati (1 Pietro 2:24). Si noti bene che Pietro non dice: sarete sanati, ma siete stati sanati.

La guarigione dalla malattia e la liberazione dai dolori, fa parte integrale dell'opera di Cristo. Ignorare questa verità, significa svalutare il sacrificio di Cristo e rendere vano quello che Egli ha fatto per l'uomo. Allora, che cos'è esattamente la croce?

1) L'apostolo Paolo, più di ogni altro scrittore del N.T. comprese il significato del portare la croce, e con parole chiare, spiega cosa significa. (2 Timoteo 3:12) dice:

E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati.

Gesù aveva detto, nel corso della sua vita terrena cosa avrebbe ricevuto, nel tempo presente, chi per amor di lui e dell'evangelo avrebbe lasciato:

Casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figlioli, o campi;
avrebbe ricevuto
cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figlioli, campi, insieme a persecuzioni
(Marco 10:29,30).

Già Gesù, per il primo, e poi Paolo, affermano che non è possibile andare dietro a Gesù, senza essere perseguitati. La persecuzione fa parte del comune bagaglio di chi vuole vivere piamente in Cristo. Questa è la croce che deve portare come prova e segno che vuole seguire Gesù Cristo.

Nella (2 Corinzi 4:10,11), Paolo afferma:
Portiamo sempre nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo; poiché noi che viviamo, siamo sempre esposti al decesso per amor di Gesù, onde anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale.

2) L'epistola agli Ebrei, con parole abbastanza chiare dice:
Usciamo quindi fuori del campo e andiamo a lui, portando il suo vituperio (Ebrei 13:13).

Essere perseguitati, portare il vituperio di Cristo, essere esposti del continuo alla morte, questa è vera croce e si deve portare, poiché è un segno richiesto; è una distinzione di chi, dopo aver rinunciato a se stesso, ha deciso, pagandone il prezzo, di seguire Gesù.

25. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A PERDONARE AGLI UOMINI

Perché se voi perdonate agli uomini i loro falli, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi (Matteo 6:14; Marco 11:25; Luca 6:37).

Tra il detto di Matteo e quello di Marco e di Luca, c'è una certa differenza, non tanto nel suo contenuto, quanto per la specificazione che ne fa principalmente Matteo. Parlare di perdonare nell'ambito della fratellanza, come corrispondenza al perdono ricevuto da Dio (Efesini 4:32), è una cosa (anche se viene ordinato di fare questo), e parlare di perdonare agli uomini, è un'altra cosa. Il perdono in se stesso a chiunque si applichi, non ha un diverso significato e una diversa importanza; è la sfera in cui viene praticato che fa la differenza.

Gesù, in questo detto di Matteo, ordina ai suoi di perdonare agli uomini. Sono gli uomini (e per uomini, qui bisogna intendere, le persone che sono fuori della fede, della cerchia dei discepoli di Gesù), che hanno recato delle offese al discepolo di Gesù. Qui non si discute se l'offesa è stata causata, e come tale si potrebbe giustificare, e tanto meno si fa cenno alla gravità o meno dell'offesa.

Qualunque sia l'offesa che il discepolo di Gesù riceve dagli uomini, essa deve essere perdonata. Si noti bene che non fossero gli uomini ad aver l'iniziativa in questa faccenda del perdono, ma il discepolo di Gesù. Si potrebbe domandare, perché? Gli uomini non sono stati perdonati dai loro peccati; non hanno una coscienza sensibile che li spinga ad azioni come queste.

Mentre il discepolo di Gesù che conosce, per esperienza, il perdono dei suoi peccati, si trova in una diversa posizione rispetto a quella degli uomini del mondo, che gli permette una maggiore libertà d'azione. Nell'azione di perdonare, non è richiesto agli uomini il loro consenso, come per dire: io, in qualità di discepolo di Gesù ti voglio perdonare delle offese che mi hai fatto, solo ti voglio chiedere se tu accetti di essere perdonato. Niente di tutto questo è previsto nell'ordine di Gesù. La parola di Gesù è perentoria:

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22/08/2011 00:17

Se voi perdonate agli uomini i loro falli, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi.

Il discepolo di Gesù deve essere tale, non solamente nella sua professione di fede, lo deve essere principalmente nella sua vita pratica, modo di vivere che lo mette a confronto con quella degli uomini, tra quali dovrà svolgere la sua missione. La luce deve risplendere nelle tenebre, nel cospetto degli uomini (Matteo 5:16). Il discepolo di Gesù è stato fatto luce e sale della terra (Matteo 5:13,14). Non esiste una migliore manifestazione della verità che Cristo insegnò intorno al perdono, se non quella di agire in conformità alla sua parola.

Non è solo per il perdono che si riceve dal Padre celeste, che il discepolo di Gesù deve perdonare agli uomini; esiste un'altra maggiore ragione, non meno importante della prima, che deve essere tenuta in considerazione, cioè: tra il discepolo di Gesù e gli uomini, c'è una certa differenza, non tanto sul piano ipotetico, quanto su quello pratico. Gesù, parlando ai suoi diceva:
Voi mi chiamate Signore e Maestro; e dite bene, perché lo sono. Se sapete queste cose, siete beati se le fate (Giovanni 13:13,17).

Il comando di perdonare agli uomini viene dato al discepolo di Gesù; questi ha il privilegio di conoscere la volontà del suo Signore, e se la metterà in pratica, sarà responsabile davanti a Dio e davanti agli uomini per il quale il comando venne dato. Come farebbe il discepolo di Gesù ad insegnare agli altri quello che Gesù ha ordinato di osservare, quando questi non mettesse in pratica quello che Cristo comandò? Il migliore insegnamento che un discepolo di Gesù può dare, non è tanto costituito dalla semplice parola, quanto quello che può dare con un esempio pratico.

26. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A RENDERE A CESARE LE COSE CHE APPARTENGONO A CESARE

Gli risposero: di Cesare. Allora egli disse loro: Rendete dunque a Cesare quel ch'è di Cesare, e a Dio quel ch'è di Dio (Matteo 22:21).

Il detto di Gesù riguardante, le cose che appartengono a Cesare, è diventato proverbiale in tutto il mondo, ed ognuno lo usa, precisandone le parole, a seconda del caso. Non si deve dimenticare il proposito dei Farisei, di cogliere in fallo Gesù, nelle sue parole (Matteo 22:15), proposito che li spinse a mandare i loro discepoli con gli Erodiani da Gesù. Il tranello che i Farisei cercarono di tendere a Gesù in quel giorno, era talmente perioso, che se Cristo non avesse avuto la saggezza e il discernimento di Dio, vi sarebbe cascato dentro.

Con il pretesto che Gesù era verace e che insegnava la via di Dio secondo verità, gli venne chiesto se era lecito di pagare il tributo o no a Cesare. In quel tempo, tutta la Palestina, era sotto il dominio dell'Impero Romaniano. Se Gesù rispondeva con un secco no, con ogni probabilità le stesse persone che non vedevano di buon occhio il dominio di Romania, l'avrebbero consegnato alle autorità Romaniane, con l'accusa di essere un ribelle, e quindi passibile di pena capitale. Se invece Gesù avesse detto sì, senza nessuna specificazione, sarebbe stato accusato come un traditore della sua patria. Gesù conoscendo la loro malizia, precisa Matteo, e chiamandoli ipocriti, chiese perché mai lo tentassero. Mostratemi la moneta del tributo, disse Gesù; e, quando questa venne nelle sue mani, chiese loro:

Di chi è quest'effigie e quest'iscrizione? Gli risposero di Cesare. Allora egli disse loro: rendete dunque a Cesare quel che è di cesare, e a Dio quel che appartiene a Dio.

La conclusione che fa Matteo:
Ed essi, udito ciò, si meravigliarono, e, lasciatolo, se ne andarono,
è significativa, perché ci fa vedere che quelle persone non si aspettavano una simile risposta in quella maniera. Eppure Gesù aveva affermato chiaramente che bisognava pagare il tributo a Cesare, tassa che gli Ebrei non avrebbero voluto pagare. La risposta di Gesù è chiara per farci vedere che esiste una chiara distinzione tra le cose che appartengono a Cesare e quelle che appartengono a Dio.

Non ha tanta importanza stabilire quali sono le cose che appartengono a Cesare e quelle che appartengono a Dio. La cosa da tenere presente è che a Cesare, (figura dell'autorità politic, non bisogna sottrarre nulla di ciò che gli è dovuto (cfr. Romaniani 13:7; 1 Pietro 2:17). Se le tasse che vengono richieste dall'autorità politica, sono una legittima richiesta, i cristiani, seguaci di Gesù Cristo, le devono pagare senza opporre resistenza. Il rispetto alle sue leggi e la sottomissione alla sua autorità, sono esigenze legittime, senza le quali nessuna autorità politica potrebbe sopravvivere. L'unica cosa che il cristiano potrà opporre all'autorità politica, è quando questa pretende obbedienza a danno della fede (Atti 4:19,20).

27. UNA PRECISA DISPOSIZIONE AD AVERE FEDE IN DIO

E Gesù rispondendo, disse loro: Abbiate fede in Dio (Marco 11:22).

Le parole del nostro testo, vengono riferite dal solo evangelista Marco, nonostante che Matteo si occupi pure dell'episodio del fico seccato. La frase, così come la riporta Marco, è unica in tutto il N.T. e non si può negare l'importanza che riveste, soprattutto per quanto riguarda la vita del discepolo di Gesù.

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23/08/2011 00:13

Quest'espressione di fede, presentata nella forma di un comando, fu rivolta ai discepoli di Gesù, preciso scopo di insegnare loro la via della fede. Dare un insegnamento sulla fede con le sole parole, non risulta tanto efficace; ma darlo sotto il profilo di un'evidente manifestazione visibile, farà più effetto di quanta possa farsi con le sole parole. Fu proprio quel che Gesù cercò di fare in questo partiare momento della sua vita, quando poté dimostrare ciò che significa: avere fede in Dio. Secondo noi, non è un puro caso che Marco lochi questa frase di fede, quasi al centro del suo evangelo, come per dirci, che la fede non deve essere considerata come qualcosa di marginale, di secondario; ma deve essere considerata piuttosto come il centro sul quale ruota la vita cristiana.

A dire il vero, è impossibile concepire l'esistenza cristiana, al di fuori della fede. Quello che caratterizza e valorizza il cristianesimo, è appunto la fede in Dio; quella fede che nasce da Gesù (Ebrei 12:2) e conduce a lui e per la quale Dio esprime il suo compiacimento (Ebrei 11:6).
Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me (Giovanni 14:1).

È impossibile mettere da parte la fede, come qualcosa d'inutile e superato, poiché è scritto che il giusto vivrà per fede (Romani 1:17). Se dal punto di vista biblico non c'è vita senza la fede, come farà il discepolo di Gesù ad assolvere la sua missione di testimonio (Atti 1:8), senza avere fede in Dio?

Prendiamo in esame tutto il contesto nel quale appare la nostra espressione di fede, per cercare di capire, perché mai Gesù disse fermamente: Abbiate fede in Dio?

Si discute se la fame [L. Goppelt. GLNT, IX, (Grande Lessico del Nuovo Testamento), 1406] che Gesù aveva in quel giorno era vera o simbolica, se interpretarla nel senso DEL FRUTTO DELLA GIUSTIZIA, come vorrebbe L. Goppelt e metterla quindi in parallelo con (Matteo 5:6) Beati quelli che sono affamati della giustizia. Si noti inoltre che Gesù veniva da Betania, dove aveva ricevuto ospitalità, e quindi diventa quasi impensabile che avesse fame lasciando la città [W. Grundman, Mk, 228; H. Bartsch 257; W. Schenk 159], (così la pensano: W. Grundman, Mk. 228 H. W. Bartsch 257; W. Schenk 159). Si vorrebbe inoltre che si tratti di un'aggiunta secondaria [E. Schweizer, Mk. 132], così vorrebbe E. Schweizer, Mk. 132 e H. Gissen 104 interpreta la fame [H. Giesen, 104] in senso simbolico.

Anche se al detto di F. Nötscher, in palestina i pasti si consumavano generalmente di mattino e di sera [R. Pesch, Marco III, pag. 293], ed il pranzo principale è quello del tramonto, come giustamente osserva R. Pesch in Marco II, 293, manca l'indicazione dell'ora del giorno. Altri infine pensa che Gesù non sia passato la notte nella casa di Lazzaro, bensì all'aria aperta, pregando; così in questo caso, si ponesse subito in cammino, digiuno com'era. La supposizione è plausibile, ma non c'è nessuna prova per affermare se ciò è vero o no. Tutte queste argomentazioni si sono fatte, non solo per spiegare la fame che aveva Gesù in quel giorno, ma soprattutto per la diffità che si incontra, circa l'atteggiamento che Gesù assunse in quel dì, nel maledire quel fico.

Se si pensa alla vera natura umana che Gesù aveva, e come tale, ebbe più di una volta fame (cfr. Matteo 4:2), non sarà difficile inquadrare in questa prospettiva l'affermazione relativa alla sua fame, di cui (Marco 11:12). D'altra parte, se si spiritualizza la fame di Gesù, e si prende il fico come un simbolo del popolo d'Israele, tutta la narrazione che Marco fa nei (Marco 11:12-14), diventa una specie d'immaginazione, qualcosa che non ha niente di reale. Questa conclusione non fa certo onore, né a Marco, e tanto meno a quello che viene specificato, soprattutto quando tutto viene messo in rapporto con la conoscenza che gli Ebrei avevano circa la racta dei fichi.

Il maggior ostao di questo paragrafo, a nostro avviso, non è certo costituito dalla fame di Gesù, né dalla sua maledizione al fico, ma dalla specificazione che Marco fa, quando afferma che non era la stagione dei frutti. Considerando quest'affermazione realisticamente, perché si dà molto peso a questa frase, i critici non se ne accorgono però che mettono in evidenza la realtà storica di quest'episodio.

Tutto diventa chiaro e sostenibile se si capisce bene la parola del Vangelo. Marco precisa che Gesù vide da lontano un fico che aveva del fogliame. Il fatto che il fico ha delle foglie, è una prova che si trova in primavera, la stagione in cui i fichi germogliano e mettono i frutti. Che l'albero visto da Gesù, anche se era lontano, come si legge in questo racconto, anche se si possono citare altri passi dell'evangelo di Marco, come 14:54; 15:40 e 5:6; 8:3, non deve essere inteso per indicare un'enorme distanza, per asserire che Gesù «non riconobbe quell'albero dal fogliame» idem. Se quell'albero veniva identificato come un albero di fico, non era certo per i frutti che si potevano scorgere, bensì dal suo folto fogliame.

La frase da lontano, pertanto, non deve essere intesa tanto per individuare l'albero, quanto per sapere se era possibile scorgere i frutti. Fu soltanto quando Gesù s'avvicinò che poté vedere che quell'albero di fico non aveva alcun frutto. Si sa con estrema certezza che il fico produce i suoi frutti, conosciuti come primi e secondi fichi. Il racto quindi, non si ha una sola volta.

Il Talmud sostiene che una particolare specie, poteva avere nei suoi rami i frutti di 3 stagioni allo stesso tempo. L'albero del fico mette i suoi frutti, prima delle foglie. Ovviamente questi sono i frutti primaticci. Dal momento che l'albero del fico aveva del fogliame, è forse fuori logica, fuori stagione, se Gesù vi ha cercato del frutto? Sorge pertanto spontanea la domanda: a quale tempo si riferiva Marco, quando specifica che non era la stagione dei frutti? Con ogni probabilità a quella della seconda racta, e non sicuramente al frutto primaticcio, per i motivi suesposti.

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24/08/2011 00:09

Se il sacro testo specificasse che il fico non aveva fogliame, e Gesù vi cercava del frutto, anche se si potesse trovare nei rami vecchi, ma in questo caso e per il tempo specificato da Marco, il frutto non era mangiabile, allora la ricerca del frutto sarebbe inopportuna e l'azione di maledire il fico ingiustificato. Se il fico venne maledetto, non fu perché Cristo venne spinto da un sentimento vendicativo, com'empiamente alcuni hanno affermato, ma per la totale assenza d'ogni frutto. Si sa che il N.T. non ha altri casi di maledizione di alberi e tanto meno che Gesù abbia agito in qualche altra circostanza, ammenoché non si faccia riferimento agli apocrifi. Davanti al seccamento del fico, si parla di un intervento miracoloso che venne compiuto da parte di Gesù, anche se questo tipo di miracolo, si precisa, fu l'unico.

Una maledizione, anche se è spettaare, è sempre una condanna e a rigore non si potrebbe classificare nel numero dei mirai, senza svalutare la natura stessa dell'evento soprannaturale.

Se si riconosce che il fico si seccò fin dalle radici, anche se a produrlo fu la parola di Gesù, ciò si produsse perché venne maledetto. La maledizione suggerisce più l'idea della punizione che del miracolo. Si discute inoltre se il fico maledetto, non debba essere interpretato in senso simbolico, per quanto riguarda la distruzione del tempio e la maledizione su tutto il popolo d'Israele.

L'idea del simbolismo, forse adatta in altre circostanze e con maggiore senso parabolico (cfr. Luca 13:6﷓8), non si addice al nostro caso, senza mettere in seria diffità la storicità del nostro racconto. Il fatto poi che Gesù incita alla fede, attraverso la quale il discepolo può spostare le montagne, e fare, non soltanto quello che è stato fatto al fico ( Matteo 21:21), costituisce, a nostro avviso, la prova che non c'era niente di simbolico in quell'azione. Ha perfettamente ragione R. Pesch quando scrive:

«Non essendo moralmente sostenibile, l'interpretazione simbolica della maledizione da parte di Gesù dovrebbe venire abbandonata tanto più che essa loca nel N.T. tendenze antigiudaiche dalle quali la teologia cristiana ha più che mai l'obbligo di distaccarsi» [R. Pesch, Marco II, pag. 297].

Il comando di Gesù: abbiate fede in Dio, nasce dalla parola (forse di sorpresa e di meraviglia, perché inaspettat che Pietro rivolse al Maestro, ecco, il fico che tu maledicesti è seccato. Fu questa parola di Pietro che fornì a Gesù l'occasione di dare un insegnamento partiare sulla fede e sul potere che ha la fede in Dio, specie quando viene messa in relazione con i problemi e le diffità che la vita offre ogni giorno.

Si fa osservare che Gesù non diede nessuna spiegazione, circa la maledizione del fico. Questo prova che Gesù non si meravigliò, come Pietro, che il fico si fosse seccato, come se Egli non conoscesse la potenza della Sua parola. A questo punto Gesù ha davanti a sé una splendida occasione di impartire un ammaestramento ai suoi discepoli, circa la potenza della parola e la natura della vera fede. Crediamo che quest'insegnamento (per quanto riguarda la potenza della parola e la natura della fed non solo non debba essere dissociato, ma è valido anche ai nostri tempi. La promessa contenuta nel v. 23, è una parola data che, uscendo dei confini degli apostoli, abbraccia chiunque avrà detto. È insostenibile, quando si afferma che

«l'età dei mirai fisici è passata, e Dio non da più la fede che si richiede ad operarli» [R. G. Stewart, L’evangelo secondo Matteo e Marco, pag. 370].

Se questo fosse vero, anzitutto, (Marco 11:23) non sarebbe una promessa che riguarda la vita dei cristiani di ogni epoca, ma limitata solamente all'esistenza degli apostoli. Se questa fosse stata l'intenzione di Gesù, Egli non avrebbe mancato di fare una precisazione in tal senso; al contrario, usando il verbo dire al futuro, e il pronome relativo di persona, maschile e femminile chi, confuta questa assurda affermazione. Inoltre, che valore avrebbe la promessa di Gesù contenuta in (Giovanni 14:12) Chi crede in me, e (Marco 16:17) Or questi sono i segni che accompagneranno coloro che avranno creduto, se queste promesse sono state fatte solamente per gli apostoli e per il loro tempo e relegare l'ora dei mirai fisici?

Tutti coloro che dopo gli apostoli fino a noi, hanno creduto in Cristo, forse che il loro credere è stato diverso da quello dei discepoli di Cristo? La fede in Dio è l'unico elemento valido per vedere il miracolo. Non crediamo come si possa dimostrare che, la fede in Dio di oggi, non sia adatta per compiere un miracolo fisico, come quello degli apostoli. Più analizziamo le Scritture, più ci convinciamo che il tempo dei mirai non è ancora terminato. Credo che il comando di Gesù: Abbiate fede in Dio, non riguarda la fede per ottenere la salvezza, dato che questa è un dono di Dio (Efesini 2:8), ma quella fede che ha a che fare miracolo.

Il miracolo in se stesso è l'evidenza della manifestazione del potere di Dio, potere che si manifesta, non soltanto per divina volontà, ma anche come risposta alla fede. Gesù non dice che la fede per operare il miracolo si trova in Dio, ma dice chiaramente che dovrà trovarsi nell'uomo. Solo quando l'uomo ha fede in Dio per ciò che riguarda la manifestazione del potere di Dio, avviene allora il miracolo. Il miracolo perciò, non è una manifestazione unilaterale, ma l'unione del divino con l'umano. Questa nostra affermazione trova la conferma nelle parole di Gesù:

Chi avrà detto a questo monte: togliti di la e gettati nel mare; e non avrà dubitato nel cuor suo, anzi avrà creduto che ciò che egli dice avverrà; ciò che egli avrà detto gli sarà fatto.

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25/08/2011 00:30

Non è tanto importante stabilire, ai fini di questa discussione, se il monte, (nel caso di Marco e di Matteo), (e il sicomoro secondo (Luca 17:6), deve essere interpretato nel senso d'impedimenti morali. Quello che dobbiamo costatare è:

1) Il miracolo avviene dopo di aver parlato (e qui ovviamente non è Dio che dovrà parlare, bensì l'uomo)

2) Ha seguito di non aver dubitato nel cuore;

3) Dopo aver creduto che quello che si sarà detto, avverrà. Parlare, non aver dubbio nel cuore e credere, ecco l'indispensabile per vedere il miracolo.

«Il dubbioso ritiene possibile che non si attui ciò che egli dice, cioè che l'onnipotenza divina si sottragga alla propria fiducia. Il credente affida totalmente a Dio la sua fiducia, e nella sua persona (in cuor suo) è intero, sano e potente: egli rende possibile l'impossibile (Matteo 17:20)» [R, Pesch, Marco II, pag. 311].

Oggi più che mai si cerca di incanalare la fede e spiegare il miracolo, per vedere se c'è qualche utilità razionale. Ma che utilità possa avere la ragione, quando questa, spesse volte, non è compatibile con la fede e con la potenza miracolosa, anzi addirittura si oppone, affermando: non è possibile? Le cose impossibili alla ragione, diventino possibili alla fede, secondo ch'è scritto: Tutto è possibile a chi crede (Marco 9:23).

Onde dare una maggiore delucidazione alla potenza della fede, Gesù, aggiunge:

Perciò io vi dico: tutto ciò che domandate e chiedete credete d'averlo ottenuto e vi sarà fatto.

L'insegnamento di questo testo è talmente importante che ci obblighi di esaminarlo frase per frase. L'invito alla preghiera o il detto dell'orazione, acquista più significato, perché esprime il desiderio e la volontà del divino Maestro. È Gesù che invita alla preghiera; è Lui che vuol far capire ai suoi discepoli l'importanza dell'invocazione. La preghiera non è solamente un pio esercizio religioso che ci permette di elevarci e di comunicare divino; è anche un'esercitazione di fede, attraverso la quale si può incontrare ed esperimentare la fedeltà di Dio per ciò che riguarda le sue promesse.

Tutto quello che Dio promette nelle Sacre Scritture, è per l'uomo, e l'essere umano può fare esperienza per mezzo della preghiera e della fede. Gesù, che conosce le ricchezze delle promesse divine, ci sprona a domandare e chiedere. È vero che Dio conosce il tutto di noi e il tutto dei nostri bisogni. Tanti presentando ricorso a questa divina conoscenza, finiscono concludere che non ci sia nessun bisogno che domandiamo e chiediamo a Dio le cose, perché Egli li conosce e non ha urgenza di fargliene parola. Gesù, con queste sue parole vuole insegnare ai suoi discepoli l'utilità del domandare e del chiedere.

Domandare e chiedere, che cosa? Secondo la parola del Maestro: tutto ciò che domandate e chiedete, non c'è niente che possa essere escluso. Se Gesù avesse voluto insegnare una certa scelta nel domandare e nel chiedere, non avrebbe sicuramente mancato di farne una chiara specificazione. Le cose più impensate, e più insignificanti (dal punto di vista umano), possono essere chieste e domandate in preghiera.

Non c'è neanche da pensare che nell'esercizio di domandare e di chiedere, bisogna avere il pensiero solo alle cose spirituali, a tutte quelle cose che contribuiscono all'accrescimento dello zelo, del servizio e della consacrazione a Dio. Nel tutto di (Marco 11:24) è incluso ogni bisogno ed ogni cosa per quanto riguarda la vita spirituale e l'esistenza umana in ordine ad ogni necessità e situazione in cui ci si può trovare. Per il discepolo di Gesù, diventa gioia incomparabile, esperienza inconfondibile, quando sa che può domandare e chiedere tutto al suo Signore. D'altra parte non possiamo dimenticare la parola di Gesù, quando insegnava a pregare: Dacci oggi il nostro pane quotidiano (Matteo 6:11). Anche se Gesù esortava a cercare prima il regno e la giustizia di Dio (Matteo 6:33), pur nondimeno possiamo contare sulla fedeltà del nostro Padre celeste che ha cura di noi per ogni cosa.

È un buon esercizio quando impariamo a domandare e chiedere tutto al Signore. Già quest'attitudine, ideale e mirabile davanti a Dio, ci fa vedere quanto sia importante dipendere totalmente dal Signore. Al suo domandare e chiedere, deve unirsi, nella vita del discepolo, un'indispensabile attitudine di credere: credete d'averlo ottenuto. È a questo punto che deve intervenire la fede con tutta la sua potenzialità. Tutto ciò che si domanda e si chiede, non serve a nulla se non si può avere. Il ricevere, non dipende solamente dalla possibilità e dalla volontà del Signore, ma soprattutto dal credere d'averlo ottenuto, da parte dell'uomo. Credere che il Signore darà quello che gli viene domandato, specie quando è secondo la Sua volontà, è una cosa, e credere d'aver ottenuto, prima di riceverlo, è tutt'altro.

Le cose chieste e domandate in preghiera, si ottengono solamente quando si crede d'averle ottenute. Qui consiste il segreto e qui è la spiegazione delle tante cose che non si ricevono, pur avendole chieste e domandate. La fede in Dio non consiste nelle cose che noi uomini possiamo fare, ma in quello che Dio può fare. Inoltre, la fede, per essere premiata, non si deve muovere sul terreno della razionalità, ma sulla superficie della fedeltà di Dio e della Sua parola.

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25/08/2011 00:30

Non è tanto importante stabilire, ai fini di questa discussione, se il monte, (nel caso di Marco e di Matteo), (e il sicomoro secondo (Luca 17:6), deve essere interpretato nel senso d'impedimenti morali. Quello che dobbiamo costatare è:

1) Il miracolo avviene dopo di aver parlato (e qui ovviamente non è Dio che dovrà parlare, bensì l'uomo)

2) Ha seguito di non aver dubitato nel cuore;

3) Dopo aver creduto che quello che si sarà detto, avverrà. Parlare, non aver dubbio nel cuore e credere, ecco l'indispensabile per vedere il miracolo.

«Il dubbioso ritiene possibile che non si attui ciò che egli dice, cioè che l'onnipotenza divina si sottragga alla propria fiducia. Il credente affida totalmente a Dio la sua fiducia, e nella sua persona (in cuor suo) è intero, sano e potente: egli rende possibile l'impossibile (Matteo 17:20)» [R, Pesch, Marco II, pag. 311].

Oggi più che mai si cerca di incanalare la fede e spiegare il miracolo, per vedere se c'è qualche utilità razionale. Ma che utilità possa avere la ragione, quando questa, spesse volte, non è compatibile con la fede e con la potenza miracolosa, anzi addirittura si oppone, affermando: non è possibile? Le cose impossibili alla ragione, diventino possibili alla fede, secondo ch'è scritto: Tutto è possibile a chi crede (Marco 9:23).

Onde dare una maggiore delucidazione alla potenza della fede, Gesù, aggiunge:

Perciò io vi dico: tutto ciò che domandate e chiedete credete d'averlo ottenuto e vi sarà fatto.

L'insegnamento di questo testo è talmente importante che ci obblighi di esaminarlo frase per frase. L'invito alla preghiera o il detto dell'orazione, acquista più significato, perché esprime il desiderio e la volontà del divino Maestro. È Gesù che invita alla preghiera; è Lui che vuol far capire ai suoi discepoli l'importanza dell'invocazione. La preghiera non è solamente un pio esercizio religioso che ci permette di elevarci e di comunicare divino; è anche un'esercitazione di fede, attraverso la quale si può incontrare ed esperimentare la fedeltà di Dio per ciò che riguarda le sue promesse.

Tutto quello che Dio promette nelle Sacre Scritture, è per l'uomo, e l'essere umano può fare esperienza per mezzo della preghiera e della fede. Gesù, che conosce le ricchezze delle promesse divine, ci sprona a domandare e chiedere. È vero che Dio conosce il tutto di noi e il tutto dei nostri bisogni. Tanti presentando ricorso a questa divina conoscenza, finiscono concludere che non ci sia nessun bisogno che domandiamo e chiediamo a Dio le cose, perché Egli li conosce e non ha urgenza di fargliene parola. Gesù, con queste sue parole vuole insegnare ai suoi discepoli l'utilità del domandare e del chiedere.

Domandare e chiedere, che cosa? Secondo la parola del Maestro: tutto ciò che domandate e chiedete, non c'è niente che possa essere escluso. Se Gesù avesse voluto insegnare una certa scelta nel domandare e nel chiedere, non avrebbe sicuramente mancato di farne una chiara specificazione. Le cose più impensate, e più insignificanti (dal punto di vista umano), possono essere chieste e domandate in preghiera.

Non c'è neanche da pensare che nell'esercizio di domandare e di chiedere, bisogna avere il pensiero solo alle cose spirituali, a tutte quelle cose che contribuiscono all'accrescimento dello zelo, del servizio e della consacrazione a Dio. Nel tutto di (Marco 11:24) è incluso ogni bisogno ed ogni cosa per quanto riguarda la vita spirituale e l'esistenza umana in ordine ad ogni necessità e situazione in cui ci si può trovare. Per il discepolo di Gesù, diventa gioia incomparabile, esperienza inconfondibile, quando sa che può domandare e chiedere tutto al suo Signore. D'altra parte non possiamo dimenticare la parola di Gesù, quando insegnava a pregare: Dacci oggi il nostro pane quotidiano (Matteo 6:11). Anche se Gesù esortava a cercare prima il regno e la giustizia di Dio (Matteo 6:33), pur nondimeno possiamo contare sulla fedeltà del nostro Padre celeste che ha cura di noi per ogni cosa.

È un buon esercizio quando impariamo a domandare e chiedere tutto al Signore. Già quest'attitudine, ideale e mirabile davanti a Dio, ci fa vedere quanto sia importante dipendere totalmente dal Signore. Al suo domandare e chiedere, deve unirsi, nella vita del discepolo, un'indispensabile attitudine di credere: credete d'averlo ottenuto. È a questo punto che deve intervenire la fede con tutta la sua potenzialità. Tutto ciò che si domanda e si chiede, non serve a nulla se non si può avere. Il ricevere, non dipende solamente dalla possibilità e dalla volontà del Signore, ma soprattutto dal credere d'averlo ottenuto, da parte dell'uomo. Credere che il Signore darà quello che gli viene domandato, specie quando è secondo la Sua volontà, è una cosa, e credere d'aver ottenuto, prima di riceverlo, è tutt'altro.

Le cose chieste e domandate in preghiera, si ottengono solamente quando si crede d'averle ottenute. Qui consiste il segreto e qui è la spiegazione delle tante cose che non si ricevono, pur avendole chieste e domandate. La fede in Dio non consiste nelle cose che noi uomini possiamo fare, ma in quello che Dio può fare. Inoltre, la fede, per essere premiata, non si deve muovere sul terreno della razionalità, ma sulla superficie della fedeltà di Dio e della Sua parola.

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26/08/2011 01:01

L'uomo di solito crede ad una cosa, solo quando c'è l'ha tra le mani. Questo tipo di credere, non è quello che Gesù volle insegnare ai suoi discepoli. Non è il credere della razionalità, ma quello della fede in Dio. La vera fede in Dio, l'unica per la quale Dio esprime il suo compiacimento (Ebrei 11:6), è audace, sa appropriarsi tutte quelle ricchezze che Dio ha messo davanti nel suo cammino, prima ancora che diventino palesi. È a questo livello di fede che Gesù volle condurre i suoi, esperienza necessaria per insegnare le cose che Gesù comandò d'osservare. Quando si crede che si hanno le cose domandate e richieste, allora Gesù può assicurare: L'otterrete. Ottenere in senso visibile le cose richieste e domandate, ciò è il risultato di averle prima credute. Non è fuori posto o della logica di Dio, se una cosa domandata e richiesta, ritarda nella sua attuazione visibile, ad essere nelle mani di colui che l'ha richiesta e domandata.

Chi ha domandato una cosa e ha creduto di averla già ricevuta, non si pone il problema se ha quella cosa, perché già sul piano della fede quella cosa l'ha già ottenuta (anche se su un piano visibile, nel senso che altri possono vedere non c'è), ma aspetterà solamente che la cosa invisibile diventi visibile, perché altri possano vedere le cose che Dio ha date, in risposta a quello che si è creduto d'avere ottenuto.

A questo punto non deve sembrare un paradosso, se la cosa ottenuta sul piano della fede, si fa attendere in un tempo piuttosto prolungato, prima che diventi verificabile da parte degli altri. L'esempio classico di Abramo potrebbe ulteriormente illustrare quest'aspetto della fede. Dio fece una promessa ad Abramo e gli disse chiaramente che la sua progenie sarebbe stata come le stelle del cielo. In quello stesso giorno Abramo credette a Dio, ci dice il testo sacro (Genesi 15: 5,6). Da un punto di vista di Dio, Abramo aveva già una progenie e dal punto della percezione della fede, Abramo poteva vedere la sua progenie guardando alle stelle del cielo. Da un punto di vista pratico, però, Abramo dovette aspettare 25 anni, prima che quella progenie, veduta solamente da lui, potesse essere vista anche dagli altri. Tutto quello che la fede mantiene nella sua fermezza su un piano invisibile, diventerà visibile ed altri potranno vedere le cose che, pregando, si crede di averle ottenute.

28. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A PREGARE ED A VEGLIARE

Vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione; ben è lo spirito pronto, ma la carne è debole (Marco 14: 38).

L'episodio riguardante, il Getsemani, è narrato da tutti e quattro gli evangelisti. Il solo che si distacca dai Sinottici è Giovanni, che aggiunge dei partiari che danno un significato speciale, allo scopo per questo Giovanni scriveva il suo evangelo. Matteo e Marco riportano la frase: vegliate e pregate, mentre Luca parla solamente di pregare. Tutte e tre i Sinottici, sono concordi nel mettere in risalto la tentazione che minaccia la vita dei discepoli, allettamento che può essere superato con la preghiera. Il momento che Gesù sia passato in quella notte nel Getsemani, non è facile poterlo descrivere con parole umane.

Anche se il linguaggio che gli evangelisti adoperano è umano e risponde esattamente alla loro natura. Per Gesù, invece, che era Dio fatto uomo, esprimere i sentimenti interiori e soprattutto esternare tutto ciò che sentiva e provava in vista dell'ora finale, ciò rischia di non essere ben capito o addirittura si può fraintendere quella situazione partiare in cui venne a trovarsi, in vista del coronamento della sua missione per la quale era stato mandato dal Padre. Pensare di interpretare la scena del Getsemani da un punto di vista spirituale, equivale a spogliare il racconto evangelico di tutti quegli elementi comprovanti l'umanità di Gesù e ridurlo in un ammasso di leggenda, privo di attendibilità storica. Ha perfettamente ragione R. Pesch quando afferma:

«Lo sconvolgimento di Gesù durante l'attesa della sua morte è un'espressione inoppugnabile della sua umanità» [R. Pesch, Marco II, pag. 311].

Ai suoi tre fidati apostoli: Pietro, Giacomo e Giovanni, Gesù aveva detto chiaramente:

L'anima mia è oppressa da tristezza mortale, rimanete qui e vegliate (Marco 14:34).

Perché Gesù entrando nel Getsemani cominciò ad essere spaventato, angosciato e oppresso da tristezza mortale? Notate che queste parole Gesù non li pronunciò durante i tre anni circa della sua missione terrena, pur avendo incontrato tanti ostai, tanta opposizione, tanta incredulità, ma nulla poteva essere paragonata all'esperienza del Getsemani. Gesù sapeva, fin troppo bene, che era venuto sulla terra per fare la volontà del Padre, e la volere del Padre era che Egli andasse a morire sulla croce.

Perché mai tutto questo sconvolgimento, dal momento che Egli sa di trovarsi nella piena volontà del Padre? Solo tenendo presente il fattore umano, cioè la vera umanità che Gesù aveva assunto volontariamente, possiamo capire le sue parole pronunciate al Getsemani, che suonano come un grido disperato, come uno che vuole sfuggire ad una tremenda realtà che lo attende. Non c'è da stupirsi e neanche da gridare allo scandalo, se Gesù, pregando il Padre, gli diceva: se era possibile che quell'ora passasse oltre da lui. Marco riporta una parola che gli altri evangelisti non ricordano:

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27/08/2011 00:07

Abba Padre, ogni cosa ti è possibile; allontana via da me questo calice.

Dal canto suo Matteo aggiunge:
Se non è possibile che questo calice passi oltre da me, senza che io lo beva, la tua volontà sia fatta (Matteo 26:42).

Le parole di Marco sono una proclamazione dell'onnipotenza di Dio, verità che Gesù affermò in una forma dogmatica; mentre quelle di Matteo, ci fanno vedere Gesù che vuole evitare di bere il calice. Com'è possibile pensare in questi termini, dirà qualcuno, quando si sa con certezza che Gesù era venuto in terra per morire per la salvezza dell'umanità? Poteva Gesù rifiutarsi di bere il calice della sua inspiegabile sofferenza, che culminò in croce, senza che il piano di Dio per la redenzione dell'intera umanità venisse infranto? Non esiste in tutto il N.T. una pagina migliore, che mette in chiaro risalto, nella sua larghezza, nella sua profondità e nella sua totalità, l'umanità di Gesù, come quella in cui viene narrato l'episodio del Getsemani.

Sì è vero che nel N.T. possiamo leggere della sete di Gesù, della sua fame, della sua stanchezza, del suo sonno, della sua fatica eccessiva, dello sviluppo fisico e mentale, caratteristiche abbastanza eloquenti, che parlano che Gesù era un vero uomo. Ma la profondità e la completezza che il Getsemani mette in evidenza, sono di una rarità eccezionale, basterebbe soltanto questo testo, per provare inconfutabilmente la reale umanità di Gesù. Solo la sua reale esperienza, vissuta nel Getsemani, porta Gesù a parlare, e parlare in termini di comando, quando indirizzando la Sua parola ai suoi discepoli, dice loro: vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione.

È spontaneo chiedere perché Gesù diede quel comando? Non era l'esperienza del Getsemani, qualcosa che lo riguardava personalmente e che i suoi discepoli non avevano niente a che vedere con quella circostanza? Se Gesù parlò di tentazione con i suoi seguaci, ne parlò per l'esperienza che egli stesso fece in quel giorno, quando la sua umanità voleva rifiutare di bere il calice. Aveva ragione lo scrittore agli Ebrei quando, parlando di quello che Gesù sofferse, disse:

Poiché, in quanto egli stesso ha sofferto essendo tentato, può soccorrere quelli che son tentati (Ebrei 2:18).

Gesù non conobbe solamente la sofferenza della tentazione, conobbe soprattutto la vittoria sulla sollecitazione al peccato, e questa gli venne tramite la preghiera. Vegliare e pregare, ecco la certezza, non solo per non soccombere, ma per avere una vita vittoriosa. Non c'è vittoria più grande e più significativa che mettere in risalto la Suprema volontà di Dio e di sottomettersi a lei. Questo è il messaggio che ci viene dal Getsemani; questo è il significato del comando di Gesù: vegliate e pregate.

Accogliamolo e facciamolo nostro. Non come io voglio, ma come tu vuoi, o Signore!

29. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A BENEDIRE COLORO CHE MALEDICONO

Benedite quelli che maledicono, pregate per quelli che v'oltraggiano (Luca 6:28).

Il comando di Gesù di benedire chi maledice, dimostra quanto sia diverso lasciarsi guidare dalla divina parola di Gesù, anziché seguire un'attitudine congenita all'uomo, che consiste nel rispondere nella stessa maniera come si è trattati. Conoscere chi è il seguace di Gesù, non sarà difficile, soprattutto quando viene messo in evidenza il suo comportamento nei confronti degli altri. La norma di Gesù di benedire chi maledice, non solo mette in evidenza i seguaci di Gesù, ma soprattutto rivela l'esistenza dell'odio e del rancore nel cuore dell'uomo, specie quando l'essere umano non è dominato da Cristo. Se Gesù diede questo comando ai suoi discepoli di benedire quelli che maledicono, lo diede per mettere il suo seguace in una condizione diversa rispetto a quelli che non lo sono, a come condurre la propria vita nei confronti degli uomini. Il discepolo di Gesù non può seguire ad una direttiva sospinta dall'odio e dal rancore; deve seguire la norma dell'amore e della tolleranza, che è quella che Gesù ha voluto insegnare quando parlò di benedire chi maledice. Benedire significa: augurare, sollecitare la grazia divina sulle persone e sulle cose.

È un atteggiamento di un vero amico, di uno che veramente ama, di uno che si interessa al bene degli altri. Se Gesù avesse comandato di trattare gli uomini in genere in questo modo, avrebbe ordinato, ma il fatto che Egli ha voluto specificatamente dire chi sono quelli che devono essere benedetti, mette il suo comando al disopra di ogni umana considerazione, e di ogni etica sociale, e di ogni forma di sana convivenza. L'uomo si lascia facilmente dominare dal suo egoismo, e tante volte quel suo amor di sé lo acceca e non gli fa vedere le cose nella giusta dimensione e nella giusta realtà. Per meglio capire l'importanza e la portata del comando di Gesù circa l'ordine di benedire chi maledice, specifichiamo che cosa significa maledire. Da un punto di vista prettamente linguistico, maledire significa:

«Augurare del male a qualcuno, esecrare (per una pa commessa, per un errore compiuto, per un comportamento offensivo od ostile ecc. ed esprime una reazione violenta, esasperata, ciecamente iros. Lanciare l'anatema contro di qualcuno. Imprecare il nome di Dio; sfogare contro il nome di Dio la rabbia, il risentimento, il livore; bestemmiare. Far oggetto di odio, avversione, risentimento, disappunto o disprezzo o della propria condanna morale in modo perentorio e definitivo; biasimare duramente, vituperare, deprecare. Disapprovare deplorare, criticare duramente, condannare. Insultare, ingiuriare, accusare, rimproverare violentemente».

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28/08/2011 00:15

È ad una persona di questo genere che il discepolo di Gesù deve augurare ogni bene, senza farne nessuna discriminazione. L'apostolo Paolo aveva perfettamente ragione quando affermava: Vinci il male con il bene (Romani 12:21). Anche l'apostolo Pietro capì perfettamente le parole di Gesù, quando scrisse:

Infine, siate tutti concordi, compassionevoli, pieni d'amor fraterno, pietosi, umili, non rendendo male per male, od oltraggio per oltraggio, ma al contrario benedicendo; poiché a questo siete stati chiamati onde ereditiate la benedizione (1 Pietro 3:8,9).

Qualcuno ha detto: la benedizione che diamo agli altri, prima che arrivi alla persona alla qual è indirizzata, arriva a noi che abbiamo pronunciato le parole di benedizione. Parafrasando, Pietro affermava: Vuoi ereditare la benedizione? Devi benedire, perché non solo i seguaci di Gesù sono stati chiamati a benedire, ma affinché ereditino la benedizione.

Insegnare di osservare questo comando di Gesù, significa liberare la vita dell'uomo da tutti i mali che lo circondano e lo dominano, aprirgli gli occhi alla verità del vangelo, indirizzarlo ad una vita di amore, di pace, di concordia e di compassione, permettere che il potere benevolo di Dio prenda il controllo e si manifesti nella sua duplice azione di liberazione e di benedizione. Questo è quello che Gesù voleva dire quando comandò di benedire coloro che ci maledicono.

30. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A SOPPORTARE

A chi ti percuote su una guancia, porgigli anche l'altra e a chi ti toglie il mantello non impedire di prenderti anche la tunicaP.C] (Luca 6:29).

Il detto di Gesù per quanto riguarda chi percuote su una guancia, viene da Matteo specificato con la volto destro, come se volesse dire, che la sopportazione è raccomandata solamente se uno viene percosso sulla guancia destra e non su quella sinistra. Luca evita questo tipo di puntualizzazione e non menziona né la guancia destra né quella sinistra.

Davanti a questo partiare gli studiosi si sono chiesti: Qual'è la forma originale, quella di Matteo o quella di Luca? Andare dietro a questo tipo di considerazione, anche se può giovare ai fini dell'individuazione del detto di Gesù, non cambia minimamente l'insegnamento che Gesù vuol dare ai suoi discepoli. Per Luca non c'è nessuna differenza se uno viene percosso sul lato destro o su quello sinistro della guancia. Quello che il discepolo deve tenere presente è la percossa in se stessa. Appare chiaramente dal suo contesto che la percossa che si riceve, non è il risultato di una rissa o di una luttazione, ma di un indebito scherno e vituperio, da parte di persone che non sono seguaci di Gesù.

Il discepolo di Gesù non può essere una persona di rissa. Questo specifico atteggiamento non è consono alla natura di discepolo, dato che il maestro può insegnare suo esempio come Lui si è comportato nel tempo della sua permanenza tra gli uomini. Isaia aveva previsto nella sua profezia del servo dell'Eterno, che egli sarebbe stato percosso e che la sua barba sarebbe stata strappata dalle sue guance (Isaia 50:6). Questa profezia trovò il suo pieno adempimento quando Gesù fu condotto davanti al Sinedrio per essere condannato (Matteo 26:67; Marco 14:65; Giovanni 18:22). In tutta la storia evangelica che tratta del processo di Gesù, non viene mai detto che Gesù abbia risposto dando pugni e schiaffi a coloro che lo avevano trattato in quella maniera. I pugni e gli schiaffi che i Giudei dettero a Gesù, furono il risultato della loro rabbia e della loro indignazione, perché non condividevano né credevano a quello che Gesù aveva insegnato e a tutto quello che Egli aveva fatto, soprattutto per quanto riguardava i suoi mirai.
Dalla norma che Gesù dà:

Un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo signore. Basti al discepolo di essere come il suo maestro, e al servo di essere come il suo signore (Matteo 10:24,25),

ogni discepolo di Gesù deve, non solo ricordarsi di ciò, ma soprattutto conformare a ciò la propria vita.

Le percosse e gli schiaffi che Gesù ricevette, furono a causa della sua missione, come inviato di Dio, mentre quello che riceve il discepolo di Gesù, sarebbero stati a causa della loro fede in Cristo. In questo caso specifico (perché a questo vuole riferirsi Luc, il discepolo non ha niente da reagire o ricambiare, se veramente vuole seguire il Maestro. Non è possibile che il discepolo di Gesù sia benvoluto dal mondo quando il Maestro è stato odiato. Gesù aveva detto chiaramente: Chi asta voi asta me; chi sprezza voi sprezza me (Luca 10:16).

Ecco perché Gesù dice: A chi ti percuote su di una guancia, porgigli anche l'altra. Non è con la cosiddetta legge del taglione, occhio per occhio e dente per dente, che l'uomo può seguire Gesù, e tanto meno vincere il male, secondo la parola di Paolo (Romani 12:21). La condotta del discepolo del Cristo, per quanto riguarda la relazione con le persone estranee alla fede, deve rispecchiare ed imitare la vita e l'insegnamento di Cristo. Solo questa maniera risulterà efficace, quando si insegnerà di osservare tutto quello che Cristo ha comandato di osservare.

A chi ti toglie il mantello non impedire di prenderti anche la tunica.
Matteo, dal canto suo, dice:
Ed a chi vuol litigar teco e toglierti la tunica, lasciagli anche il mantello (Matteo 5:40).

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29/08/2011 00:14

Dalla parola litigare che Matteo adopera, gli esegeti pensano alla forma relativa al pegno, così come viene presentata in (Esodo 22:26,27 e Deuteronomio 24:10﷓13) e concludono che con ogni probabilità, Gesù faceva riferimento a quella situazione, che facilmente poteva degenerare in un vero e proprio litigio, tra colui che aveva ricevuto come pegno un capo di vestiario e colui che non aveva altro per coprirsi. È possibile che la parola di Gesù faccia riferimento a quella partiare situazione descritta dai due testi citati. La cosa che maggiormente urgeva a Gesù era quello di far capire ai suoi discepoli che un qualsiasi litigio, anche sulla base della cosiddetta ragione, è sempre da evitare, perché non ha nessuna corrispondenza ed affinità con la legge dell'amore, che sopporta ogni cosa (1 Corinzi 13:7).

In vista di un male più grande, bisogna scegliere sempre quello più pico. Questa norma di Gesù, investe tutta la vita nei suoi vari settori, sia per quanto riguarda la vita comunitaria nell'ambito della fratellanza, sia per quanto riguarda la vita per ciò che concerne le relazioni con ogni persona che vive al di fuori degli insegnamenti di Cristo. Questa precisa disposizione a sopportare, oltre ad essere l'insegnamento che Cristo volle dare ai suoi tempi, è una norma che non deve essere considerata superata. L'apostolo Paolo più tardi ribadirà lo stesso insegnamento di Gesù, quando scriverà:

Certo è già in ogni modo un vostro difetto l'aver fra voi dei processi. Perché non patite piuttosto qualche torto? Perché non patite piuttosto qualche danno? (1 Corinzi 6:7,8).

Il discepolo di Gesù deve essere pronto e disposto non solo a sopportare un'ingiuria, un disprezzo, per quanto riguarda la sua fede, ma deve essere anche pronto e disposto a non far valere i suoi diritti, se questi dovevano degenerare in una rissa e in un litigio.

31. UNA PRECISA DISPOSIZIONE PER QUANTO RIGUARDA IL PRESTITO

Ma amate i vostri nemici, e fate bene e prestate senza sperare alcun che, e il vostro premio sarà grande e sarete figlioli dell'Altissimo (Luca 6: 35).

In conseguenza del prestito che il testo di Luca specifica chiaramente, rispetto a Matteo 5:44﷓47, i critici pensano che Matteo sia più originario di Luca ed aggiungono che Luca 6:35 sia una aggiunta secondaria [H. Schürmann, Luca, I, pag. 579].

Non siamo tanto interessati a queste precisazioni che i critici fanno, perché spessissimo con le loro argomentazioni, fanno perdere la fede nella Parola di Dio. Giustamente Luca prima di parlare del prestito, afferma di amare. L'amore è troppo essenziale per escluderlo dalla vita normale, in ciò che riguarda l'aspetto economico e non solo per quanto riguarda i nemici. Nessun bene, compreso il prestito, può essere effettuato, se viene a mancare l'amore. L'amore è quello che spinge a immedesimarsi in un bisogno altrui; l'amore spinge ad essere compassionevoli e benigni; l'amore spingi al sacrificio e alla donazione. Se non c'è amore, un'azione di bene, può essere considerata vana (1 Corinzi 13). La parola relativa al prestito acquista più importanza quando viene letta e capita alla luce del v. 34 che afferma:

Se prestate a quelli dai quali sperate ricevere, qual grazia ne avrete? Anche i peccatori prestano ai trasgressori per riceverne altrettanto

L'insegnamento di Gesù riguardante, il prestito, è che i suoi discepoli, non agiscano nella stessa maniera dei peccatori. Qualcuno ha detto:

«Prestare con la speranza di riavere è umano; prestare senza tale aspettativa è cristiano».

La norma di Gesù in relazione al prestito, non solo è diversa da quello che la legge di Mosè prescriveva, prestando al popolo e al povero, senza applicare una quota di interessi (Esodo 22:25; Deuteronomio 23:19), ma in nessun caso era previsto che si potesse concedere un prestito senza la speranza di riaverlo. La benevolenza alla quale Gesù chiama i suoi seguaci, è di gran lunga superiore alla prescrizione mosaica.

Per l'ebreo che astava la parola di Gesù relativamente al prestito, anche se Cristo non accennava ad una qualsiasi quota di interessi, né se si doveva richiederlo, non rappresentava un paradosso, un'indesiderabile richiesta, ma lo era quando si precisava, che non bisognava sperare di riavere il prestito. Anche per i cristiani di oggi potrebbe apparire un paradosso l'insegnamento di Gesù. Ma per coloro che hanno l'amore nel cuore, non lo è, perché sanno che se uno chiede un prestito (e qui non si tratta di un prestito a scopo commerciale, bensì per un partiare bisogno, legato alla povertà), non pensano di riavere o di essere ricompensati, perché sanno di aspettare un grande premio dal Padre celeste, dato che sono considerati figlioli dell'Altissimo.

32. UNA PRECISA DISPOSIZIONE AD ESSERE MISERICORDIOSI

Siate misericordiosi com'è misericordioso il vostro Padre (Luca 6: 36).

Il comando di essere misericordiosi, ha come punto di riferimento il Padre celeste, ui al quale la Bibbia rende ampia testimonianza della sua misericordia. In questo caso Gesù addita il Padre celeste come esempio da imitare, nella vita dei suoi discepoli. Gesù, fece spesse volte riferimento al Padre celeste come la persona da imitare, ponendolo davanti ai suoi discepoli come modello al quale ispirarsi.

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30/08/2011 00:43

Voi dunque siate perfetti, com'è perfetto il Padre vostro celeste (Matteo 5:48).

C'è una partiare beatitudine per chi mette in pratica il comando di Gesù.
Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta (Matteo 5:7).

Davanti a questa precisa parola di Gesù, il suo comando di essere misericordiosi, acquista più importanza, perché si viene a sapere che è soltanto a chi è misericordioso che sarà fatta misericordia. C'è, infatti, una certa corrispondenza tra quello che noi facciamo agli altri e quello che Dio fa a noi. Non si può ottenere il perdono dei propri peccati da parte di Dio, se non si è disposti a perdonare agli uomini i loro falli (Matteo 6:14). Davanti alla parola di Paolo, che dice:

Siate dunque imitatori di Dio come figlioli suoi diletti (Efesini 5:1),
non c'è tanto spazio per certe argomentazioni umane tendenti a far risaltare com'è impossibile allinearsi a quello che Dio fa continuamente. Se non si può imitare Dio, nell'opera di misericordia, si imiterà inevitabilmente il risentimento, la crudeltà e l'odio, che è ispirato ed alimentato dal principe delle tenebre: il diavolo. Che significa misericordia, dal punto di vista linguistico?

«Virtù morale, tenuta in partiare considerazione dall'etica cristiana, che dispone l'animo ad aprirsi a sentimenti di compassione per le sventure altrui e ad operare per il bene del prossimo, perdonandone le offese, comprendendone gli errori e indulgendo alle sue debolezze».

Il comando di Gesù ad essere misericordiosi non è ristretto al solo ambiente cristiano, o come si direbbe più precisamente nell'ambito della fratellanza della stessa fede. Dare una simile interpretazione alla parola di Gesù, significa spogliarla della sua portata universale. Se i discepoli di Gesù devono ammaestrare tutti i popoli intorno a tutto ciò che Gesù ha ordinato di osservare, (e questi destinatari sono estranei alla fed, va da se che l'azione di misericordia, debba essere estesa a tutte le persone che il discepolo di Gesù incontra nel cammino della sua vita. Essere misericordioso significa portare il segno distintivo del Padre celeste, al quale si è legati da un legame di figliolanza, ed essere nello stesso tempo grato per quello che il Padre ha fatto verso di noi.

Nella parabola del creditore, secondo (Matteo 18:23-35), abbiamo un bell'esempio pratico come deve essere intesa e praticata la misericordia. A quell'uomo che non poté pagare il suo enorme debito di 10.000 talenti (pari a 3.000 miliardi di lire, paragonando la moneta di allora alla paga di un operaio ai nostri giorn, il signore di quel servitore, mosso da compassione, condonò il debito, lasciandolo andare libero. Quello stesso uomo enormemente beneficato, aveva un suo conservo che gli doveva appena 100 denari (pari a 5 milioni di lir, e nonostante che quel conservo abbia usate le stesse sue parole, non ci viene detto però che quell'uomo fu mosso a compassione, anzi lo cacciò in prigione.

In questo uomo così duro e crudele, non solo non c'era misericordia e gratitudine per quello che aveva ricevuto dal suo signore, quando venne mandato libero dal suo enorme debito, ma non c'era neanche quella disposizione d'animo ad aprirsi a sentimenti di compassione per le sventure di quel suo conservo. Il severo giudizio che il signore di quella parabola emise nei confronti di quell'uomo, chiamandolo malvagio, esprime tutta la gravità della mancanza di misericordia in quella persona.

Perdonare le offese ricevute (non importa se siano gravi ed abbondanti, pari a settanta volte sette, o sette volte il giorno), fa parte dell'indole della misericordia. Quando Paolo scrive: Perdonandovi a vicenda, come anche Dio vi ha perdonati in Cristo (Efesini 4:32), questa correlazione di uguaglianza che viene messa in risalto, è troppo importante per ignorarla. Tante volte ci stanchiamo davanti alle ripetute offese o alla gravità di esse, che siamo portati a dire: Ed ora basta, è troppo, non posso perdonare. Come farà un discepolo di Gesù ad ammaestrare gli altri ad osservare il comando di Gesù a perdonare, quando egli stesso non lo mette in pratica, o se lo pratica, lo pratica a corrente alternata? Aveva ragione Giacomo quando scriveva: Parlate e operate come dovendo esser giudicati da una legge di libertà (Giacomo 2:12).

Il comando di Gesù ad essere misericordiosi, non solo apre la strada alla benedizione di Dio e al suo potere miracoloso, ma permette verso le persone alle quali si pratica, di esperimentare tutta l'efficacia della grazia e della salvezza. Non c'è bene più grande per una qualsiasi persona di ricevere nella propria vita quello che Dio è capace di fare, allorquando, sciogliendo dai vari legami, dà riposo e tranquillità; riempie di grazia e di pace, la vita dell'essere umano. Essere misericordiosi significa in ultima analisi, vivere una vita libera, nel senso pieno di questo termine, senza quei risentimenti di rancore e di odio, che tengono legato l'uomo in una situazione di inquietezza e di travaglio; in quello stato dove non c'è un vero godimento, vera gioia, vera pace. Vale quindi la pena, astare la parola di Gesù.

33. UNA PRECISA DISPOSIZIONE PER QUANTO RIGUARDA IL DARE

Date, e vi sarà dato; vi sarà versato in seno buona misura, pigiata, scossa, traboccante; perché con la misura onde misurate, sarà rimisurato a voi (Luca 6: 38).

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