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Domenico34 – donne nenzionate nella Bibbia – Capitolo 1. DONNE NOMINATE NELL’A.T.

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    Domenico34
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    00 04/07/2011 00:12

    PRIMA PARTE


    Capitolo 1




    DONNE NOMINATE NELL’A.T.


    DA GENESI A 2° SAMUELE

    [DIM=13pt[Nota introduttiva

    La trattazione delle donne nell’A.T., sarà eseguita in l’ordine alfabetico. Siccome le donne menzionate nell’A.T., quelle cioè che hanno un nome, sono tante, per non rendere il capitolo troppo lungo, abbiamo pensato di dividere il materiale in due sezioni. Nel primo capitolo, compariranno donne menzionate da Genesi a 2° Samuele. Mentre nel secondo (capitolo), saranno ricordate quelle che ricorrono dal 1° Re a Malachia.

    ABIGAIL (I)

    Il significato del suo nome è: forse padre dell’entusiasmo. Viene menzionata in (1 Samuele 25:3,14,18,23,32,36,39,40,42; 27:3; 30:5; 2 Samuele 2:2; 3:3; 1 Cron. 3:1). Quest’ultimo riferimento l’ho inserito, perché qui si tratta della stessa persona, di cui parlano i testi di 1° e 2° Samuele.

    A partire da 25:3-36, Abigail viene presentata come la moglie di Nabal, mentre negli altri restanti testi, viene indicata come la moglie di Davide. Questo, naturalmente, avvenne dopo la morte di Nabal. Di Abigail, si può dire tanto, per il fatto che il testo biblico traccia la sua storia, mettendone in risalto le sue buone qualità, attraverso il comportamento che assunse, in una situazione difficile causata dal marito. Da (25:3-36), si parla di Abigail, come della moglie del ricco Nabal. L’autore del racconto biblico, non ha ritenuto opportuno tramandarci notizie intorno alla sua discendenza; di conseguenza, non si conoscono i suoi genitori.

    Le buone caratteristiche di Abigail

    Quest’uomo si chiamava Nabal, e il nome di sua moglie era Abigail, donna di buon senso e di bell’aspetto; ma l’uomo si comportava con durezza e con malvagità; discendeva da Caleb (v. 3).

    Questo verso mette in evidenze, sia le buone caratteristiche di Abigail come anche il carattere di Nabal. Venuto a sapere che Nabal stava tosando le pecore, Davide

    gli mandò dieci giovani, ai quali disse: «Salite a Carmel, andate da Nabal, salutatelo a nome mio,
    e dite così: Salute! Pace a te, pace alla tua casa e pace a tutto quello che ti appartiene!
    Ho saputo che hai i tosatori; ora, i tuoi pastori sono stati con noi e noi non abbiamo fatto loro nessuna offesa. Nulla è stato loro portato via per tutto il tempo che sono stati a Carmel.
    Domandalo ai tuoi servi ed essi te lo confermeranno. Questi giovani trovino dunque grazia agli occhi tuoi, poiché siamo venuti in giorno di gioia; e da’, ti prego, ai tuoi servi e al tuo figlio Davide ciò che avrai fra le mani»
    (vv. 4-8).

    Rientrava nella logica che Davide si sarebbe aspettato una buon'accoglienza da parte di Nabal, e che lo stesso avrebbe mostrato generosità nei suoi confronti. Così, però, non è stato!

    Dalla risposta che Nabal mandò a Davide, si può capire la durezza di quest’uomo e la sua malvagità.

    Ma Nabal rispose ai servi di Davide, e disse: «Chi è Davide? E chi è il figlio d’Isai? Sono molti, oggi, i servi che scappano dai loro padroni!
    Io dovrei prendere il mio pane, la mia acqua e la carne che ho macellata per i miei tosatori, per darli a gente che non so da dove venga?»
    (vv. 10-11).

    Quel crudo messaggio che Nabal mandò a Davide, non rispecchiava solamente l’ingratitudine di quest’uomo, ma era anche provocatorio, nel senso che avrebbe potuto spingere Davide a vendicarsi.

    Non appena Abigail venne informata, delle parole che suo marito usò, nel trattare i messi di Davide, (da donna di buonsenso che era), capì subito che Davide avrebbe potuto facilmente vendicarsi. Perciò, non indugiò ad intervenire!

    Quando Abigail ebbe visto Davide, scese in fretta dall’asino e gettandosi con la faccia a terra, si prostrò davanti a lui.
    Poi, gettandosi ai suoi piedi, disse: «Mio signore, la colpa è mia! Permetti che la tua serva parli in tua presenza e tu ascolta le parole della tua serva!
    Ti prego, mio signore, non far caso di quell’uomo da nulla che è Nabal; poiché egli è quel che dice il suo nome; si chiama Nabal e in lui non c’è che stoltezza; ma io, la tua serva, non vidi i giovani mandati dal mio signore.
    Ora dunque, mio signore, com’è vero che vive il SIGNORE e che anche tu vivi, il SIGNORE ti ha impedito di spargere sangue e di farti giustizia con le tue proprie mani. I tuoi nemici e quelli che volessero fare del male al mio signore, siano come Nabal!
    Adesso, ecco questo regalo che la tua serva porta al mio signore; sia dato ai giovani che seguono il mio signore.
    Ti prego, perdona la colpa della tua serva, poiché per certo il SIGNORE renderà stabile la tua casa perché tu combatti le battaglie del SIGNORE e in tutto il tempo della tua vita non si è trovata malvagità in te.
    Se mai sorgesse qualcuno a perseguitarti e ad attentare alla tua vita, la vita del mio signore sarà custodita nello scrigno dei viventi presso il SIGNORE, il tuo Dio; ma la vita dei tuoi nemici, il SIGNORE la lancerà via, come dall’incavo di una fionda.
    Quando il SIGNORE avrà fatto al mio signore tutto il bene che ti ha promesso e ti avrà stabilito come capo sopra Israele,
    il mio signore non avrà questo dolore e questo rimorso di avere sparso del sangue senza motivo e di essersi fatto giustizia da sé. Quando il SIGNORE avrà fatto del bene al mio signore, ricordati della tua serva»
    (vv. 23-32).

    Nel testo riportato, emergono gli elementi delle buone caratteristiche che Abigail possedeva. L’intuito che lei ebbe, di un’azione vendicativa di Davide, rispondeva a verità. Infatti, ricevuta la risposta di Nabal, Davide con i suoi quattrocento uomini, preparò un’azione di forza, con la precisa determinazione di sterminare tutto quello che apparteneva a Nabal (v. 22).

    La tempestività con cui Abigail agì, impedì a Davide di vendicarsi, di spargere sangue e farsi giustizia con le sue mani (v. 26).

    Con il suo levarsi, Abigail manifestò la grande umiltà che caratterizzava la sua vita, non solamente col prostrarsi davanti a Davide con la faccia a terra, ma anche con l’addossarsi la responsabilità del male compiuto da suo marito. Le parole che pronunciò davanti a Davide: Mio signore, la colpa è mia! (v. 24), mettono in evidenza la sua vera umiltà!

    Il racconto si conclude nel riferirci che, Davide non insistette nella sua determinazione di eliminare la famiglia di Nabal, e, dopo la morte dello stesso, Abigail, diventò sua moglie.

    Lezioni importanti da imparare

    Da quello che è stato esposto, brevemente, possiamo imparare le seguenti lezioni pratiche di vita cristiana.

    1. Davanti ad una minaccia, specie quando si ha la certezza che potrebbe accadere qualcosa di sgradevole e di luttuoso, non bisogna temporeggiare; si deve agire subito, con prontezza e rapidità, senza rimandare ad un prossimo domani. Un temporeggiamento, potrebbe aprire la porta ad una tragedia di proporzioni catastrofiche, con conseguenze inimmaginabili. Se vediamo una persona che sta annegando, l’unico modo per tentare il salvataggio, è gettarsi subito nell’acqua, senza perdere tempo. Un attimo di ritardo, potrebbe determinare la sua morte.

    Si continuerà il prossimo giorno...
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    00 05/07/2011 00:15
    2. La vera umiltà, non rimane nell’anonimato, cioè nascosta nei sentimenti e nelle intenzioni; si rivela nella vita pratica con l’assumere atteggiamenti che non lasciano posto all’equivoco. Addossarsi la responsabilità di una colpa, di uno sbaglio che un altro ha commesso, è la migliore evidenza della vera umiltà. La natura umana tende sempre ad incolpare gli altri, e non riconosce la propria colpevolezza. L’umiltà, non solo trova il coraggio per riconoscerla, ma trova anche la forza per confessarla, specie quando un simile atteggiamento mette in salvo la vita degli altri.

    3. L’azione di addossarsi un male non fatto, non è manifestazione di debolezza, ma di alto senso di responsabilità. La spiritualità di una persona, non si misura dai torti che potrà subire, ma dalle colpe che si è disposti a caricarsi, per il bene degli altri.

    L’esempio più mirabile, l’ha dato il nostro Signore, Gesù Cristo: lui giusto, immacolato, innocente, si è caricato di tutto il fardello del peccato umano. Questo fardello se lo caricò sul suo corpo, portandolo sulla croce. Lì, subì la pesante punizione della giustizia divina, allo scopo di portarci la salvezza e la riconciliazione con Dio. Infine, ricordiamoci, che il male non si vince con un altro male, bensì col bene (Romani 12:21).

    ABIGAIL o Abigal (2)

    Il significato del suo nome è: forse, padre dell’entusiasmo.

    Era figlia di Nacas, sorella di Seruia e madre di Ioab.
    Absalom aveva messo a capo dell’esercito Amasa, al posto di Ioab. Amasa era figlio di un uomo chiamato Itra, l’Ismaelita, il quale aveva avuto relazioni con Abigal, figlia di Nacas e sorella di Seruia, madre di Ioab (2 Samuele 17:25).

    Di lei si parla solamente in questo brano. Siccome il testo biblico non fornisce nessun’altra notizia di questa donna, non si può aggiungere nient’altro di lei.

    ABIAIL (1)

    Il suo nome significa: padre della forza. Era madre di Suriel, discendente della famiglia di Merari.

    Il capo delle famiglie discendenti da Merari era Suriel, figlio di Abiail. Essi avevano il campo dal lato settentrionale del tabernacolo (Numeri 3:35).

    Della famiglia di Merari si afferma:
    Alle cure dei figli di Merari furono affidati le assi del tabernacolo, le sue traverse, le sue colonne e le loro basi, tutti i suoi utensili e tutto ciò che si riferisce al servizio del tabernacolo,
    le colonne del cortile tutto intorno, le loro basi, i loro picchetti e il loro cordame
    (vv. 36-37).

    In conformità a questi particolari che il testo sacro ci ha fornito, Abiail, che era la madre di Suriel, della famiglia di Merari, era addetta, assieme agli altri membri della famiglia, alla cura del tabernacolo. Le assi, le traverse, le colonne, le basi, le colonne del cortile, i picchetti, il cordame e tutti gli utensili del Tabernacolo, erano sotto la responsabilità di questa famiglia.

    Quando gli Israeliti si spostavano da un luogo all’altro, secondo gli ordini di Dio, e il tabernacolo veniva smontato, l’incarico di rimontarlo, era affidato alla famiglia di Merari. Erano loro che dovevano fissare le basi, disporre le traverse, stendervi i vari teli, piantare profondamente i picchetti, collocare le colonne e tirare bene il cordame, perché il tabernacolo potesse reggersi e stare fermo.Era un lavoro che sicuramente compivano gli uomini. Le donne, rimanevano forse inoperose, solamente a guardare? Non è possibile pensarlo! Nulla c'impedisce di pensare che loro, facilmente prendevano i picchetti e li davano nelle mani di quelli che li avrebbero piantati; prendevano il cordame e lo consegnavano nelle mani di chi dovevano tirarlo bene.

    Se poi pensiamo a tutti gli utensili, e a tutto ciò che si riferiva al servizio sacro, la logica non si oppone che le donne, partecipassero a questo lavoro. Quali pezzi del tabernacolo, o quali utensili avrà preso Abiail? Non si può specificare, ma neanche è pensabile che se ne stette con le mani in mano. Un piccolo servizio che è svolto nell’opera del Signore e per la gloria del Suo nome, anche se non è apprezzato dall’uomo, lo è sicuramente da Dio.

    ABITAL

    Una delle mogli di Davide. Madre di Sefatia (2 Samuele 3:4; 1 Cronache 3:3). Il motivo perché la citazione del cronista è stata inserita in questo capitolo, è per il fatto che qui si tratta della stessa donna.

    ACSA

    Il significato di questo nome è: Anello per la gamba o per la caviglia. Il suo nome è riportato in: (Giosuè 15:16,17; Giudici 1:12,13:1 Cronache 2:49). Il motivo dell’inclusione della citazione del cronista in questo capitolo, è perché qui si tratta della stessa donna. Acsa, figlia di Caleb, venne promessa in moglie,
    a chi si sarebbe battuto per conquistare Chiriat-Sefer. Otniel, nipote di Caleb, la conquistò, e Caleb gli diede in moglie sua figlia Acsa.

    Autorizzata dal marito di fare una richiesta particolare a suo padre, Acsa chiese a Caleb di darle un campo che avesse sorgenti d’acqua. La richiesta venne accolta, e, Caleb, diede a sua figlia, le sorgenti superiori e le sorgenti sottostanti (v. 19).

    L’idea di avere per sua proprietà, sorgenti d’acqua, provenne da Acsa. Questo significa che lei si rese conto che, un terreno arido, senza acqua, non aveva tanto valore. Se invece, avesse avuto una sorgente d’acqua, lo stesso terreno, avrebbe avuto un valore superiore. Con l’acqua a disposizione, infatti, si possono coltivare ortaggi, irrigare piantagioni, annaffiare la sementa, con la prospettiva di avere una buona e abbondante raccolta.

    L’acqua, nella Bibbia, spesse volte assume il significato dello Spirito Santo. La vita cristiana, senza la presenza dello Spirito Santo, è vuota ed arida. L’aridità, è sinonimo d'infruttuosità. È lo Spirito Santo, che rende fertile il terreno della nostra esistenza, da portare frutti abbondanti, alla lode e gloria di Dio!

    ADA (1)

    Il significato del nome è: ornamento, bellezza. Ricorre in Genesi 4:19,23; viene presentata come una delle mogli di Lamec.

    Tenuto conto che di Ada non si hanno altre notizie, l’unico elemento su cui basare una riflessione cristiana, riguarda il significato del suo nome. Comincio con l’ornamento, per chiedere: che cos’è? Ecco la definizione linguistica, così come si rileva dal dizionario della lingua italiana.

    «L’azione o anche il modo, la tecnica di ornare, di abbellire, di ingentilire o di rendere più maestoso e solenne, per lo più con l’aggiunta di elementi decorativi non strettamente essenziali.
    Ciò che è impiegato nell’intento di rendere più attraente o anche più maestosa e più imponente una persona; abito, indumento, copricapo; accessorio, fibbia, borchia, ricamo di un capo di vestiario; gioiello, monile; acconciatura (anche con valore collettivo). Anche: modo di vestirsi, di acconciarsi, di truccarsi; abbigliamento, costume» [S. Battaglia, GDLI,(Grande Dizionario della lingua italiana), Vol. XII, pagg. 124-125].

    Per spendere qualche parola di commento, si può prendere il testo di 1 Pietro, che dice:
    Il vostro ornamento non sia quello esteriore, che consiste nell’intrecciarsi i capelli, nel mettersi addosso gioielli d’oro e nell’indossare belle vesti,
    ma quello che è intimo e nascosto nel cuore, la purezza incorruttibile di uno spirito dolce e pacifico, che agli occhi di Dio è di gran valore.
    Così, infatti, si ornavano una volta le sante donne che speravano in Dio, restando sottomesse ai loro mariti
    (1 Pietro 3:3-5).

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    Domenico34
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    00 06/07/2011 00:13
    A che cosa mira l’ornamento? A rendere più attraente ed affascinante il corpo umano, specie quello femminile.

    «In 3:3-5 si vuole essere precisi sulla necessità particolare di essere ‘puri’. Si tratta di sapere qual è l’ornamento che si addice alle donne. La lettera con molta severità condanna ogni ornamento esteriore (3:3) ed esige la bellezza interiore (3:4s). Gli ornamenti esterni di cui si parla, sono esemplificati nel lusso dell’acconciatura, dei gioielli, dei costosi abiti alla moda, di cui troviamo un’illustrazione nella letteratura e nei monumenti all’epoca imperiale. Naturalmente solo i ceti superiori potevano permettersi questo lusso, e tra essi non vi erano certo molte spose cristiane. Quindi la critica della lettera è rivolta in genere all’opulenza del suo tempo, concordando in ciò col giudizio negativo e ammonitore di altri critici di allora e di prima» [K. Hermann Schelkle, Le lettere di Pietro. La lettera di Giuda, pagg. 158-159].

    «Chi molto si preoccupa di acconciatura del corpo, poco si cura di perfezionare il proprio carattere morale; chi pensa ad attrarre lo sguardo degli uomini, poco si preoccupa di piacere a Dio» [E. Bosio, Le epistole Cattoliche, pag. 97].

    Che cos’è la bellezza, (fisica, naturalmente)? Per rispondere a questa domanda si possono usare le parole di Salomone:

    La grazia è ingannevole e la bellezza è cosa vana; ma la donna che teme il SIGNORE è quella che sarà lodata (Proverbi 31:30).

    È vana, in confronto al temere il Signore, e non per ciò che riguarda i lineamenti di un corpo o il colore della sua pelle. A che vale, la bellezza fisica di un corpo, (non quell'artefatta, bensì quella naturale), quando il comportamento è riprovevole, sia davanti a Dio e anche davanti alla società? La lode che si potrà ricevere per la bellezza fisica, non ha eccessivo valore, in confronto al carattere di un equilibrato temperamento, alla gentilezza che si manifesta nei confronti degli altri, e, soprattutto, quando c’è stima, rispetto e amore per la vita del prossimo.

    ADA (2)

    Il significato del nome è: ornamento, bellezza. Ricorre in (Genesi 36:2). Di questa donna si può dire solamente che era una Cananea, figlia di Elon, moglie di Esaù.

    AGAR

    Alcune note biografiche della vita di Agar

    Il nome di Agar viene menzionato nella Bibbia 15 volte, 13 dei quali nell’A.T., precisamente nel libro della Genesi e 2 volte nel N.T. esattamente in (Galati 4:24,25). Il suo nome significa fuga.

    Di origine Egiziana (Genesi 16:1,3; 21:9). Probabilmente SARAI l’avrà presa al suo servizio, in occasione del suo soggiorno in Egitto (Genesi 12:10-20). Non si sa l’età che aveva, quando venne presa come serva da Abramo per SARAI e a quale famiglia appartenesse. Visse per tanti anni al servizio della moglie di Abramo. Da quello che leggiamo nel libro della Genesi, crediamo di percepire che Agar acquistò fiducia e buona simpatia presso la sua padrona. Un giorno, visto che SARAI era sterile e non poteva avere figli, questa la diede a suo marito come moglie, sperando che da lei potrebbe avere un figlio (16:3).

    Il comportamento di Agar davanti ad una nuova situazione

    Non appena Agar si rese conto che aspettava un figlio, guardò la sua padrona con disprezzo (16:4).

    Ecco, un improvviso cambiamento di atteggiamento! Questo cambiamento di comportamento di Agar, però, non fu in bene ma in male. Dal punto di vista umano, Agar non manifestò nessun sentimento di gratitudine nei confronti della sua padrona. Se lei andò a letto con Abramo, non fu perché il suo padrone la sedusse, ma semplicemente perché la sua padrona le permise di unirsi con suo marito.

    Sotto quest'aspetto, il comportamento ostile di Agar nei confronti di SARAI, non può essere giustificato per nessun motivo. Ma, allora, perché Agar agì in quel modo? Per dare la risposta a questa domanda, è necessario almeno farne altre tre.

    1) Quando Agar uscì incinta, nacquero per caso in lei sentimenti di rivalità nei confronti della sua padrona?
    2) Avrà forse pensato che Abramo, visto che lei aveva concepito da lui, avrebbe potuto cambiarle la sua posizione, da serva farla diventare padrona?
    3) Il fatto stesso che SARAI era sterile e non poteva avere figli, e lei, Agar che aspetta un bambino da Abramo, avrà pensato che sarebbe diventata la moglie di Abramo?

    Valutando queste domande, non è fuori della logica, se Agar avesse pensato in quel modo. Visto che Agar cambia bruscamente il suo comportamento nei confronti di SARAI, le nostre domande hanno un senso e una certa coerenza. Inoltre, il disprezzo con cui Agar guardava la sua padrona, venne causato dal fatto che lei aspettava un figlio, mentre SARAI non ne ha e neanche può averne.

    La reazione di SARAI nei confronti di Agar

    Data per certo che per SARAI c’era una seria minaccia di rivalità, essa non indugiò a parlarne con decisione a suo marito.

    Sarai disse ad Abramo: «L’offesa fatta a me ricada su di te! Io ti ho dato la mia serva in seno e, da quando si è accorta d’essere incinta, mi guarda con disprezzo. Il SIGNORE sia giudice fra me e te».
    Abramo rispose a Sarai: «Ecco, la tua serva è in tuo potere; falle ciò che vuoi». Sarai la trattò duramente e quella se ne fuggì da lei
    (Genesi 16:5-6).

    Le precise parole rivolte ad Abramo, specialmente le ultime Il SIGNORE sia giudice fra me e te, mettono in chiaro il pericolo di rivalità che cominciava ad apparire nella mente di SARAI.

    Se Abramo non avesse agito subito, avrebbe confermato quello che SARAI temeva. Col mettere però nelle mani di sua moglie la vita della serva, Abramo, giustamente tranquillizzò sua moglie. La frase Sarai la trattò duramente, non specifica esattamente cosa venne fatto nei confronti di Agar. Avrà tentato di farla abortire? Probabilmente! La cosa certa è che Agar fu costretta a fuggire.

    La fuga di Agar e l’intervento di Dio

    L’angelo del SIGNORE la trovò presso una sorgente d’acqua, nel deserto, presso la sorgente che è sulla via di Sur,
    e le disse: «Agar, serva di Sarai, da dove vieni e dove vai?» Lei rispose: «Fuggo dalla presenza di Sarai mia padrona».
    L’angelo del SIGNORE le disse: «Torna dalla tua padrona e umiliati sotto la sua mano».
    L’angelo del SIGNORE soggiunse: «Io moltiplicherò grandemente la tua discendenza e non la si potrà contare, tanto sarà numerosa».
    L’angelo del SIGNORE le disse ancora: «Ecco, tu sei incinta e partorirai un figlio a cui metterai il nome di Ismaele, perché il SIGNORE ti ha udita nella tua afflizione;
    egli sarà tra gli uomini come un asino selvatico; la sua mano sarà contro tutti, e la mano di tutti contro di lui; e abiterà di fronte a tutti i suoi fratelli».
    Allora Agar diede al SIGNORE, che le aveva parlato, il nome di Atta-El-Roi, perché disse: «Ho io, proprio qui, veduto andarsene colui che mi ha vista?»
    Perciò quel pozzo fu chiamato il pozzo di Lacai-Roi. Ecco, esso è tra Cades e Bered.
    Agar partorì un figlio ad Abramo. Al figlio che Agar gli aveva partorito Abramo mise il nome d’Ismaele. Abramo aveva ottantasei anni quando Agar gli partorì Ismaele
    (Genesi 16:7-16).

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    00 07/07/2011 00:16
    Non potendo più rimanere con SARAI, Agar fu costretta a fuggire dalla sua presenza. Questa nuova situazione, fu la conseguenza di un errato atteggiamento che Agar assunse nei riguardi della sua padrona. In materia di guai, spesso, se li procura l’uomo a motivo di certi comportamenti sbagliati. Il volere incolpare gli altri per certe tragedie che capitano, significa non riconoscere i propri errori.

    Nella sua fuga, Agar, andò a finire in un deserto. Tutte le fughe conducono verso questi luoghi. Spesso nella vita pratica, s'incontra il deserto dell’avversità, della solitudine, dello sconforto e dello smarrimento. Grazie a Dio che, in questi luoghi, Egli incontra il fuggitivo. La domanda che l’angelo del Signore rivolse ad Agar fu: «Agar, serva di Sarai, da dove vieni e dove vai?» Agar rispose solo alla prima parte della domanda, cioè quella che riguardava la sua provenienza.

    Per quanto concerneva la seconda parte, non diede nessuna risposta. Perché? La risposta è semplice! Perché, in effetti, lei non conosceva la sua destinazione. Il maggior numero delle persone che fuggono dalle responsabilità della vita, non conoscono dove vanno. Che dire poi dei tanti giovani che lasciano la casa dei loro genitori e fuggono lontani da loro? Forse pensano di trovare luoghi migliori, compagnie più affettuose e ambienti più tranquilli.

    La loro delusione sarà grande, quando si troveranno nel deserto della solitudine, dello sconforto e dello smarrimento. Pensavano e credevano che avrebbero trovato un’oasi di pace e di serenità, invece si sono trovati a pascolare una mandra di porci (come la parabola evangelica, Luca 15:11-32).

    L’esortazione dell’angelo del Signore ad Agar fu: «Torna dalla tua padrona e umiliati sotto la sua mano». In pratica queste parole volevano dirle due cose:

    1) Riconosci che nel fuggire dalla tua padrona, hai commesso un errore.
    2) Nel fuggire dalla tua padrona, hai voluto sottrarti alla sua autorità.

    Il fatto stesso che Agar non replicò all’angelo del Signore e non giustificò la sua fuga, prova che accettò quello che le venne detto. Quando le persone cercano di giustificare il loro male, con la scusa di essere state offese, maltrattate e danneggiate, in pratica significa che vogliono evadere dalle loro responsabilità. Infine, visto che il racconto si conclude con il parlarci del parto e del nome che Abramo mise al figlio che Agar partorì, basta per provare che la faccenda venne sistemata.

    Agar scacciata definitivamente da SARA, ma soccorsa da Dio

    Il capitolo della storia di Agar si chiude definitivamente con il suo scacciamento. Abbiamo già accennato a quest'episodio, quando abbiamo parlato dello svezzamento d'Isacco. Fu, infatti, in quell’occasione che la sorte di Agar venne definitivamente chiusa.

    Abrahamo [A cominciare da questa citazione, preferiamo chiamare il nome del patriarca, col il suo nome cambiato di Abramo in Abrahamo, come fa la Nuova Diodati, e non seguire la Nuova Riveduta che lo chiama Abraamo] si alzò la mattina di buon’ora, prese del pane e un otre d’acqua e li diede ad Agar, mettendoglieli sulle spalle con il bambino, e la mandò via. Lei se ne andò e vagava per il deserto di Beer-Seba.
    Quando l’acqua dell’otre finì, lei mise il bambino sotto un arboscello.
    E andò a sedersi di fronte, a distanza di un tiro d’arco, perché diceva: «Che io non veda morire il bambino!» E seduta così di fronte, alzò la voce e pianse.
    Dio udì la voce del ragazzo e l’angelo di Dio chiamò Agar dal cielo e le disse: «Che hai, Agar? Non temere, perché Dio ha udito la voce del ragazzo là dov’è.
    Alzati, prendi il ragazzo e tienilo per mano, perché io farò di lui una grande nazione».
    Dio le aprì gli occhi e lei vide un pozzo d’acqua e andò, riempì d’acqua l’otre e diede da bere al ragazzo.
    Dio fu con il ragazzo; egli crebbe, abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco.
    Egli si stabilì nel deserto di Paran e sua madre gli prese per moglie una donna del paese d’Egitto
    (Genesi 21:14-21).

    Visto che di Agar abbiamo parlato abbastanza, non ci resta altro di occuparci dell’intervento di Dio a favore di suo figlio Ismaele. Il fatto che Dio dica d'Ismaele farò di lui una grande nazione, prova che anche per questo figlio di Agar, c’èra un piano divino da portare a compimento.

    Fin che c’era acqua nell’otre, Agar con il figlio continuò ad errare per il deserto di Ber-Sceba. Ma quando questa terminò, il fanciullo venne lasciato sotto un cespuglio e la madre si allontanò per non vederlo morire. A questo punto entra in azione Dio! Non fu solamente Agar che pianse; anche il figlio alzò la sua voce. Nel rivolgere la parola ad Agar, Dio fa riferimento di aver ascoltato la voce del ragazzo, mentre a lei si limita a chiederle: Che hai, Agar?

    Che cosa avrà detto Ismaele quando alzò la sua voce, non ci viene detto. Quello che allo scrittore sacro interessa farci conoscere, è che il Signore ascoltò quella voce. Il Signore ha sempre ascoltato e sempre ascolterà, la voce di coloro che specialmente si rivolgono a Lui! Nell’udirla, Egli verrà incontro per aiutarli (Salmo 50:15).

    L’esortazione che Dio rivolse ad Agar fu: Alzati, prendi il ragazzo e tienilo per mano. Volendo significarle: di non continuare a lasciarlo solo; tienilo vicino a te. Solo e lontano da te, potrebbe scoraggiarsi e venir meno. Ma vicino a te, preso con la tua mano, verrà incoraggiato a continuare il cammino della vita. Gli occhi che Dio apre ad Agar per vedere un pozzo d’acqua, serve per farle riempire l’otre per dare da bere a suo figlio. Questo rappresenta un’ulteriore prova dell’interessamento di Dio per Ismaele.

    I pozzi d’acqua per levare la sete, si potranno utilizzare, solo quando Dio aprirà gli occhi per vederli. Nel deserto di questo mondo c’è tanta aridità e mancanza di vera felicità. Ci sono tanti che stanno morendo per mancanza dell’acqua della vita. Gesù è il vero pozzo d’acqua che non si esaurirà mai.

    Gesù disse alla sanaritana: «Chiunque beve di quest’acqua avrà sete di nuovo;
    ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una fonte d’acqua che scaturisce in vita eterna»
    (Giovanni 4:13-14).

    Nell’ultimo giorno, il giorno più solenne della festa, Gesù stando in piedi esclamò: «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva.
    Chi crede in me, come ha detto la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno».
    Disse questo dello Spirito, che dovevano ricevere quelli che avrebbero creduto in lui; lo Spirito, infatti, non era ancora stato dato, perché Gesù non era ancora glorificato
    (Giovanni 7:37-39).

    Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni». E chi ode, dica: «Vieni». Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda in dono dell’acqua della vita (Apocalisse 22:17).

    Sara ed Agar nel pensiero di Paolo

    Queste cose hanno un senso allegorico; poiché queste donne sono due patti; uno, del monte Sinai, genera per la schiavitù, ed è Agar.
    Infatti, Agar è il monte Sinai in Arabia e corrisponde alla Gerusalemme del tempo presente, che è schiava con i suoi figli
    (Galati 4:24-25).

    La trattazione che Paolo fa di Sara e di Agar nella sua epistola ai Galati, mira a confutare quelli che vogliono essere sotto la legge. Il problema che c’èra nella comunità dei Galati, era grosso e complicato, nel senso che molti sostenevano la necessità di osservare la legge di Mosè.

    Non si trattava semplicemente di sostenere il cerimoniale mosaico, si trattava, invece, di far dipendere la salvezza dall’osservanza della legge. Una simile posizione non poteva essere accettata, per il semplice fatto che rendeva vana l’opera compiuta da Cristo sulla croce. La fede in Cristo, è elemento essenziale per la salvezza. Senza la fede, l’uomo non potrà mai arrivare ad appropriarsene.

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    00 08/07/2011 00:14
    La corrente che sosteneva l’osservanza della legge mosaica, specialmente il rito della circoncisione, tendeva a mettere da parte l’opera di Cristo. Visto che il vero evangelo è potenza di Dio per la salvezza di ognuno che crede (Romani 1:16), ne consegue che non è possibile concepire la salvezza senza Cristo. L’argomentazione che l’apostolo Paolo fa su Sara ed Agar, mira a portare nuova luce alla mente dei fratelli, e, specialmente dei contestatari. La domanda posta all’inizio della sezione 4:21-31, è molto importante. Aiuta il credente a riflettere seriamente.

    Ditemi, voi che volete essere sotto la legge, non prestate ascolto alla legge? (Galati 4:21).

    Per Paolo, Sara ed Agar hanno un senso allegorico, cioè sono due patti; la prima, Sara, corrisponde alla Gerusalemme di lassù e la seconda, Agar, alla Gerusalemme del tempo presente. Sara con i suoi figli è libera, mentre Agar con i suoi figli è schiava. Definendo Agar il monte Sinai (chiaro riferimento alla legge di Mosè), coloro che la sostengono, sono privi della vera libertà dell’evangelo. La conclusione cui arriva Paolo, è chiara e convincente.

    Ora, fratelli, come Isacco, voi siete figli della promessa.
    E come allora colui che era nato secondo la carne perseguitava quello che era nato secondo lo Spirito, così succede anche ora.
    Ma che dice la Scrittura? Caccia via la schiava e suo figlio; perché il figlio della schiava non sarà erede con il figlio della donna libera.
    Perciò, fratelli, noi non siamo figli della schiava, ma della donna libera
    (Galati 4:28-31).

    AGGHIT

    Una delle mogli di Davide e madre di Adonia (2 Samuele 3:4; 1 Re 1:5,11; 2:13; 1 Cronache 3:2). Le citazioni del libro dei Re e quella del cronista, sono state riportate in questo capitolo, perché si tratta della stessa persona.

    ANA

    Significa: prob. che ascolta, che accorda. Di lei si parla in (Genesi 36:2,14,18,24-25). Era la madre di Oolibama e figlia di Sibeon, l’Ivveo.
    Avere un’attitudine ad ascoltare, è una buona cosa, specie quando si riferisce a Dio e alla Sua Parola.

    ANNA (1)

    Il suo nome significa: Grazia, favore. Di lei si parla in (1 Samuele 1:2-10,13,15,19-20,22,25-26; 2:1,21). Fu la moglie di Elcana e la madre del profeta Samuele. La storia di questa donna, così come lo scrittore sacro l'ha tramandata, è molto interessante e ricca d'insegnamenti per la vita cristiana. Vale la pena considerarla nei vari particolari.

    Sterilità e amareggiamento di Anna

    Anna, moglie di Elcana, era sterile, cioè, non poteva avere figli. A causa di questa sua condizione fisica, l’altra moglie che Elcana aveva, di nome Peninna, la mortificava continuamente, allo scopo di amareggiarla.

    Peninna, senza dubbio, faceva riferimento al fatto che lei aveva figli, mentre Anna non ne aveva. A quei tempi, presso gli Israeliti, quando una donna sposata non aveva figli, era considerata come se si trovasse sotto la maledizione di Dio. Quindi, il disprezzo che subbiva, era talmente grande che a volte, non potendolo sopportare, essa non solo sfogava lo sconforto con il pianto, ma era anche facile ad abbandonarsi alla disperazione.

    Non si può stabilire se l’azione di mortificare Anna, Peninna la svolgeva anche quand’erano a casa, o si limitava solamente quando erano a Silo, in occasione dei sacrifici che la famiglia offriva al Signore. Siccome il testo sacro specifica che Peninna compiva quell’azione, quando la famiglia andava a Silo, per adorare il Signore, ogni altra supposizione, c’è da metterla da parte. Se la famiglia di Elcana andava ogni anno per adorare il Signore e offrirgli dei sacrifici, era perché in quel luogo c’era l’arca di Dio e i sacerdoti, figli di Eli.

    Anna veniva talmente amareggiata dalla sua rivale che, essa non solo rifiutava di mangiare, ma non dava neanche ascolto a suo marito, che le diceva:

    Anna, perché piangi? Perché non mangi? Perché è triste il tuo cuore? Per te io non valgo forse più di dieci figli? (1 Samuele 1:8).

    La preghiera di Anna

    Poiché che Anna non riusciva a trovare conforto in seno alla famiglia, a causa del modo scortese che Peninna usava, essa preferì rivolgersi al Signore in preghiera, e sfogare il suo dolore davanti a Lui.

    Lei aveva l’anima piena di amarezza e pregò il SIGNORE dirottamento.
    Fece un voto e disse: «O SIGNORE degli eserciti, se hai riguardo all’afflizione della tua serva e ti ricordi di me, se non dimentichi la tua serva e dai alla tua serva un figlio maschio, io lo consacrerò al SIGNORE per tutti i giorni della sua vita e il rasoio non passerà sulla sua testa».
    La sua preghiera davanti al SIGNORE si prolungava, ed Eli osservava la bocca di lei.
    Anna parlava in cuor suo e si muovevano soltanto le sue labbra, ma non si sentiva la sua voce; perciò Eli credette che fosse ubriaca
    e le disse: «Quanto durerà questa tua ubriachezza? Va’ a smaltire il tuo vino!»
    Ma Anna rispose e disse: «No, mio signore, io sono una donna tribolata nello spirito e non ho bevuto vino né bevanda alcolica, ma stavo solo aprendo il mio cuore davanti al SIGNORE.
    Non prendere la tua serva per una donna da nulla; perché l’eccesso del mio dolore e della mia tristezza mi ha fatto parlare fino ad ora».
    Ed Eli replicò: «Va’ in pace e il Dio d’Israele esaudisca la preghiera che gli hai rivolta!»
    (1 Samuele 1:10-17).

    La Scrittura afferma che Anna aveva l’anima piena di amarezza. In quello stato d’animo, si rivolse al Signore in un pianto dirotto. Siccome il suo pianto non era comune, non era facile per l’uomo, valutarlo nella sua portata! Solo il Signore, che conosce i segreti dell’anima, lo valutò nella sua giusta dimensione. Il sommo sacerdote Eli, vedendo questa donna che pregava, muovendo solamente le labra, senza sentire le sue parole, espresse un giudizio severo nei confronti di Anna, prendendola addirittura per ubriaca. Perciò non esitò a dirle: Quanto durerà questa tua ubriachezza? «Va’ a smaltire il tuo vino!» (v. 14).

    Che errore di valutazione commise Eli! In verità, i moti dell’anima e le espressioni di profondo dolore, li comprende solamente l’Onnipotente, al quale nessuna cosa sfugge. Dal severo giudizio che espresse il sommo sacerdote, Anna trovò il modo di rispondere: Non prendere la tua serva per una donna da nulla; perché l’eccesso del mio dolore e della mia tristezza mi ha fatto parlare fino ad ora (v. 16). Quelle parole, furono talmente toccanti e convincenti per Eli, tanto che egli, replicando, le disse: «Va’ in pace e il Dio d’Israele esaudisca la preghiera che gli hai rivolta!» (v. 17).

    La preghiera di Anna esaudita

    L’indomani lei e suo marito si alzarono di buon’ora e si prostrarono davanti al SIGNORE; poi partirono e ritornarono a casa loro, a Rama. Elcana si unì ad Anna, sua moglie, e il SIGNORE si ricordò di lei.
    Nel corso dell’anno, Anna concepì e partorì un figlio, che chiamò Samuele; perché disse, l’ho chiesto al SIGNORE
    (vv. 19-20).

    Non si sa, se prima dell’evento narrato dal nostro testo, Anna aveva pregato Dio per avere un figlio, (come del resto facevano le donne ebree, quando non ne potevano avere). Tenuto conto che il racconto biblico tace, conviene considerare semplicemente quello che si legge. Il nostro passaggio precisa che, nel corso dell’anno, Anna concepì e partorì un figlio.

    Questa è la prova dell’intervento del Signore, nel guarire la sterità di Anna! Se Dio non avesse guarito la sua sterilità, il concepimento non sarebbe stato possibile, di conseguenza, non ci sarebbe stato neanche il parto. Quando Dio esaudisce la preghiera di un suo figlio, concede quanto gli è stato chiesto.

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    Domenico34
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    00 09/07/2011 00:27
    A volte una preghiera innalzata al Signore, riceve immediata risposta; mentre tante altre volte ritarda l’esaurimento. Qualunque possa essere stato l’andamento delle cose, è certo che il Signore non lascia nello sconforto un’anima, a tempo indeterminato. E, se Egli, dovesse ritardare, per un motivo che noi non riusciamo a comprendere, conviene ancorarsi fortemente alla fedeltà di Dio. Aspettare con la certezza che il Signore ci conceda, nella sua grazia, quanto gli domandiamo, è la cosa migliore che ognuno di noi possa fare.
    Dopo lo svezzamento del bambino, (che di solito avveniva il secondo o al terzo anno), Anna portò il figlio, nella casa del Signore a Silo, in adempimento del suo voto (v. 24). Fu in quell’occasione che lei, poté dire al sommo sacerdote Eli:

    «Mio signore! Com’è vero che tu vivi, o mio signore, io sono quella donna che stava qui vicina a te, a pregare il SIGNORE.
    Pregai per avere questo bambino; il SIGNORE mi ha concesso quel che io gli avevo domandato.
    Perciò anch’io lo dono al SIGNORE; finché vivrà, egli sarà donato al SIGNORE». E si prostrò là davanti al SIGNORE
    (vv. 26-28).

    Il Cantico di Anna

    Nel cantico di Anna, c’è tutta la riconoscenza e la gratitudine che questa donna manifestò al Signore. La lirica delle sue parole, si assomigliano a quelle che pronunciò Maria, nel famoso Magnificat (Luca 1:46-55).

    Allora Anna pregò e disse: «Il mio cuore esulta nel SIGNORE, il SIGNORE ha innalzato la mia potenza, la mia bocca si apre contro i miei nemici perché gioisco nella tua salvezza.
    Nessuno è santo come il SIGNORE, poiché non c’è altro Dio all’infuori di te; e non c’è rocca pari al nostro Dio.
    Non parlate più con tanto orgoglio; non esca più l’arroganza dalla vostra bocca; poiché il SIGNORE è un Dio che sa tutto e da lui sono pesate le azioni dell’uomo.
    L’arco dei potenti è spezzato, ma quelli che vacillano sono rivestiti di forza.
    Quelli che una volta erano sazi si offrono a giornata per il pane, e quanti erano affamati ora hanno riposo. La sterile partorisce sette volte, ma la donna che aveva molti figli diventa fiacca.
    Il SIGNORE fa morire e fa vivere; fa scendere nel soggiorno dei morti e ne fa risalire.
    Il SIGNORE fa impoverire e fa arricchire, egli abbassa e innalza.
    Alza il misero dalla polvere e innalza il povero dal letame, per farli sedere con i nobili, per farli eredi di un trono di gloria; poiché le colonne della terra sono del SIGNORE e su queste ha poggiato il mondo.
    Egli veglierà sui passi dei suoi fedeli, ma gli empi periranno nelle tenebre; infatti, l’uomo non trionferà per la sua forza.
    Gli avversari del SIGNORE saranno frantumati; egli tonerà contro di essi dal cielo; il SIGNORE giudicherà l’estremità della terra e darà forza al suo re; innalzerà la potenza del suo unto»
    (2:1-10).

    Riflessioni per la vita pratica

    La storia di Anna, così com'è stata brevemente commentata, ci permette di fare alcune riflessioni.

    1. Quando c’è il disprezzo, da qualsiasi parte venga e per qualsiasi motivo, non c’è mai da elogiarlo. Quest'atteggiamento denota, per chi lo pratica, di non conoscere il valore del sentimento compassionevole, verso gli altri. Chi vede qualcuno in condizioni disaggiate, a causa di un difetto fisico, non c’è da farsi meraviglia, e, contemporaneamente esprimere sentimenti di antipatie e di severi giudizi. Un linguaggio sprezzante, non ha mai aiutato chi soffre, anzi lo rende più penoso e aumenta il travaglio e l’angoscia.

    2. La solidarietà che si manifesta verso qualcuno che non ha quello che vorrebbe, aiuta la persona a non disperare, ma lo incoraggia a non perdersi d’animo e a non perdere la speranza. Le cose possono cambiare facilmente, come spunta sull’orizzonte il sole che illumina il sentiero oscuro, così ritorna la calma dopo la tempesta. Chi pratica la solidarietà verso gli altri, non solo si adopera per il bene, superando ogni umana incomprensione, ma spiana anche il sentiero di una vita umana, per ciò che riguarda il futuro.

    3. Nei momenti di grandi dolori, d'incomprensioni, di scoraggiamenti, di angoscia e di disprezzo, l’unico posto per sentirsi ristorato e confortato, è andare al Signore, in preghiera, il quale sa ben capirci. Davanti a Dio, qualunque sia il problema, ci si può sfogare, certi di trovare sollievo e conforto, per continuare il cammino della vita. Anche se a volte, Dio permette certe circostanze nella nostra vita (che non sempre sappiamo comprenderle), tuttavia, quando viene implorato con tutta la forza dell’anima, sarà difficile che Egli rimanga indifferente.

    4. I giudizi avventati e severi, che a volte si formulano nei confronti degli altri, spesso sono il risultato di preconcetti e di scarso discernimento. Tutto ciò che si basa su quello che vede o sente, non è sempre scevro da accortezza; a volte può essere anche il risultato di precipitose valutazioni. Giudicare una persona, secondo quello che si vede, è molto rischioso, perché spesso non rispecchia la realtà della situazione.

    5. Quando Dio viene incontro ad un bisogno, il duolo viene cambiato in sorriso, l’angoscia in conforto e il pianto in canto di lode al Signore. Per chi sperimenta la fedeltà di Dio, non mancheranno motivi di esprimere sentimenti di riconoscenza e di gratitudine, per quello che si riceve dalla mano di Dio. Sarà sempre un piacere parlarne, perché altri, potranno ricavarne beneficio, ed essere ispirati, verso traguardi di soddisfazioni e di godimento.

    AINOAM (1)

    Il suo nome significa: Fratello di grazia. È menzionata in (1 Samuele 14:50). Era la moglie di Saul e la madre di Aimaaz.

    AINOAM (2)

    Significato del nome: Fratello di grazia. Si parla di lei in (1 Samuele 25:43; 27:3; 30:5; 2 Samuele 2:2; 3:2; 1 Cronache 3:1). La citazione del cronista è riportata in questo capitolo, perché si tratta della stessa persona. Era una delle mogli di Davide e madre di Ammon, il quale nacque ad Ebron; proveniva da Izreel.

    Da quando Ainoam diventò la moglie di Davide, seguì il marito nelle varie vicissitudini della vita. Non leggiamo di questa donna che si lamentasse nelle varie difficoltà che il marito incontrava. Fu una fedele moglie, nel senso che si mantenne vicino allo sposo, anche nel territorio filisteo, dove suo marito si era rifugiato, per sottrarsi alla cattura da parte di Saul, che lo voleva morto a qualsiasi costo.

    Nella terra dei Filistei, Ainoam fece una delle più tragiche esperienze della sua vita. Fu fatta prigioniera da una banda di malviventi, assieme ad Abigail, l’altra moglie di Davide. È vero che in quell’ambiente non era sola: oltre ad esserci Abigail, c’erano anche le altre mogli degli uomini che seguivano Davide, con i loro figli.

    Però, non era l’ambiente della sua casa, dove tutto si svolgeva in maniera diversa! Di che pensieri Ainoam è stata assalita nel tempo della sua prigionia, non si può dire. Avrà avuto pensieri di scoraggiamento, di abbattimento; avrà pensato anche che i malviventi, avrebbero potuto abusare di lei, violentandola fisicamente? Avrà avuto il tormento: chi sa se rivedrò mio marito?

    Nell’immaginazione, tutto è possibile! Che cosa avrà provato, quando suo marito la liberò e la riportò a casa? Senza dubbio, la gioia di rivedere suo marito e di riabbracciarlo, sarà stato una delle naturali reazioni che questa donna avrà manifestato. Ad Ebron, finalmente, dopo un lungo pellegrinare, Ainoam ebbe la gioia di avere tra le sue braccia un figlio, avuto da Davide. In questo luogo, che non era la terra dei Filistei, ma quella d’Israele, Ainoam partecipò alla gloria di suo marito, visto che il suo regno ebbe inizio proprio ad Ebron.

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    Domenico34
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    00 10/07/2011 00:19
    È sempre vero: dopo la tempesta, segue la bonaccia! Questo pensiero dovrebbe ispirarci ad avere maggiore fiducia in Dio, in quanto, Egli, che ha cominciato l’opera buona in noi, è lo stesso che la porterà a compimento (Filippesi 1:6).

    ASELELPONI

    Questi furono i discendenti del padre di Etam: Izreel, Isma e Idbas; la loro sorella si chiamava Aselelponi (1 Cronache 4:3).

    Siccome il nome di questa donna ricorre solamente in questo testo del cronista, senza nessun’altra specificazione, non si può aggiungere nient’altro, se non includerla nel numero delle donne menzionate nell’A.T.

    ASENAT

    (dall’egiz. Snat, appartenente alla dèa Neith). Il suo nome ricorre in (Genesi 41:45-50: 46:20). Fu la moglie di Giuseppe, che faraone gli diede. Era figlia di Potifera, sacerdote di On. Partorì due figli a Giuseppe: Manasse ed Efraim.

    Durante il tempo che Giuseppe visse in Egitto, come vice Re, con tutto l’onore di cui era cincondato, la responsabilità che aveva in funzione della carica che rivestiva, non si parla mai di Asenat. Di lei si parla solamente, per i due figli che partorì a Giuseppe. D’altra parte, siccome lo scopo dell’autore sacro era di parlare solo di Giuseppe e delle sue attività che svolse in Egitto, rientrava nella logica delle cose che si parlasse di Lui. Questo però, non significa che Asenat, come moglie di Giuseppe, non partecipasse alla grandezza e all’onore di suo marito.

    BASMAT (1)

    Il significato del suo nome è: fragranza, profumo. Fu una delle mogli che Esaù prese all’età di quant’anni. Basmat era Ittita, figlia di Elon. Il suo nome è ricordato in (Genesi 26:34; 36:10).

    Siccome di Basmat, non si hanno altre informazioni, l’unico elemento di riflessione, si basa sul significato del suo nome. La prima osservazione che va fatta, riguarda l’età che aveva Esaù quando si sposò. Aveva quaranta anni. La stessa età di suo padre Isacco quando sposò Rebecca (Genesi 25:20; 26:34). In questo passaggio si precisa anche che le mogli Ittite che Esaù prese, furono causa di profonda amarezza per Isacco e per Rebecca.

    Quanto è ben diverso quando un matrimonio di un figlio o di una figlia, è motivo di gioia per i genitori! Certo, in materia di matrimonio, bisogna evitare che i genitori impongano la loro volontà ai figli. Ma se il padre e la madre danno dei buoni consigli, i figli, faranno bene a non respingerli in blocco, senza passarli al setaccio di una ponderata considerazione. Se si considera il significato del nome di Basmat = profumo, si è portati a formulare qualche domanda su di lei. Che tipo di profumo emanava Basmat? Il comportamento che manifestava, certamente rivelava il suo carattere. Com’èra nei confronti dei suoceri, in maniera particolare? Era un profumo di affabilità, di rispetto, di simpatia, di sincerità?

    Siccome la Bibbia tace, non si può formulare nessuna risposta. L’unico elemento che affiora dal testo biblico, è la profonda amarezza che provarono Isacco e Rebecca, per le mogli di Esaù. Su quest'elemento si può pensare che l’amarezza, non era costituita solamente dal fatto che due mogli erano Ittite, ma riguardava probabilmente il comportamento nei loro riguardi. Dal punto di vista generale, si può prendere in considerazione quello che lasciò scritto l’apostolo

    Paolo, a proposito del profumo o del buon odore

    Noi siamo infatti davanti a Dio il profumo di Cristo fra quelli che sono sulla via della salvezza e fra quelli che sono sulla via della perdizione;
    per questi, un odore di morte, che conduce a morte; per quelli, un odore di vita, che conduce a vita. E chi è sufficiente a queste cose?
    (2 Corinzi 2:15-16).

    camminate nell’amore come anche Cristo vi ha amati e ha dato sé stesso per noi in offerta e sacrificio a Dio quale profumo di odore soave (Efesini 5:2).

    Ora ho ricevuto ogni cosa e sono nell’abbondanza. Sono ricolmo di beni, avendo ricevuto da Epafròdito quello che mi avete mandato e che è un profumo di odore soave, un sacrificio accetto e gradito a Dio (Filippesi 4:18).

    BASMAT (2)

    Il nome significa: Fragranza, profumo. Il suo nome è menzionato in (Genesi 36:3,13). Era figlia d’Ismaele, moglie di Esaù e madre di Reuel. Non si sa se quest’altra moglie di Esaù, figlia d’Ismaele, sia stata causa di profonda amarezza per Isacco e per Rebecca, come per l'Ittita, Basmat figlia di Elon. Tenuto conto che il testo sacro tace, non si può elaborare nessun'ipotesi in merito.

    BATH-SHEBA

    Bath-Sceba significa: figlia di un giuramento. Di lei si parla in (2 Samuele 11:3; 12:24; 1 Re 1:11,15-16,28,31; 2:13,18-19). Ho riportato la citazione del primo libro dei Re, in questo primo capitolo, perché si tratta della stessa persona. Era figlia di Eliam, moglie di Uria, l’Ittita; in un secondo tempo divenne la moglie di Davide e madre di Salomone.

    La storia di questa donna, si intrecciò con alcuni avvenimenti, che ebbero un impatto negativo nella vita di Davide. Si è parlato e scritto tanto intorno a Davide, il peccato di adulterio che egli aveva commesso con Bath-Sceba, e, in seguito per avere ordinato l’uccisione del marito Uria. Ma poco si è detto del ruolo che questa donna ha svolto, in tutta la faccenda che coinvolse in pieno la responsabilità di Davide.

    Qualche osservazione sulla responsabilità oggettiva di Bath-Sceba

    Il racconto biblico afferma che Bath-Sceba era una donna bellissima. Si precisa anche che una sera, dalla terrazza del palazzo reale, Davide la vide, mentre si faceva il bagno (2 Samuele 11:2). Questo particolare che il testo biblico fornisce, ci porta a pensare che la casa in cui abitava Bath-Sceba, non doveva essere lontana dal palazzo reale. Come fece Davide a vedere una donna che si faceva il bagno dentro casa? Sicuramente l’ambiente in cui la bellissima Bath-Sceba si lavava, doveva essere scoperto. Solo così si può spiegare che il re vide la bagnante.

    A questo punto è d’obbligo fare una domanda: come mai Bath-Sceba, bellissima donna che era, non avrà pensato di mettere almeno un paravento dove si faceva il bagno, per non permettere a nessuno di vederla? Si bagnava solamente per lavarsi o anche per farsi vedere? Certamente lei non sapeva che in quella sera, ci sarebbe stato Davide, che, dalla terrazza del suo palazzo, l’avrebbe vista. Ma se l’ambiente in cui Bath-Sceba si faceva il bagno era scoperto, (come la logica ci porta a pensare), se non ci fosse stato Davide a vederla, ci sarebbe stato probabilmente qualcun altro.

    Davide, non potendo controllare la sua eccitazione sessuale, ordinò che la bellissima donna gli venisse condotta nel palazzo reale. A questo punto bisogna tener presente che il marito di Bath-Sceba, Uria, era sul campo di battaglia con Ioab e che lei era sola in casa. Quando i messaggeri inviati da Davide arrivarono in casa di Bath-Sceba, e le comunicarono che il re la voleva presso di sé, la bellissima donna, davanti a quell’insolita richiesta, non chiese nessuna spiegazione, anzi si levò e andò nel palazzo reale.

    In un primo momento Bath-Sceba, avrà pensato: se il re mi chiama presso di sé, forse avrà qualche particolare notizia da comunicarmi riguardante mio marito. Ma quando Davide le chiese di andare a letto con lui, la bellissima Bath-Sceba non si oppose, non fece nessuna resistenza, non le ricordò che una simile richiesta era contro la legge del Signore (Esodo 20:17) e non aggiunse neanche che lei, come donna sposata, non poteva permettere a Davide, di usarsela come sua moglie.

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    00 11/07/2011 00:13
    Se si fosse obbiettato che Davide con la sua autorità, avrebbe potuto obbligare Bath-Sceba ad acconsentire al suo desiderio, e che lei non aveva nessun diritto di rifiutarsi, si potrebbe rispondere con il fermo e decisivo rifiuto di Nabot, alla richiesta di un altro regnante (1 Re 21:1-4).

    Questo però, Bath-Sceba non lo fece, e nel darsi nelle mani di Davide, non solo acconsentì alla voglia insana del re, ma partecipò anche attivamente all’atto. Infine, si sa che, da quella relazione sessuale, Bath-Sceba, rimase incinta. Lo storico Giuseppe Flavio, parlando di quest'evento, riferisce:

    «Divenuta incinta, mandò a chiedere al re che escogitasse una via per nascondere il peccato di lei — altrimenti, secondo la legge dei padri, come adultera, meritava la morte —» [G. Flavio, Antichità Giudaiche, VII[/c, 131 pag. 434].

    La citazione dello storico Flavio, anche se non trova riscontro nel testo biblico, non è però in contrasto a rigor di logica.

    Bath-Sceba come madre

    Divenuta la moglie di Davide, e dopo la morte del bambino che Bath-Sceba partorì, frutto di quella relazione illecita, Davide consolò sua moglie entrò da lei e si unì a lei; lei partorì un figlio che chiamò Salomone (2 Samuele 12:24).

    Dopo il suggerimento del profeta Natan, quando Adonia, figlio di Davide, tentò di appropriarsi il trono di suo padre, Bath-Sceba, si interessò per suo figlio Salomone, perché Davide suo marito, gli conferisse la successione al regno. Mentre Salomone regnava, Bath-Sceba, accettando una richiesta di Adonia, andò a parlare con suo figlio, perché concedesse a suo fratello, Abisag la Sunamita, come moglie. Con quest’ultimo intervento, si chiude la storia di Bath-Sceba. L’ultimo atto che lei compì, fu una chiara manifestazione di altruismo e di gentilezza, proveniente da un cuore di una mamma che veramente amava.

    BILA

    Serva di Rachele. Il suo nome è menzionato in (Genesi 29:29; 30:3-7; 35:22,25; 37:2; 46:25; 1 Cronache 4:29; 4:13). I testi de cronista sono riportati in questo capitolo, perché si tratta della stessa persona.

    Rachele, vedendo che non riusciva ad avere figli, diede la sua serva Bila a suo marito, Giacobbe sperando che da lei, avrebbe avuto figli. La sua speranza non venne delusa, perché la sua serva partorì due figli: Dan e Nerftali

    CHETURA

    Incenso. Moglie di Abrahamo e madre di: Zimran, Iocsan, Medan, Madian, Isbac, e Suac (Genesi 25:1,4). Sara morì, a centoventisette anni. (Gennesi 23:1) Ciò vuol dire che Abrahamo ne aveva centotrentasette, visto che tra lui e sua moglie, c’era una differenza di dieci anni.

    Isacco nacque, quando Abrahamo aveva cento anni. Paolo afferma che a quell’età, il suo corpo era reso come morto (Romani 4:19, N.D.) (sessualmente parlando). Ciò significa che quando Dio guarì la sterilità di Sara, che a novanta anni, non era più in grado di essere madre (Romani 4:19), Egli compì anche un miracolo nel corpo del patriarca, rendendolo nuovamente attivo, (sessualmente parlando). I sei figli che ebbe da Chetura, sono una prova, di quanto è stato affermato.

    COGLA

    Figlia di Selofead (Numeri 26:33; 27:1; 36:11; Giosuè 17:3).

    COZBI

    (Bugiarda). Madianita, figlia di Sur, capo della gente di una casa patriarcale in Madian. Uno dei figli d’Israele, di nome Zimri, figlio di Salu, condusse in mezzo al popolo Cozbi. E, sotto gli occhi di Mosè e di tutta la comunità dei figli d’Israele, si unì con lei. Fineas, figlio di Eleazar, mosso da una santa gelosia, con una lancia, mise a morte, i due fornicatori (Numeri 25:6-18)

    IAEL

    Capra selvatica. È nominata in (Giudici 4:17,18, 21-22; 5:6,24,27). Era moglie di Eber. Accolse presso la sua tenda Sisera, quando questi fuggì davanti all’esercito di Barac.

    Dopo aver dato da bere del latte a Sisera, e messolo al riparo sotto la sua tenda, Iael, approfittando che Sisera si era addormentato profondamente, gli piantò un piuolo nella tempia, talché egli morì. Questo avvenne, in adempimento di quello che Debora aveva detto a Barac, quando gli preannunciò che il Signore avrebbe dato Sisera, nelle mani di una donna (Giudici 4:9). Inoltre, venne onorata nel canto che Debora compose, con le seguenti parole:

    Benedetta sia fra le donne Iael, moglie di Eber, il Cheneo! Fra le donne che stanno sotto le tende, sia benedetta!
    Egli chiese dell’acqua e lei gli diede del latte; in una coppa d’onore gli offerse della crema.
    Con una mano prese il piuolo; e con la destra, il martello degli operai; colpì Sisera, gli spaccò la testa, gli fracassò e gli trapassò le tempie.
    Ai piedi di Iael egli si piegò, cadde, giacque disteso; ai suoi piedi si piegò e cadde; là, dove si piegò, cadde esanime
    (Giudici 5:24-27).

    ISCA

    Figlia di Haran e sorella di Milca (Genesi 11:29),

    DEBORA (1)

    Debora - la balia di Rebecca, moglie d’Isacco

    Il significato del suo nome è ape. Nella Bibbia ci sono due donne che hanno questo nome: Debora, la balia di Rebecca e moglie d'Isacco (Genesi 35:8) e Debora la professa. Di lei si occupa il libro dei Giudici. Nel testo in cui si parla della decisione di Rebecca di andare col servo di Abrahamo, si precisa che Rebecca venne mandata con la sua balia (senza nominare il suo nome) (Genesi 24:59). Se (Genesi 35:8) non avesse fatto il nome della balia che aveva Rebecca, noi non conosceremmo il suo nome e neanche sarebbe inclusa nel numero delle donne che menziona questo libro.

    Per quanto riguarda tutto il tempo che questa donna rimase a fianco con Rebecca, non ci viene raccontato niente di lei. Quindi, non sappiamo cosa ha potuto dirle Debora, durante il tempo della gravidanza, pensando agli spintoni che i due fratelli si davano nel grembo della mamma, e che sicuramente avranno procurato fastidio e fatto soffrire Rebecca.

    Se poi pensiamo a tutta la faccenda di Giacobbe con suo fratello Esaù, riguardante la benedizione d'Isacco, evento che Rebecca svolge in esso un ruolo di primo piano, non possiamo pensare che Debora sia rimasta all’oscuro di tutta la faccenda. Però, dato che il racconto biblico non riferisce niente di lei, non è permesso formulare ipotesi, per cercare di spiegare il silenzio totale. L’unica informazione che si ha di Debora, riguarda la sua morte e la sua sepoltura.

    DEBORA (2), la profetessa

    Il nome della profetessa Debora, ricorre nel libro dei Giudici, dieci volte, è solamente in questa parte della Bibbia che si parla di lei. È molto interessante seguire la storia che ci è stata tramandata, così che si possa conoscere: il ruolo che questa donna svolse in mezzo al popolo d’Israele, i consigli che diede a Barac, per affrontare il nemico e il comportamento che assunse in quella circostanza.

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    00 12/07/2011 00:08
    Si comincia coll’affermare che Debora, moglie di Lappidot, era giudice d’Israele. Con questa carica, ...i figli d’Israele salivano da lei per le controversie giudiziarie (Giudici 4:4-5). Lei non era solamente giudice, era anche profetessa, in vista di questo ministero, poteva anche amministrare la Parola del Signore.

    Debora mandò a chiamare Barac, figlio di Abinoam, da Cades di Neftali, e gli disse: «Il SIGNORE, Dio d’Israele, non ti ha forse ordinato: Va’, raduna sul monte Tabor e prendi con te diecimila uomini dei figli di Neftali e dei figli di Zabulon?
    Io attirerò verso di te, al torrente Chison, Sisera, capo dell’esercito di Iabin, con i suoi carri e la sua numerosa gente, e lo darò nelle tue mani»
    (Giudici 4:6-7).

    Il messaggio divino era abbastanza chiaro e rassicurante, in quanto c’era la promessa di una sicura vittoria. Siccome il messaggio che Debora comunicò, non rappresentava le sue parole, ma quelle del Signore, Barac avrebbe dovuto crederle, accettarle ed agire in conseguenza, senza frapporre nessuna forma di condizionale. Egli, però, non fece così! Le parole che Barac pronunciò, come risposta al messaggio divino: «Se vieni con me, andrò; ma se non vieni con me, non andrò» (v. 8), sono abbastanza significative da farci capire la sua posizione. Che in quel se, che Barac pronunciò, si nascondesse tutta la sua incertezza, non si deve fare tanta fatica per scoprirla!

    «Barac appare sì come un uomo valoroso, ma piuttosto incerto sul da farsi, il quale non ha solo bisogno dell’esplicita parola di Dio che gli dà il primo impulso (4:6), ma anche della presenza della profetessa di Dio che evidentemente incarna per lui l’assistenza del sommo mandante (4:8). Si deve anche leggere con molta attenzione la risposta che Debora gli dà. L’atteggiamento di Barac comporterà che Dio dia la palma della vittoria invece che a lui, uomo, ad una donna: una predizione che dapprima riguardava Debora stessa, ma poi, in considerazione degli ulteriori avvenimenti, riguarderà Iael» [Hans Wilhelm Hertzberg, Giosuè, Giudici, Rut, pag. 275].

    Se egli avesse creduto in pieno alle parole di Debora, non solo non avrebbe risposto in quel modo, ma avrebbe agito concordemente al volere di Dio. La risposta di Debora:

    «Certamente, verrò con te; però, la via per questo cammino non ti porterà onori; perché il SIGNORE darà Sisera in mano a una donna» (v. 9),
    è abbastanza chiara da farci comprendere che, quando non si ubbidisce in pieno al Signore, in quello che Egli ci comunica, non si potrà aspettare una piena benedizione. Se Barac avesse accettato in pieno la Parola del Signore, e fosse andato in battaglia contro l’esercito di Sisera, Dio gli avrebbe dato nelle mani quest’ultimo. La gloria di aver ucciso il capo dell’esercito di Iabin, non sarebbe andata ad una donna di nome Iael, ma sarebbe stata sua.

    Ma perché Barac voleva la compagnia di Debora, in quella sua impresa? Solo perché quella donna era giudice d’Israele? Oppure: perché era profetessa? Non era l’incarico che Debora ricopriva, che assicurava la vittoria a Barac; era piuttosto Dio, tramite la Sua parola, che gli garantiva la vittoria. Gli uomini, per quanto dotati possono essere, come anche i più consacrati servitori del Signore, non saranno mai di garanzia per la nostra vittoria, sulle potenze del nemico. Il garante infallibile, per ogni nostra vittoria è e rimarrà sempre il Signore, il quale, non è venuto mai meno e mai lo verrà rispetto alla veracità della Sua Parola. Dobbiamo credere a Lui ed ancorarci fermamente alla Sua Parola!

    Tenuto conto che Barac dipendeva da Debora, per le sue mosse, egli ha dovuto aspettare che la profetessa gli dicesse:

    «Alzati, poiché questo è il giorno in cui il SIGNORE ha dato Sisera nelle tue mani. Il SIGNORE non va forse davanti a te?» (v. 14).

    Il canto che venne intonato da Debora con Barac, a battaglia terminata, mise in evidenza che in Israele mancavano i capi, e che lei, Debora, era come una madre in Israele (5:7).

    Infine, Barac, con i suoi diecimila uomini che confisse l’esercito di Iabin, non fu considerato l’eroe della circostanza, ma una donna, di nome Iael, che con un piuolo e un martello, uccise il capo dell’esercito Sisera. A lei vennero rivolte le parole più significative: Benedetta sia fra le donne Iael, moglie di Eber, il Cheneo! Fra le donne che stanno sotto le tende, sia benedetta! (v. 24).

    DALILA

    (Civetta, donna lusingatrice). Il nome di questa donna è menzionato in (Giudici 16:4,6,10-13,18). Era una Filistea e veniva dalla valle di Sorec. Attraverso le tattiche che metterà in atto, nei confronti di Sansone, si può comprendere che tipo di donna era Dalila. Il significato del suo nome, rispecchia esattamente il carattere e il comportamento che lei aveva

    Visto che Sansone, s’innamorò di Dalila, i principi dei Filistesi, non persero tempo ad entrare in contatto con lei, per conoscere i segreti della forza di Sansone e prevalere su di lui. Con una buon'offerta di denaro, che i Filistei fecero, riuscirono a catturare l’attenzione di Dalila; e, lei, senza perdere tempo, entrò in azione. Nel suo primo intervento, chiese, a Sansone:

    «Dimmi, ti prego, da dove viene la tua gran forza e in che modo ti si potrebbe legare per domarti». Sansone le rispose: «Se mi si legasse con sette corde d’arco fresche, non ancora secche, io diventerei debole e sarei come un uomo qualsiasi» (vv. 6-7).

    Siccome Sansone non gli asserì la verità, Dalila ritornò a domandargli:
    «Ecco, tu mi hai beffata e mi hai detto delle bugie; ora dimmi, ti prego, con che cosa ti si potrebbe legare».
    Egli le rispose: «Se mi si legasse con funi nuove che non fossero ancora state adoperate, io diventerei debole e sarei come un uomo qualsiasi»
    (v. 11).

    Visto che, neanche la seconda volta, Sansone rivelò il segreto della sua forza, Dalila, senza darsi per vinta, continuò:
    «Fino ad ora tu mi hai beffata e mi hai detto delle bugie; dimmi con che ti si potrebbe legare». Egli le rispose: «Se tesserai le sette trecce del mio capo con il tuo telaio» (v. 13).

    Visto che neanche la terza volta, Sansone si aprì, per dichiararle la verità, Dalila, nella sua insistenza, adoperò l’arma del sentimento affettivo.
    «Come fai a dirmi: Ti amo, mentre il tuo cuore non è con me? Già tre volte mi hai beffata, e non mi hai detto da dove viene la tua gran forza».
    La donna faceva ogni giorno pressione su di lui con le sue parole e lo tormentava. Egli ne fu rattristato a morte
    e le aperse tutto il suo cuore e le disse: «Non è mai passato rasoio sulla mia testa, perché sono un nazireo, consacrato a Dio, dal seno di mia madre; se mi tagliassero i capelli, la mia forza se ne andrebbe, diventerei debole e sarei come un uomo qualsiasi»
    (vv. 15-17).

    Questa volta Dalila, essendo certa che, il suo innamorato le aveva dichiarato la verità, trattò Sansone, come una mamma tratta un figlio. Se lo mise sopra le sue ginocchia, e, dondolandolo, riuscì a farlo addormentare. Una volta addormentato, le persone incaricate, non ebbero difficoltà a tagliargli i capelli.

    Riflessioni su Dalila

    1. Dalila fu una donna che si lasciò facilmente corrompere dal denaro. Se i Filistei non le avessero offerto una buona somma di denaro, forse lei, non avrebbe tradito il suo innamorato. Il denaro, ha sempre fatto presa nella vita delle persone! Spesso, addirittura li acceca e li rende insensibili! Riconoscendo che il denaro è utile per i vari bisogni, spesso però, diventa una trappola per l’uomo e lo induce, con il suo agire, a danneggiare il suo prossimo. Quando avviene ciò, si ha più rispetto per il denaro che per la vita di una persona.

    2. Dalila non fu leale con Sansone, la sua insincerità, ci porta a dubitare del suo vero amore, per l’uomo di cui si era innamorato. L’amore vero, non è un semplice sentimento; è molto più di un puro sentimento affettivo. Non si limita ad una carezza, ad un abbraccio, ad un bacio, ma si manifesta nella donazione di sé stesso. Infine, l’amore sincero, non procura mai danni agli altri e non li getta sul lastrico.

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    00 13/07/2011 00:14
    3. La troppa insistenza di chiedere una cosa, (mi riferisco alle cose terrene e non a quelle di Dio) non sempre è manifestazione d'interesse o di apprezzamento; spesso nasconde l’ipocrisia. Se Sansone avesse compreso che l’insistenza di Dalila di chiedere il segreto della sua forza, non era leale, egli non avrebbe ceduto facilmente.

    4. L’atteggiamento adulatorio e ingannatore, rappresenta un serio pericolo per l’integrità di una persona. Se non c’è il discernimento dello spirito, si fa presto a cadere nel tranello di Satana. Finire nella trappola del diavolo, in pratica significa: perdere la propria consacrazione al Signore, con danno incalcolabile per la vita futura.

    DINA

    Dina, significa, giustizia. La storia di Dina, la figlia di Giacobbe, e della sua violentazione per opera di un’abitante di Sichem, viene narrata nel capitolo 34 della Genesi, con ricchi particolari. Non si sa quanto tempo è trascorso, da quando Giacobbe sistemò la sua famiglia nelle vicinanze della città di Sichem, e lo stupro che Dina subì, alla sua prima uscita, per vedere le ragazze del paaese. La figlia di Lea, ormai si è fatta grandicella, e, non è illogico pensare (come qualcuno ha fatto) che in quel tempo avesse dai quindici ai sedici anni di età, anche se il testo sacro non dice niente dell’età della ragazza quando venne violentata.

    Se si considera che Dina nacque prima di Giuseppe (30.21) e che Giacobbe dopo la nascita di Giuseppe rimase con Labano altri sei anni (31.41), quando egli partì da Paddan-Aram, con la sua famiglia, Dina doveva avere circa otto anni. Aggiungendo a questi tutto il tempo del viaggio e la permanenza a Sukkoth (che sicuramente sarà stato di alcuni anni), si può arrivare all’età di cui sopra. Anche se non si può stabilire l’età esatta di Dina, non è sicuramente la ragazzina di otto anni che viene rapita e stuprata dal principe del paese.

    Dina è cresciuta nell’ambito della sua famiglia con i suoi undici fratelli, e per tanti anni non aveva avuto contatti con l’ambiente esterno. Ora che la famiglia si è sistemata nelle vicinanze della città di Sichem, avrà espresso a sua madre (in modo particolare) il desiderio di voler fare conoscenze con le figlie del paese (34.1).

    Il testo precisa che Dina uscì per vedere... Che in quella sua uscita ci fosse il desiderio di allacciare rapporti di amicizia con le ragazze della sua età, è sottinteso; mentre non si può dire lo stesso se in quella sua uscita vi fosse anche il desiderio di fare conoscenza con qualche ragazzo a scopo sessuale.

    Il fatto stesso che Dina viene rapita e violentata alla prima uscita, ci porta a pensare che se lei, avesse immaginato quello che le è accaduto, non sarebbe facilmente uscita dalla sua tenda. Che Dina fosse una ragazza attraente e di bell'aspetto da essere facilmente desiderata dagli uomini, è normale pensarlo. Lo stesso principe del paese, il figlio di Camor, nel vederla per la prima volta, la rapì, si coricò con lei e la violentò, (v. 2), è un elemento che deve essere tenuto presente, per poter dare una giusta ed equilibrata interpretazione a tutto l’accaduto. Le tre parole che il testo riporta: rapì, coricò e violentò, c'inducono a formulare le seguenti domande.

    Nel momento del ‘rapimento’, Dina si trovava sola in qualche parte della città o era in compagnia con altre ragazze della sua età? Quando il rapitore la portò a letto per coricarsi con lei, Dina si rese conto di quello che avrebbe fatto il suo sequestratore? Quando venne sottoposta ad essere ‘violentata’, cioè ad avere rapporti sessuali con l’uomo che stava accanto a lei, Dina avrà opposto resistenza, o avrà acconsentito (nel senso di partecipare con la sua volontà) ad avere rapporti sessuali? La scena dello stupro, si svolse pacificamente o sotto una minaccia?

    Le quattro domande che abbiamo formulate, richiedono una risposta, e questa risulterà dal come inquadriamo tutta la vicenda. Siccome il testo sacro non ci aiuta a capire tutto quello che successe in quel giorno, e tanto meno le quattro domande che abbiamo formulato, dobbiamo allora usare un ragionamento coerente, anche se adoperiamo parole e concetti dei nostri tempi.

    1) Nel momento del ‘rapimento’, Dina si trovava sola in qualche parte della città o era in compagnia con altre ragazze della sua età?

    A questa prima domanda, (se Dina si trovava sola o in compagnia), non vi è alcun elemento nuovo per compiere un rapimento. Si sa, infatti, che, quando si vuol portare a compimento un ‘rapimento’, quelli che vengono incaricati, sanno come fare per portare a buon fine l’operazione. Se la persona che deve essere rapita si trovava ‘sola’, è logico che l’operazione sarà resa molto facile, mentre se si trova in compagnia con altri, essa richiederà una tattica diversa che, ugualmente andrà a buon fine.

    Dal punto di vista obbiettivo, non è tanto importante stabilire se Dina si trovava sola o in compagnia al momento del suo rapimento: la risposta è valida sia per l’una come per l’altra.

    2) Quando il rapitore la portò a letto per coricarsi con lei, Dina si rese conto di quello che avrebbe fatto il suo sequestratore?

    Se si accetta che Dina al tempo del rapimento avrà avuto l’età dai quindici ai sedici anni, (per una donna che ha quegli anni, essa si trova già in uno stato di pubertà, salvo eccezioni, anche pensando ai tempi antichi,) vedersi portata a letto da un uomo, rientra nella logica pensare che Dina, senza dubbio, avrà compreso che il suo rapitore voleva passare una notte in effusione amorosa con lei. La risposta, quindi, è affermativa

    3) Quando venne sottoposta ad essere ‘violentata’, cioè ad avere rapporti sessuali con l’uomo che stava accanto a lei, Dina avrà opposto resistenza, o avrà acconsentito (nel senso di partecipare con la sua volontà) ad avere rapporti sessuali?

    Dare una risposta categorica, sia per un sì o per un no, non è facile. Se Dina fosse uscita altre volte, si avrebbero le ragioni, (almeno di pensare) che una certa partecipazione attiva non sarebbe da escludere. Siccome però, il rapimento a sfondo sessuale le accadde la prima volta che uscì per vedere le figlie del paese, non è tanto improbabile pensare che non ci sia stata la sua volontà, perché l’uomo che l’aveva portata a letto, avesse rapporti sessuali con lei.

    4) La scena dello stupro, si svolse pacificamente o sotto una minaccia?

    La quarta e ultima domanda, oltre a presentare una certa difficoltà a rispondere, sia che si pensi all’azione pacifica o che si sia svolta di fronte ad una minaccia, tutto dipende dal come si sono svolte le cose. Siccome il nostro testo precisa che Sichem (il nome del principe che violentò Dina) si legò con la sua anima a Dina, l’amò e parlò al suo cuore (v. 3), si è portati a chiedere se questi sentimenti li ha manifestati dopo il rapporto sessuale o prima.

    Se li avesse manifestati prima, cioè avesse detto a Dina: non ti ho rapita solamente perché sono stato acceso dalla mia libidine, ma l’ho fatto con la precisa intenzione di volerti sposare. Non è infatti, difficile pensare che l’atto sessuale si sarebbe consumato pacificamente. Ma se li avesse manifestati dopo, è logico pensare ad una minaccia.

    D'altra parte, se l’autore del nostro racconto, avesse avuto l’intenzione di narrarci un’azione di stupro, sicuramente avrebbe fornito gli elementi necessari per non dare un'errata interpretazione a tutto l’accaduto. Poiché il suo scopo era ben altro, si limita solamente a dirci quello che accadde in quel lontano tempo a Dina, e nello stesso momento farci conoscere come si comportò la famiglia di Giacobbe, in quella circostanza.

    Affrontare l’argomento dello stupro, così come lo affrontano i giudici di questa terra, diremmo anche noi che nessuna violenza carnale potrà essere compiuta dall’uomo nei confronti della donna, se questa non è ‘consenziente’, cioè ‘partecipa’ attivamente. Infine, la costituzione anatomica della donna è tale, che l’uomo non potrà mai violentarla, se quest’ultima si oppone. Lasciando da parte la questione dello stupro in sé, occupiamoci piuttosto ad esaminare l’agire della famiglia di Giacobbe. Che l’uomo del nostro testo avesse avuto serie intenzioni per Dina, dopo avere avuto rapporti sessuali con lei di volerla veramente sposare, appare abbastanza chiaro, sia dal fatto che parlò al cuore della ragazza e la precisa richiesta che fece a suo padre nel chiedere quella fanciulla per sua moglie (v. 4).

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    00 14/07/2011 00:19
    Facendo un confronto con un altro racconto biblico, tra Amnon e Tamar (2 Samuele 13.1-15), si può subito vedere che in Amnon c’era solamente un sentimento ‘passionale’, nel senso che quello che egli fece, stuprando sua sorella Tamar, mirava a soddisfare i suoi desideri carnali, mentre quello che manifestò Sichem nei confronti di Dina, non fu solamente un certo voler ‘riparare’ il danno fatto, ma soprattutto una decisa volontà a volerla come sua legittima moglie.

    Infatti, se il suo ‘rapimento’, avesse avuto solamente lo scopo di soddisfare i suoi istinti sessuali, per la posizione che egli aveva, quale ‘principe della città’, egli non avrebbe avuto nessuna difficoltà a dimenticare Dina e non chiederla quale sua sposa.

    La notizia dello stupro di Dina arriva a Giacobbe

    Che la triste notizia dello stupro di Dina sia arrivata a Giacobbe, viene chiaramente affermato dal nostro racconto, non ci viene però detto tramite chi. Sarà stato qualcuno dei sichemiti a rapportare a Giacobbe quello che era capitato a sua figlia Dina, oppure il padre stesso di Sichem, oppure la stessa figlia l’avrà confessato a sua madre e la mamma al marito?

    Tutto è possibile per le varie ipotesi. Ai fini della nostra indagine, non ha tanta importanza sapere tramite chi Giacobbe venne a sapere dello stupro della figlia. Ora, siccome a noi interessa soffermarci sull’atteggiamento che assunse Giacobbe in quella particolare circostanza, tutte le altre cose che si potrebbero affacciare sulla scena dell’evento, hanno un puro valore accessorio.

    Or Giacobbe udì che egli (Sichem) aveva disonorato sua figlia Dina; ma i suoi figli erano nei campi col suo bestiame, per questo Giacobbe tacque finché non furono tornati (v. 5).

    La specificazione che fa il testo serve principalmente a puntualizzare che Dina fu stuprata da Sichem, figlio di Camor e non da un qualsiasi ragazzo della città. Il fatto che Giacobbe tacque davanti a quella triste notizia, non vuol dire che egli rimase indifferente, ma semplicemente non volle reagire separatamente dai suoi figli, dato che quest’ultimi, al momento della notizia, si trovavano nei campi col suo bestiame. Chi portò la notizia ai figli di Giacobbe, non lo sappiamo. L’insegnamento più semplice che si può ricavare da tutta questa storia è che: Nessuna cosa rimarrà segreta, secondo l’autorevole insegnamento di Gesù (cfr. Matt. 10.26).

    Visto che lo stupratore ha confessato al proprio padre quello che ha fatto, tenuto conto che l’anima sua si era legata alla fanciulla che aveva violentata e che ha tutta la volontà di sposarla, l’incarico che affida al padre di chiedere a Giacobbe di dargli sua figlia Dina per moglie, rientra nella logica dei fatti. Infatti, Camor, rendendosi conto che suo figlio Sichem, non solo gli aveva confessato che già aveva avuto rapporti sessuali con Dina, ma che anche la voleva per sua legittima moglie, non trova nessuna difficoltà a parlarne a Giacobbe.

    Che il colloquio inizialmente si sia svolto tra i due padri e successivamente davanti ai figli di Giacobbe, alla presenza dello stesso figlio Sichem, è detto chiaramente nei (vv. 6-12). Il padre di Sichem, da una parte, per dare più peso alla sua richiesta, propose alla famiglia di Giacobbe, di stabilire un patto di ‘alleanza’ con loro in modo tale che, non solo il caso specifico del proprio figlio abbia ad essere risolto, ma che anche i figli di Giacobbe avrebbero avuto la possibilità di scegliere per loro mogli, le figlie degli Hivvei, e che quest’ultimi avrebbero potuto prendere per mogli le figlie della famiglia di Giacobbe.

    Inoltre, la famiglia di Giacobbe avrebbe avuto ampia libertà di ‘abitare’ in tutto il paese, di ‘commerciare’ e di ‘acquistare delle proprietà’. Dall’altra parte, cioè Sichem, per dimostrare la sua seria volontà di avere Dina per sua legittima moglie, è disposto a dare una qualsiasi dote o regalo, che i figli di Giacobbe vorranno imporgli (vv. 11,12). Da questi particolari si può ben capire che, sia Camor che il figlio Sichem, parlavano seriamente con la famiglia di Giacobbe.

    Sembra strano che in questa specie di ‘trattativa’, Giacobbe se ne stia silenzioso e quelli che parlano siano i suoi figli. Ci viene da domandare: perché Giacobbe assunse quella posizione? In qualità di padre (specie in quei tempi, per ciò che riguardava il matrimonio), era lui che aveva l’ultima parola e determinava il matrimonio dei propri figli. Perché mai lascia ai figli di decidere? La sua era mancanza di coraggio o di debolezza?

    Certo, se Giacobbe avesse saputo quello che c’era nell’animo dei suoi figli e quale piano essi si prefiggevano di eseguire per vendicare il disonore della propria sorella, egli avrebbe preso in mano la situazione, sarebbe stato lui a risolvere tutta la questione e lo spargimento di sangue sarebbe stato evitato.

    La proposta dei figli di Giacobbe

    Allora i figli di Giacobbe risposero a Sichem e a Camor suo padre e parlarono loro con astuzia, perché Sichem aveva disonorato Dina loro sorella, e dissero loro: «Non possiamo fare questa cosa, e cioè dare nostra sorella ad uno che non è circonciso, perché questo sarebbe per noi un disonore.
    Soltanto a questa condizione acconsentiremo alla vostra richiesta: se voi diventerete come noi, facendo circoncidere ogni maschio tra voi.
    Allora noi vi daremo le nostre figlie e ci prenderemo le vostre figlie, abiteremo con voi e diventeremo un sol popolo.
    Ma se non ci volete ascoltare e non vi volete far circoncidere, noi prenderemo la nostra figlia e ce ne andremo».
    Le loro parole piacquero a Camor e a Sichem, figlio di Camor.
    E il giovane non indugiò a fare la cosa, perché voleva bene alla figlia di Giacobbe ed era l’uomo più onorato in tutta la casa di suo padre
    (vv. 13-19).

    Se il testo biblico non ci facesse conoscere tutto il retroscena di quello che accadde ai Sichemiti, dopo che i loro maschi vennero circoncisi, a seguito della proposta che i figli di Giacobbe hanno fatto, si potrebbe dare un senso diverso a tutta la faccenda. Inoltre, considerando le parole della proposta ...Noi prenderemo la nostra figlia e ce ne andremo, e, il giovane non indugiò a fare la cosa..., si capisce subito che Dina si trova già nella casa di Sichem e non è più sotto la sorveglianza della famiglia di Giacobbe.

    Il fatto poi che Dina, in questa trattativa non dica nessuna parola (stando al testo biblico), ciò sta a dimostrare che lei era d’accordo che Sichem diventasse suo marito (cfr. Gen. 24.51,57-58). Infine, davanti al ragionamento-proposta dei figli di Giacobbe e il silenzio di quest’ultimo, non si può fare a meno di considerare il caso.

    Una considerazione sul silenzio di Giacobbe

    La prima considerazione che si è portati a fare, è il fatto che non si può giustificare il silenzio di Giacobbe, su una questione che riguardava la sua famiglia. Se Giacobbe si fosse trovato in uno stato di menomazione fisica, da non potere esercitare il suo ruolo di padre, il suo silenzio potrebbe essere giustificato e l’intervento dei figli apprezzato. Siccome, però, Giacobbe non si trovava in quello stato, il suo silenzio non può essere tollerato.

    L’esperienza che egli aveva, (a cominciare dalla viva raccomandazione che i suoi genitori a suo tempo gli fecero di non prendere moglie dalle figlie di Canaan, (e gli Hivvei appartenevano a quel territorio) derivata dagli anni che portava sulle sue spalle, ciò avrebbe dovuto indurlo a far sentire il peso del suo intervento in quella critica situazione. Se egli avesse deplorato solamente con fermezza e senza mezzi termini che, quello che era stato fatto da Sichem e da sua figlia Dina (siamo persuasi che Dina in quella faccenda, ebbe la sua parte di responsabilità), e non avesse detto altro, la sua ferma posizione, avrebbe parlato meglio di ogni altra parola.

    Pensando poi alla sua esperienza di vita religiosa e alla conoscenza di Dio che egli aveva, (cosa che non avevano i suoi figli, almeno in quel tempo), ciò avrebbe dovuto correggere i suoi figli, quando proponevano agli Hivvei, di diventare uno stesso popolo con loro. Sì, è vero che in quel tempo non esisteva il divieto del (Deuteronomio 7.1-3) riguardante il matrimonio con gli Hivvei da parte dei figli d’Israele, ma in base alla sua esperienza e alla sua conoscenza, Giacobbe avrebbe dovuto almeno opporsi a quel tipo di matrimonio, anche se sua figlia Dina si fosse rifiutata di accettare il suo consiglio.

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    00 15/07/2011 00:18
    Giacobbe in quella particolare circostanza venne meno nel suo ruolo di padre, per il suo silenzio davanti a un caso che lo riguardava da vicino.

    Da quest'episodio, c’è tanto da imparare, a non commettere lo stesso errore di Giacobbe, naturalmente, ma piuttosto a prevenirlo. Infatti, se spostiamo il ragionamento e lo adattiamo ai nostri tempi e per la nostra generazione, ogni padre cristiano, che conosce la Parola di Dio, dovrebbe parlare chiaramente ai propri figli e far comprendere loro che un matrimonio che si contrae con gli stranieri (e per stranieri intendiamo quelli che hanno una fede diversa), porta con sé conseguenze disastrose dal punto di vista spirituale. Anche se è vero che non sempre ai nostri giorni i figli sanno ascoltare i buoni consigli dei genitori, in materia di matrimonio, almeno potranno dire in un domani (anche se lo diranno in se stessi): sono stato avvisato e messo in guardia da un possibile pericolo; non ho voluto ascoltare. Ho preferito persistere nella mia volontà e non ho tenuto in debito conto il fattore della fede.

    Ritornando a Giacobbe con Dina, che in quel caso c’era lo stupro consumato, come si sarebbe dovuto risolvere quell'accidente e riparare il danno fatto? Non certamente con una strategia come quella che idearono i figli di Giacobbe, ma mettendo il soggetto (in questo caso Dina) davanti alla sua responsabilità e alla sua libera scelta. Il massacro che venne compiuto da Simeone e Levi, quando misero a fil di spada tutti i maschi della città, compreso Camor e il figlio Sichem, fu di gran lunga peggiore dello stupro che il principe del centro abitato fece nei confronti della loro sorella Dina.

    Avranno riconosciuto i due figli di Giacobbe, il crimine che hanno commesso, quando fecero morire tanti innocenti? Avranno chiesto perdono a Dio, per il malfatto? Sì, è vero che Giacobbe non approvò l’azione violenta dei suoi figli (v. 30), ma dalla risposta che gli esecutori del delitto diedero al proprio padre: «Doveva egli trattare nostra sorella come una prostituta?» (v. 31), non trapela un minimo segno di pentimento e di rammarico per quello che hanno fatto. Quanto è diverso l’insegnamento di Gesù, quando si subiscono certi soprusi e danni!

    Se uno ti costringe a fare un miglio, fanne con lui due (Matt. 5.41); Se qualcuno ti percuote su una guancia, porgigli anche l’altra; e chi ti toglie il mantello, non impedire di prenderti anche la tunica (Luca 6.29).

    La vendetta non ha mai risolto i problemi sociali in mezzo all’umanità, li ha sempre inaspriti e complicati all’inverosimile. Infine, il male non si vince con un altro male, ma bensì col bene (cfr. Romani 12.21). Signore, aiutaci a vivere la nostra vita cristiana in mezzo a questa stolta e perversa generazione (Atti 2.40; e a risplendere come luminari nel mondo, tenendo alta la parola della vita (Fil 2.15). Amen!

    EGLA

    (Giovenca). Moglie di Davide e madre di Itream. Il nome di questa donna è riportato in (2 Samuele 3:5; 1 Cronache 3:3). La citazione del cronista è riportata in questo capitolo, perchè si tratta della stessa persona.

    ELISABA

    Dio del giuramento. Moglie del sommo sacerdote Aaronne, figlia di Amminadab, sorella di Naason (Esodo 6:23)

    EVA

    Eva, la prima donna che la Bibbia menziona

    La prima donna che la Bibbia menziona è Eva, la moglie di Adamo.
    Eva, (ebr. Havvâh), lett. vita (N.R.); donatrice di vita, secondo il Glossario della (N. D.), è riportato quattro volte nella Bibbia: due nell’Antico Testamento e due nel Nuovo Testamento.

    I TESTI BIBLICI

    L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché è stata la madre di tutti i viventi (Genesi 3:20).

    Adamo conobbe Eva, sua moglie, la quale concepì e partorì Caino, e disse: «Ho acquistato un uomo con l’aiuto del SIGNORE» (Genesi 4:1).

    Ma temo che, come il serpente sedusse Eva con la sua astuzia, così le vostre menti vengano corrotte e sviate dalla semplicità e dalla purezza nei riguardi di Cristo (2 Corinzi 11:3).

    Infatti, Adamo fu formato per primo, e poi Eva (1 Timoteo 2:13).

    «Si può essere quasi certi che il narratore ha collegato nel modo più stretto il termine hawwâ (Eva) con l’ebraico hâj, hâjjâ = vita. Nell’imposizione di questo nome alla donna da parte dell’uomo, si può ben vedere un atto di fede, certo non inteso come fede nelle promesse, che sarebbero state implicite nelle sentenze di punizione, ma un affermarsi alla vita, vista come un gran miracolo e mistero che la maternità della donna trasmette e conserva al di là della fatica e della morte» [G. Von Rad, Genesi, pag. 119; cfr. inoltre, T.C.M. in (NDEIDB) Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, pagg. 358-359. Per un maggiore approfondimento dei termini ebraici hâj, hâjjâ, cfr. l’articolo di H. Ringgren, in GLAT (Grande Lessico dell’Antico Testamente), Vol. 2, col. 926-950. Per quanto riguarda il termine hawwâ che Von Rad adopera per il testo di Genesi 3:20, c’è da precisare che questo termine non significa vita. Inoltre, si dice che il termine hawwâ, «compare 16 volte nell’A.T., è di solito collegato a uomini che sono infedeli e ribelli a Dio, che non vogliono adattarsi alle giuste norme che Dio ha stabilito, ma interpretano la legge in base ai loro malvagi desideri» (S. Erlandsson, GLAT, (Grande Lessico dell’Antico Testamente), Vol. 2, col. 405-407. Infine si afferma che «nel mandeismo assunse la forma Hawwâ, e nei testi manichei fu sostituito da Murdiyānagh» (Grande Dizionario Enciclopedico, UTET, Vol. VII, pag. 441].

    Nonostante che in tutta la Bibbia ci siano solamente quattro testi che parlano di Eva, la storia di questa persona riveste una tale importanza, da meritare un approfondito esame. Anche se la prima volta il nome di Eva, si trova in Genesi 3:20, tuttavia si parla di lei da 2:22 fino a 3:16.

    L’importanza di Eva non risiede semplicemente nel fatto che sia stata la prima donna-moglie-madre venuta all’esistenza, da lei tutto il genere umano, visto che è stata denominata madre di tutti i viventi, ma per il ruolo di primo piano che svolse negli eventi che seguirono. Gli avvenimenti non riguardano solamente la storia della nascita dell’umanità, ma investono diverse problematiche di portata universale, quali:

    1) La tentazione;
    2) il peccato, inteso come trasgressione del comando divino;
    3) le sofferenze fisiche della gravidanza e del parto;
    4) la morte fisica;
    5) la morte spirituale, intesa come separazione da Dio e
    6) l’espulsione dal luogo delizioso, il giardino di Eden. Tutto ciò, naturalmente, non è solamente un marchio indelebile che si è impresso nella vita di Eva; lei l’ha anche tramandato la vita di ogni essere umano, com'eredità dell’esistenza umana.

    Davanti a questa precisa affermazione, la storia di Eva, quindi, deve essere analizzata in tutti i suoi elementi, a cominciare dalla sua comparsa sulla terra, e seguendo via via i vari percorsi che il testo biblico ci fornisce di lei.

    La comparsa di Eva sulla terra

    Eva è la sola donna al mondo che non abbia avuto una madre: Lei sarà chiamata donna perché è stata tratta dall’uomo (2:23). Mentre per tutti gli esseri umani venuti all’esistenza dopo di lei, non c’è nessuno che possa affermare di non avere avuto una madre. La comparsa di Eva sulla terra, è stata un’opera particolare che il Signore ha voluto compiere per portarla all’esistenza.

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    Domenico34
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    00 16/07/2011 00:11
    Dal racconto biblico si sa che Dio fece addormentare profondamente Adamo, prima che eseguisse su di lui il suo intervento chirurgico. Visto che Dio doveva aprire il torace di Adamo per estrargli una costola, quel sonno profondo che cadde su Adamo, era necessario ai fini di non farlo soffrire. Agendo in questo modo, Dio si comportò nella stessa maniera come avrebbero fatto i chirurghi prima di eseguire un’operazione su un qualsiasi paziente. La sostanza che viene iniettata nel corpo del paziente, serve appunto per farlo addormentare in modo tale che il chirurgo possa eseguire il suo lavoro tranquillamente e portarlo a termine, e, nel frattempo, proteggere il paziente dal non fargli sentire i dolori dell’intervento.

    Le stesse mani divine che in precedenza avevano formato Adamo, formarono anche la donna. Non c’è nessuna differenza per quanto riguarda l’opera di formazione; l’unica differenza che esiste riguarda la materia che Dio usò: per Adamo venne usata la polvere della terra, mentre per Eva la costola di Adamo.

    Si discute perché Dio non estrasse dal piede o dal capo ma dal torace, quello che gli serviva per formare la donna Se Eva fosse stata formata dal piede, in pratica avrebbe avuto il senso del disprezzo e dell’inferiorità; mentre se fosse venuta dal capo, avrebbe potuto significare la sua superiorità sull’uomo. Ma avendo la sua origine dal torace, la donna-Eva veniva messa dal Creatore sulla stessa parità dell’uomo, con la caratteristica di amarsi l’uno con l’altro Più tardi l’apostolo Paolo affermerà che davanti a Dio non c’è nessuna differenza tra maschio o femmina (Galati 3:28).

    La tentazione che Eva subì

    È naturale domandarsi: perché il serpente tentò Eva e non Adamo? Si sa con molta certezza che nel parlare del serpente c’era il tentatore che si manifestava, cioè il diavolo. Per mezzo di questo rettile, infatti, Satana entrò in azione per far cadere in trasgressione Eva, la moglie di Adamo.

    Conosceva il diavolo che Eva era un vaso più debole, secondo l’affermazione dell’apostolo Pietro? (1 Pietro 3:7) (N. Diodati). Inoltre, se il diavolo avesse attaccato Adamo con la sua tentazione per indurlo a trasgredire il comando divino, ci sarebbe riuscito? A rigore, stando al testo biblico, non si può rispondere alle due domande suesposte, per il semplice fatto che il testo sacro non dice niente in proposito.

    Però, considerando obbiettivamente il detto di Pietro, non è assurdo e neanche contro la logica pensare che il diavolo conosceva la debolezza di Eva. Fino a che punto egli la conoscesse, certamente non si può stabilirlo. Neanche si può ammettere che Satana possa conoscere pienamente quello che l’apostolo Pietro avrebbe scritto tanti secoli più tardi, senza riconoscergli un attributo divino. Questo, naturalmente, non è possibile affermarlo. Considerando probabile che il tentatore conoscesse la debolezza della donna, possiamo approfondire la nostra riflessione per cercare di comprendere come si articolò tutta la tentazione.

    Il racconto del terzo capitolo della Genesi, ci mostra il metodo che il diavolo usò per sedurre Eva, la progenitrice del genere umano. Nei primi due capitoli di questo libro, si descrive l’opera della creazione, compresa quella dell’uomo, quando Dio lo formò dalla polvere della terra.

    Si afferma anche che Dio mise l’uomo che aveva formato nel giardino di Eden che Lui stesso aveva creato, ordinandogli che di tutti gli alberi che vi erano poteva mangiarne il frutto, tranne quello della conoscenza del bene e del male, perché nel giorno che ne avrebbe mangiato, certamente morirebbe.

    Visto che Adamo era solo nel giardino di Eden, e che Dio considerò la solitudine una cosa che non sarebbe stata di giovamento per l’uomo, Egli pensò di dargli una compagna; così dalla costola di Adamo Dio formò una donna, Eva, la moglie di Adamo. A lei, sicuramente Adamo, avrà trasmesso il comando divino relativo alla proibizione di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Per quanto tempo questa coppia visse nel giardino di Eden mangiando solamente il frutto di ogni albero che c’era in quel luogo, non ci viene detto. Però, ad un certo momento, si racconta che il tentatore si presentò ad Eva, sotto la forma di un serpente, e, le prime parole che le rivolse furono:
    «Ha DIO veramente detto: Non mangiate di tutti gli alberi del giardino?»
    (ND) (3:1).

    Siccome questa domanda fatta in quei termini non rispondeva a verità, in quanto Dio non aveva proibito di mangiare il frutto di tutti gli alberi del giardino, la donna rispose che si trattava solamente
    del frutto dell’albero che è in mezzo al giardino perché Dio ha detto: Non ne mangiate e non lo toccate, altrimenti morirete» (v. 3).

    La prima osservazione che s’impone d’obbligo è: perché ad Eva venne posta la domanda in quei termini? Non sarebbe stato meglio che la domanda riguardasse il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, poiché era del frutto di quell’albero che Dio aveva proibito?

    Se il serpente avesse posto la domanda in quei termini, alla donna facilmente sarebbe venuto il sospetto, e la trama abilmente messa appunto dal tentatore, sarebbe stata scoperta, con il risultato di fallire il bersaglio. La prima pedina che il tentatore mosse sullo scacchiere, fu quella di aprire una conversazione (apparentemente innocua) con lo scopo di sedurre Eva.

    Chiedere se Dio avesse veramente detto…, aveva lo scopo di seminare il dubbio nella mente della donna, così da fare apparire Dio, come uno che non asseriva la verità.

    Se il diavolo non semina il dubbio nella mente e nel cuore dell’uomo, non gli sarà facile sedurlo; mentre con il dubbio in corpo, sarà molto facile raggiungere lo scopo, che è quello di fare sempre apparire Dio bugiardo. Infatti, quando l’uomo accetta per vero che non esistono verità assolute, (e ai nostri giorni ci sono tanti che hanno accettato questo) già si trova sul terreno del seduttore, che può svolgere la sua azione diabolica con la massima facilità, facendo credere la menzogna come se fosse verità.

    Il serpente essendo riuscito ad aprire il dialogo con la donna, già si trova avantaggiato per muovere la prossima pedina. Con questa mossa, mira a scardinare l’autorità di Dio.

    Il serpente disse alla donna: «No, non morirete affatto;
    ma Dio sa che nel giorno che ne mangerete, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male»
    (vv. 4-5).

    Affermare che Adamo ed Eva non sarebbero morti, pur mangiando il frutto proibito, non significava solamente che quello che Dio aveva detto non era vero, ma mirava essenzialmente a scardinare la Sua Autorità. Se le persone sono certe che quello che loro credono e fanno è basato sull’autorità della Parola di Dio, per il diavolo non sarà facile sedurle.

    Ma se egli riuscirà a convincere che la realtà è ben diversa di quanto l’uomo crede, per farlo crollare dalla sua fede in Dio e dal credere alla Sua Parola, l’astuto tentatore concentrerà tutte le sue forze contro la lealtà di Dio. Traducendo in termini pratici la risposta del serpente alla precisazione che gli fa la donna, il ragionamento potrebbe proseguire nel seguente modo. Vedi Eva, tu hai creduto fino ad oggi che, Dio è stato sempre veritiero in quello che Egli vi ha detto; però ti devo affermare che non è così, cioè non è affatto vero che nel giorno che tu e tuo marito mangerete il frutto, morirete. La realtà è ben diversa: non solo voi non morirete, ma addirittura

    Dio sa che nel giorno che ne mangerete, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male» (v. 5).

    Un simile ragionamento fu tanto efficace che la donna vi credette. Infatti, davanti alle parole persuasive del serpente, Eva non osò fare nessun’altra obbiezione. Questo ci dimostra che il serpente con la sua astuzia, riuscì a convincerla che, in fin dei conti Dio non gli asseriva sempre la verità e che Egli, addirittura, era geloso di loro, non volendo la loro emancipazione.

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    Domenico34
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    00 17/07/2011 01:08
    Certo, il pensiero stesso di diventare come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male, fu talmente allettante per lei, da spingerla verso quella meta. Sapeva Eva l’esistenza del bene e del male? Probabilmente non aveva la minima idea cosa significavano! Per quanto riguardava il bene, lei poteva concentrare la sua ammirazione su tutto quello che la circondava in quel delizioso giardino; non poteva fare però lo stesso per quanto riguardava il male, perché non sapeva effettivamente cosa fosse.

    Il serpente con le sue parole era riuscito, non solo a suscitare un forte interesse e desiderio nella donna, intorno a cose che addirittura non sapeva che esistessero, ma era anche riuscito a condurla sul terreno di farle sognare un mondo diverso di quello in cui viveva. È sempre questa la tattica del seduttore: far vedere le cose in maniera diversa dalla realtà!

    Quanto durò la conversazione che il serpente fece con Eva? Stando alle parole che vennero dette da ambo le parti, durò pochissimo; probabilmente alcuni minuti. Però, da quella breve conversazione, il seduttore riuscì a convincere la donna e a proiettarla verso un futuro luminoso (così credeva Eva) senza rendersi minimamente conto che nel giro di poco tempo, avendo trasgredito l’ordine del Signore, sarebbe diventata lei stessa uno strumento per sedurre suo marito a mangiare il frutto proibito, e tutti due sarebbero stati cacciati fuori del giardino d’Eden e cominciare a sperimentare la loro vita di travagli e di sofferenza.

    E questo è sempre vero per tutti i tempi e per qualsiasi persona. Quando l’essere umano si apre alla menzogna, l’accetta e rigetta a sua volta la verità, egli sperimenterà che invece di avere in bocca il dolce, ingoierà quel boccone che avvelenerà la sua esistenza, presente e particolarmente quella futura, cioè l’eternità. Infine, quando non si ha fiducia in quello che Dio dice nella Sua Parola, o peggio ancora si crede che Egli non affermi sempre la verità e che vuole privarci di raggiungere certi traguardi, si è già in mano del seduttore il quale non indugerà a condurre la persona sul sentiero della disubbidienza e a rifiutare l’autorità divina [D. Barbera, Quello che la Bibbia riferisce intorno a Satana.

    Il peccato inteso come trasgressione del comando divino

    Alla domanda: che cos’è il peccato? Si può rispondere con le parole dell’apostolo Giovanni, [CC]la violazione della legge
    (si intende quella di Dio) (1Giovanni 3:4).

    La trattazione del tema del peccato, non rientra nello scopo di questo libro. Se ne parliamo, lo facciamo solamente con riferimento a quello che fecero i nostri progenitori, Adamo ed Eva, quando trasgredirono il comando divino. Il loro peccato, naturalmente, non ebbe una ripercussione solamente sulla loro vita, ma si tramandò a tutta l’umanità. Quando non si tiene conto di quanto Dio comanda nella Sua Parola, non solo si manca di rispetto verso di Lui, ma si finisce anche col credere a quello che dice il tentatore. Un simile atteggiamento avrà senza dubbio serie ripercussioni nella vita delle persone, come l’ebbero in quelle di Adamo e di Eva.

    Le sofferenze fisiche della gravidanza e del parto

    Le parole che si leggono: «Io moltiplicherò grandemente le tue pene e i dolori della tua gravidanza; con dolore partorirai figli... (Genesi 3:16), sono le dirette conseguenze che Eva subì in sé, per avere trasgredito il comando di Dio.

    Il fatto che Dio dica moltiplicherò grandemente... non significa che Eva sarebbe stata esente dai dolori e dalle pene della gravidanza e del parto, se non si fosse resa colpevole di trasgressione del comando divino, a proposito del divieto di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male.

    Fin dal momento che Dio mise all’esistenza l’uomo, le parole che Egli pronunciò: Siate fecondi e moltiplicatevi (Genesi 1:28), prevedevano che nell’essere creato da Dio (prima Adamo e dopo Eva) ci sarebbero state le possibilità della riproduzione. Questo, naturalmente, sarebbe avvenuto attraverso veri rapporti sessuali che i due avrebbero avuto. Concepire, infatti, la nascita di altri esseri umani, senza che ci siano veri rapporti sessuali fra un uomo e una donna, è fuori della logica e non si accorda con la legge universale della riproduzione. A questo punto sorge una spontanea domanda: gli organi sessuali di cui erano dotati Adamo ed Eva, entrarono in funzione dopo che il comando divino venne trasgredito?

    In accordo con quanto afferma (Genesi 4:1) Adamo conobbe Eva, sua moglie, la quale concepì e partorì..., sembra dover significare che le relazioni sessuali cominciarono dopo il peccato.

    Se non ci fosse stato il peccato, Adamo ed Eva, sessualmente parlando, si sarebbero conosciuti? Se si rispondesse con un perentorio no, come si sarebbero potute adempiere le parole di Dio, siate fecondi e moltiplicatevi? Visto che la Parola del Signore è veritiera nelle sue affermazioni, è assurdo ammettere la necessità della trasgressione dei nostri progenitori, per renderli fecondi.

    Visto che la riproduzione di Adamo e di Eva era prevista nei piani divini, come appare chiaramente dal testo biblico, Dio senza dubbio avrebbe mosso i nostri progenitori in maniera tale da spingerli ad agire per adempiere la Sua Parola.

    Dall'altra parte, sostenere la necessità di commettere il peccato, per realizzare la nascita dell’umanità, in pratica equivarrebbe ad affermare che l’origine del peccato si trovava in Dio. Arrivare ad una simile conclusione, significherebbe frantumare la santità di Dio, l’onorabilità del Suo Nome e della Sua Parola.

    Non aveva ragione Paolo quando affermava: Sia Dio riconosciuto veritiero e ogni uomo bugiardo? (Romani 3:4) Certamente!

    Ritornando ad Eva, se lei non avesse abboccato all’amo della lusinga del serpente e si fosse mantenuta fedele alla Parola del Signore, non solo non sarebbe diventata uno strumento per indurre suo marito in trasgressione, ma neanche avrebbe subito nel suo corpo il moltiplicarsi dei dolori e delle pene della gravidanza e del parto. Avrebbe avuto sì, delle normali gravidanze e parti, ma senza subire l’asprezza dei travagli e delle pene causate dal peccato.

    La morte fisica

    Il comando divino affermava nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai (Genesi 2:17). Anche se è vero che nel giorno che Adamo ed Eva mangiarono il frutto proibito non morirono fisicamente, è altrettanto vero che con la loro trasgressione, fecero entrare la morte fisica nel creato, e, in conseguenza di ciò, tutta la discendenza dei nostri progenitori = L’umanità, è stata infettata dal virus micidiale della morte. È in questo senso che va intesa l’affermazione dell’apostolo Paolo.

    Perciò, come per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato la morte, e così la morte è passata su tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato (Romani 5:12).

    La morte spirituale

    Se la morte fisica separa la persona dal mondo fisico e da tutto ciò che lo circonda, quella spirituale, invece, lo separa da Dio, cioè da quella relazione di comunione con Lui. Questo accadde esattamente nella vita dei nostri progenitori, quando trasgredirono il comando del Signore. Infatti, prima della loro trasgressione, la relazione di comunione tra loro e Dio, era perfettamente attiva, nel senso che quando il Signore si recava nel giardino d’Eden, Adamo ed Eva, non avevano nessun problema di comunicare con il loro Dio; pur essendo nudi, cioè senza vestiti addosso, non avvertivano nessun senso di vergogna. Quando però peccarono, trasgredendo il comando divino, non solo conobbero la loro nudità, ma avvertirono in loro anche il senso della vergogna, al sentire la voce del Signore che li chiamava. Questo, in ultima analisi, rappresenta la prova decisiva di quello che ha prodotto il peccato nella vita dei nostri progenitori, per quanto concerneva la relazione di comunione tra loro e Dio.

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    Domenico34
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    00 18/07/2011 00:09
    L’espulsione dal luogo delizioso

    Siccome il comando divino non era stato rispettato da Adamo ed Eva, l’espulsione da quel giardino, il luogo delizioso in cui Dio li aveva messi quando furono creati, non poteva essere più evitata. Infatti, quello che si legge nella Bibbia è molto significativo:

    Poi Dio il SIGNORE disse: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto alla conoscenza del bene e del male. Guardiamo che egli non stenda la mano e prenda anche del frutto dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre».
    Perciò Dio il SIGNORE mandò via l’uomo dal giardino d’Eden, perché lavorasse la terra da cui era stato tratto.
    Così egli scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino d’Eden i cherubini, che vibravano da ogni parte una spada fiammeggiante, per custodire la via dell’albero della vita
    (Genesi 3:22-24).

    Infine, per chiudere la parentesi su Eva, è necessario fare riferimento ai due testi del Nuovo Testamento, in cui si precisa:

    temo che, come il serpente sedusse Eva con la sua astuzia, così le vostre menti vengano corrotte e sviate dalla semplicità e dalla purezza nei riguardi di Cristo (2 Corinzi 11:3).

    Adamo fu formato per primo, e poi Eva e Adamo non fu sedotto; ma la donna, essendo stata sedotta, cadde in trasgressione (1 Timoteo 2:13-14).

    Questi due passi del Nuovo Testamento mettono in risalto, non solo quello che Eva compì, ma anche come lei si comportò davanti al serpente. Se Eva avesse conosciuto l’astuzia del serpente, non sarebbe stata sedotta, e neanche sarebbe diventata motivo di far cadere in trasgressione suo marito. Per Paolo che non ignorava le macchinazioni di Satana, l’accostamento che egli fa della vita di Eva nelle varie situazioni che vi erano nella chiesa di Corinto, serve principalmente per avvertire la fratellanza di Corinto dal pericolo che li minaccia.

    Il pericolo consiste nel fatto che la loro mente = (modo di pensare) non venga corrotta e sviata dalla semplicità e dalla purezza nei riguardi di Cristo. Un modo di pensare errato, produce questi catastrofici effetti nella vita di una persona (compresa quella del credente). Questo perché, il primo attacco che Satana sferra, è quello di colpire la mente, per indurre l’individuo a ragionare in modo tale da respingere tutto quello che Dio dice nella Sua Parola. Centrato quest'obbiettivo, le prossime mosse che il diavolo farà, saranno enormemente facilitate, per il fatto che il seme del dubbio che egli ha iniettato nella mente della persona, è già spuntato. Di conseguenza, allontanare il soggetto dalla semplicità e dalla purezza nei riguardi di Cristo, non sarà un'enorme fatica per il tentatore, visto che la mente è già stata corrotta.

    IOCHEBED

    Moglie di Amram, madre di Aaronne, Mosè e Maria, e figlia di Levi (Esodo 6:20; Numeri 26:59). Il matrimonio tra Amram ed Iochebed, venne contratto in un periodo molto critico per i figli d’Israele. A motivo dell’enorme crescita del popolo d’Israele, nel paese d’Egitto, il sovrano che regnava in quel periodo, ordinò che tutti i maschi che sarebbero nati tra gli Ebrei, dovevano essere gettati nel fiume Nilo.

    Fu in quel tempo che Iochebed partorì un figlio, che più tardi sarà chiamato Mosè. Vedendolo di una bellezza straordinaria, bello agli occhi di Dio (Atti 7:20), non se la sentì di gettarlo nel fiume Nilo, come il re aveva ordinato; anzi lo tenne nascosto tre mesi. Quest’azione che compì Iochebed, — sicuramente in accordo con suo marito Amram —, la lettera agli Ebrei la definisce: Per fede (Ebrei 11:11). L’interpretazione che lo scrittore sacro diede, fu sicuramente esatta e ispirata dallo Spirito Santo. Una simile azione, estremamente rischiosa, se non ci fosse stata la fede, non sarebbe stata possibile compierla.

    Però, trascorsi tre mesi, visto che il bambino non poteva essere più tenuto nascosto, avrebbe dovuto essere gettato nel Fiume Nilo. A questo punto, la fede di Iochebed, trovò una felice soluzione, sia per ottemperare alla legge del re d’Egitto e sia per non fare morire il figlioletto.

    …prese un canestro fatto di giunchi, lo spalmò di bitume e di pece, vi pose dentro il bambino, e lo mise nel canneto sulla riva del Fiume (Esodo 2:3).

    Quel canestro, addobbato in quel modo, aveva tutte le caratteristiche per assicurare la sopravvivenza del bambino. Però, visto che la fede non è cieca, in quello che compie, cioè sa prevedere il male che potrebbe sopraggiungere, la mamma, parlando con la figlia Maria, le ordinò di nascondersi tra il canneto del Fiume ad una certa distanza, in modo da tenere sott’occhio il canestro galleggiante. Siccome quella mossa fu ispirata dalla fede, Dio non poteva rimanere indifferente per quello che era stato compiuto. Il sacro testo precisa che, proprio in quello stesso giorno che Iochebed mise il canestro con il figlioletto, nelle acque del Fiume Nilo, la figlia del faraone scese al Fiume per fare il bagno, e le sue ancelle passeggiavano lungo la riva del Fiume. Vide il canestro nel canneto e mandò la sua cameriera a prenderlo.

    Lo aprì e vide il bambino: ed ecco, il piccino piangeva; ne ebbe compassione e disse: «Questo è uno dei figli degli Ebrei» (2: 5-6). A questo punto, entrò in azione Maria, e, rivolgendosi alla principessa, le chiese:

    «Devo andare a chiamarti una balia tra le donne ebree che allatti questo bambino?»
    La figlia del faraone le rispose: «Va’». E la fanciulla andò a chiamare la madre del bambino.
    La figlia del faraone le disse: «Porta con te questo bambino, allattalo e io ti darò un salario». Quella donna prese il bambino e lo allattò.
    Quando il bambino fu cresciuto, lo portò dalla figlia del faraone; egli fu per lei come un figlio ed ella lo chiamò Mosè; «perché», disse: «io l’ho tirato fuori dalle acque»
    (vv. 7-10).

    Tenuto conto come si svolsero le cose, Iochebed riebbe suo figlio che poté allettare tranquillamente senza incorrere a nessun rischio, e, per giunta, venne pagata per tutto il tempo dell’allattamento, dalla figlia di faraone. Meglio di così, non potevano andare le cose! Chi aveva predisposto tutto, fu senza dubbio Dio, il quale, fin dal giorno del concepimento, seppe dirigere e proteggere la vita di Mosè.

    Riflessioni sull’opera di Iochebed

    1) Iochebed una donna di fede. Iochebed, fu senza dubbio, una donna di fede! Anche se il suo nome non figura nell’elenco delle persone menzionate in Ebrei 11, è certamente a lei che si riferisce il passaggio di (Ebrei 11:23). Non si dà sempre che le persone di fede, vengano menzionate nei cataloghi che gli uomini compilano. Anche se i loro nomi non si leggono, però, le azioni di fede che loro compiono, non possono rimanere nell’anonimato.

    2. Il fondamento della fede. La vera fede, ha come fondamento Dio e le Sue promesse. Per usare l’affermazione di Ebrei 12:2, Gesù è Colui che la crea e la rende perfetta. Questo significa che la fede, conosce un corso di sviluppo, durante il quale viene resa perfetta. In altre parole, la fede non nasce perfetta; sì perfeziona col tempo, mediante l’esercizio che se ne farà. Inoltre, non è l’uomo che perfeziona la fede, ma Gesù Cristo, attraverso l’opera costante che svolge nella vita del credente.

    3. La fede non è cieca. La fede, non è fiducia cieca, cioè non segue un percorso senza pensare quello che potrebbe accadere. Non si basa certamente sulla logica umana, ma neanche compie azioni capricciose, senza pensare ai rischi che potrà incontrare. Quando una persona di fede sì nuove, usa accorgimenti che prospettano il futuro, cioè non si ferma al presente, ma sa intravedere quello che accadrà nel domani. Quest'atteggiamento, non è espressione di presuntuosità, ma manifestazione di piena fiducia in Dio e nella Sua Parola.

    4. La ricompensa della fede. Le ricompense che la fede otterrà, sono in conformità a quello che Dio promette. Non sempre, però, saprà fare i calcoli per l’entità che dovrà ricevere. Dio che guarda e valuta giustamente ogni mossa che la fede compie, saprà stabilire la misura della ricompensa. Iochebed, non pensava che per allattare il proprio figlio, avrebbe dovuto riceve anche un pagamento. Se il suo salario venne stabilito dalla generosità della figlia di faraone, sicuramente il Signore, che aveva valutato la fede di quella madre, intervenne nelle decisioni che prese la principessa.

    Si continuerà il prossimo giorno...
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