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Il costo dell'integrità

Ultimo Aggiornamento: 04/09/2010 10:39
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04/09/2010 10:39

IL COSTO DELL’INTEGRITÀ


Il significato che ha il sostantivo “integrità”, merita una particolare considerazione, non tanto dal punto di vista lessicale, quanto per il senso figurativo. Infatti, se si tiene presente il senso figurativo che questo termine ha, e, inquadrandolo sotto l’aspetto sociale, per ciò che riguarda la vita di ogni giorno, le caratteristiche che immancabilmente rivela, saranno di tale portata da farci capire la maniera di vivere di una persona. Se poi il discorso lo spostiamo nel campo religioso, o più precisamente in quello della fede nel vero Dio, si può meglio valutare ed apprezzare se ci sia coerenza tra quello che si professa con la parola e il modo di condurre la propria esistenza.

Integrità, figurativamente, significa: rettitudine, onestà, incorruttibilità; lealtà, sincerità, probità, purezza, immacolatezza (dell’animo, della vita, dei costumi).

Per sviluppare questo tema, ci serviamo di un personaggio dell’antichità, di nome Daniele, di cui la Bibbia parla nelle sue pagine. Se scegliamo quest’uomo, è perché crediamo che egli risponde, in maniera encomiabile, sia per ciò che concerne l’aspetto sociale della vita (posizione, incarichi e responsabilità all'alto livello) e per quella religiosa, cioè la fede nel vero Dio, che Daniele professava.

Dalla Bibbia veniamo a sapere che Daniele, di origine ebraica, fin dalla sua giovinezza, si trovò in Babilonia, come deportato, assieme ad altri ebrei. Attraverso una particolare selezione che venne fatta, per ordine del monarca Nebukadnetsar, questo giovane deportato, venne istruito nella lingua e cultura dei Caldei, con il preciso scopo che, superato l’esame, sarebbe stato destinato al servizio del re di Babilonia. L’esame in questione venne superato brillantemente, tanto che il re, alle domande che rivolse a Daniele, lo trovò dieci volte superiori a tutti i maghi e astrologi che erano in tutto il suo regno. In conseguenza di questo risultato, fu ammesso al servizio del re.

Più tardi, a seguito di un particolare sogno che Nebukadnetsar ebbe, e del quale, nessuno dei saggi di Babilonia riuscì ha dare l’interpretazione che il re richiedeva, Daniele, chiamato a corte, rivelò il segreto di quel sogno al monarca. Lo stesso sovrano, sbalordito di quello che Daniele gli aveva fatto conoscere, si inchinò davanti a lui, ordinando addirittura che venisse incensato. A seguito di ciò, la storia sacra afferma che, Nebukadnetsar, dava a Daniele, molti e grandi onori, lo faceva governatore di tutta la provincia di Babilonia e capo supremo di tutti i savi di Babilonia.

Anche sotto il regno di Belshatsar, figlio di Nebukadnetsar, Daniele si distinse per la straordinaria sapienza che aveva. Durante il regno di questo sovrano, un giorno, in occasione di un gran banchetto che il regnante tenne a mille dei suoi grandi, mentre il re, i suoi grandi, le sue mogli e le sue concubine, bevevano del vino in vasi d’oro e d’argento, apparvero le dita di una mano d’uomo che scrisse delle parole sulla parete. Il monarca, spaventato per l’accaduto, e, volendo conoscere il significato di quelle parole, ordinò che venissero in sua presenza gli astrologi, i Caldei e gli indovini, per leggere quelle scritte e darne la spiegazione. Nessuno di loro, però, riuscì a leggere quelle scritture e a spiegarle. Alla fine arrivò Daniele, il quale lesse le parole e li spiegò al re.

In conseguenza di ciò, Daniele venne grandemente onorato. Per ordine dello stesso sovrano, Daniele venne rivestito da porpora, gli posero una collana d’oro al collo e proclamarono che egli sarebbe stato terzo nel governo del regno. Se non fosse intervenuta la morte del regnante, (cosa che avvenne in quella stessa notte) Daniele sarebbe stato elevato al rango della terza persona del regno.
Sotto il re Dario, le caratteristiche dell’integrità di Daniele vennero palesate, talché i suoi colleghi ne parlavano apertamente. Nell’amministrazione del regno di Dario, c’erano centoventi satrapi, preposti su tutto l'impero, e sopra di loro tre prefetti, di cui uno era Daniele, ai quali quei satrapi dovevano rendere conto, perché il re non ne soffrisse nessun danno.

Sotto l’aspetto sociale, Daniele, non era un uomo qualsiasi: aveva il suo grado, piuttosto elevato, e la sua responsabilità era di persona di governo di primo piano. Non solo questo, il re Dario addirittura pensava di stabilirlo sopra tutto il regno In funzione della sua alta posizione, poteva facilmente essere adescato dalla corruzione, e agire come un funzionario che cercava il proprio interesse, anziché curare l’amministrazione pubblica. Di Daniele, però, si afferma che era fedele e non si poteva trovare in lui alcun errore o corruzione. Questo in pratica significa che egli, probabilmente, subendo la pressione di chi l’avrebbe voluto corrompere, mantenne con fermezza la sua rettitudine, onestà, sincerità e lealtà, senza cedere al cosiddetto ricatto. Questi sono segni di un'inconfondibile integrità sociale.
Ogni persona che si trova in posizione di comando, la sua integrità non si conosce dalle belle parole che pronuncia, ma dal modo con cui gestisce il suo potere. L’integrità non è qualcosa che si localizza nel cervello, nei bei discorsi che si tengono, nelle cerimonie e banchetti sontuosi che si offrono o nei proclami vistosi che si fanno, ma nel modo come si compiono certe azioni che gli altri vedono e giudicano.

Nel caso di Daniele, non era lui che parlava della sua integrità, erano piuttosto i suoi colleghi che, vedendo che egli svolgeva il suo lavoro e come si comportava nell’amministrazione pubblica, erano costretti ad ammettere che Daniele era uomo fedele, onesto, leale, retto e puro.
Il prezzo che Daniele pagò per la sua integrità fu alto. Egli non era solamente integro nella vita sociale, lo era anche con riferimento alla sua fede nel vero Dio. I suoi colleghi sapevano che egli aveva l’abitudine di pregare il suo Dio tre volte il giorno. E, non potendolo accusare davanti al re Dario d'infedeltà amministrativa, idearono di colpirlo intorno alla sua fede.

Il decreto che fece firmare al re, di proibire a chiunque pregasse un qualsiasi dio, pena di essere gettato nella fossa dei leoni, era stato ideato esclusivamente per accusare Daniele d'infedeltà nei confronti dell’autorità del sovrano. La prova ne è data dal fatto che, subito dopo la proclamazione di quella legge, nella maniera dei Medi e dei Persiani che non poteva essere revocata, Daniele venne accusato come un trasgressore dell'ordinamento giudiziario del regnante e condannato ad essere gettato nella fossa dei leoni.

Sì, è vero che i leoni non lo sbranarono, come pensavano i suoi nemici, ma questo non toglie che Daniele ha dovuto pagare un alto prezzo per la sua integrità sociale e religiosa. Il fatto stesso di essere condannato come persona che sfidava l’autorità del monarca, quando in realtà in Daniele non c’era quest'attitudine, era una severa e ingiusta sentenza, che l’avrebbe potuto portare all’avvilimento e ad abiurare la sua fede.
Se questo non avvenne, fu perché Daniele, pienamente consapevole di essere stato trovato innocente davanti al suo Dio, non aveva fatto neanche nessun male a re.
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