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Domenico34 – Gesù... Il Divin Guaritore – Capitolo 4. GUARIGIONI CONTENUTE NEL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 13/07/2011 00:12
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09/07/2011 00:25


Capitolo 4




GUARIGIONI CONTENUTE NEL VANGELO DI GIOVANNI




Nota preliminare

Dopo avere esaminato il materiale esclusivo di Luca, passiamo a quello di Giovanni, che sotto certi aspetti, è particolare, non solo perché non si trova nei sinottici, ma anche e soprattutto per il diverso significato che l’evangelista gli dà, nel chiamare i miracoli di Gesù «segni» (gr. sēmeia). Anche se l’evangelista non ha riportato tanti miracoli di guarigione, rispetto all’abbondanza dei sinottici, l’uso che egli fa frequentemente dei termini segni e segno, (sēmeion) riferiti sempre alle opere miracolose di Gesù, ciò rappresenta una prova indiscussa del valore e dell’importanza che egli assegna a queste manifestazioni.

Non si trattava tanto di parlare e descrivere le comuni opere di un semplice uomo, quanto di presentare questi semēia di Gesù, come manifestazioni e miracoli messianici, come prova cioè del fatto che colui che li compiva è il Figlio di Dio [K. H. Rengstorf, GLNT, Vol. XII, col. 125-162; R. Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni, I, parte prima, pagg. 476-495, per avere una vasta panoramica di quello che Giovanni intendeva, con il temine ‘segno’].

Se poi si tiene presente quello che l’evangelista Giovanni scrisse, quasi a chiusura del suo evangelo:

Or Gesù fece ancora molti altri segni in presenza dei suoi discepoli, che non sono scritti in questo libro. Ma queste cose sono state scritte, affinché voi crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome (Giovanni 20:30,31),

si può giustamente valutare la portata e l’importanza dei miracoli di Gesù, per le persone che credono in Lui. Detto questo, esaminiamo i miracoli di guarigione che l’evangelista Giovanni ci ha tramandato.

1. LA GUARIGIONE DEL FIGLIO DEL FUNZIONARIO REGIO

Gesù dunque venne di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva mutato l’acqua in vino. Ora vi era un funzionario regio, il cui figlio era ammalato a Capernaum. Avendo egli sentito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, andò da lui e lo pregò che scendesse e guarisse suo figlio, perché stava per morire. Allora Gesù gli disse: «Se non vedete segni e miracoli, voi non credete». Il funzionario regio gli disse: «Signore, scendi prima che il ragazzo muoia». Gesù gli disse: «Va’, tuo figlio vive!». E quell’uomo credette alla parola che gli aveva detto Gesù, e se andò. Proprio mentre egli scendeva, gli vennero incontro i suoi servi e lo informarono, dicendo: «Tuo figlio vive!». Ed egli domandò loro a che ora era stato meglio; essi gli dissero: «Ieri all’ora settima la febbre lo lasciò». Allora il padre riconobbe che era proprio in quell’ora in cui Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive»; e credette lui con tutta la sua casa (Giovanni 4:46-53).

Esame del testo

Diversi commentatori asseriscono, che questo racconto che Giovanni riporta nel suo evangelo, è lo stesso riferito dai sinottici, cioè quello del centurione di Capernaum, ma presentato in una forma diversa. Se il lettore attento avesse avuto difficoltà nel conciliare quello che dice Matteo 8:5-13 da un lato e Luca 7:1-10 dall’altro, poiché si tratta indubbiamente dello stesso episodio, immaginiamo quello che potrebbe avvertire, se dovesse aderire a questi commentatori.

Ma poiché è certo che il racconto di Giovanni, è diverso da quello dei sinottici, non perché viene presentato in una forma diversa, ma perché il personaggio è un altro e i fatti si sono svolti in un altro luogo, il racconto della guarigione del figlio del funzionario regio, oltre ad essere considerato materiale esclusivo di Giovanni, acquista la sua importanza e viene inquadrato nella stessa ottica con cui l’evangelista l’ha collocato, soprattutto in relazione ai “segni”, di cui fa esplicito riferimento il testo.
Cana, è il luogo d’incontro tra Gesù e il funzionario regio, mentre il figlio moribondo si trova a Capernaum. Se il padre di questo ragazzo va a Cana di Galilea, è perché ha saputo che là si trova Gesù; l’uomo che fa miracoli di guarigione, e dove in precedenza aveva compiuto un miracolo, nel cambiare l’acqua in vino. La preghiera che questo padre rivolge a Gesù, è chiara e precisa e, nello stesso tempo esprime tutta l’urgenza del caso: Scendi giù da mio figlio, perché sta per morire.

Davanti a una simile preghiera e difronte ad un caso disperato come questo, Gesù avrebbe potuto rispondere, (come fece col centurione di Capernaum Matteo 8:7), Vengo subito per guarire tuo figlio. Ora, se Gesù obiettò: Se non vedete segni e miracoli, voi non credete, non era certamente per mostrarsi indifferente in quella situazione, ma per richiamare all’attenzione l’importanza e l’urgenza della fede. Vale la pena ricordare le parole di Gesù, dette in un’altra circostanza:

...Perché mi hai visto, Tommaso, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto (Giovanni 20:29).

Il funzionario regio, comprendendo perché Gesù gli rispose in quella maniera, — che non aveva certamente il senso di un netto rifiuto —, si affretta a chiamare Gesù “Signore” e a rinnovargli la sua richiesta, prima che il suo ragazzo muoia. Davanti a questa precisa parola Gesù, intuisce che il funzionario è pronto per ricevere la guarigione di suo figlio. E, senza indugiare, risponde: Va’, tuo figlio vive!

Il fatto stesso che il funzionario regio se ne va a casa, è una prova che egli credette alla parola di Gesù. Quando la fede si impadronisce delle promesse divine, le cose impossibili all’uomo diventano fattibili e le cose disperate trovano uno sbocco. Siccome Gesù parlò al presente, va’ tuo figlio vive!, il funzionario ebbe modo di constatare la veracità della parola di Gesù, poiché quando domanda ai servi che, gli erano venuti incontro per informarlo del miglioramento del figlio: «Che ora era quando avvenne il miglioramento?». ebbe come risposta: «Ieri all’ora settima la febbre lo lasciò», la stessa ora in cui Gesù pronunciò la sua parola di guarigione.

La guarigione del figlio del funzionario regio avvenne a distanza e non ci fu bisogno che Gesù andasse a Capernaum nella casa di quell’uomo, come era stato pregato. La virtù del Signore, non conosce distanze, e queste, non rappresentano un impedimento alla sua manifestazione.

Il solo ostacolo che può impedire la manifestazione della virtù sanatrice di Gesù, non è la distanza, ma l’incredulità. Lo scopo principale di questa narrazione miracolosa, per l’evangelista Giovanni, non è solamente per farci conoscere come si svolsero le cose, ma soprattutto per farci comprendere quanto sia importante la fede. La fede non è qualcosa che si riferisca ad un lontano passato; essa ha lo stesso valore al presente e per tutte le situazioni. Infine, per l’evangelista Giovanni, i miracoli di Gesù, non hanno solamente il senso di una semplice guarigione fisica, ma erano veri “segni”, di significato cristologico, e servono per riconoscere che colui che li ha operati, non era il semplice uomo Giudeo che andava in giro dappertutto, ma il Figlio di Dio, l’Iddio fatto carne, colui che è venuto ad abitare in mezzo agli uomini (Giovanni 1:14).

2. LA GUARIGIONE DEL PARALITICO DI BETESDA

Or a Gerusalemme, vicino alla porta delle pecore, c’e una piscina detta in ebraico Betesda, che ha cinque portici. sotto questi giaceva un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici, i quali aspettavano l’agitarsi dell’acqua. Perché un angelo, in determinati momenti, scendeva nella piscina e agitava l’acqua; e il primo che vi entrava, dopo che l’acqua era agitata, era guarito da qualsiasi malattia fosse affetto. C’era là un uomo infermo da trentotto anni. Gesù, vedendolo disteso e sapendo che si trovava in quello stato da molto tempo, gli disse: «Vuoi essere guarito?». L’infermo gli rispose: «Signore, io non ho nessuno che mi metta nella piscina quando l’acqua è agitata; e, mentre io vado, un altro vi scende prima di me». Gesù gli disse: «Alzati, prendi il tuo tettuccio e cammina». L’uomo fu guarito all’istante, prese il suo lettuccio e si mise a camminare. Or quel giorno era sabato. I Giudei perciò dissero a colui che era stato guarito: «È sabato; non ti è lecito portare il tuo lettuccio». Egli rispose loro: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: Prendi il tuo lettuccio e cammina. Essi allora gli domandarono: «Chi è quell’uomo che ti ha detto: Prendi il tuo lettuccio e cammina?. Ma colui che era stato guarito non sapeva chi egli fosse, perché Gesù si era allontanato a motivo della folla che era in quel luogo. Più tardi Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: «Ecco, tu sei stato guarito; non peccare più affinché non ti avvenga di peggio». Quell’uomo se ne andò e riferì ai Giudei che era Gesù colui che lo aveva guarito (Giovanni 5:2-15).

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10/07/2011 00:22

Esame del testo

Il secondo miracolo di guarigione che Giovanni racconta, merita un esame approfondito, non solo intorno al come venne fatto, ma soprattutto per valorizzare il motivo che spinse il Cristo ad effettuarlo e quali sono stati i suoi atteggiamenti nei confronti di colui che venne guarito. La piscina con i cinque portici che c’e a Gerusalemme, vicino alla porta delle pecore, nonché l’angelo che in determinati momenti ne agitava l’acqua, ha avuto nel passato una spiegazione particolareggiata.

Da una parte, i critici testuali, hanno parlato di «antica glossa, dettata dalla sensibilità di quei tempi per i miracoli», per ciò che riguarda la seconda parte del (v. 3) e tutto il (v. 4), dato che non è stata accolta nei migliori manoscritti [R. Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni, I, pagg. 227,228 e II, pag. 168], (ma lo ha il codice Alessandrino, di data appena posteriore ai due più antichi, cioè il Sinaitico e il Vaticano, nonché in altri 10 manoscritti onciali, nella Peshito e in tutte le versioni siriache, eccetto quella Italica e la volgata) [R. G. Stewart, L’evangelo secondo Giovanni, pag. 821] e, dall’altra parte, ad opera di Agostino, in un modo particolare, che era un maestro di spiritualizzazione, difficilmente imitabile, che riusciva ha dare un significato ad ogni particolare.

Infatti, per lui, la piscina con i cinque portici era un «profondo mistero», e significavano «il popolo dei giudei». Le acque «i popoli», sulla base di Apocalisse 17:15 e i cinque portici «i cinque libri di Mosè» [Sant’Agostino, Commento al vangelo di Giovanni, pag. 263]. Inoltre, per lui, l’agitare le acque della piscina, significava la venuta di Cristo in mezzo al popolo giudeo che, «facendo prodigi, dando insegnamenti salutari, ha turbato i peccatori, ha agitato l’acqua con la sua presenza, dando l’esca alla sua persecuzione.

Discendere nell’acqua agitata significa, dunque, credere umilmente nella passione del Signore». I trentotto anni dell’infermità del paralitico: «un numero che appunto indica la malattia [Ibidem, pag. 264]. Mentre per altri: «un’allusione agli anni che durò la migrazione nel deserto (Deuteronomio 2:14): “Andammo erranti per 38 anni...”, oppure porsonifica l’ingratitudine del popolo giudeo» [R. Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni, II, pagg. 168,169].

Mettendo da parte tutte le spiritualizzazioni che si sono fatte di questo racconto evangelico attraverso gli anni, accettabili fino ad un certo punto, cerchiamo di capire l’evento miracoloso in sé, per meglio valorizzare l’operato di Gesù, in favore di un malato solo, senza che nessuno lo potesse aiutare in un particolare momento, quando l’aiuto si rendeva veramente necessario. Cerchiamo anche di comprendere Giovanni, che ci ha tramandato questo episodio, ricco di particolari, che hanno senza dubbio il loro significato.

Che le guarigioni fisiche in questa piscina di Betesda si fossero veramente verificate, lo prova il fatto del gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici, che in attesa del momento opportuno per entrarvi.

Dato che il testo precisa che, colui che entrava nella piscina, dopo che l’acqua veniva agitata, era guarito di qualsiasi malattia fosse affetto; ora se quelli che scendevano nella piscina, non fossero stati veramente guariti, nessuno dei presenti avrebbe taciuto, senza denunciare l’imbroglio e l’inganno, che veniva perpetrato ai danni degli stessi ammalati. La mancanza assoluta di questa protesta, è più che sufficiente per convincere la mente più ostinata e il cuore più indurito.

Naturalmente, le guarigioni non avvenivano perché le acque della piscina avessero una virtù terapeutica, ma era dovuta esclusivamente al movimento dell’acqua ad opera di un angelo. Se le acque non venivano agitate dall’angelo, nessuna virtù guaritrice si sprigionava da esse. Il fatto poi che quelle acque fossero agitate in tempi determinati, non depone certamente a favore del naturale, ma del soprannaturale. Anche se il testo non dice che era un angelo del Signore che agitava le acque della piscina, non è sorprendente pensarlo, soprattutto per i tanti riferimenti che la Bibbia contiene, relativamente ad essi. Che gli angeli di Dio siano completamente a disposizione e al servizio di Lui, è indiscutibile; noi non possiamo spiegare perché questo agitare le acque fosse limitato al beneficio di un solo ammalato alla volta.

Crediamo che, l’intenzione dell’Evangelista, nel riportare questo episodio miracoloso, non era quello di concentrare la sua attenzione su quello che avveniva nella piscina di Betesda, ma principalmente su quello che compirà Gesù, l’inviato del Padre, in una maniera ben diversa.

Il testo sacro dice che, tra gli infermi che aspettavano ve ne era uno che era infermo da trentotto anni. Non viene specificata la sua infermità, e, ognuno può pensare a modo proprio, fino al punto di credere che egli fosse anche cieco [R. Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni, II, pagg. 169, nota 12]. Per Giovanni, naturalmente, che vuole spostare l’attenzione del lettore per farlo concentrare su Gesù, non ha tanta importanza specificare se quell’uomo fosse stato cieco, zoppo o paralitico; quello che ha importanza per lui è:

che quell’uomo è infermo da trentotto anni;
che è solo, senza che nessuno lo potesse aiutare.

Gesù non si recò alla piscina di Betesda, solamente per guardare una scena di infelici che soffrono, ma per manifestare a tutti quello che Egli è. Fu Lui, infatti, che vide quell’uomo ammalato disteso sul suo letto, che si trovava in quello stato da molto tempo, e nel vederlo, sicuramente avrà avuto compassione, tanto da indurlo a chiedergli se voleva essere guarito. È l’unico caso, in tutto il N.T., che Gesù chiede a un ammalato se vuole essere guarito. Anche se al cieco di Gerico Cristo chiese: Che vuoi che io ti faccia?, non gli chiese però se voleva recuperare la vista. Una simile domanda, per uno che aspetta la guarigione fisica, può sembrare fuori posto, a dir poco.

Ma se Gesù la pose, Egli aveva un valido motivo per farlo. Infatti se non gli avesse fatta quella domanda, i lettori di questo evangelo, non avrebbero mai saputo che quel povero infelice era solo, abbandonato da tutti, e, noi che stiamo meditando su questo passaggio, non avremmo mai avuto elementi sufficienti per riflettere sullo stato di quell’infermo e sull’atteggiamento di Gesù nei suoi confronti. È infatti con la domanda di Gesù, che il velo viene tolto, così che si può guardare in faccia alla realtà.
Come è possibile, ci potremmo chiedere, che un uomo infermo da trentotto anni, sia lasciato solo alla piscina di Betesda, senza che nessuno della sua famiglia o dei suoi conoscenti, manifestassero un po’ di compassione nei suoi confronti? Eppure, questa è la tragica realtà messa in evidenza in tutta la sua crudezza. Davanti alla precisa domanda di Gesù, l’ammalato risponde:

Signore, io non ho nessuno che mi metta nella piscina quando l’acqua è agitata; e, mentre vado, un altro vi scende prima di me.

Questo ci dice, prima di ogni altra cosa che, quest’uomo ha tentato altre volte di entrare nella piscina, dopo che l’acqua veniva agitata, ma sempre col risultato che un’altro vi arrivava prima di lui. In secondo luogo, l’infermo non sapeva che colui che gli aveva chiesto se voleva essere guarito era Gesù, colui che lo avrebbe potuto guarire, senza l’ausilio delle acque della piscina.

Infine, nella risposta che quell’uomo diede, mette in evidenza, non solo lo stato di incapacità personale, ma anche l’assenza totale di aiuto da parte di qualcuno, pronto a dargli una mano nel momento opportuno. Ecco, cosa si prefiggeva l’evangelista Giovanni, nel raccontare la storia degli infermi alla piscina di Betesda, non tanto per farci vedere i miracoli di guarigione che in essa si verificavano.

Ma perché Gesù guarì solo questo infermo, e ignorò una moltitudine di malati che si trovavano assieme a quell’uomo? Non certamente per i trentotto anni di infermità di cui era affetto, ma perché quell’uomo, lasciato solo ed abbandonato a se stesso, e senza che avesse un raggio di speranza, nonostante i suoi trentotto anni di malattia, potesse meglio, più di ogni altro infermo, rappresentare l’uomo peccatore emarginato dalla società, in cui vive la sua esistenza, senza che ci sia per lui un barlume di speranza, o una via d’uscita. D’altra parte, Gesù Cristo venne su questa terra, per cercare e salvare ciò che era perduto (Luca 19:10).

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11/07/2011 00:11

Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina. L’uomo fu guarito all’istante, prese il suo lettuccio e si mise a camminare.

La straordinarietà di questo miracolo sta nel fatto che, nonostante che i trentotto anni di infermità avessero senza dubbio atrofizzato gli arti di quell’uomo, non solo fu guarito all’istante, ma cominciò a camminare, come se non fosse stato mai ammalato. Quando la virtù del Cristo si manifesta, non c’è da meravigliarsi se si vedono simili risultati. Se il Creatore mise all’esistenza la materia inesistente con la Sua parola, quella di Cristo, non è meno potente, per fare ritornare un corpo atrofizzato da una lunga infermità, allo stato di perfetta normalità.

Infine, lasciando da parte la polemica che nacque intorno a quello che era lecito fare o non fare nel giorno di sabato, come i giudei l’intendevano, Gesù rivolse una precisa esortazione al miracolato:

Ecco, tu sei stato guarito; non peccare più affinché non ti avvenga di peggio.
Questa chiara parola del Cristo, ci dice chiaramente che la causa di quella malattia era stata il peccato. Anche se non si può affermare categoricamente (come facevano i Giudei) che tutte le malattie fisiche siano la conseguenza del peccato, non si può negare che ci siano di quelle, la cui origine e causa si trova proprio nel peccato.

3. LA GUARIGIONE DEL CIECO NATO

Gesù... Mentre passava, vide un uomo che era cieco fin dalla nascita. E i suoi discepoli lo interrogarono, dicendo: «Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Gesù rispose: «Né lui né i suoi genitori hanno peccato, ma ciò è accaduto, affinché siano manifestate in lui le opere di Dio. Bisogna che io compia le opere di colui che mi ha mandato, mentre è giorno; la notte viene in cui nessuno può operare. Mentre sono nel mondo, io sono la luce del mondo». Dopo aver detto queste cose, sputò sulla terra , con la saliva fece del fango e ne impiastrò gli occhi del cieco. Poi gli disse: «Va’, lavati nella piscina di Siloe» (che significa: Mandato); egli dunque vi andò, si lavò e ritornò che ci vedeva (Giovanni 9:1-7).

Esame del testo

Il racconto della guarigione del cieco nato, così come l’evangelista ce l’ha tramandato, merita una particolare considerazione, se non altro per le problematiche che in esso affiorano, cercando nello stesso tempo, di dare precise risposte.

Gesù, assieme ai suoi discepoli, era da poco uscito dal tempio, (Giovanni 8:59) dove aveva affrontato i religiosi giudei, in una disputa abbastanza accesa. Trovandosi a passare da quelle parti, vide un uomo seduto per terra intento a mendicare (v. 8). Secondo l’usanza di quei tempi, il tempio di Gerusalemme, era il luogo preferito dai mendicanti per chiedere l’elemosina a quelli che lo frequentavano (Atti 3:2). Il fatto però che quell’uomo fosse cieco fin dalla sua nascita, destò particolarmente l’attenzione dei discepoli di Gesù, da indurli a chiedere al loro Maestro, spiegazioni intorno a quello stato particolare. Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli sia nato cieco? La prima reazione che può sorgere in noi dopo questa domanda è di chiederci: Che relazione può esserci tra la malattia e il peccato?

Era convinzione dei Giudei di allora che, tutte le forme di malattie fisiche e deformazioni corporali, erano causate dal peccato. I discepoli di Gesù, come tutti gli altri giudei, erano stati educati e cresciuti con quella convinzione, ragion per cui, se quell’uomo era nato cieco, lui o i suoi genitori, avevano peccato.

Se essi avessero menzionato solamente i genitori, il problema apparirebbe sotto un’altra veste e dovrebbe essere affrontato e spiegato in relazione alla vita dei genitori. Ma dal momento che menzionano il cieco, l’aspetto del problema è un altro, poiché essi sicuramente si riferivano prima della sua nascita, cioè quando si trovava ancora nel grembo della mamma. Come è possibile concepire una simile idea, potrebbe chiedere qualcuno?

C’era una strana opinione in ceri ambienti giudaici di quei tempi che, in base a Gen 25:22 (che ciò rappresenterebbe una certa autorità Scritturale), un bambino nel seno materno, poteva peccare [R. G. Stewart, L’evangelo secondo Giovanni, pag. 884].

Certamente, questa strana convinzione che i discepoli rivelarono, faceva parte del loro bagaglio educativo, anche se loro non avevano la cultura e la preparazione per affrontare problemi teologici. Siccome Gesù, in un precedente miracolo di guarigione aveva affermato:

Ecco, sei stato guarito; non peccare più affinché non ti avvenga di peggio (Giovanni 5:14),

questi discepoli sono portati a chiederne la ragione, per sapere chi doveva essere ritenuto responsabile di quella cecità. Sicuramente la meraviglia deve essere stata grande, quando sentirono distintamente:

Né lui né i suoi genitori hanno peccato, ma ciò è accaduto affinché siano manifestate in lui le opere di Dio.

Eppure questa affermazione di Gesù, si trova in netto contrasto con la Sua stessa parola, pronunciata in un’altra circostanza, perché appunto afferma l’opposto. Ma c’è veramente contraddizione tra Giovanni 5:14 e Giovanni 9:3? È possibile che Egli stesso si contraddica? Queste domande fanno parte di quelle problematiche che affiorano nel testo, a cui bisogna dare delle precise risposte.

Supponiamo per ipotesi che le due affermazioni li avessero fatte, separatamente, una Pietro e un’altra Paolo, (non importa se la prima l’avesse fatta Paolo e la seconda Pietro), senza dubbio saremmo pronti a dire: «Li hanno fatte loro; non siamo vincolati ad accettarle, visto che l’una è contro l’altra».
Ma dal momento che li ha fatte Gesù, non si può dire che la prima è vera e la seconda è falsa, senza mettere Gesù nel numero di quelli che ora dicono una cosa e poi ne dicono un’altra. Le Sue parole sono tutte vere, degne di essere accettate senza nessuna riserba. Questo però non ci esime da spiegare le due affermazioni, in modo che ci sia chiarezza nella nostra mente.

Le due affermazioni di Gesù (Giovanni 5:14 e quella di 9:3)

1. L’affermazione di Giovanni 5:14

Questa affermazione è senza dubbio abbastanza chiara per farci comprendere che l’infermità dell’uomo guarito alla piscina di Betesda, era stata causata dal peccato. Dal momento che Gesù mette in rapporto la guarigione col peccare, ponendoli in una relazione inscindibile, intendere le parole di Gesù in maniera diversa, non è certamente segno di una buona esegesi e tanto meno di una onesta interpretazione.

Il racconto giovanneo ci parla che l’uomo del nostro caso, era malato da trentotto anni. Poiché non conosciamo l’età di quest’uomo, non possiamo stabilire con precisione, quando cominciarono gli anni della sua malattia. Supponiamo che l’evangelista ci avesse tramandato la sua età, cioè di cinquanta anni. In base al numero di anni che quest’uomo fu malato, si potrebbe benissimo calcolare che ben dodici anni, li passò senza essere affetto da quella paralisi (supposto che fosse stato un paralitico). Il peccare, di cui parla il testo in maniera inequivocabile che provocò la sua paralisi, fu quello che egli commise, dopo il diciottesimo anno della sua età.

A questo punto, si potrebbe chiedere: Fu un singolo peccato o diversi, che causarono la malattia di quell’uomo, o piuttosto uno stato peccaminoso? Se si dovesse pensare a uno stato peccaminoso, non avremmo solide base bibliche per sostenerlo, per il fatto che tutti gli uomini, essendo figli di Adamo, vivono in questo ‘stato’ (Romani 5:12), eppure non tutti sono malati fisicamente. Dal momento che questa constatazione non si può smentire, non resta altro di pensare a un determinato peccato o a dei peccati (quali, non si potrà mai dire).

Per fare chiarezza su questo aspetto del problema, crediamo sia utile rifarci alle parole di Gesù, pronunciate in un’altra occasione. È significativo che, Gesù alla donna che venne accusata di essere stata trovata in flagrante peccato di adulterio, le abbia detto: Va’ e non peccare più (Giovanni 8:11). Il gr. in Giovanni 5:14 e 8:11, usa due espressioni mekēti = non più, non più a lungo e amartane, peccare, sbagliare. Appare quindi chiaro dai termini che Gesù usò, che si riferiva all’azione peccaminosa che quella donna compì, e non al suo stato di essere una peccatrice. In altre parole Gesù volle dirgli: (poiché il peccato del quale venne accusata era l’adulterio) “Non continuare a commettere simile peccato, cioè non continuare a fare l’adultera”.

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12/07/2011 00:10

La medesima espressione ha lo stesso significato per l’uomo malato della piscina di Betesda. Anche se di lui non si può nominare uno specifico peccato, (come il caso della donna adultera, appena menzionata), il fatto però che Gesù dica: mekēti amartane = “non peccare più”, rappresenta una prova inconfutabile del peccato o dei peccati che quell’uomo aveva commesso con le sue azioni, causandogli quella malattia che si è protratta per trentotto anni.

Anche per il paralitico di Capernaum, al quale venne detto: I tuoi peccati ti sono perdonati, (Matteo 9:2) si potrebbe intravedere la stessa constatazione di cui sopra, anche se non si può essere esplitici su questo testo. Se poi si riflette sulle parole di Giacomo:

Qualcuno di voi è infermo? Chiami gli anziani della Chiesa, ed essi preghino su di lui, ungendolo di olio nel nome del Signore, e la preghiera della fede salverà il malato e il Signore lo risanerà; e se ha commesso dei peccati, gli saranno perdonati (Giacomo 5:14,15),

ciò porta alla conclusione più ovvia, di credere che le parole di Gesù: non peccare più affinché non ti avvenga di peggio, volevano chiaramente stabilire che la malattia di quell’uomo, protrattasi per trentotto anni, era stata causata dal peccato.

2. L’affermazione di Giovanni 9:2

Questa affermazione di Giovanni 9:2, anche se appare in contrasto con quella di Giovanni 5:14, vale sempre la pena considerarla, se non altro per comprenderla nella sua giusta portata. La domanda che i discepoli posero a Gesù, mirava essenzialmente a stabilire la causa della cecità di quell’uomo. Secondo la convinzione che essi avevano, se quell’uomo era nato cieco, non era stato sicuramente un caso fortuito, o come si direbbe, accidentale; dovevano esservi dei motivi ben precisi, per giustificare un tale stato.

Dal momento che il dubbio, secondo le idee in voga consisteva nello stabilire chi dei tre, figlio o genitori, avesse peccato per una simile nascita, si rendeva necessario che ci fosse chiarezza, su un tema che includeva, pressoché l’unanimità presso i giudei i quali credevano che, tutte le deformazioni fisiche e malattie, erano una netta conseguenza del peccato. Col dire: Né lui né i suoi genitori hanno peccato..., Gesù volle stabilire che, per quanto concerneva quel caso specifico, ciò non era da addebitare al peccato, cioè non era stata causata dal peccato.

Questo però non voleva assolutamente dire che, quelle tre persone, oggetto della domanda, fossero immuni dal peccato, senza rimettere alla ribalta l’universalità del peccato, per ciò che riguarda tutti gli esseri umani.

Precisato in questi termini il problema, la risposta di Gesù, mira a stabilire che: Pur essendo il cieco e i suoi genitori dei peccatori, per il fatto che sono figli di Adamo, — e in Adamo, tutti gli uomini sono peccatori (Romani 5:12) —, non si poteva fare la stessa equazione per la deformazione fisica di quell’uomo, per il semplice fatto che quella nascita, non aveva nessun rapporto col peccato, cioè non era stata causata dal peccato, ma specificatamente: affinché siano manifestate in lui le opere di Dio.

In altre parole quella cecità era stata permessa, per un fine ben diverso di come potevano pensare gli uomini. Le opere di Dio, sono quelle che Cristo compirà, e se questo cieco di nascita, non ci fosse stato, Gesù non avrebbe compiuto il miracolo e le opere di Dio non si sarebbero manifestate in lui. Una volta che questo punto viene evidenziato e precisato, il miracolo in sé stesso acquista importanza su due aspetti: quello umano per ciò che riguarda la guarigione totale del cieco e quello divino per ciò che concerne la manifestazione delle opere di Dio.

Dopo aver detto queste cose, sputò sulla terra , con la saliva fece del fango e ne impiastrò gli occhi del cieco. Poi gli disse: «Va’, lavati nella piscina di Siloe» (che significa: Mandato); egli dunque vi andò, si lavò e ritornò che ci vedeva (v. 7).

Tutti i ciechi che vennero guariti da Gesù — stando ai Sinottici —, non venne mai usata la saliva che, secondo la credenza di allora, le si dava una certa virtù. Questo dimostra che Gesù non segue quella credenza, ma agisce secondo quello che Egli vede e crede opportuno di fare. Se quel cieco non fosse andato a lavarsi nella piscina di Siloe, nonostante avesse sugli occhi la saliva di Gesù e l’impiastro ottenuto, il recupero della vista non sarebbe avvenuto.

Come anche non sarebbe avvenuta la guarigione dalla lebbra, se Naaman non fosse andato al Giordano per lavarsi sette volte nelle sue acque, secondo il comando del profeta Eliseo (2 Re 510,14).

L’obbedienza alla parola di Gesù, in questo particolare contesto, ha la sua primaria importanza sull’esito del miracolo, anche e soprattutto per il legame che ha col principio divino che stabilisce:

l’Ubbidienza è migliore del sacrifico, e ascoltare attentamente è meglio del grasso dei montoni (1 Samuele 15:22).

Quando più tardi il cieco miracolato rispose a quelli che gli chiedevano come avvenne la sua guarigione, egli disse chiaramente:

Un uomo, chiamato Gesù, ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: Va’ alla piscina di Siloe e lavati. Ed io vi sono andato, mi sono lavato e ho recuperato la vista’ (vv. 11,15).

Ecco gli elementi elencati che hanno causato la guarigione:

* La saliva di Gesù;
* il fango spalmato sopra gli occhi;
* la piscina di Siloe;
* l’andata del cieco alla piscina e
* il suo lavarsi in quelle acque.

I cinque elementi di questo mosaico, sono talmente inscindibili tra di loro, che se uno di essi fosse stato messo da parte o ignorato, la guarigione stessa non si sarebbe verificata.

4. LA RISURREZIONE DI LAZZARO

[C[Or Maria era quella che unse di olio profumato il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; e suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle dunque mandarono a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». E Gesù, udito ciò, disse: «Questa malattia non è a morte, ma per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio sia glorificato» (Giovanni 11:2-4).

Esame del testo

La risurrezione di Lazzaro, oltre a chiudere il ciclo dei miracoli che Giovanni racconta, vuole essere anche il punto culminante di tutte le manifestazioni miracolose, poiché con essa, il Figlio di Dio viene glorificato. Siccome la cosa più importante di questo racconto di morte e di risurrezione, per l’evangelista Giovanni, è la glorificazione del Figlio di Dio, approfondiamone l’esame, per meglio conoscere l’autorità e la virtù di Gesù, l’operatore del miracolo.

Nella proporzione in cui conosciamo il Figlio, il miracolo della resurrezione acquista più importanza, non tanto perché un morto ritorna in vita, quanto perché il Figlio gliela ridà. Di quale malattia fosse stato colpito Lazzaro, non ci viene dato di sapere; per l’evangelista non ha tanta importanza conoscere la malattia del malato, quanto piuttosto il malato stesso. Per Giovanni, è sufficiente dire solamente che Lazzaro era malato; che era fratello di Marta e di Maria e che Gesù stesso lo amava. Questi semplici dati (senza parlare della durata della malattia) servono essenzialmente a farci comprendere, l’interessamento delle due sorelle per recapitare a Gesù, la notizia relativa alla malattia di Lazzaro.

Si continuerà il prossimo giorno...
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13/07/2011 00:12

Questa notificazione che giunse a Gesù, anche se non fu fatta in forma di una specifica richiesta di aiuto, — come avveniva per tanti altri malati —, aveva sicuramente lo scopo di fare intervenire Gesù. Anche se Marta e Maria non chiesero a Gesù di guarire il loro fratello, nel loro intento c’era sicuramente questo fine.
Sembra assurdo e inconcepibile che Gesù non mandi una risposta alla due sorelle. Le parole che Cristo disse: Questa malattia non è a morte, le disse a se stesso e non come una risposta a Marta e a Maria. Essendo nel frattempo sopraggiunta la morte, quale sentimento avrebbero prodotto queste parole di Gesù se fossero state rivolte alle due sorelle?

Che senso avrebbero dovuto dare alle parole del Maestro, e quale sarebbe stata l’utilità che avrebbero potuto trarne dall’evolversi negativamente della situazione? Quelle parole, non sarebbero state interpretate sicuramente come una sicura guarigione per il loro fratello. Non sarebbe stata invece una grande delusione col sopraggiungere della morte? Tutte queste domande, hanno una sola risposta: Sicuramente!

D’altra parte, Gesù conoscendo che le sue parole questa malattia non è a morte, sarebbero state erroneamente interpretate, preferì tenerle per sé e non dare nessuna risposta alla due sorelle. A questo punto, l’evangelista Giovanni precisa:

Come dunque Gesù ebbe inteso che Lazzaro era malato, si trattenne ancora due giorni nel luogo dove egli era (v. 6).

I due giorni di ritardo, furono fatali per Lazzaro, perché nel frattempo sopraggiunse la morte. Quando infatti Gesù arrivò a Betania, Lazzaro era morto e seppellito da quattro giorni. Sarà stata una vera sorpresa, quando Marta sentì dell’arrivo di Gesù. Infatti, dalle parole che rivolse a Gesù, possiamo comprendere in quale stato si trovasse e che senso dava alla sua venuta.

Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto (v. 21).
Come per dirgli: “Sei arrivato in ritardo; avresti dovuto venire prima della morte di mio fratello, quando cioè ti è stata notificata la sua malattia”. A questo punto domandiamoci: Le parole di Marta, hanno un senso di un velato rimprovero, o vogliono esprimere piuttosto la mancanza di fede? Anche se dalla continuazione si, potrebbe escludere questo,

ma anche adesso so che tutto quello che chiederai a Dio, Dio te lo darà (v. 22),
e dalla risposta che Cristo diede: Tuo fratello risusciterà (v. 23). Non appare però in questa prospettiva, la replica di Marta:

Lo so che risusciterà nella risurrezione dell’ultimo giorno (v. 24).
Soppesando dunque tutte queste parole, siamo portati a pensare che Marta, volle esprimere un velato rimprovero a Gesù, per il suo marcato ritardo. Cristo si rese conto che Marta non capiva giustamente le sue parole. Infatti lei, da pia giudea che era, confessò chiaramente la sua credenza nella risurrezione dei morti, nell’ultimo giorno. Ma siccome Gesù non parlava della risurrezione dell’ultimo giorno, si rese necessario che Egli facesse una precisa e categorica affermazione, che prima di allora non aveva mai fatto:

Io sono la risurrezione e la vita; chiunque crede in me, anche se dovesse morire, vivrà. E chiunque vive e crede in me, non morrà mai in eterno. Credi tu questo? (v. 25,26).

Di fronte a questa solenne dichiarazione, c’era solamente da dire, sì o no! Gesù non chiese se lei credesse al fatto che lui era il Cristo, il Figlio di Dio, che doveva venire nel mondo, ma solamente che Egli è la risurrezione e la vita. Che Marta non credesse che suo fratello Lazzaro sarebbe risuscitato dai morti, proprio in quel giorno, lo dimostra il fatto che quando Cristo diede l’ordine di togliere la pietra che stava davanti al sepolcro, nessuno obiettò all’infuori di Marta che disse:
Signore, egli puzza già, poiché è morto da quattro giorni (v. 39).

Quelle semplice parole, dette con tanta di naturalezza, in realtà mettevano in evidenza che, pur avendo confessato che tutto quello che Gesù avesse chiesto al Padre, Egli glielo avrebbe dato (quindi a rigore di logica anche la risurrezione di suo fratello), erano solamente parole e nient’altro che parole. Lo dimostra Cristo, in maniera inequivocabile con la sua risposta:

non ti ho detto che se credi, vedrai la gloria di Dio? (v. 40).
Gesù aveva affermato chiaramente, fin da quando ricevette la notizia sullo stato di Lazzaro, che quella malattia
non era a morte, ma per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio sarebbe stato glorificato (v. 4).

La guarigione di Lazzaro, — come avrebbero voluto le due sorelle, Marte e Maria —, non avrebbe significato la manifestazione della gloria di Dio e neanche la glorificazione del Figlio; ma solo la risurrezione dei morti sì, specialmente se si tiene conto che quella si verificò, dopo quattro giorni dell’avvenuto decesso. Ma prima di proseguire, ritorniamo indietro, per esaminare se le parole di Maria, che furono poi le stesse di sua sorella Marta, avevano lo stesso significato. Il testo precisa che prima che Maria parlasse a Gesù, si gettò ai suoi piedi, cosa che non aveva fatto sua sorella Marta. È quel gettarsi ai piedi di Gesù, prima di ogni cosa, che fa la differenza; questo gesto rivela infatti un atteggiamento della vita interiore e una umiltà senza pari.

Quel semplice atto, non deve essere spiegato solamente dal punto di vista umano: di una donna che, essendo straziata dal dolore per la morte di suo fratello, cerca di sfogarsi davanti a colui che ella ama. C’è qualcosa di più del semplice sfogare; c’è la dimostrazione della sua sottomissione all’autorità del suo Signore. Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto (v. 32).

Quantunque siano le stesse parole di Marta, — come abbiamo detto sopra —, esse non avevano però lo stesso significato nella sua bocca. Lo prova il fatto che, Gesù non ebbe bisogno di aggiungere altro come ha fatto a Marta. Avendo fremuto nel suo spirito Gesù si turbò, e chiese: Dove l’avete posto? E dopo di aver pianto, dimostrando così di essere un vero uomo, arrivò davanti alla tomba di Lazzaro.

Gesù alzò gli occhi al cielo, denotando la sua intima unione col Padre, espressione della sua dignità di Figlio, rivolge una preghiera al Padre, è un autentico ringraziamento, nel senso più stretto della parola (v. 41), tendente a far conoscere alla folla presente chi Egli è, affinché credessero in Lui come l’inviato del Padre (v. 42), e a gran voce chiama Lazzaro a venir fuori dal sepolcro (v. 43).

A questo punto si potrebbe chiedere: Perché Gesù gridò forte e chiamò Lazzaro a venir fuori dalla tomba? Quel gridare forte, esprimeva la sua maestà e il suo potere, e, anche se era indirizzato al morto, non poteva escludere la folla ivi presente, nel senso che tutti dovranno un giorno udire quelle parole, per poi, in un secondo tempo, renderne testimonianza. Ma il chiamare con voce poderosa il morto di nome, si rendeva necessario, onde evitare che tutti i morti di quel cimitero uscissero fuori dai loro sepolcri, poiché colui che chiamava, era il giudice dei vivi e dei morti (Atti 10: 42). Arriverà infatti il tempo, quando lo stesso Figlio, con voce autorevole, chiamerà tutti i morti dai cimiteri, ed essi, ascoltando la sua voce, ne usciranno fuori (Giovanni 5:25-29).

A questo punto il testo evangelico precisa che il morto uscì, con le mani e i piedi legati con fasce e con la faccia avvolta in un asciugatoio (v. 44). Se il morto aveva legati le mani e i piedi e la faccia avvolta in un asciugatoio, come fece ad uscire fuori dal sepolcro? Qualcuno giustamente a chiamato questo evento, un «miracolo nel miracolo» Ibidem.

A sua volta Agostino si esprime nel seguente mondo:

«Vi stupite perché poté uscire pur avendo le mani e i piedi legati, e non vi stupite perché risorse dopo quattro giorni dalla morte? In ambedue i prodigi vi era la potenza del Signore, non la forza del morto».

Il racconto si conclude col dirci che, molti dei Giudei. che erano venuti da Maria e avevano visto tutto quello che Gesù aveva fatto, credettero in lui (v. 45).

Questo è senza dubbio, il fine principale di questo evento miracoloso. Se Gesù, prima che Lazzaro morisse aveva dichiarato che quella malattia non era a morte, ma per la gloria di Dio, affinché il Figlio fosse glorificato per mezzo di essa (v. 4), questa doppia glorificazione si doveva manifestarsi e adempiersi alla lettera, attraverso un’opera particolare. Infatti, risuscitare un morto, dopo quattro giorni dal suo decesso, già in fase di putrefazione, sarebbe stato più di una semplice guarigione che Gesù avrebbe compiuto se fosse andato a Betania, quando venne chiamato dalle due sorelle, Marta e Maria. Il Padre, in quella preghiera-ringraziamento che Gesù elevò, davanti alla tomba e in presenza della folla, doveva essere glorificato.

Padre, ti ringrazio che mi hai esaudito. Io sapevo bene che tu mi esaudisci sempre... (vv. 41,42).

Tutti dovevano sapere che quella risurrezione non era solamente opera del Figlio, ma era anche opera del Padre. Nella maniera che il Figlio glorifica il Padre, così il Padre glorifica il Figlio: ecco la doppia glorificazione adempiuta davanti a molti Giudei, i quali credettero in Gesù, a motivo di tutto quello che avevano visto operare da Lui.

PS: Se ci sono delle domande da fare, fatele liberamente e rispondere con premura
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