Domenico34 - Insegnando le cose che Gesù ha comandato di osservare

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Domenico34
00martedì 2 agosto 2011 13:48

INSEGNANDO LE COSE CHE GESÙ HA COMANDATO DI

OSSERVARE




Insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente» (Matteo 28:20).



Nota introduttiva

In questo studio che condurremo, partendo dalle ultime parole che Gesù rivolse agli apostoli prima del Suo ritorno in cielo, riportate dall’evangelista Matteo, viene evidenziato il comando di Gesù, intorno a tutte le cose che Egli ha comandato d’osservare. Naturalmente, partendo da questo testo, prenderemo in esame le varie cose che Gesù ha ordinato di osservare, disseminate in diversi testi biblici, in modo che si potrà avere un quadro, pressoché completo, di quello che il Maestro ha detto, durante la Sua vita terrena.

Certamente, per il valore e l’importanza delle cose che Gesù ha ordinato d’osservare, l’incarico non poteva essere affidato alle folle che, quasi ogni giorno della vita ministeriale di Gesù sulla terra, erano intorno a Lui; doveva necessariamente riguardare direttamente persone che avevano fatto una ferma decisione di seguirlo, e questi, naturalmente, erano principalmente gli apostoli che, Cristo stesso, in modo speciale, li aveva scelti per tale ufficio, i quali avrebbero proclamato per tutto il mondo, i Suoi insegnamenti.

Alla distanza di tanti secoli, però, l’obbligo di far conoscere le cose che Gesù ha comandato di osservare, non può considerarsi esaurito, anche se gli apostoli primieramente e poi tutti gli altri che sono seguiti, in quanto, il comando di Gesù, non riguardava solo i tempi degli apostoli, ha a che fare anche con noi, dei nostri tempi, vale a dire: investe tutta la Chiesa, nel complesso dei suoi membri, per tutta la durata della vita terrena. Quindi, a noi che viviamo nel ventunesimo secolo, compete l’obbligo di insegnare tutte le cose che Gesù ha ordinato d’osservare. Certamente non sarà un compito facile, soprattutto pensando a quelle forze del modernismo esercitato sulla Chiesa, per farla desistere dai suoi doveri, di proclamare tutta la verità del vangelo, la Parola di Dio.

Consapevoli della grande missione che ogni credente ha in mezzo all’umanità che vive lontano da Dio e nella quasi totalità d’ignoranza degli insegnamenti di Gesù, dovrà con impegno e dedizione, ma anche con fermezza, portare la parola della vita con ogni mezzo, non solamente per far conoscere, ma soprattutto per invogliare quanti ascoltano e ricevono la Parola del Signore, ad osservare, tutto quanto Gesù ha comandato, che è ben diverso di quello l’uomo comanda di mettere in pratica.

I popoli istruiti

I popoli della terra devono essere portati alla conoscenza di Gesù e dell’Opera sua, opera compiuta in favore dell’intera umanità, in accordo con la Suprema volontà Divina. Solo quando una persona viene istruita, potrà capire il perché delle tante sofferenze che il Cristo incontrò e patì, durante i giorni della sua vita terrena, ivi compresa la sua morte in croce. Schernito e vituperato, disprezzato ed ingiuriato, calunniato e perfino considerato dai capi religiosi, come un trasgressore della legge di Dio, come uno che non aveva rispetto per Mosè; come uno che voleva rivoluzionare tutto il sistema religioso; criticando e condannando tutti, e prendendo i capi religiosi come degli autentici ipocriti, progenie di vipere, sepolcri imbiancati; persone che avevano solo sulle labbra il nome di Dio, ma il loro cuore era lungi da Lui.

Se queste cose vengono narrate nel Vangelo, ed alcune di loro le disse effettivamente Gesù, questo non vuol affermare che Gesù non poteva andare d’accordo con nessuno, o che si rivolgeva contro di tutti. Era solamente perché Gesù, quale inviato di Dio, voleva far vedere la condizione reale in cui si trovava l’uomo davanti a Dio e alla Sua legge. Gesù non poteva convalidare il formalismo religioso, in cui la nazione ebraica era paurosamente sprofondata. Se li rimproverava, se li esortava, lo faceva solamente perché lui non era venuto per perdere le anime degli uomini, ma per dare la sua vita come prezzo di riscatto (Matteo 20:28).

I popoli portati a conoscenza

L’istruzione che i popoli dovevano ricevere, non era solamente per quanto riguardava il nome e l’opera di Gesù; includeva anche tutto ciò che Egli aveva ordinato. Le persone dovevano avere il materiale a disposizione, per poterlo confrontare, e confrontarlo soprattutto in relazione con gli altri ordini che gli uomini avevano dato, per notare, non solamente una certa differenza, ma soprattutto per rendersi conto, se valeva la pena ubbidire ai suoi comandi.

Tutto doveva essere chiaro e specifico, perché solo allora, si sarebbe potuto fare una buona scelta, e una giusta valutazione. Naturalmente, i discepoli, che dovevano svolgere questo tipo di missione, dovevano necessariamente conoscere le cose che Gesù aveva ordinato d’osservare, e conoscendole, avrebbero potuto far conoscere agli altri, nella loro completezza, perché soltanto allora, avrebbero potuto compiere una missione conforme alla volontà del loro Divino Maestro.

I. PERCHÉ GESÙ HA ORDINATO?

La prima risposta che si potrebbe dare a questa domanda, è per farli conoscere. Indubbiamente, la conoscenza di una cosa, è importante, sotto diversi aspetti. Per mancanza di conoscenza, si può andare incontro a dispiacevoli amarezze e si può verificare una certa irrequietezza. Si possono incontrare perplessità, tentennamenti e si possono fare cose che dispiacciono ad amici e conoscenti. Possono essere commessi errori di una certa gravità. E, infine, si può andare incontro a una totale rovina, sia morale che spirituale.

Gesù, non ha solamente comandato delle cose per farle conoscere. Se questo è il suo scopo, non vediamo quale beneficio ricava l’uomo, dal comando di Gesù. Ma se i suoi ordini vennero dati preciso fine di metterli in pratica, allora la parola del Maestro, ha la sua importanza e può essere additata, come una definizione attuale, valida per ogni tempo e per ogni generazione. Osservando tutto quello che Gesù ha comandato, non si obbedisce ad un uomo, né ad un’organizzazione religiosa, ma direttamente a Dio. Per sapere quale sono le cose che Egli ha comandato, dobbiamo rivolgerci alla Bibbia, l’unico libro che può dirci tutto a proposito, dandoci la possibilità di farceli conoscere nei minimi particolari. Ovviamente, si deve tenere in debito conto che l’uomo nella sua natura è ribelle e tende sempre alla disubbidienza. Per questo la chiesa deve insegnare ad osservare quello che Gesù ha comandato.Se il sacro testo dice:

Insegnando loro d’osservare tutte quante le cose che vi ho comandato,

è chiaro che debba essere insegnato solo quello che Gesù ha ordinato. Già questa precisazione lascia intravedere la possibilità di varie infiltrazioni umane che potrebbe addirittura occupare il posto delle cose che Gesù ha ordinato, apparendo alla persona ignara come delle essenze autentiche, quando invece sono idee di stampo umano. Tanti secoli prima della venuta di Cristo, il profeta aveva detto:

Giacché questo popolo s’avvicina a me con la bocca e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lungi da me e il timore che ha di me non è altro che un comandamento insegnato dagli uomini (Isaia 29:13).

Più tardi, lo stesso Gesù Cristo, citò questo detto d’Isaia, applicandolo alla nazione ebraica (Matteo 15:7-9; Marco 7:7). Successivamente, Paolo, ribadì la stessa cosa quando fece riferimento ai comandamenti e alle dottrine degli uomini (Colossesi 2:22; Tito 1:14).

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Domenico34
00mercoledì 3 agosto 2011 00:09
Dal momento che Cristo, per sua Divina volontà, vuole che le cose che egli ha comandato, si insegnino a tutti per farle osservare, è chiaro che non ci troviamo davanti a dei precetti ed usanze tramandate da uomini, che non hanno nessun significato e nessun’importanza. Ci troviamo piuttosto davanti alla parola di Gesù, quella stessa che è stabile in eterno e che deve essere tenuta in somma considerazione, secondo la volontà di chi l’ha data. Il discepolo di Gesù che porta agli uomini la parola del Cristo, non solo deve prestare attenzione a non mesarla con la sua, ma deve mettere enfasi, perché questa parola del Cristo, una volta udita, venga osservata. Solo allora si potrà verificare quello che dice (Giovanni 14:21):

Chi ha i miei comandamenti e li osserva, quello mi ama; e chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e io l’amerò e mi manifesterò a lui.

Non si possono, d’altra parte prendere in considerazione solo alcune cose che Gesù ha comandato, e tralasciare le altre, perché Cristo ha detto esplicitamente: tutto quanto vi ho comandato.

II. LE COSE CHE GESÙ HA COMANDATO D’OSSERVARE

Dal momento che Cristo ha dato un comando così preciso e specifico, non ci resta altro che prendere in esame tutto quello che Gesù ha comandato. D’altra parte non crediamo che quest’affermazione debba essere intesa in maniera diversa; crediamo invece che la parola di Gesù, debba essere presa alla lettera, insegnarla alla lettera e farla osservare.

1. L’ATTITUDINE DEL DISCEPOLO DI GESÙ DAVANTI AGLI UOMINI

Le norme che Gesù insegnò ai suoi discepoli, devono essere messe in pratica, perché solo allora il seguace di Gesù apparirà davanti agli uomini, quello che è veramente. Gesù nel suo insegnamento fu molto preciso da non lasciare nessun’ombra d’incertezza nella mente e nel cuore dei suoi. D’altra parte, questi discepoli che astavano la sua parola, avrebbero dovuto essere i suoi continuatori in mezzo a tutti gli uomini. Prima che Gesù ordinava ai suoi a proposito della loro attitudine da assumere nel cospetto degli uomini, li aveva paragonati al sale e alla luce, con le seguenti parole:

Voi siete il sale della terra - Voi siete la luce del mondo (Matteo 5:13,14).

Dal momento che Gesù definiva i suoi discepoli sale e luce del mondo, era più che logico, che seguisse una parola di comando, per dare importanza alla sua stessa definizione, e perché la stessa assumesse il valore di quello che realmente è.

Così risplenda la vostra luce nel cospetto degli uomini, affinché veggano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli (Matteo 5:16).

Qui non ci troviamo davanti ad un suggerimento o consiglio, ma davanti ad un ordine. È il Divino Maestro che ordina ai suoi di risplendere in mezzo agli uomini di vivida luce, in modo che questa luminosità che emana attraverso un’opera tangibile (che il testo chiama le vostre buone oper, gli uomini glorifichino il Padre che è nei cieli. L’apostolo Pietro capì molto bene il comando di Gesù e si rese conto quanto fosse importante. Nella sua prima epistola, egli scrisse:

Avendo una buona condotta fra i Gentili; affinché laddove sparlano di voi come malfattori, essi, per le vostre buone opere che avranno osservate, glorifichino Iddio nel giorno ch’Egli li visiterà (1 Pietro 2:12).

Anche l’apostolo Paolo, con la sua ferma ed illuminante parola, dà forza alla definizione del Divino Maestro, quando scrisse:

Affinché siate irreprensibili e schietti, figlioli di Dio senza biasimo in mezzo ad una generazione storta e perversa, nella quale voi risplendete come luminari del mondo; tenendo alta la parola della vita (Filippesi 2:15).

Dal momento che questo comando Divino viene ricevuto dal discepolo di Gesù e tradotto nella vita pratica di ogni giorno, nello svolgimento della sua missione, egli deve insegnare al nuovo convertito che la stessa luce che vede brillare nella vita di chi gli fa sapere le parole di Gesù, si deve vedere anche nella sua esistenza. Il nuovo convertito deve essere messo di fronte alla parola del Maestro, non in una diversa alternativa, ma nella stessa posizione che il Maestro ha voluto metterlo. Così facendo e così agendo, si forma una lunga catena costituita da tante persone che mettono in pratica quello che Gesù ha ordinato di osservare. In oltre, la parola del Cristo non viene considerata solamente mezzo di espressione, ma regola di vita e di condotta.

È nella volontà del Divino Maestro che l’uomo che viene a contatto con la sua parola, assuma quella dovuta attitudine che lo rende una persona che, non solo asta quello che dice il Signore, ma che ne fa una norma di vita. In questi tempi, come nel passato, c’è una grandissima quantità di persone, che sanno abilmente ripetere le parole di Gesù, senza che per questo possano dimostrare con la loro vita, che sta vivendo l’insegnamento del loro amato Signore. L’umanità di oggi, come quella di tutti i tempi, non ha bisogno di abili teorici che sanno solo insegnare, in una maniera inequivocabile e ferma la parola del Cristo; essa vuole vedere persone che mettono in pratica, non su un piano prettamente intellettuale e teoretico, ma su quello reale. Sarà l’evidenza pratica nella vita del discepolo di Gesù, che darà più forza alla testimonianza cristiana, e la stessa parola del Cristo si potrà imporre nel modo di vivere e nella coscienza degli uomini. Appare, dunque chiaro, quanto mai sia importante che chi insegna le cose che Gesù ha ordinato d’osservare, siano essi stessi i primi ad osservarle.

2. UNA PRECISA DISPISIZIONE PER LA VITA CRISTIANA

Se dunque tu stai per offrire la tua offerta sull’altare, e quivi ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia quivi la tua offerta dinanzi all’altare, e vai prima a riconciliarti tuo fratello; e poi vieni ad offrire la tua offerta (Matteo 5:23,24).

La vita cristiana non è formata di atti e manifestazioni aridi, anzi è piena di azioni esterne e di sentimenti interni, che sfociano nella vita di ogni giorno. Non sarà una cosa difficile, per un cristiano, soffocare e nascondere quello che sente, allorquando vorrà manifestare, tutti quei sentimenti di profonda religiosità nell’ambiente in cui vive e alle persone con le quali vuole condividere la vita cristiana. Questa, a dire il vero, è l’esprimersi di un rapporto individuale con Dio, attraverso le mille manifestazioni, nella consapevolezza della sua salvezza e della grazia che ha ricevuto, come segno di gratitudine a Dio.

Non c’è quindi d’aspettarsi che una persona abbia bisogno dell’assenso della partecipazione degli altri, per manifestare i suoi sentimenti religiosi, di amore e di riverenza verso Dio. Nonostante che tutto ciò si esprima in maniera spontanea e personale, da non far dipendere un simile esercizio da altri, c’è una divina norma, alla quale, ogni cristiano dovrà pensare e regolare nella propria vita. Anche se abbiamo affermato che la vita cristiana è un rapporto individuale con Dio, la relazione che intercorre tra chi si presenta a Dio, nell’esercizio della sua devozione, e chi rimane all’esterno di questa manifestazione religiosa, è talmente evidente ed importante, da condizionare ogni buon fine. Per evitare che ci sia sbandamento, e addirittura nullità nella vita cristiana, Gesù insegna delle precise cose da osservare, perché tutta l’esistenza cristiana ne tragga il maggior profitto, senza rischio di incorrere in un’incoerenza, tra la manifestazione del semplice sentimento e l’azione pratica nella vita associata.

Il fatto che il testo parli di un ricordo che potrebbe sorgere in chi sta presentando la propria offerta, riguardo a quello che il fratello ha contro di lui, è un chiaro avvertimento ed un serio ammonimento a rimediare a quell’inconveniente. Gesù non insegna che si possa offrire la propria offerta a Dio, ignorando quello che c’è stato nel passato con un fratello. Il volere ignorare una simile cosa significa non tener conto della norma divina. Se uno, nell’esercizio della sua vita cristiana, vorrà alzare le sue mani a Dio, dovrà fare attenzione che non ci sia ira e disputa (1 Timoteo 2:8). Che possa verificarsi qualche cosa di spiacevole tra un fratello e l’altro, è cosa scontata nel nostro testo, ma non è in questo che consiste il perio o sul quale Gesù fa esplicito richiamo, bensì sull’attitudine che si assume nell’offrire l’offerta a Dio. Gesù nel proclamare la norma che riguarda la vita cristiana, dà un preciso ordine:

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Domenico34
00giovedì 4 agosto 2011 00:23
Se ti ricordi di avere qualche cosa contro il tuo fratello, lascia la tua offerta, a vai prima a riconciliarti tuo fratello.

Qui non ci troviamo davanti ad un consiglio, la parola di Gesù è un preciso comando, e come tale bisogna eseguirlo. La riconciliazione è essenziale, anzi indispensabile, perché l’offerta che si presenta a Dio, possa essere da lui accettata. Non si tratta di curare solamente la vita ispirata a devozione, per quanto riguarda una persona, si tratta invece di tenere anche conto della relazione che c’è tra uno che vuole manifestare la sua gratitudine a Dio.

Questo, naturalmente, sarà possibile, attraverso gli atti esterni del culto e la vita che si conduce con gli altri, dal punto di vista pratico. Con quale coraggio ed onestà si potrebbe presentarsi ad offrire una preghiera al Signore, ricordo che il fratello ha qualcosa contro di te? Qui non si tratta di eludere o sottrarsi al giudizio del fratello, si tratta di dover fare i conti con Dio, che vede la nostra vita cristiana e ispirata a devozione. Il voler respingere o ignorare un simile ordine dato da Cristo, significa in ultima analisi, vivere la propria vita cristiana nell’ipocrisia e nella più squallida miseria d’ignoranza.

Non è tanto essenziale analizzare le varie mancanze od offese recate o subite, per decidere se è il caso o se è possibile una riconciliazione. L’analisi dell’argomento non annullerà la necessità di una riconciliazione prima di presentare l’offerta. Che la mancanza o l’offesa sia grave, quasi da farla considerare imperdonabile, non è un valido argomento per respingere il comando del divino Maestro. Questa norma è valida per tutti i seguaci di Gesù Cristo e la stessa deve essere insegnata a tutti quelli che non la sanno, in modo che anche loro, non solo conoscano quello che Gesù ha ordinato, ma devono anche sapere che quest’ordine va osservato, da tutti, se tutti vogliono che la loro offerta, sia accettevole a Dio.

3. UNA PRECISA DISPOSIZIONE PER IL GIURAMENTO

Ma io vi dico: del tutto non giurate; né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello dei sui piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran Re. Non giurare neppure per il tuo capo, poiché tu non puoi fare un solo capello bianco o nero. Ma sia il vostro parlare: Si, si; no, no; poiché il di più viene dal maligno (Matteo 5:34-37).

Più categorico di così, Gesù non poteva essere; e più chiara e più precisa di come insegnò la verità, non poteva farlo. Il nostro modo di parlare tra gli uomini, deve essere regolato dalla parola di Gesù. Come discepoli del Cristo, non si ha nessun diritto di usare un linguaggio come meglio si addice o come sia più conveniente. Il discepolo di Gesù è un suo dipendente, e come tale, dovrà tener conto della volontà del suo padrone. Gesù, come Signore della vita del suo discepolo, vuole che il parlare faccia onore a Lui. Se ogni discepolo, non deve essere da più del suo maestro, perché basta al seguace di Gesù di essere come il suo insegnante, è chiaro che il discepolo deve assomigliare all’istitutore, anche nel parlare.

Attraverso il linguaggio, l’uomo può nascondere le cose più turpi e vergognose; può addirittura falsare la realtà di un concetto, specie quando usa un linguaggio adulatorio ed ipocrita. Il criminale, con le sue raffinate menzogne, potrà farsi credere come innocente, adducendo le più sofisticate ragioni per nascondere la sua crudeltà. Il commerciante, con le sue imprecazioni, potrà fare credere che stia vendendo la merce sotto costo per non perdere tutto.

Con la parola, l’uomo è capace di apparire, sotto una diversa realtà, specie quando usa il giuramento. Di solito il giuramento si fa per autenticare una dichiarazione, una promessa, un voto. Insomma, per dare forza alla cosiddetta credibilità. Da un punto di vista obbiettivo, davanti al giuramento, non ci dovrebbero essere menzogne, riserve mentali ed ipocrisie. Però, quando si passa all’atto pratico della vita, si sa che tante volte sotto il giuramento, l’uomo è capace di nascondere la più sfrontata menzogna e la più crudele ipocrisia. Gesù, nel testo di cui sopra, non sta parlando del modo di parlare degli uomini; sta indirizzando la sua parola ai suoi, a quelle persone cioè che, nella loro libera scelta, hanno voluto seguirlo. Sono i suoi seguaci, chi dovrà portare a tutti i popoli, la sua parola. È a loro che il Divino Maestro ordina di non presentare ricorso al giuramento.

Anche se questo tipo di parlare sia praticato pure nell’ambiente giudaico, Gesù non vuole che i suoi discepoli usino il linguaggio nella stessa maniera degli altri. Il vostro parlare sia: si, si; no, no; questo è categorico per i discepoli del Cristo; è norma intramontabile per tutte le generazioni che vorranno seguire l’insegnamento di Gesù. La specificazione che ne fa Gesù su di più, proietta più luce sulle attività del maligno, e serve per mettere in guardia la vita del discepolo, usando il linguaggio come strumento d’azione. Che il giuramento oltrepassi il semplice sì e no, appare chiaramente dall’affermazione che viene fatta da Gesù e viene messa in relazione con una delle tante attività del maligno. Se l’uomo pensa che suo semplice sì e no, non riesce a convincere e farsi credere, deve anche ricordarsi che presentando ricorso al giuramento, sta utilizzando una delle tante riorse del maligno.

Questo tipo di norma, che poi è un ordine che Gesù ha dato ai suoi discepoli, non serve soltanto per insegnare loro come devono usare il linguaggio, ma serve anche per far conoscere una delle tante attività del maligno, quando, servendosi del giuramento, compie una sua specifica azione. Il discepolo di Gesù, non può tener per se questi ordini, dal momento che è stato incaricato di insegnare e di osservare tutte le cose che Gesù ha comandato. Si impone l’obbligo di passare ad altri la parola del Maestro, in modo che anche questi abbiano ad osservare il comando di Gesù e non cadere nella trappola del maligno.

4. UNA PRECISA DISPOSIZIONE PER NON CONTRASTARE AL MALVAGIO

Voi avete udito che fu detto occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico: non contrastate al malvagio; anzi, se uno ti percuote nella guancia destra, porgigli anche l’altra; e a chi vuol litigare teco e toglierti la tunica, lasciagli anche il mantello (Matteo 5.38-40).

Che questa norma sia importante per la vita del discepolo è una cosa indiscutibile, anche perché non da spazio al malvagio. Quando il malvagio trova spazio nelle sue macchinazioni, egli, può seminare distruzione dappertutto e può frantumare la vita più integra. Per vincere il malvagio, non si può usare la stessa arma di malvagità. Un male non viene mai vinto un altro torto ma l’ingiustizia viene vinto con il bene (Romani. 12:21).

Il discepolo di Gesù deve tener conto di quest’ordine per evitare che la sua reputazione di cristiano sia offuscata o peggio ancora, degradata dun’una insolente risposta, come per far difendere i suoi diritti. Il cristiano non deve essere soltanto pronto a non dare spazio al malvagio nella sua irruenza spietata, ma deve anche essere disposto a ricevere qualche danno, qualche torto, o farsi prendere anche quello che potrebbe sembrare una cosa utile e necessaria per la sua vita (mantello), pur di non alimentare il male nelle sue molteplici manifestazioni e non sottovalutare il comando del Signore.

I torti o i danni che il discepolo potrà subire da parte del malvagio, potranno interessare i beni materiali, le posizioni sociali e i beni della stessa famiglia; ma non potranno mai toccare quei legami che tengono stretti, l’amore di Dio, la vita del cristiano nei confronti del Cristo.

Il malvagio li potrà portare i beni materiali, come pure il prestigio di una dignitosa posizione sociale e i componenti di una famiglia; ma non potrà portare via l’amore che Dio ha messo nel cuore per lo Spirito Santo, e tanto meno spezzare quel legame spirituale che unisce l’umano divino.

Soppesando le due realtà, quella terrena ed umana, e quella spirituale e divina, che il cristiano ha davanti a se, una volta che si attiene alla norma di Gesù, saprà fare una giusta scelta, e astare la parola del Cristo che lo condurrà sul sentiero della rinuncia, per quanto riguarda le cose terrene ed umane, e dell’obbedienza e sottomissione, per ciò che concerne quelle spirituali e divine.

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Domenico34
00venerdì 5 agosto 2011 00:12
Insegnare ad osservare questa norma con la sola parola, non sarà sicuramente efficace e penetrante; ma chi la insegna, può presentare un esempio vivente nella propria vita. Questo è veramente mettere in pratica la parola del Maestro e ispirerà a seguire lo stesso modello che viene messo davanti alla parola del Signore.

5. UNA PRECISA DISPOSIZIONE AD AIUTARE

Dài a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito, non voltare le spalle (Matteo 5:42; Luca 6:30).

Fare il bene, nel contesto dell’insegnamento biblico, non è qualcosa di spontaneo e fatativo presentando ricorso alle giuste esigenze e ai dovuti accertamenti dell’uomo. Dio non ha lasciato all’arbitrio dell’uomo, per quanto riguarda il fare il bene. L’uomo, nella sua natura egoista, non è tanto disposto ad aprirsi, con occhio compassionevole e con mano larga.

Dio ordina al suo popolo, ordini che devono essere rispettati, se si vuole obbedire a lui. Se si prendono in considerazioni tutti quei testi riguardante il comando di Dio per quanto concerne i bisognosi, appare nella sua giusta dimensione, il posto che deve occupare la parola del Signore, nella vita di ogni singolo credente. Al popolo d’Israele venne dato questo comando:

Quando vi sarà in mezzo a te qualcuno dei tuoi fratelli che sia bisognoso in una delle tue città nel paese che l’Eterno, l’Iddio tuo, ti dà, non indurerai il cuor tuo, e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso; anzi gli aprirai largamente la tua mano e gli presterai quanto gli abbisognerà per la necessità nella quale si trova (Deuteronomio 15:7,8).

Una simile disposizione è predeterminata e categorica. Non c’è spazio per una libera scelta; non limitatezza per una valutazione unilaterale, c’è solamente l’obbligo di una perfetta e completa obbedienza da parte dell’uomo alla Parola di Dio. Che l’uomo voglia argomentare, se accettare o meno il comando di Dio, lo può benissimo fare, perché si trova in una posizione di poter decidere se accettare o respingere un’ordine divino.

Questo non vuol dire però, che l’uomo con la sua libera scelta, possa modificare il comando di Dio, o peggio ancora far dipendere la sua attuazione da considerazioni e valutazioni prettamente umane ed egoiste. Che l’uomo abbia la possibilità di poter mandare a monte un ordine divino, facendolo apparire ridio ed inopportuno, questo rientra nell’ambito delle sue scelte e della sua volontà.

Però, a questo punto è bene riflettere che, se l’uomo cerca di ostaare o neutralizzare una precisa disposizione divina, lo fa a sue spese, e non sarà la parola del Signore ad essere intaccata e vilipesa. Dio non ha mai imposto l’osservanza di una sua disposizione, anche se la stessa torna a beneficio dell’uomo. Anzi ha sempre voluto che l’uomo, facendo uso della sua libertà di scelta nella propria vita, finisca per osservare, la sua parola.

Per un israelita non si presentavano tante alternative per fare il bene: O accettare il comando di Dio, così come Lui l’aveva dato, o respingerlo con una precisa attitudine di disubbidienza. C’era una sola condizione alla quale un israelita poteva appellarsi, senza doverne sentire il peso e la responsabilità di una disubbidienza quando mancavano le possibilità materiali per fare il bene.

Non rifiutare un beneficio a chi vi ha diritto, quand’è in tuo potere di farlo. Non dire al tuo prossimo: Vai, torna e te lo darò domani; quand’hai di che dare (Proverbi 3:27,28),

soprattutto quando si ricorda: Chi ha pietà del povero presta all’Eterno (Proverbi 19:17).

Praticare il digiuno, in certi giorni prestabiliti, non era soltanto una pratica diffusa in mezzo al popolo d’Israele che procurava un certo vanto, ma era arrivata a tal punto che si considerava un’opera meritoria. Anche se l’Eterno stesso aveva, attraverso i suoi profeti, suggerito al popolo di bandire un digiuno, come segno di un sincero ritorno a lui (Gioele1:14; 2:12), tuttavia, nel popolo si era formato un formalismo così marcato, da fargli dimenticare quello che l’Eterno aveva ordinato intorno a fare bene. Credo che Isaia, interpreta esaurientemente questa situazione, quando per due volte consecutive chiede:

Il digiuno di cui mi compiaccio non è egli questo: che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi, e che si infranga ogni sorta di giogo? Non è egli questo: che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu meni a casa tua gl’infelici senz’asilo, che quando vedi uno ignudo tu lo copra, e che tu non ti nasconda a ui ch’è carne della tua carne (Isaia 58:6,7).

Certamente Gesù, con le sue parole: dà a chi ti chiede, non ha nulla da aggiungere alla vecchia norma divina, e tanto meno modificarla. Il parallelo di (Luca 6:30), ha un suono più grave

Dài a chiunque ti chiede; e a chi ti toglie il tuo, non glielo ridomandare.

Tutto l’insegnamento del N.T. riguardante a fare il bene, ha un solo denominatore e un solo punto di riferimento mettere in risalto il comando di Gesù.

L’apostolo Paolo, scrivendo ai Romaniani, li esortava a provvedere alle necessità dei santi (Romani 12:13); e rivolgendosi ai ricchi, incaricava Timoteo a comandare loro:

Che facciano del bene, che siano ricchi in buone opere, pronti a dare, a far parte dei loro beni (1 Timoteo 6:18).

Anche l’epistola agli Ebrei, accettando la norma di Gesù, esorta i suoi destinatari di:

Non dimenticare di esercitare la beneficenza e di far parte agli altri dei vostri beni; perché è di tali sacrifici che Dio si compiace (Ebrei 13:16).

E per concludere, Giovanni dice:
Ma se uno ha dei beni di questo mondo, e vede suo fratello nel bisogno, e gli chiude le proprie viscere, come dimora l’amore di Dio in lui? Figlioletti, non amiamo a parole e con la lingua, ma a fatti e in verità (1 Giovanni 3:17,18).

Un simile insegnamento che danno tutte le Scritture, sia quelle dell’A.T. come quelle del N.T. con estrema chiarezza e fermezza, non solo è doveroso portarlo a conoscenza di tutti, ma deve essere proclamato con altrettanta stabilità, perché chi l’asta può metterlo in pratica.

6. UNA PRECISA DISPOSIZIONE AD AMARE

Voi avete udito che fu detto: Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici (Matteo 5:43,44; Luca 6:27).

La legge dell’amore oltrepassa ogni limite delle sopportazioni umane e si raccorda direttamente cuore amabile di Gesù. Gli esegeti, si sono chiesti, a quali nemici voglia alludere Gesù. Se si tratta dei nemici della fede oppure degli avversari in genere. Tutto quello che si cerca di indagare, attraverso un’analisi approfondita delle fonti, non cambia minimamente l’insegnamento e il comando di Gesù di amare. Anche se si cerca di individuare se i nemici, di cui parla il testo, siano quelli della fede o piuttosto i nemici in genere, resta sempre valido l’obbligo di amare.

Dal momento che (Matteo 5:44 e Luca 6:27) non specificano di quale tipo di nemici si tratti, crediamo che la parola del Maestro, debba essere intesa nel senso largo dei nemici in genere. Il comando di Gesù è perentorio e non permette di evadere, adducendo motivi di carattere sociale e di qualsiasi altro tipo. Dal momento che Gesù ordina di amare i nemici, bisogna obbedire al suo comando, senza alcuna riserva e senza nessun preconcetto, tendente alla più larga discriminazione. Amare, non è una caratteristica della natura umana, e tanto meno che l’uomo naturale possa adempiere un simile comando.

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Domenico34
00sabato 6 agosto 2011 01:17
Diletti, amiamoci gli uni gli altri; perché l’amore è da Dio, e chiunque ama è nato da Dio e conosce Iddio (1 Giovanni 4:7).

Alla luce di questo testo appaiano chiaramente due cose: 1) L’amore è da Dio; 2) chi ama è nato da Dio. Senza la vita di Dio non è possibile amare.

Si badi che qui Giovanni stesse parlando di amare i fratelli della stessa fede. Se per amare i fratelli della stessa fede è necessaria la vita nuova, vale a dire quella di Dio, consideriamo se l’uomo possa amare i nemici, con la realtà naturale. Davanti alla parola: Voi avete udito che fu detto: Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico, Gesù oppone il suo: Ma io vi dichiaro, amate i vostri antagonisti.

La parola di Gesù è quindi più importante di quella che era stata agli antichi, anche perché apre nuovi orizzonti e permette di approfondire l’essenza stessa dell’amore.

I discepoli di Gesù, ai quali è rivolto questo comando di amare i nemici, non solo devono attenersi al nuovo modo di parlare, ma devono soprattutto impegnare la loro vita, perché l’insegnamento di Cristo trovi in loro il pieno adempimento su un modo di vivere. Il significato di. Amare i nemici in ultima analisi vuole anche significare di saper valicare i confini dell’umano e del consentito, per vivere una diversa realtà, in accordo con la volontà di Dio.

Amare è l’opposto di odiare e nemici il contrario di amico. Amare non è soltanto espressione verbale, (e i sentimenti di affetto, inclinazione e attrazion, non si esprimono solamente con le parole, vanno dimostrate con azioni tangibili e palpabili. In altre parole chi è considerato un nemico, perché ha un’avversione contro un altro, è ostile, deve vedere, attraverso un’azione pratica, che c’è uno che lo ama nonostante l’ostilità e l’inimicizia.
L’amore è forte come la morte (Cantico dei Cantici 8:6). Sotto quest’aspetto il discepolo di Gesù viene meno davanti ad una precisa responsabilità, inderogabile nel tempo, che lo proietta al di fuori e al disopra di una sfera del normale e dell’umano, in questa terra ove tutto è diverso, e dove tutto si concretizza, con riferimento ad una diversa vita che si manifesta.

Questa nobile verità è insostituibile e il comando di Gesù non deve essere ritenuto nella vita segreta del discepolo, per goderne tutta la bellezza e tutta la pienezza; dovrà essere trasmesso, non solo oralmente, ma soprattutto sul piano della praticità, in modo che tutti sappiano che la parola del Maestro, di amare i nemici, deve essere osservata.

7. UNA PRECISA DISPOSIZIONE PER FARE IL BENE

Ma a voi che astate, io dico: Amate i vostri nemici; fate bene a quelli che v’odiano (Luca 6:27).

Anche questa disposizione a fare il bene, al pari di quella dell’amore, oltrepassa i limiti di ogni umana considerazione e di ogni sua approfondita riflessione. La natura umana non si oppone solamente di chi è avverso, ostile, ma si oppone anche a che si faccia del bene a chi odia. Gesù, per far meglio capire il valore di questa norma, aggiunge:

E se fate del bene a quelli che vi fanno del bene, qual grazia ve ne viene? Anche i peccatori fanno lo stesso (Luca 6:33).

Questa specificazione di Gesù ci fa sapere che anche i peccatori fanno del bene, ma lo fanno solamente a quelli sanno ricambiare il bene. In altre parole, il peccatore agisce nella stessa maniera come viene trattato.

In questo il discepolo di Gesù si differenzia e si stacca dal comune peccatore, in quanto Gesù lo pone su un piano diverso e più elevato, da fargli fare il bene a colui che lo odia. Facendo così, non solo il discepolo di Gesù appare diverso dal peccatore, per quanto riguarda la prospettiva di un gran premio, ma sarà anche diverso perché sarà chiamato Figliolo dell’Altissimo (Luca 6:35).

La forza dell’odio agisce nella vita dell’uomo come una forza distruttiva a tutti i livelli. L’odio è il nemico più grande e più agguerrito, di quello che si può immaginare. Tutte le discordie, le amarezze, i rancori, la stessa violenza, in tutti i settori e a tutti i livelli, hanno la loro origine e affondino le loro radici nell’odio.

La persona che odia può concepire le più crudeli azioni, come quella di Caino che uccise proprio fratello Abele (Genesi 4:1). C’è un solo modo per vincere l’odio e per debellarne le sue funeste conseguenze: Il bene. Come il male è una forza distruttiva, il bene, a sua volta è potenza costruttiva. L’odio sprofonda l’uomo verso la disperazione e l’intolleranza; il bene invece lo innalza dalla sua miseria e lo nobilita, beneficiando non solo, su un piano umano e terreno, ma soprattutto su quello morale e spirituale.

L’odio imprigiona l’uomo e lo lega senza possibilità di uscirne, il bene lo scioglie e lo rende libero e pieno di sorriso e di soddisfazioni. Quando Gesù insegnò di fare il bene a chi odia, voleva dire al suo discepolo: fare il bene a chi vi odia, voi utilizzate un’arma potentissima, capace di infliggere una definitiva sconfitta a tutte le forze delle tenebre e dell’inferno, perché rimane sempre vero il detto che il male si vince bene (Romani 12:21). Queste cose devono essere insegnate a tutti in modo che tutti le possano osservare.

8. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A PREGARE PER COLORO CHE FANNO TORTO

Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano (Matteo 5:44). Luca aggiunge: Pregate per quelli che v’oltraggiano (Luca 6:28).

Qui ci troviamo davanti a persone che sono ostili alla fede e la pensano in maniera diversa. Pregare per quelli che perseguitano, significa, intercedere presso il Padre per la loro salvezza. E per intercedere presso Dio, per uno che oltraggia, ci vuole l’amore e la compassione di Dio nel cuore.

Questa norma non è stata messa in pratica da tutta la cristianità attraverso i secoli. Se la cristianità avesse saputo pregare per quelli che la perseguitavano ed oltraggiavano, (e questo ci fa pensare che coloro che si comportano in questo modo, non solo sono contrari alla ,fe a all’insegnamento di Gesù e della parola di Dio, ma sono nel torto e nell’error, avrebbero potuto conquistare tante anime al Signore e liberarle dalle loro cattiverie.

Invece di agire nel modo voluto da Gesù, presentando ricorso alle armi, alla sopraffazione, alla violenza, alla più spietata crudeltà, per fermare e vincere gli oppositori e gli oltraggiosi. Chi perseguita ed oltraggia, chiunque esso sia e a qualsiasi denominazione appartenga, non fa parte dei discepoli di Gesù e stanno seguendo Gesù, sul sentiero del suo insegnamento e della sua volontà.

Potrebbe sembrare un giudizio severo, quando specialmente si sferra una persecuzione nel nome di Dio e all’insegna di un fervore e di una santa gelosia per preservare e difendere una dottrina e la stessa fede. Ma se guardiamo in faccia alla realtà, e se specialmente ci lasciamo illuminare e guidare dalla parola di Gesù, la cosa apparirà in maniera diversa e sapremo vedere chi sono i veri seguaci di Gesù: chi perseguita ed oltraggia, in nome dun’a ortodossia e all’insegna di uno zelo spietato, o piuttosto chi è l’oggetto della persecuzione e degli oltraggi.

Se sei veramente un discepolo di Gesù, lo devi seguire essenzialmente nell’obbedienza alla sua parola e ai suoi insegnamenti, in modo da non favorire lo sforzo della tua rabbia e tanto meno l’intolleranza che si presenta come un mezzo necessario per far tacere tutti gli oppositori e per mettere in silenzio i persecutori.

Saulo da Tarso, perseguitò per un tempo i discepoli di Gesù e la fede, pensando di fare un servizio a io (Galati 1:13; Atti 8:3; 9:1﷓4; 22:4﷓7; Filippesi 3:6), essendo mosso dal suo zelo per la tradizione dei suoi padri. Più tardi però, quando la luce di Dio illuminò il suo cuore e la sua stessa vita, si accorse che quello che faceva era in contrasto con la volontà di Dio.

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Domenico34
00domenica 7 agosto 2011 00:15
Quando Gesù che egli perseguitava entrò nella sua vita, si rese conto che coloro che erano nella parte della ragione e della vera fede, non era lui né i capi religiosi dei suoi giorni, ma erano proprio loro che venivano perseguitati ed oltraggiati. Come si può avere il coraggio di sostenere una persecuzione crudele e spietata, fino a spargere un torrente di sangue, in nome di una religione, e peggio ancora, in nome di una Chiesa che dice di possedere la piena verità, quando invece questo atteggiamento è in netto contrasto con il comando di Gesù di pregare per coloro che ci perseguitano ed oltraggiano?

Ad un Pietro che pensava, nell’ardore della sua fede e del suo zelo, di difendere Gesù dall’assalto dei sergenti, Cristo, ordinò:

Riponi la tua spada nel fodero, perché tutti quelli che prendono la spada, periscono per la spada Matteo 26:52).

Gli ostinati e gli oltraggiatori non si piegano con la forza della violenza e con le armi, ma con robustezza della preghiera. Chi crede alla parola di Gesù ed è pronto a metterla in pratica, conoscerà l’efficacia della preghiera, e saprà vedere come Dio, rispondendo al grido di chi lo sanno pregare con tutto l’ardore della loro vita e con tutta la fede, sa raggiungere l’esistenza più ostinata e il cuore più indurito, che macchina oltraggio e persecuzione verso chi stanno seguendo Gesù, sul sentiero del suo insegnamento.

Tutte le cose, anche le più impensate e le meno raggiungibili, si possono ottenere attraverso la preghiera. Con questa norma, Gesù arma il suo discepolo al combattimento. Non è un combattimento contro carne e sangue, ma contro spiriti maligni nei luoghi celesti (Efesini 6:12). Forte di questo divino insegnamento, il discepolo di Gesù andrà avanti e, percorrendo le strade di questo mondo, proclamerà apertamente e con coraggio, il messaggio di Cristo, insegnando nello stesso tempo di osservare tutte le cose che Gesù ha comandato d’osservare.

9. UNA PRECISA DISPOSIZIONE PER QUANTO RIGUARDA L’ELEMOSINA

Guardatevi dal praticare la vostra giustizia nel cospetto degli uomini per essere osservati da loro; altrimenti non ne avrete premino presso il Padre vostro che è nei cieli. Quando dunque fai limosina, non far suonare la tromba dinanzi a te, come fagli gl’ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere onorati dagli uomini. Io affermo in verità che codesto è il premio che ne hanno.
Ma quando tu fai limosina, non sappia la tua sinistra quel che fa la destra, affinché la tua limosina si faccia in segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa
(Matteo 6:1-4).

Tutte le opere di carità che vengono fatte, lo devono essere all’insegna, non per essere visti ed onorati dagli uomini, ma visti ed onorati dal Padre celeste. Tutto quello che il cristiano fa, porgendo un aiuto economico a chi si trova nel bisogno, deve essere fatto in segreto, senza farlo sapere ai quattro canti della terra, ma presente a Dio che vede il pensiero occulto.

Qui Gesù insegna il perio che può esservi in rapporto con la vanagloria, che facilmente potrebbe apparire nella vita di chi pratica l’elemosina, specie se viene palesata e messa in risalto. Le opere di carità non vanno fatte per mettere in mostra le possibilità economiche che si dispongono e poi aspettarsi il plauso degli uomini bensì per venire in aiuto ad un vero bisogno secondo lo spirito dell’Evangelo e nella libertà cristiana.

La generosità è largamente documentata nella Bibbia, specie quando si vuole sapere l’effetto o la conseguenza di una simile azione. Basterà ricordare le parole di Gesù: Date e vi sarà dato per rendersi conto dell’importanza dell’ordine di Gesù. La generosità non viene soltanto in aiuto al bisogno, ma ritorna a chi la pratica con una abbondanza di misura senza pari (Luca 6:38).

A questo punto è bene precisare che tutte le opere di beneficenza che vengono compiute, devono avere come movente principale l’amore. Questo è quello che Paolo voleva dire quando scrisse:

E quando distribuissi tutte le mie fatà per nutrire i poveri, e quando dessi il mio corpo ad essere arso, se non ho amore, ciò niente mi giova (1 Corinzi 13:3).

Se questo elemento importante e fondamentale venisse a mancare nella vita di chi pratica la beneficenza, si potrebbe cadere nel vanto e nella vanagloria, e le stesse opere assistenziali perderebbero la loro importanza davanti a Dio, conoscitore dei sentimenti segreti del cuor dell’uomo.

Inoltre, le opere di carità, oltre a non avere come obbiettivo l’onore degli uomini, non possono essere invocate come azioni meritorie. La valutazione delle limosine ai fini di un’opera meritoria, è certamente lontana dallo spirito dell’Evangelo, anche se si può spiegare il calore cui la limosina è tenuta e quindi il vanto che può associarsi ad essa. Tenendo la semplicità dell’insegnamento di Gesù, la sua indiscussa importanza ai fini pratici e la sua attualità per ciò che concerne il comando stesso di Gesù, va ricordato ed insegnato ad osservarlo nell’identica maniera con la quale è stato proclamato.

10. UNA PRECISA DISPOSIZIONE PER QUANTO RIGUARDA LA PREGHIERA

E quando pregate, non siate come gli ipocriti; poiché amano di fare orazione stando in piè nelle sinagoghe e ai canti delle piazze per esser veduti dagli uomini. Io affermo in verità che codesto è il premio che ne hanno. Ma tu, quando preghi, entra nella tua cameretta, e serratone l’uscio fai orazione al Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo che vede il sentimento occulto, te ne darà la ricompensa. E nel pregare non usate soverchie dicerie come fanno i pagani, i quali pensano d’essere esauditi per la moltitudine delle loro parole. Non li rassomigliate dunque, poiché il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno, prima che gliele chiediate (Matteo 6:5-8).

In questa precisa disposizione riguardante la preghiera, è bene tenere in debito conto, almeno tre cose.

1) Bisogna evitare l’aspetto ipocrita. Come per le elemosine Cristo ammonì di non agire come gli ipocriti che fanno suonare la tromba, anche per la preghiera viene fatta la stessa raccomandazione, quando avesse la stessa finalità farsi vedere dagli uomini.

Non sono le posizioni esteriori del corpo quelle che contano davanti a Dio, bensì l’attitudine che si assume davanti a Lui. Gesù non proibì di pregare stando in piedi e nelle piazze. Se gli ipocriti venivano condannati, per quel loro modo di pregare, lo erano perché la loro preghiera, invece di essere rivolta a Dio, veniva fatta per attirare lo sguardo degli uomini. Anche la preghiera fatta in ginocchio, se ha la stessa finalità di farsi vedere dagli uomini, è altrettanto da rigettare.

2) Bisogna curare l’aspetto intimo della preghiera. La preghiera non è un esercizio che permette di comunicare o di avere relazione con chi è attorno a noi. Il fine della preghiera è comunicare con Dio; quindi, è indispensabile questa intimità di rapporto di comunione. Che il Signore additi la cameretta, come luogo di preghiera, ciò non vuole assolutamente ricordare che sono proibite invocazioni in comune. Se così fosse, Gesù fu il primo a non tenere conto della sua stessa norma, quando lo vediamo fuori della cameretta, in luoghi deserti (Marco 1:35, di preferenza, in luogo elevato (Luca 5:15), o sul monte (Marco 6:46; Luca 6:12); o addirittura in pubblico (Marco 6:41; Luca 11:1) o tra i discepoli (Giovanni 17):3).

Bisogna evitare un parlare vano. Gesù ammonisce a non usare soverchie dicerie come fanno i pagani quando pregano. La preghiera non è un’esibizione di parole su parole, pensando che più se ne dicono, meglio è e più sicuro ne è il risultato. Il Padre non esaudisce una preghiera per le molte parole che vengono dette; anzi Gesù precisa che prima che venga fatta menzione, il Padre sa le cose di cui abbiamo bisogno. Si narra di un fedele, che rivolgeva al Signore questa invocazione prolissa: O Dio grande, magnanimo, tremendo, glorioso, forte, temuto, potente, vigoroso, reale, degno di adorazione! Al che gli venne chiesto: Hai esaurito le tue lodi? A che servono? Non bastano queste tre: Dio grande, forte e tremendo? (Deuteronomio 10:17). Se non le avesse prescritte Mosè, non oseremmo neppure pronunciarle.

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Domenico34
00lunedì 8 agosto 2011 00:39
Gesù termina dire di non imitare il modo di pregare dei pagani. Questo va affermato che la preghiera che innalzerà il discepolo di Gesù al Padre, deve avere un’altra forma; non deve esprimersi in parole vane e superflue, e tanto meno con termini che vengono spesso ripetute, quasi all’infinito, come se non ci fossero altre preghiere e altre parole da pronunciare.

Anche se più tardi Gesù insegnerà il Padre nostro, questo non voleva dire che solo quelle parole devono essere menzionate nella preghiera, o non è consentito di usare altre espressioni. Il fatto che Paolo dica: Orando in ogni tempo, per lo Spirito, con ogni sorta di preghiere (Efesini 6:18), è una prova che il Padre nostro non deve essere considerato come una preghiera da recitare, bensì come modello a tutte le preghiere.

Che beneficio potrà ricavarne una persona che prega con le parole che altri hanno scritto, o recitare una preghiera liturgica, quando viene a mancare la partecipazione attiva che impegna la nostra mente, il nostro cuore e le nostre parole? Non è forse quella una preghiera formalistica e priva di ispirazione personale? E se questo modo di pregare è formalistico, non vi sembra ch’è un tipo di parlare vano, da essere classificato nella preghiera che fanno i pagani?

I discepoli di Gesù, devono soprattutto insegnare le cose che Cristo ha comandato di osservare. Essi non devono dimenticare che nel mondo ci sono tanti pagani che devono essere raggiunti messaggio di Cristo, ed è assurdo insegnare loro una preghiera o un modo di pregare, che i pagani già conoscono molto bene. Quando si insegna una preghiera, che è semplicemente una recita, non importa se le parole sono soavi e belle, piene di devozione e di entusiasmo, rispettose e dignitose, pure e riverenti; essa è sempre una recita, priva di un qualsiasi mordente, di una qualsiasi spontaneità, di una qualsiasi ispirazione e di un qualsiasi legame con le Scritture. I pagani hanno bisogno di essere convertiti a Cristo e al suo Evangelo, e un discepolo che ignora questa esigenza, non sarebbe degno di essere chiamato seguace di Gesù.

11. UNA PRECISA DISPOSIZIONE RIGUARDANTE IL DIGIUNO

E quando digiunate, non siate mesti d’aspetto come gli ipocriti; poiché essi si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. Io dichiaro in verità che codesto è il premio che ne hanno. Ma tu, quando digiuni, ungiti il capo e lavati la faccia, affinché non apparisca agli uomini che tu digiuni, ma al Padre tuo che è nel segreto; il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa (Matteo 6:16-18).

Per quanto riguarda il digiuno Gesù dà delle precise istruzioni per evitare che la pratica apparisca formalistica e priva di un qualsiasi valore religioso. Anche per questa pratica è lasciata ampia libertà alla persona che dovrà digiunare, senza peraltro obbligarla a sottostare a un ritualismo rigido e tradizionale, quale era questa pratica presso gli ebrei. Quando il discepolo di Gesù sentirà o si renderà conto di un partiare bisogno, e vuole praticare il digiuno, è libero di farlo, purché eviti quello che fanno gli ipocriti.

Anche qui, Gesù avverte i suoi che la forma esteriore ha la sua importanza, e quindi, deve essere curata e non seguire quell’apparenza ingannevole che usano manifestare gli ipocriti. L’aspetto di chi digiuna, non deve essere mesto ed abbattuto. La mestizia e l’abbattimento, sono segni esteriori che tengono presente soltanto l’elemento umano e far vedere agli uomini che si digiuna, ma non tengono presente la natura stessa del digiuno.

Un simile atteggiamento, giustamente definito ipocrita, non è grato al Signore, anche se si riscuote il plauso degli uomini. Trasfigurazione della faccia, mancanza di pulizia e scarsità di olio sul capo accentuano soltanto l’aspetto esterno e svuotano il contenuto del significato del digiuno, come pratica religiosa.

Se gli ipocriti, si comportano in questa maniera riguardante il digiuno, (e si badi bene che queste persone, non sono dei pagani, e tanto degli individui irreligiosi, ma addirittura Farise, Gesù non vuole che i suoi facciano le stesse cose. Perciò, dà loro dei precisi ordini ungiti il capo e lavati la faccia.

Il significato e il valore del digiuno non deve essere posto a proposito di quello che l’uomo vede, ma all’attenzione del Padre celeste. L’uomo ha bisogno degli elementi esterni per esprimere una propria valutazione, anche a volte può essere ingannato dall’apparenza, e il suo giudizio distorto in maniera tale da ribaltare la realtà.

Ma non c’è nessun perio che avvenga con Dio, perché Egli, nelle sue valutazioni e giudizi, non si basa su ciò che vede all’esterno bensì su ciò che vede nell’interno, valutando i motivi che hanno indotto la persona ad agire in tal modo. La morale che si ricava da questo insegnamento specifico del Maestro, è di estrema importanza, ignorarlo equivale a non fare alcuna distinzione, tra il visibile e l’invisibile, tra quello che cade sotto lo sguardo dell’uomo e quello che vede Dio, tra le valutazioni che fanno gli uomini e quelle che fa Dio. Il discepolo di Gesù nel mandato della sua missione, deve insegnare queste cose, e soprattutto che si osservi quello che Gesù ha comandato.

12. UNA PRECISA DISPOSIZIONE RIGUARDANTE I TESORI SULLA TERRA

Non vi fate tesori sulla terra, ove la tignola e la ruggine consumano, e dove i ladri sconficcano e rubano; ma fatevi tesori in cielo, ove né tignola né ruggine consumano, e dove i rapinatori non sconficcano né rubano. Perché dov’è il tuo tesoro, quivi sarà anche il tuo cuore (Matteo 6:19-21).

La faccenda di non farsi tesori sulla terra, non viene presentata sotto forma di un consiglio o di un suggerimento, nell’aspetto perentoria di un comando Non vi fate. Anche se la forma è negativa nel v. 19, viene ripetuta al v. 20 nella foggia positiva fatevi. Ci viene da chiedere perché mai Gesù diede questo divieto a non farsi tesori sulla terra ai suoi discepoli.

Voleva forse Gesù condannare in se e per se la ricchezza? Certamente no! Allora, perché questo comando? Chi accumula tesori sulla terra e chi si affatica senza alcuna posa, senza pensare ai sacrifici che affronta, alle privazioni cui a volte si sottopone e alle tante rinunzie, pur di arrivare allo scopo che si è prefisso.

Di solito, chi che si fa tesori sulla terra, vive la sua vita in una sola direzione: pensa solo al denaro e come accumularlo, a costo di qualsiasi cosa, anche ricorrendo alla più spietata disonestà. Per una persona che abbia una simile meta nella propria vita, non è facile che ci sia posto per Dio e per le cose sue. Di solito, si considera Dio e le cose sue come un perdere tempo, o peggio ancora, come un dissipare le proprie possibilità in ciò che è molto incerto. Di conseguenza, una persona che ch’è interessata a farsi tesori sulla terra, non ha tempo da dedicare a Dio e alla religione. Gli impegni che si assumono, che si contraggono, valgono di più di ogni altra cosa e devono avere la massima priorità e la massima attenzione. Di queste persone si può affermare che il loro dio è il denaro.

Gesù non mancherà di specificare con maggiori dettagli il perché di quella sua parola così drastica. Con ogni probabilità si sarà reso conto che i suoi discepoli non afferrarono appieno il senso della sua parola, e alla prima occasione che si presentò diede tutte le spiegazioni, così da non lasciare nessun dubbio sulla validità del suo precedente insegnamento. Davanti ad un giovane ricco che era pronto a fare qualunque cosa pur di ereditare la vita eterna, Gesù rispose: Vendi tutto ciò che tu hai, e dallo ai poveri (Marco 10:17,21).

Dopo che il ricco se ne andò tutto dolente per quell’ordine ricevuto, Gesù,

guardandosi attorno, disse ai suoi discepoli: Quanto malagevolmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio. E, allo sbigottimento dei suoi discepoli, Gesù precisò:
quant’è malagevole a coloro che si confidano nelle ricchezze, entrare nel regno di Dio (Marco 10:23,24).

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Domenico34
00martedì 9 agosto 2011 00:15
Se Gesù non avesse specificato l’argomento, con ogni probabilità la sua parola sarebbe stata capita come un netto rifiuto, per entrare nel regno di Dio, per chi hanno ricchezze. Ma, poiché, il Maestro ha giustamente precisato chi si confidano nelle ricchezze, allora risulterà chiaro che Gesù non condanna l’abbondanza, amenoché questa occupa il posto di Dio, in tal caso, può costituire un vero perio e un vero ostao per entrare nel regno di Dio.

Davide, in uno dei suoi salmi, ammonisce: Se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore (Salmo 62:10).

Suo figlio Salomone, gli fece eco, quando affermava: Chi si confida nelle ricchezze cadrà (Proverbi 11:28).

Paolo indirizza a Timoteo queste parole:
A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina che non siano d’animo altero, che non ripongano la loro speranza nell’incertezza delle ricchezze, ma in Dio, il quale ci somministra copiosamente ogni cosa perché ne godiamo; che facciano del bene, che siano ricchi in buone opere (1 Timoteo 6:17,18).

Dal momento che c’è perio per chi si fa tesori sulla terra, per le ragioni suesposte, è più che giustificato il detto di Gesù: Ma fatevi tesori in cielo. I tesori di questa terra possono essere rubati dai ladri, mentre quelli del cielo sono al sicuro, perché lì non ci sono ladri; tutto ciò ch’è rapina, non è conosciuto in quell’ambiente. I tesori sulla terra possono essere consumati dalla tignola e dalla ruggine, mentre in cielo non esistono né l’una né l’altra che possono consumare.

Tutto è chiarito e definito, quando Gesù affermò: perché dov’è il tuo cuore, quivi sarà il tuo cuore. Questa è una verità che non si può contraddire e i cristiani dovrebbero fare molta attenzione per sapere dov’è il loro cuore.

La parola di Gesù istruisce la persona intorno ai perii e nello stesso tempo ci dà una giusta risposta, soprattutto per il cielo, luogo al quale, ogni discepolo di Gesù dovrebbe continuamente pensare. Se la parola del Maestro è valida per la vita dei suoi discepoli di allora, lo è anche per chi oggi asteranno e riceveranno questa stessa meravigliosa e divina parola.

13. UNA PRECISA DISPOSIZIONE PER NON SERVIRE A DUE PADRONI

Niuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno ed amerà l’altro, o si atterrà all’uno e sprezzerà l’altro, Voi non potete servire a Dio ed a Mammona (Matteo 6:24).

L’affermazione di Gesù è precisa ed è anche vera, nello stesso tempo sotto ogni punto di vista. Anche se l’allusione dei due padroni fa riferimento alla condizione di un servo, che divideva il tempo di servizio con l’uno e con l’altro, non è concepibile attuarlo, per il semplice fatto che un padrone che compra un servo (e questa era l’usanza di allor, per il suo bisogno, non lo compra a metà, né per non essere completamente al suo completo servizio e neanche per non essere sempre disponibile a tutte le sue necessità.

Il volere pensare che un servo possa dividere il suo tempo, lavorando un giorno con un padrone e un’altra giornata con l’altro proprietario, rappresenta un’assurda supposizione, priva di un minimo di coerenza ai fini pratici. Qui non c’è da vedere l’alternarsi del servizio, perché in tal caso la supposizione fatta, potrebbe benissimo concretarsi e il servo potrebbe essere nell’occupazione dell’uno e dell’altro padrone.

Si deve pensare piuttosto che i due padroni esigano, nello steso tempo, il servizio del servo, e, questi, non potrà dividersi a metà. Dal momento che c’è questa esigenza, si impone una necessità di fare una decisione a chi si vuole servire. Elia, aveva perfettamente ragione quando parlando al popolo, disse loro: Se l’Eterno è Dio, seguitelo, se poi lo è Baal, seguite lui (1 Re 18:21). Il popolo non potrà contemporaneamente servire Dio e Baal; doveva fare una decisione ed arrivare ad una scelta. Era assurdo pensare che potevano dividere il loro tempo, metà per Dio e metà per Baal; deve decidere chi dei due seguire.

Gesù fa vedere al suo discepolo quanto sia importante prendere una decisione e lo mette davanti ad una precisa scelta: Voi non potete servire a Dio e a Mammona. Avete una scelta da fare e la vostra preferenza determinerà la vostra decisione. Vi avverto che non sarò io, e tanto meno gli altri a fare questo lavoro; la scelta e la decisione ha a che fare con voi stessi, trattandosi di un affare personale.

Anche voi, o miei discepoli, al pari di tutti gli altri, dovete scegliere e decidere a chi volete servire. Davanti a voi non ci sono tante alternative, ve ne é ne una sola: O Dio, o Mammona. Nessuno potrà contare sull’aiuto di un altro, trattandosi di affari personali.

Mammona, in ramaico, vuol dire ricchezza e il discepolo di Gesù deve sapere che questo padrone è molto esigente più di quanto si creda. Mammona è uno dei tanti padroni che vuole essere servito a pieno tempo, e quando l’uomo si renderà conto di questa sua esigenza, dovrà decide: Se amarlo o odiarlo. Nonostante tutto questo, si deve ricordare che si tratta qui di servire il denaro. Donde il problema: non è forse possibile di servirsi del denaro, senza servirlo? In se stesso il denaro è semplicemente un mezzo di azione, strumento di scambio di valori e di servizi.

Né l’Evangelo, né gli apostoli ne domandano la soppressione. Badiamo però a non minimizzare il perio: è facile immaginarsi di padroneggiare il denaro, e diventarne inavvertitamente schiavi. La maggior parte degli uomini s’illude quando pensa di poter dividere la media tra Dio e la cupidigia. Non è possibile, in maniera perentoria, che possano coabitare insieme l’amore del mondo e l’amore di Dio (Giacomo 4:4; 1 Giovanni 2:15).

14. UNA PRECISA DISPOSIZIONE PER LE SOLLECITUDINI DELLA VITA

Perciò vi dichiaro: Non siate con ansietà solleciti per la vita vostra di quel che mangerete e ouel che berrete; nè per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non racgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutrisce. Non siete voi assai da più di loro? E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura pure un cubito? E intorno al vestire, perché siate con ansietà sollecita? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano; eppure io affermo che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. Or se Iddio riveste in questa maniera l’erba dei campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà molto più voi, o gente di poca fede? Non siate dunque con ansietà sollecita, dicendo, che mangeremo? Che berremo? O di che ci vestiremo? Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno tutte queste cose. Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno (Matteo 6:25-34).

Non siate solleciti, può avere due significati: 1) Darsi cura attivamente per un oggetto 2) Preoccuparsi di qualche cosa. Di questi due significati, tradizionalmente è il secondo che viene riconosciuto nel nostro passo. Crediamo che Pietro intendeva così, quando scriveva:

Gettando su lui ogni vostra sollecitudine, perch’Egli ha cura di voi (1 Pietro 5:7).

Anche Paolo si associava a questa interpretazione, quando dice:
Non siate con ansietà solleciti di cosa alcuna; in ogni cosa siano le vostre richieste rese note a Dio in preghiera e supplicazione con azioni di grazie (Filippesi 4:6).

Non vediamo come si possa interpretare diversamente la parola di Gesù. Le sollecitudini hanno come mira: il mangiare, il bere e il vestimento, con riferimento al corpo, nelle sue manifestazioni della vita comune.

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Domenico34
00mercoledì 10 agosto 2011 00:17
Affinché rimanga impressa la sua parola nella mente e nel cuore dei suoi discepoli, Cristo afferma che la vita è più del nutrimento e il corpo più del vestito. Che cosa vuol significare con questa affermazione? Il discepolo prima del nutrimento e del vestito, deve pensare alla vita ch’è un dono inestimabile donatoci da Dio.

Se Dio ci ha fatto dono della vita, curandola e preservandola, questa esistenza si manifesta nel corpo, è impensabile che Egli non abbia cura di nutrire e vestire il nostro corpo. Stabilito questo come principio divino, Gesù passa a parlare degli uccelli del cielo, i quali pur non seminando, né mietendo, né raccogliendo in granai, vengono nutriti dal Padre celeste.

Anche se tutti possano osservare la vita degli uccelli, non tutti però sono disposti a credere che la loro sopravvivenza dipenda da un’azione specifica di Dio. I discepoli di Gesù però, non solo devono tenere presente questo, ma lo devono credere, dato che essi dovranno portare ai popoli la parola e l’insegnamento di Gesù Cristo.

Giustamente Gesù, conclude: Se il Padre vostro celeste prende cura degli uccelli del cielo per quanto riguarda il loro nutrimento, perché mai non dovrebbe fare lo stesso con voi, dato che siete assai da più di ?

Per quanto riguarda il vestimento, Cristo si serve dei gigli della campagna per affermare che, anche se non faticano e non filano, il loro vestimento è superiore a quello di gloria che Salomone ebbe ai suoi giorni. Se l’erba dei campi che oggi è e domani sarà gettata nel forno, viene rivestita da simili vestimenti (si badi che Gesù affermò ch’è Iddio che riveste in questa manier, non vestirà molto più voi? E come per dare più peso alla sua affermazione, Cristo aggiunge gente di poca fede.

Se Cristo ha dimostrato che per quanto riguarda il vestimento non bisogna essere preoccupati, perché il Padre celeste penserà per questo bisogno, come non sarà altrettanto vero per quanto riguarda il mangiare e il bere? A questo punto Gesù precisa che quelli che vengono assillati da queste smoderate preoccupazioni, (per quanto concerne il vestire, il mangiare e il ber, sono i pagani.

Allora è evidente dove vuole arrivare Gesù. Se i pagani, nella loro vita giornaliera, sono presi dalle ansietà, da non far loro vedere e comprendere l’intervento di Dio nell’esistenza e nel suo mantenimento, non così devono essere i discepoli del Cristo, che dovranno condurre i pagani alla conoscenza della verità e a Cristo, il Salvatore del mondo.

A questo punto si impone di necessità una precisazione: Volle forse Gesù insegnare al suo discepolo la pigrizia e l’inoperosità? Se dovessimo sostenere una simile interpretazione, ci troveremmo in contrasto con tutto l’insegnamento del N.T. che afferma: Chi non vuol lavorare non mangi (2 Tessalonicesi 3:10). Gesù e gli apostoli, non insegnarono mai il vagabondaggio, perché questo è in contrasto principio divino (cfr. Genesi 2:15).

Quello che Gesù voleva insegnare, era questo: al disopra delle vostre ordinarie occupazioni, che vi potranno tenere impegnati sul piano del lavoro, dovete tenere presente che non è la forza del vostro braccio che vi procura il vestimento e il nutrimento, anche se faticate duramente, ma il Padre vostro celeste. In precedenza Gesù aveva insegnato a pregare: dacci il nostro quotidiano.

Quando non si crede che il Padre celeste ha cura della nostra vita con tutte le sue svariate necessità, sia sul piano spirituale che su quello corporale e materiale, la persona può benissimo cadere sotto il peso delle ansietà che non gli permetteranno, non solo di sperimentare la fedeltà di Dio per quanto riguarda le sue promesse, ma neanche potrà riposare in mezzo ai tanti bisogni ai quali si va incontro ogni giorno. Gesù che vuole la serenità dello spirito e la tranquillità del corpo, esorta a non farsi prendere dalle ansietà, perché l’uomo con le sue sollecitudini, non potrà aggiungere alla sua statura pure un cubito.

15. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A NON GIUDICARE

Non giudicate, affinché non siate giudicati; perché giudizio quale giudicate, sarete giudicati; e con la misura che misurate, sarà misurata a voi. E perché guardi tu il bruso ch’è nell’occhio del tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nell’occhio tuo? Ovvero, come potrai dire al tuo fratello lascia ch’io ti tragga dall’occhio il bruso, mentre ecco la trave è nell’occhio tuo? Ipocrita, trai prima dall’occhio tuo la trave, e allora ci vedrai bene per trarre il bruso dall’occhio del tuo fratello (Matteo 7:1-5).

Non giudicate, e non sarete giudicati; non condannate, e non sarete condannati (Luca 6:37).

Che la parola del Maestro, circa il divieto di giudicare non debba essere intesa nel senso legalistico, appare abbastanza chiaro, specie quando si tengono presenti i seguenti passi biblici:

Non commettere iniquità, nel giudicare; non avrai riguardo alla persona del povero, né tributerai speciale onore alla persona del potente; ma giudicherai il tuo prossimo con giustizia (Levitico 19:15).

E in quel tempo detti quest’ordine ai vostri giudici astate le cause dei vostri fratelli, e giudicate con giustizia le questioni che uno può avere fratello o con lo straniero che sta da lui. Nei vostri giudizi non avrete riguardi personali; darete asto al pico come al grande; non temerete alcun uomo, poiché il giudizio appartiene a Dio (Deuteronomio 1:16,17).

Stabilisciti dei giudici e dei magistrati in tutte le città che l’Eterno, il tuo Dio, ti dà, tribù per tribù; ed essi giudicheranno il popolo con giusti giudizi (Deuteronomio 16:18).

Non giudicate secondo l’apparenza, ma giudicate con giusto giudizio (Giovanni 7:24).

Voi giudicate secondo la carne; io non giudico alcuno (Giovanni 8:15)
Perciò, o uomo, chiunque tu sii che giudichi, sei inescusabile; poiché nel giudicare gli altri, tu condanni tu stesso; perché tu che giudichi, fai le medesime cose
(Romani 2:1).

Quando dunque avete da giudicare di cose di questa vita, costituitene giudici quelli che sono i meno stimati nella chiesa (1 Corinzi 6:4).

Potremmo elencare altri testi, ma crediamo che questi siano sufficienti per giustificare la nostra affermazione.

Il termine giudicare, da un punto di vista prettamente linguistico, ha tanti di quei significati che si possono applicare ed appropriare a seconda di come si vuole spiegare la parola. Fra i tanti significati, bisogna individuare quale sia quello che meglio s’addice alla parola di Gesù. Non è certamente da preferire un’interpretazione che entri in contraddizione con un testo biblico; bisogna fare tutte le valutazioni per evitare la cosiddetta incoerenza. Dai testi che abbiamo citato, risulta abbastanza evidente, che il divieto a non giudicare, non può essere accettato significato di condannare. Ciò significherebbe non tenere conto del contesto delle parole di Gesù, con la specificazione che ne segue. Ma può benissimo essere accettato quello di: rimproverare, riprendere, richiamare al dovere, correggere (una persona, se stesso, la condotta propria o altrui.

Questo per citare solamente alcuni aspetti del significato che ha il termine giudicare. Una cosa è certissima: Gesù non vuole che si giudichi una persona nel senso di emanare una definitiva condanna, perché non è a questo che l’uomo è stato chiamato, trattandosi di qualcosa che compete a Dio.

Dal momento che ci viene vietato di giudicare, nel senso appena specificato sopra, è molto importante attenersi all’ordine di Gesù, sia per non compromettere la propria professione di fede, come anche per non andare incontro a spiacevoli situazioni che potrebbero inquinare la nostra tranquillità e il nostro benessere, e sia anche per non vedersi sedere sul banco degli imputati. Giudicare una persona nel senso di condannarla significa mettersi al posto di Dio che tutto sa molto bene e tutto conosce nei minimi partiari. La Bibbia non ci invita a seguire Dio nel sentiero della condanna, bensì in quello della compassione, della benignità, della pietà, dell’amore e della misericordia.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00giovedì 11 agosto 2011 00:20
16. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A NON DARE CIÒ CHE È SANTO AI CANI

Non date ciò ch’è santo ai cani e non gettate le vostre perle dinanzi ai porci, che talora non le calpestino coi piedi e rivolti contro a voi non vi sbranino (Matteo 7:6).

La prima osservazione che va fatta, riguarda i cani e i porci, per sapere a chi volesse alludere Gesù. È certo che Gesù non faceva riferimento ai due animali così specificatamente nominati, come se Egli volesse dare istruzione ai suoi discepoli circa la loro alimentazione.

Che il detto di Gesù va inteso nel senso letterale, ci sembra ovvio. Dal momento che non si tratta di aver a che fare con cani e porci, è interessante capire a chi voleva alludere Gesù, parlando di questi animali. Qualcuno ha affermato che i cani e i porci rappresentavano i Gentili e probabilmente il senso viene applicato ai rapporti con quelli che sono fuori della comunità cristiana [R. E. Nixon, Commentario Biblico, III, pag. 55].

Un altro ha detto: «Cani e porci significano i profani ed i sensuali. Il cane rappresenta la classe dei violenti e selvaggi avversari del Vangelo, e il porco, quella degli impuri e dei depravati [R. G. Stewart, L’evangelo secondo Matteo e Marco, pag. 72]. Infine, un altro ha detto, facendo riferimento alla (2 Piet. 2:21,22) che «L’associazione del cane, della troia, e del santo comandamento, di cui erano indegni, indicano anche il senso di questa parabola: non gettate il santo insegnamento, cioè la legge del Signore, che è santa, buona e giusta (Romani 7:12) in pasto a coloro che hanno dimostrato con ostinata chiarezza di non volerne sapere e di esserne indegni [G. Miegge, Il sermone sul monte, pag. 249].

Facendo un confronto con quello che la Scrittura ci dice a proposito dei cani e dei porci, specie in quei passi ove il senso figurativo è sicuro, possiamo meglio cogliere e capire il valore della disposizione di Cristo contenuta in Matteo 7:6.

Nel (Salmo 22), ch’è un salmo squisitamente messianico, il salmista paragona i suoi nemici ed avversari come cani. Poiché cani m’hanno circondato (v. 16). Nel (Salmo 59), Davide, parlando dei suoi nemici, dei suoi aggressori, degli operatori d’iniquità, degli uomini di sangue, li descrive con le seguenti parole: Tornano la sera, urlano come cani - e vanno attorno per la città (v. 6). Ai capi del popolo ebreo, secondo Isaia 56:10,11, viene rivolta una accusa, con queste parole: Sono cani ingordi, che non sanno cosa sia essere satolli.

Quando dagli scritti dell’A.T. ci spostiamo a quelli del N.T., e precisamente a Filippesi 3:2, Paolo fa una ferma raccomandazione, pensando soprattutto a tutti quelli che non facilitano la propagazione dell’Evangelo di Cristo, e così si esprime:

Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quei della mutilazione.

Quando si pensa che l’ultimo capitolo dell’Apocalisse, loca i cani con gli
stregoni, i fornicatori, gli omicidi, gl’idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna (Apocalisse 22:15),

con un perentorio fuori, allora appare in tutta la sua luce, la disposizione di Gesù a non dare ciò ch’è santo ai cani.

Per quanto riguarda i porci, la Scrittura dice:
Considerate come impuro il porco (Levitico 11:7). E,: Quelli che mangiano carne di porco saranno consumati (Isaia 66:17).

Se poi a questi due testi si aggiunge 2 Piet. 2:22, in cui è detto:

È avvenuto di loro quel che dice con verità il proverbio: Il cane è tornato al suo vomito, e la troia lavata è tornata a voltarsi nel fango (cfr. Proverbi 26:11).

Nelle parole di Gesù: Non date ciò ch’è santo ai cani, si è voluto vedere la forma rituale del sacerdozio levitico, secondo la quale, nessuno, tranne il sacerdote e la sua famiglia, a certe precise condizioni, poteva mangiare le cose sante, che poi era tutto quello che si offriva al Signore (cfr. Esodo 29:33; Levitico 2:3; 22:10-16; Numeri 18:8-19).

C’era una norma che addirittura vietava di portare nella casa del Signore il prezzo della vendita di un cane (Deuteronomio 23:18). Più tardi, la forma cultuale di questo detto di Gesù, suggerì di porlo in rapporto culto della Chiesa, e precisamente alla partecipazione dell’Eucaristia:

«Ma nessuno mangi o beva della vostra Eucaristia, se non quanti sono battezzati nel nome del Signore. Poiché a questo proposito il Signore ha detto: Non date ai cani ciò che è santo» [Didaché IX, 5. NOTA: Didaché (= dottrina. Scritto scoperto intorno al 1875, a carattere didascalico per l’istruzione dei catecumeni, redatto in greco nei primi del II secolo; è uno degli antichi testi cristiani. Noto anche come titolo di Dottrina degli apostoli].

Anche se le parole di (Matteo 7:6) possono suggerire un certo raccordo alla formula cultuale di cui sopra, non crediamo che le parole di Gesù, abbiano a che fare con quanto prescriveva la legge di Mosè. D’altra parte, la missione di Gesù, non aveva come obbiettivo di mettere in risalto tutto quello che veniva fatto ai tempi di Mosè. C’erano i capi religiosi che ne parlavano e ne spiegavano il valore. Gesù, secondo le parole di Marco 1:14,15, predicando, diceva:

Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: ravvedetevi e credete all’evangelo.

Era a questa buona novella che i discepoli di Cristo dovevano pensare e le sue parole dovevano essere intese in questa prospettiva. È chiaro allora, che quando parlava dei cani, si riferiva agli uomini; non alludeva ad una partiare classe esseri umani, individui di tutti i ceti che oppongono resistenza all’evangelo. Dato che l’Evangelo non è una cosa profana e vana, bisogna trattarlo come concetto santo, perché tale è e non deve essere dato ai cani, come se fosse un cibo adatto per loro.

A questo punto sorge una spontanea domanda come si fa ad individuare una persona con la caratteristica di un cane, per non darle l’evangelo e tutto ciò ch’è santo? La disposizione di Cristo, mirava forse a fare una certa selezione per mettere da parte qualcuno come persona indegna dell’evangelo? Per rispondere a queste due domande, bisogna fare una specificazione. Anzitutto, Cristo non è venuto sulla terra solo per alcuni, e non per alcuni soltanto immolò la sua vita e procurò loro la salvezza.

La missione di Cristo è universale perché appunto abbraccia tutta l’umanità, senza alcuna discriminazione di sorta. L’uomo non nasce vile, violento ed arrogante; non nasce con la predisposizione a rigettare tutto ciò che Dio gli offre nella sua bontà, anche se la sua natura, essendo figlio di Adamo è depravata e corrotta. È con l’esercizio della sua volontà che l’uomo determina certe cose nella sua vita.

L’uomo incredulo, non potrà mai vedere la gloria di Dio. Ma se ad un certo momento lascia la sua incredulità, quella stessa persona che prima, in conseguenza del suo scetticismo, aveva sbarrato la via alla manifestazione della gloria di Dio, ora si apre e dà la libertà alla grazia di Dio di manifestarsi.

Ci sono persone che sono ostili all’evangelo, un’una ostilità quasi sconfinata. Non è la grandezza dell’ostilità di un uomo che determina la sua esclusione dell’evangelo, ma il suo persistere in quella direzione.

Quando un uomo ostinato rifiuta di accettare l’evangelo e poi cessa di essere ostinato, in quel momento di cambiamento cessa di avere la caratteristica di un cane; ma se persevera ad oltranza in quella peculiarità, rimane una bestia, Gesù ordina di non dare ciò ch’è santo ai cani. Lo stesso discorso si può fare per le perle, da non gettarle davanti a porci. La perla è preziosa per chi l’apprezza, ma per il profano, è una cosa di nessun valore.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00venerdì 12 agosto 2011 01:13
17. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A CHIEDERE, CERCARE E PICCHIARE

Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve; chi cerca trova, e sarà aperto a chi picchia. E qual è l’uomo tra voi, il quale, se il figliolo gli chiede un pane gli dia una pietra? Oppure se gli chiede un pesce gli dia un serpente? Se dunque voi, che siete malvagi, sapete dar buoni doni ai vostri figlioli quanto più il Padre vostro ch’è nei cieli darà egli cose buone a coloro che gliele domandano! (Matteo 7:7-11).

È molto interessante notare che i termini del triplice ordine: Chiedete, cercate e picchiate, appaiono nel testo in questione nella forma presente. In greco, il presente attivo, non ha lo stesso significato del nostro presente italiano. Il presente greco, difficilmente viene tradotto alla lettera nel suo vero significato. Di solito le traduzioni lo rendono come il nostro presente italiano; di conseguenza, è reso più per comodità che per precisione di natura e di significato.

La caratteristica del presente attivo in greco, denota la continuità dell’azione [A questo proposito cifr. quello che dice il professore Bruno Corsani, Guida allo studio del greco del Nuovo Testamento, pag. 17]. Pertanto il chiedere, il cercare e il picchiare, non ha il significato di fare una sola volta la richiesta, ma di continuare fino a quando il richiedente riceve; il cercatore trova chi che picchia gli sarà aperto la porta. Capito bene il significato e il valore del presente attivo di (Matteo 7:7), il credente viene spronato ad una azione continuativa, con la logica conseguenza di avere quello che si chiede, quello che si cerca e di avere aperta la porta.

Non è tanto importante sapere quello che si deve chiedere, quello che bisogna cercare o come bussare alla porta. Se Gesù avesse voluto insegnare quello che l’esegeta generalmente cerca di vedere, l’avrebbe specificato, onde evitare di andare correndo qua e là nelle Scritture, per raccordare le parole di Gesù. La cosa essenziale di questo testo, non è soltanto costituita dal presente attivo, ma dalla certezza che si avrà quello che si chiede e si riceverà quello che si cerca.

La certezza non è basata su quello che l’individuo chiede e cerca, ma sulla promessa di Gesù. La fede del credente non deve girovagare in tutte le direzioni; deve ancorarsi sulla parola di Gesù, l’unica che può essere considerata valida per ogni tempo e per tutte le circostanze.

Quando una preghiera non è esaudita entro un certo tempo, non è un valido argomento affermare che la norma di Matteo 7:7 non è sempre efficace e per tutti i casi. Gesù in questo testo non ci insegna il tempo che si deve aspettare per ricevere quello che si chiede. Se ciò fosse vero l’elemento fede, non avrebbe più motivo di esistere e tanto meno di esplicarsi.

Si fa presto a dire, sol perché una richiesta ritarda nel suo adempimento, che quella cosa domandata, non è secondo la volontà di Dio, perciò non la dona. Il credente non dovrà andare avanti nel cammino della sua vita, pensando che forse questa preghiera Dio l’esaudirà, può darsi che il Signore mi darà quello che gli domando. Con simili attitudini, difficilmente si riceverà quello che si chiede o si troverà quello che si cerca.

Una preghiera basata sul chissà, può darsi, forse, è una preghiera che non riceverà mai l’esaudimento (Giacomo 1:6-8). Quanto è diversa, nel suo contenuto e nel suo valore, la parola di fede: Questo i so: che Dio è per me (Salmo 56:9).

La domanda che viene fatta circa quel padre cui il figlio chiede un pane e al posto della pagnotta gli viene data una pietra, oppure gli chiede un pesce al posto del pesce gli viene dato un serpente, non viene fatta perché in pratica esista questa cattiveria in chi dovrà dare. E anche quando esistesse tra gli uomini questa probabilità, non esiste affatto in Dio. D’altra parte non bisogna fare un parallelo tra il voi che siete malvagi e sapete dare buoni doni ai vostri figlioli, dall’atra parte, il Padre vostro che è nei cieli darà egli cose buone a coloro che gliele domandano, come se in Dio esistesse la possibilità di dare cose non buone.
L’insegnamento che Gesù volle dare, mira a rafforzare la promessa che egli fece. Se l’uomo chiamato malvagio nella sua natura, sa dare buoni doni, quanto più il Padre celeste, che è amore nella sua essenza, donerà cose buone a quelli che gliene faranno richiesta! La cosa che ci urge mettere in risalto è la necessità di domandare. A volte si sente dire: non c’è bisogno che io faccia richiesta di una qualsiasi cosa, perché Dio sa tutto e sa quali siano nostre necessità. Non si metterà in dubbio che Dio, in virtù della sua onniscienza, sappia ogni cosa.

Questo non vuol dire però che siamo dispensati dal chiedere; anzi al contrario, nostro chiedere, proclamiamo la nostra fede in Cristo, perché avendo creduto alle sue parole, facciamo esattamente quello che Egli ci ordina.

18. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A TRATTARE GLI UOMINI COME VORREMMO ESSERE TRATTATI DA LORO

Tutte le cose dunque che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro (Matteo 7:12; Luca 6:31).

Tutti gli studiosi e commentatori della Biabbia hanno definito (Matteo 7:12): La regola d’oro. Questa regola d’oro, viene meglio conosciuta e generalmente formulata nella sua forma negativa: Non fate agli altri. In questa forma i paralleli non mancano, si trovano dappertutto: tra i giudei e tra i pagani ivi compresi Isocrate e Confucio, da affermare che si tratti di una massima di sapienza universale. Ma per quanto riguarda la forma positiva, della regola d’oro, è risaputo che si trova soltanto nell’Evangelo, salvo qualche eccezione che poi non ha la vigorosa coesione del detto evangelico.

La norma evangelica non prescrive soltanto di non fare, ma di fare. Non c’è nessun elenco e nessuna specificazione che miri a stabilire una cosa a differenza di un’altra, o che accenni a una priorità. Tutto è lasciato alla discrezione del discepolo. È qcolui che il discepolo di Gesù deve essere onesto e coscienzioso con se stesso, perché le cose che vuole che gli uomini gli facciano, le deve fare a loro.

Questa non è una norma, come del resto le altre che Gesù ha dato, da lasciare sulla carta o pensare che altri la mettono in pratica. Se sei un discepolo di Gesù, è una norma che ti riguarda in tutte le manifestazioni della tua vita. È da notare che qui Gesù non presenta una regola da usare nell’ambito della fratellanza, come se si trattasse di una norma interna; si tratta invece degli uomini che vivono fuori del cerchio dei discepoli. Appare chiaro allora la differenza che emerge in questo testo, tra gli uomini, da una parte, e i discepoli dall’altra. La vita cristiana non bisogna viverla solamente nell’ambito cristiano; il vero cristiano, vivrà la sua esistenza in quell’ambiente che non lo è. Solo così i cristiani possono essere avvalorati nelle loro svariate manifestazioni, sia con la loro fede e sia modo di vivere in conformità all’insegnamento dell’evangelo, comportandosi come veri seguaci di Cristo.

Se oggi la fede cristiana viene messa in ridio e, peggio ancora, viene vituperata e schernita, ha dovuto al fatto che gli uomini hanno da rimproverare Gesù intorno a quello che Egli predicava, ma non vedono nelle azioni pratiche, una coerenza tra quello che Gesù insegnava e tra quello che i cristiani fanno.

Spesso si dice una cosa con le parole e se ne fa un’altra con le azioni. Solo se i discepoli di Gesù saranno pronti a mettere in pratica la regola d’oro, potranno aspettarsi, come risultato, la potente influenza che eserciterà la parola di Gesù sulla vita degli uomini. La parola di Gesù contenuta in Giovanni 13:13,17, ha la sua coerenza con quella di Matteo 7:12:

Voi mi chiamate Maestro e Signore; e dite bene, perché lo sono. Se sapete queste cose, siete beati se le fate.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00sabato 13 agosto 2011 00:18
19. UNA PRECISA DISPOSIZIONE AD ENTRARE PER LA PORTA STRETTA

Entrate per la porta stretta, poiché larga è l’apertura e spaziosa la via che mena alla perdizione, e molti sono quelli che entrano tra lei. Stretta invece è la porta ed angusta la via che mena alla vita, e pochi sono quelli che la trovano (Matteo 7:13,14; Luca 13:23,24).

Le due immagini della porta stretta e quella larga, e la via larga quella angusta, hanno un loro insegnamento nella vita pratica; hanno la loro importanza su tutto ciò che l’uomo deciderà di fare. Crediamo che l’esortazione di Gesù debba essere inquadrata e capita nel modo più coerente possibile ed anche in armonia con altri testi biblici che ci possono far valutare meglio la portata delle parole del Maestro.

I due temi della porta e della via, devono essere messi a confronto tra di loro, per sapere che cosa voleva insegnare Gesù ai suoi tempi e per i discepoli di allora come anche che cosa vuole insegnare ai giorni nostri per noi. Va rilevato anzitutto che Gesù sta parlando ai suoi discepoli; non è una parola rivolta alle folle o a chi, con una libera scelta e una decisione personale, stanno seguendo Gesù. È sempre il discepolo che deve conformarsi al maestro e non l’insegnante all’alunno. In altri termini, la parola di Gesù è la norma per la vita del discepolo, non importa se questi sia vivesse ai tempi in cui Cristo camminava sulla terra o se vive nel ventesimo seo. Gesù ha una sola norma da insegnare: la sua parola deve essere accettata nella stessa maniera e con la stessa intenzione con cui il divino Maestro l’ha data.

Anche se per la via si possono citare testi dell’A.T. come (Deuteronomio 30:19; Salmo 1:6 e Geremia 31: 8), nonché la Didaché 1.1,2. Didaché 5.1 riporta la spiegazione che si dava nel primo seo al tema della vita; non si hanno altrettanti passi per la porta, tranne il (Salmo 118:19), che potrebbe racchiudere le parole che Cristo stesso un giorno definì se stesso porta e via (Giovanni 10:7; 14:6). Questa sua definizione messa a confronto con (Matteo 7:13,14), rappresenta la chiave per capire che cosa voleva dire Gesù quando indicava ai suoi discepoli di entrare per la porta stretta.

Ha ragione Godet, quando paragona il regno messianico ad un palazzo nel quale non si entra da una porta ampia e magnifica, ma da una porticina stretta, appena visibile. Vorremmo far notare che Gesù non ordina di camminare sulla via stretta ed angusta, ma solamente di entrare per la porta stretta. La prima cosa che bisogna fare per entrare per la porta stretta, è liberarsi da tutti quegli ingombri che rendono impossibile l’entrata. Gesù un giorno disse:

È più facile a un cammello passare la cruna d’un ago, che ad un ricco entrare nel regno di Dio (Matteo 19:24).

Questo detto di Gesù va inquadrato nel contesto della ricchezza e come l’uomo si comporta con lei. Se l’uomo mette il cuore nella ricchezza, o come dice Marco: coloro che si confidano nelle ricchezze (Marco 10:24), diventerà problematica, per non dire impossibile, l’entrata nel regno di Dio. Ma se il ricco non si confida nella ricchezza e non pone il suo cuore in essa, facendone un dio, già si trova fuori dell’impossibilità, perché si è scaricato e si è snellito, e può entrare nel regno di Dio. Anche se R. Pesch, nel suo commento a (Marco 10:23,24,25) dice che

«Vanno respinti i tentativi di attenuare queste parole interpretando nel senso di o la cruna dell’ago come una porta bassa e stretta nelle mura della città»,

rimane valida l’affermazione di Gesù. È bene precisare, per amor di onestà, che Gesù in questo detto non afferma categoricamente l’esclusione del regno di Dio di tutti i ricchi. Se questo fosse vero, come interpretare la parola di Paolo:

A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina che non siano d’animo altero, che non ripongano la loro speranza nell’incertezza delle ricchezze, ma in Dio, il quale ci somministra copiosamente ogni cosa perché ne godiamo; che facciano del bene, che siano ricchi in buone opere, pronti a dare, a far parte dei loro beni? (1 Timoteo 6:17,18);

o come la parola di Davide: Se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore? (Salmo 62:10). È chiaro allora qual’è il senso della parola di Gesù a proposito del passaggio del cammello attraverso la cruna dell’ago.

Dato che Gesù ha ordinato di entrare per la porta stretta, già questa sua particolarità ci indica che l’uomo deve rinunziare a certe cose, per essere in condizione di entrare. Che questa porta stretta abbia nome croce, come dice Schniewnd, è significativo per il fatto che ci richiama all’attenzione un segno per essere un discepolo di Gesù (Luca 14:27).

Quando G. Tourn dice:

«La via larga è l’incredulità (Giovanni 3:18) che conduce al giudizio; la stretta è la fede (Giovanni 5:24). Inoltre, la porta stretta non significa perciò seguire una via di disciplina e di sforzi morali, ma significa accogliere la via di Cristo, la predicazione dell’Evangelo in tutta la sua interezza» [G. Tuorn, note a Matteo 7:13,14].

Che cosa si intende per via di Cristo?, che cosa si intende per predicazione dell’evangelo in tutta la sua interezza?. Non è forse la via di Cristo, quella che Egli stesso calcò e che invita il suo discepolo a seguire, via che in termini di praticità è costellata di rinunzie a se stesso per vivere nella completa volontà del Padre? Può il discepolo di Cristo calcare un altro sentiero che Cristo non ha calcato ed essere considerato agli occhi di Dio un seguace di Cristo? Si può negare in una qualsiasi rinuncia non è implicita l’idea della disciplina e dello sforzo? La porta stretta non è adatta alle persone che non vogliono rinunciare a niente, e non vogliono portare la croce. Si addice meglio la porta larga e la via spaziosa, nella quale non c’è bisogno di alcuna disciplina e di nessuno sforzo.

Che senso avrebbe la via angusta che mena alla vita, che non sono i molti che la trovano, in confronto con strada spaziosa che mena alla perdizione e molti sono che entrano tra lei, se non esistesse nessuna differenza, anche su un piano visibile? Non è nostra intenzione fare riferimento, in un modo assoluto, allo sforzo dell’uomo per acquistare la propria salvezza, come se la stessa, cessasse di essere un dono di Dio per la fede in Cristo. Ma non possiamo negare che Cristo, con il comando di entrare per la porta stretta, non faccia appello alla decisione e alla determinazione del discepolo, in modo che questi, esercitando una forma di disciplina e di sforzo nella propria vita, (allo scopo di rinunciare a tutti quegli elementi ingombrant, si renda più facile la sua entrata per la porta stretta e cammini così per la via angusta, la sola che mena alla vita.

20. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A FARE LA VOLONTA DEL PADRE CELESTE

Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli (Matteo 7:21)

Fare la volontà di Dio è la cosa indispensabile per aver diritto al regno dei cieli. In altre parole, non esiste altra alternativa per entrare nel cielo: la possibilità di fare la volontà del Padre celeste. Anche se la vita è piena di parole proclamanti la signoria di Cristo, ciò rimane solamente una pura e formalistica professione di fede, quando viene a mancare il fare la volontà di Dio.

Dal momento che fare la volontà del Padre celeste è così determinante, è estremamente necessario sapere esattamente che cosa significa. Non possiamo accontentarci delle mezze cose; dobbiamo andare in profondità, anche perché i vv. 22,23 sono talmente severi da mettere in crisi una fede superficiale, fatta di sole parole. A volte, considerare le manifestazioni miracolose nel contesto di (Matteo 7:21﷓23), ci potrebbe spingere a fare delle riflessioni per sapere se le suddette manifestazioni miracolose sono prodotte dall’intervento di Dio, oppure mirai di menzogna.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00domenica 14 agosto 2011 00:09
Il tutto sarà chiarito, quando esamineremo i sopraddetti versetti. Per ora cerchiamo di capire che significa: Fare la volontà del Padre celeste.

Dal momento che Gesù esortava seriamente i suoi discepoli a fare la volontà di Dio, meglio di Lui non c’è nessun’altro che avrebbe potuto dare le più ampie garanzie e mostrare con la propria vita, il significato effettivo della sua affermazione circa la volontà del Padre celeste.

Spesse volte Gesù, nel corso del suo ministero terreno affermò:
Il mio cibo è di fare la volontà di chi mi ha mandato e di compiere l’opera sua (Giovanni 4:34).

Davanti ai Giudei increduli, Gesù precisa:
Io non posso far nulla da me stesso; come odo, giudico; e il mio giudizio è giusto, perché cerco non la mia volontà, ma quella di chi mi ha mandato (Giovanni 5:30).

Per specificare la sua missione aggiunge:
Sono disceso dal cielo per fare non la mia volontà, ma quella di chi mi ha mandato (Giovanni 6:38).

E poi aggiunse:
Questa è la volontà di chi mi ha mandato: ch’io non perda neppure uno di tutti quelli ch’Egli m’ha dato (Giovanni 6:39).

Ed ancora:
Questa è la volontà del Padre mio; che chiunque contempla il Figliolo e crede in lui abbia vita eterna (Giovanni 6:40).

Nel giardino del Getsemani, Gesù pregò: Non la mia volontà, ma la tua sia fatta (Luca 22:42). Ai suoi discepoli ha insegnato a pregare e a dire: Sia fatta la tua volontà anche in terra (Matteo 6:10). Tutte queste parole messe insieme ci dicono chiaramente che cosa significa fare la volontà del Padre celeste. Fare la volontà di Dio implica la rinuncia a noi stessi per sottoporci a quello che Egli vuole.

Non sempre la volontà di Dio è in accordo con quella dell’uomo; spesse volte è addirittura in netto contrasto. Si potrà chiedere: Come faccio a sapere esattamente quello che Dio vuole da me, come prova della sua volontà? Crediamo che non è difficile rispondere a questa domanda, se si crede e si accetta la Bibbia come Parola di Dio. In questa suprema rivelazione di Dio all’uomo, ch’è appunto la Bibbia, Iddio ha detto tutto quello ch’Egli vuole dire all’uomo. Leggendo e studiando la Bibbia, l’uomo può sapere tutto sulla volontà di Dio, perché appunto Egli l’ha rivelato. Non abbiamo bisogno di un supplemento della rivelazione divina, come se nella Bibbia Dio non avesse detto tutto per quanto riguarda la sua volontà. Se astiamo le parole di Gesù e le accettiamo in noi come vera rivelazione divina (infatti Cristo venne per rivelarci il Padre e la sua volontà), possiamo esattamente sapere qual’è la volontà di Dio e che cosa significa.

Nelle parole di Giovanni 6:40, per dare un esempio, abbiamo in miniatura la rivelazione della volontà di Dio:

Questa è la volontà del Padre mio; che chiunque contempla il Figliolo e crede in lui abbia vita eterna.

Credere nel Figliolo significa accettare la sua parola, il suo insegnamento e tutto quello che Egli fece, specialmente la sua morte vicaria per la salvezza dell’umanità. Com’è possibile fare la volontà di Dio, quando non si accettano tutti gli insegnamenti che Cristo diede o se si accettano con qualche riserva, come se noi uomini, con il pretesto della nostra alta conoscenza abbiamo l’arbitrio di stabilire la parte di accettare e quella da respingere.

L’accettazione piena della parola di Gesù, implica necessariamente la nostra disponibilità a vivere la nostra vita come Dio vuole e richiede come prova di sincerità e di impegno, la completa rinuncia a tutto ciò che è umano, a tutto ciò che appartiene al piacere dell’uomo. In questo modo la vita non la viviamo più secondo il nostro piacere ed il nostro desiderio (anche se il godimento e la volontà sono componenti della personalità uman, ma secondo quello che Dio vuole, rivelatoci nel Suo Figliolo e nella Parola Scritta.

Non servirà quindi a nulla attribuire a Cristo i titoli divini (di Signor o invocazioni liturgiche (il Kyrios) se non si mette in pratica il suo insegnamento ch’è l’enunciazione della volontà del Padre.

Esaminando i vv. 22,23 di Matteo 7, possiamo vedere in che misura l’azione miracolosa deve essere considerata, specie se si tiene conto, come banco di prova, la volontà del Padre celeste. Davanti a questi due versetti che dicono:

Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetizzato in nome tuo, e in nome tuo cacciato demoni, e fatte in nome tuo molte opere potenti? E allora dichiarerò loro: Io non vi conobbi mai; dipartitevi da me, voi tutti operatori d’iniquità,

abbiamo sufficienti motivi per domandare:

1) L’azione miracolosa, di cui si fa esplicito riferimento, è veramente tale, cioè è concepita come manifestazione dell’intervento di Dio?

2) Il profetizzare e il fare opere potenti, sono soltanto espressioni verbali, oppure non c’è niente di vero, nel senso che non sono state fatte realmente? Per una adeguata e soddisfacente risposta a queste due domande, dobbiamo tenere presente l’insieme delle parole usate in questi due versi. Non è difficile notare tra le parole di chi diranno, e saranno molti, ad aver profetizzato, cacciato demoni e fatte opere potenti, non c’è niente per affermare, che quei molti, hanno affermato la verità; erano cioè veramente azioni miracolose.

Gesù nella sua risposta, anziché usare la frase: o risponderò in quel giorno, preferisce usare un’altra forma dicendo: Io dichiaro ch’è più di un semplice sì o no, per confermare o smentire, non lascia nessun dubbio che tutto è stato fatto realmente ed esattamente com’è stato detto. Una volta che si accetta questo dato di fatto, va visto che le cose sono state fatte nel nome di Gesù), che in quel profetizzare, in quel cacciare i demoni e fare potenti opere ci sia stato l’intervento di Dio, altrimenti non sarebbe stato possibile fare quelle cose.

Anche se nella Bibbia esiste un falso profetizzare (e la falsità esclude l’intervento di Dio), non è il caso in questo testo di parlare in questa maniera, altrimenti Gesù l’avrebbe detto chiaramente. Non si può neanche accettare come altra alternativa che si tratta di persone di fuori, che si servono abusivamente del nome di Cristo, (cfr. il caso di Simon Mago, (Atti 8:18,24), e i sette figli di Sceva, (Atti 19:13-16).

Questa possibilità viene smentita dal fatto che le persone di cui sopra, non agirono, per fare i mirai, nel nome di Gesù e con l’autorità di Dio, bensì per il potere che dava loro il demonio. Il fatto che i demoni rispondono al tentativo che viene fatto nel nome di Gesù che Paolo predica: Gesù lo conosco, e Paolo so chi è; ma voi chi siete?, è una prova che non è possibile falsificare, senza che i demoni stessi non riconoscano l’impostura. Quando poi pensiamo alle parole di Gesù, a proposito di un tale che cacciava i demoni nel suo nome e non lo seguiva:

Non v’è alcuno che faccia qualche opera potente nel mio nome, e che subito dopo possa dir male di me. Poiché chi non è contro a noi è per noi (Matteo 9:38,40).

Che il fare opere potenti nel suo nome, implichi un legame con lui, è chiaramente affermato in questo testo. D’altra parte, non è possibile che la potenza e l’autorità del nome di Gesù si manifestino a persone che non hanno niente a che vedere con Lui. Qui ci troviamo davanti a persone che con l’autorità del nome di Gesù, compiono quelle azioni miracolose. Che queste persone debbano essere cercate nel numero dei seguaci di Gesù, non c’è nessun dubbio.

Ecco allora la domanda inquietante com’è possibile che simili persone, dotate del potere miracoloso, Cristo li chiami: Operatori d’iniquità?

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Domenico34
00lunedì 15 agosto 2011 00:18
Con tutto il profetizzare che avranno fatto nel nome di Gesù e con tutte le opere potenti che avranno fatto nel suo nome, non c’è posto per loro nel regno dei cieli; saranno perentoriamente escluse dal cielo. Com’è possibile ciò? C’è una sola risposta a questo inquietante interrogativo: È che, chi avranno profetizzato, cacciato demoni e fatte opere potenti nel nome di Gesù, non hanno fatto appieno la volontà del Padre celeste, la sola valida per entrare nel cielo.

Si ribatterà: È mai possibile che una persona del tipo di Matteo 7:21, non faccia la volontà di Dio e sia stata usata per compiere opere miracolose? Il tutto diventa chiaro quando si pensa all’apostolo Paolo. Quest’uomo, con tutto il suo attivo di fatiche e successi missionari, può dire di se stesso:

Io quindi corro, ma non in modo incerto; lotto al pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi, tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, che talora, dopo aver predicato agli altri, io stesso non sia riprovato (1 Corinzi 9:26,27).

Quando il profetizzare, il cacciare demoni e l’operare opere potenti, non vengono fatte in vista e per amore (1 Corinzi 13), tutto diventa privo di significato e di vero valore. Questo severo monito, ha un solo obbiettivo: far vedere all’uomo qual’è la sola cosa importante ed indispensabile che apre la porta del cielo, senza nessuna diffità e che dà pieni diritti di entrare: Fare la volontà del Padre celeste. Se il profetizzare e compiere azioni miracolose non hanno come mira la suprema volontà di Dio, ch’è rinuncia a noi stessi ed accettazione incondizionata di quello che Egli vuole da noi, ciò sarà un correre in vano, un battere l’aria, un dare agli altri ed essere riprovato.

La serietà e la fermezza della parola di Gesù dovrebbe portarci ad una seria e profonda riflessione e portarci e chiedere: Sto vivendo solo per me stesso? Le cose che faccio, le compio in accordo con quello che Dio vuole, con quello che Egli approva, o è soltanto una pura e formalistica professione di fede avendo come mira il plauso e il beneplacito degli uomini? Sto dedicando la mia vita per il bene degli altri o vivo solamente pensando a me stesso?

Solo se ci proponiamo sinceramente e ci impegniamo seriamente a vivere la nostra vita cristiana in accordo e nell’adempimento della parola di Gesù, saremo sulla buona strada della volontà di Dio. Quando poi avremo terminato il nostro corso su questa terra, troveremo la porta del cielo spalancata e sentiremo una voce che ci dirà:

Entra mio fedele servitore... nella gioia del tuo Signore (Matteo 25:21).

21. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A PREGARE IL PADRE CHE SPINGA DEGLI OPERAI

Ben è la messe grande, ma gli operai sono pochi . Pregate dunque il Signore della messe che spinga degli operai nella sua messe (Matteo 9:37,38; Luca 10:2).

La richiesta di preghiera di cui parla il nostro testo, oltre ad essere un’invocazione specifica, ci permette di valutare l’importanza che Gesù dà alla preghiera e il valore che hanno gli operai davanti agli occhi di Dio. È in una dimensione divina che Gesù vuole condurre i suoi discepoli, affinché imparino, non solo a saper pregare come si conviene., ma anche e soprattutto imparino a conoscere la necessità che c'è nella gran messe. Che il campo di lavoro, secondo questo detto di Gesù, sia grande, vale a dire c'è tanta possibilità di lavorare per molti, appare evidente. Quest'enorme possibilità soprattutto è chiara per coloro i quali hanno la volontà e la disponibilità di lavorare in questo campo. Qui non si tratta di considerare la messe come

«l'insieme delle piante e dei cereali (e, in partiare modo, il frumento) che crescono in un'estensione di terreno tivato, considerati nelle varie fasi del loro sviluppo; si deve piuttosto pensare alla maturazione, al tempo della mietitura, alla stagione della racta».

Il termine greco adoperato nel testo di Matteo è therismos [Per la storia del concetto F. Hauck, GLNT, (Grande lessico del Nuovo Testamento), Vol. IV, 497-500] che significa appunto: “Raccogliere i prodotti dell'estate, falciare, mietere”.

È questo il lavoro specifico del nostro testo che sta esaminando. Anche se non c'è varietà di lavoro, c'è però l'abbondanza che richiede tanti operai. Si potrebbe chiedere perché mai Gesù ordina ai suoi discepoli di pregare che il padrone della messe spinga degli operai nel suo campo, e non lo fa per coloro i quali sono e dovranno essere impegnati a spargere il seme. Si potrebbe forse avere una mietitura senza semina? Il lavoro del seminatore, è forse meno importante da quello di chi raccoglie? Assolutamente no!

Anche se il seminatore quando porta e sparge il seme, va piangendo (Salmo 126:5,6). Se Gesù ordina di pregare che ci siano degli operai per raccogliere i prodotti dell'estate, non è tanto per ignorare o sottovalutare il lavoro che (probabilmente viene fatto da altr per ciò che concerne la semina, quanto per il rischio che c'è di perdere il racto per mancanza di operai. Appare abbastanza chiaro dalle parole che Gesù pronunciò in altra circostanza, quando affermò:

Il mietitore riceve premio e raccoglie frutto per la vita eterna, affinché il seminatore e il falciatore si rallegrino assieme. Poiché in questo è vero il detto: l'uno semina e l'altro miete. Io vi ho mandato a mietere quello intorno a cui non avete faticato; altri hanno faticato, e voi siete entrati nella loro fatica (Giovanni 4:36-38).

Gli esegeti fanno oggetto di dettagliate discussioni per individuare, nelle varie parole di questo testo, quello che Gesù voleva dire o a chi si riferiva per il seminatore e il mietitore. Non si mette in dubbio che Gesù, secondo la famosa parabola del seminatore, sia Egli stesso il gran seminatore. Ma il volere restringere, in maniera quasi dogmatica, che il mietitore, del v. 36 sia Gesù Cristo stesso, significa negare che il testo possa riferirsi anche ad un qualsiasi operaio che il padrone della messe manderà.

«Anche se le parole del v. 38: io vi ho mandato a mietere che immancabilmente sono riferite ai discepoli, contribuisce ad estendere il significato di mietitore ad altri, oltre che a Gesù e al Padre. Il volere stabilire che chi ha faticato, siano solamente il Padre e Gesù, e non vedere in quella frase un qualsiasi lavoro missionario (anche quello preparatorio, che in questo caso fu svolto da Mosè e dai profet significa ignorare il principio spirituale che Gesù ha voluto insegnare in questa circostanza, cioè che il mietitore merita una ricompensa, ma nello stesso tempo avverte che nessun falciatore può raccogliere il frutto indipendentemente dal seminatore» [D. Guthrie, Commentario Biblico, III, pag. 20].

Se la parola alloi = Altri, significa solamente il Padre e Gesù, ci si domanda perché mai Gesù non l'abbia specificarlo. Ma se la frase include anche tutti chi ha svolto un qualsiasi lavoro (anche quello preparatorio) direttamente ed indirettamente, allora appare chiaro il valore dell'opera missionaria nella quale vengono coinvolti tanti [R. Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni, I, pagg. 664-670].

Ritornando al testo di (Matteo 9:37,38), ci preme mettere in risalto alcune cose.

1) Gesù rivolge la sua parola di comando di pregate ai suoi discepoli, perché sono gli unici che possono capire la sua definizione dal momento che Egli ha voluto onorarli e farli partecipi del suo lavoro missionario. Il discepolo è chi si è messo, volontariamente a seguire il maestro. Egli, rinunciando ai suoi propri interessi, ha scelto di occuparsi dei compensi del suo maestro. Non importa la posizione che occupa il discepolo di Gesù in una qualsiasi Comunità; se si è messo a seguire Gesù, è diventato un suo seguace, e come tale, farà bene ad accogliere la parola di Gesù, quindi, a pregare il padrone della messe.

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Domenico34
00martedì 16 agosto 2011 00:16
Non ha nessun'importanza stabilire se il padrone della messe è Gesù Cristo stesso o il Padre. L'uno e l'altro, hanno la fatà di decidere e di mandare operai (Giovanni 17:18). Se il mandare operai è fatà del padrone della messe, perché mai il discepolo di Gesù dovrebbe pregare? È forse con la preghiera del discepolo che il Signore manderà gli operai? Notiamo che Gesù non ha detto per quali operai il discepolo deve pregare. Se Gesù avesse detto ciò, equivarrebbe a mettere il discepolo in una posizione di arbitrio e il destino degli operai diventerebbe una sua prerogativa. Chi conosce gli operai è e rimane sempre Dio, il qual è il Sovrano e l'Assoluto. Ciò nonostante, Gesù vuole coinvolgere i suoi discepoli in questo piano divino, e ciò lo fa ordinando loro di pregare.

Quando il discepolo di Gesù comincerà a pregare, già l'attitudine che assume, denota che ha preso un impegno per la causa del suo Signore. Gesù vuole un simile impegno dai suoi, perché solo in questa maniera, sapranno valutare l'importanza di un lavoro missionario, svolto alla sola gloria di Dio. Inoltre, pregare si partecipa attivamente al piano divino, ch'è quello di raccogliere (Efesini 1:10), senza fare perdita di nessuno (Giovanni 18:9). Il raccogliere, inoltre, non viene considerato solamente sotto il profilo della totalità, ma anche dal punto di vista individuale. Non si guarderà una persona e non la si valuterà nel contesto delle altre, ma principalmente per quello che è agli occhi di Dio. Una sola anima, vale più del mondo intero (Matteo 16:26). Nel pregare il padrone della messe che spinga degli operai nella sua messe, il discepolo non solo si infervora nel suo spirito, (Romani 12:11), ma lo renderà più efficace nel servizio del suo Signore, che non vuole che il racto venga perduto.

2) Il termine greco ekbalē, usato in Matteo 9:38, significa:
«Gettar fuori, fare uscire, inviare» [F. Hauck, GLNT, (Grande Lessico del Nuovo Testamento), Vol. II, . 35-40].

Davanti al significato che ha il termine in questione, appare evidente cosa voleva significare Gesù nell'usare quella parola. Non c'è soltanto l'azione gentile di inviare, mandare, ma una forza quasi violenta che agisce nella vita dell'operaio. Perché mai questo? Solo quando si capisce bene il valore del lavoro che svolge il mietitore, nei confronti della dura attività di chi semina, si può giustificare quest'azione violenta, di gettar fuori, fare uscire del padrone della messe. In altre parole, il risultato del lungo ed estenuante lavoro di chi porta la semenza e la sparge, dipende dal lavoro del mietitore. Se viene a mancare il mietitore, il racto andrà perduto e vana risulterà ogni fatica anche la più impegnativa in fase di preparazione e di sviluppo. Come abbiamo detto sopra, qui non si tratta di stabilire se il lavoro del mietitore sia più importante di quello del seminatore; l'uno e l'altro sono importanti, anche se la loro attività viene fatta separatamente, ma per quanto riguarda il rallegrarsi nel giorno della racta, essi gioiscono assieme (Giovanni 4: 6).

3) Il termine ergatas, il cui significato è: Lavoratore, operaio, contadino, pastore, non deve essere considerato come una qualifica di un comune manuale. Si deve piuttosto mettere in risalto il valore aggettivale che il termine ha, cioè: laborioso, attivo. In questo caso non abbiamo a che fare con comuni operai, ma con dei lavoratori. La differenza che vi è tra questi due termini di operaio e lavoratore, viene maggiormente sviluppata quando ci spostiamo sul campo della manodopera. Non si può negare che in questo campo ci sono tantissimi operai che non vogliono lavorare. Ciò non dipende dalla mancanza di qualifica, ma dall'insufficienza della loro volontà con riferimento al lavoro.

Chiarito questo partiare, la parola di Gesù acquista più significato in quanto ci fa vedere chiaramente a che cosa pensava Gesù quando ordinò ai suoi discepoli di pregare il padrone della messe. La gran messe, ha bisogno di lavoratori intenzionati a raccogliere, in questo specifico campo di lavoro. Dio non sa cosa fare di comuni operai che non vogliono lavorare; Egli vuole e fa uscire, invia lavoratori nella sua messe. Dal momento che è il padrone della messe che spinge lavoratori nella sua mietitura del grano, gli stessi vengono, non solo scelti, ma selezionati da lui stesso. Non si richiede agli operai una partiare preparazione tecnica, ma la sola volontà e l'impegno a lavorare.

22. UNA PRECISA DISPOSIZIONE PER L'OPERA MISSIONARIA

E andando, predicate e dite: il regno dei cieli è vicino. Sanate gli infermi, risuscitate i morti, mondate i lebbrosi, cacciate i demoni; gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non fate provvisione né d'oro, né d'argento, né di rame nelle vostre cinture, né di sacca da viaggio, né di due tuniche, né di calzari, né di bastone, perché l'operaio è degno del suo nutrimento (Matteo 10:7-10; Marco 6:7-13; Luca 9:1-6).

La prima cosa che bisogna seriamente considerare è il mandato missionario. Il mandato missionario può essere considerato come una pietra fondamentale sulla quale viene costruito tutto l'edificio. Tutti e tre gli evangelisti hanno cura di specificare che gli apostoli, in questa loro missione, furono mandati da Gesù Cristo. Gesù, in questa parte del suo ministero, agisce come uno che è consapevole della sua autorità. L'autorità di Cristo, infatti, viene presentata come Suprema e Divina. In virtù di questo suo agire, si può giustamente considerare il Cristo come il Direttore Generale di tutte le missioni. È Lui che ordina e le prescrizioni inerenti a questo lavoro, e i mandati, faranno bene di prestare attenzione ad ogni sua direttiva, anche per quegli aspetti che a volte vengono considerati insignificanti e marginali.

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Domenico34
00mercoledì 17 agosto 2011 00:12
Niente è insignificante in tutto ciò che Gesù dice ai suoi discepoli, se viene giustamente interpretato. Anche se il nostro testo parla specificatamente della missione dei dodici apostoli, ciò non vuol affermare che la stessa non possa essere presa come modello per tutti gli altri incarichi che vengono svolte per la stessa causa. Anticamente il profeta Isaia metteva in risalto il valore di un'opera missionaria, con queste parole:

Quanto son belli, sui monti, i piedi del messaggero di buone novelle, che annunzia la pace, ch'è araldo di notizie liete, che annunzia la salvezza, che dice a Sion: Il tuo Dio regna (Isaia 52:7).

A questo testo faceva eco l'apostolo Paolo, quando chiedeva:
Come dunque invocheranno ui nel quale non ha creduto? E come crederanno in ui del quale non hanno udito parlare? E come udiranno, se non v'è chi predica? Come predicheranno se non sono mandati? (Romani 10:14,15).

Le quattro domande formulate, hanno una dipendenza l'una dall'altra, che non è possibile ignorare. Non si può invoca il Signore per essere salvati se non si crede in chi si invoca. Non si può credere, se non si asti; non si può astare se manca il predicatore e non si potrà predicare se non c'è il mandato. Tutto viene messo in ordine, per dare peso e valore al mandato. Che qui non si tratta di un mandato umano, bensì divino, appare abbastanza specificato, soprattutto quando il tutto si svolge per la salvezza di un'anima. Sarà possibile valutare la portata teologica delle quattro domande, senza mettere in debito risalto il comando divino.

Quello che dà valore e peso ad una qualsiasi attività missionaria, non è tanto l'abilità del missionario, quanto l'autorità del mandato divino. Ai giorni nostri non si può ignorare che si dia più importanza alla preparazione accademica, agli attestati sastici, anziché al mandato divino. Con ciò non vogliamo assolutamente affermare che la preparazione accademica non sia importante o che il missionario, quando parla, non debba sapere quello che dice, o peggio ancora che debba ripudiare una qualsiasi preparazione sastica, come inutile e nociva. È il mandato divino che abilita al ministero, e la preparazione sastica senza l'incarico divino, diventa un facile motivo d'innalzamento e di vanagloria. Ma quando alla preparazione accademica si associa il mandato divino, lo stesso allestimento sastico, non solo non sarà motivo di vanagloria e di grandezza, ma contribuirà all'espletamento del ministero nella dimensione voluta da Dio.

In altre parole, non è affatto vero che tutti gli accademici abbiano il mandato divino, sol perché hanno un attestato comprovante la loro preparazione. Qui non si tratta di stabilire se l'idoneità va considerata in base ad un certificato sastico, si tratta invece di vedere se c'è il mandato divino, che dia valore ed importanza all'attività missionaria. Anche se leggiamo parole come queste:

Essi dunque, mandati dallo Spirito Santo scesero a Seleucia (Atti 13: 4),
o:
E lo Spirito disse a Filippo: Accostati, e raggiungi codesto carro (Atti 8:29), si tratta sempre di un mandato e di un ordine divino.

In base a queste considerazioni, si hanno buoni motivi per chiedere se un mandato divino ha dei segni visibili che l'autenticano. Una persona che dovesse agire con il pretesto di essere stato mandato a compiere una determinata missione, senza esibire le sue credenziali, rischierebbe di non essere accettata e il suo mandato sarebbe considerato come un'opera fasulla. A chi Dio manda, Egli dà anche le sue credenziali, in modo che il mandato divino, non solo sia accettato, ma favorito nel suo svolgimento. Non è possibile accettare questa spiegazione per quanto riguarda gli apostoli, e negarla per i discepoli del ventesimo seo.

La missione degli apostoli, anche se si considera unica per quanto riguarda il loro ufficio, non è tale per quanto riguarda l'opera del ministero, inteso come continuazione dell'attività del Signore. Gli apostoli compierono la loro missione al loro tempo e con riferimento al loro partiare ufficio; i discepoli d'oggi, eseguono il loro mandato, con allusione a questo periodo. Ma gli uni e gli altri, vengono avvalorati nel loro lavoro, in funzione del mandato divino che li ha chiamati in quest'opera missionaria. Il sanare gli infermi, risuscitate i morti, mondare i lebbrosi e, cacciate i demoni, costituiva le credenziali per gli apostoli nell'espletamento della loro missione.

Il tempo della missione della Chiesa, non si è esaurito con l'attività apostolica, e tanto meno le manifestazioni miracolose devono intendersi un'esclusiva degli apostoli, all'infuori dei quali non è più possibile vedere le stesse cose. Se la missione della Chiesa continua ancora nel ventesimo seo, con la stessa finalità di quella del primo seo, perché Gesù, ch'è lo stesso: Ieri, oggi e in eterno (Eb 13:8), non dovrebbe Egli dare le stesse credenziali ai discepoli di oggi? C'è forse cambiamento o annullamento nei piani divini per quanto riguarda l'opera missionaria? Si è forse esaurita l'opera missionaria? È venuto meno il potere miracoloso di Dio? O la generazione d'oggi, non ha più bisogno del soprannaturale?

Quant'altro si potrebbe chiedere, trova la risposta in quell'unica e semplice parola: Gesù Cristo è lo stesso: Ieri, oggi e in eterno. Se i segni del miracoloso, non sono più evidenti, nella stessa maniera come lo furono ai tempi degli apostoli, non è perché Gesù sia cambiato, o che il suo potere si sia estinto, ma è prova ch'è venuto meno il divino nel mandato.

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Domenico34
00giovedì 18 agosto 2011 00:08
Sembrerebbe un paradosso venire fuori con queste affermazioni in un tempo in cui si intraprendono le più svariate iniziative, si svolgono le più svariate attività e si compiono le più ardite imprese. Sì, sembrerebbe strano, ma non lo è se si considera che le tante cose che si fanno nel nome del Signore, non vengono fatte con l'autorità di un mandato divino, ma probabilmente con l'entusiasmo della vanagloria umana. Dio dice che Egli onora quelli che l'onorano (1 Samuele 2:30), e questo suo principio non è venuto mai meno e mai sarà annullato. Viviamo in tempi in cui il miracoloso, non solo viene criticato, ma addirittura scambiato come manifestazione satanica. È strano a dirlo, ciò non si manifesta in un mondo ateo ma in un mondo chiamato cristiano, ove quasi tutte le manifestazioni miracolose vengono valutate e misurate raziocinio umano.

Non fate provvisione né d'oro, né d'argento, né di rame nelle vostre cinture, né di sacca da viaggio, né di due tuniche, né di calzari, né di bastone, perché l'operaio è degno del suo nutrimento (Matteo 10:9,10).

Marco e Luca al posto del rame hanno denaro, perché era appunto il contante che veniva messo nella cintura. È impensabile, nel ventesimo seo, un simile ordine, e si può domandare se le parole della disposizione di Gesù, devono essere prese in considerazione, cioè se il missionario non debba pensare al suo fabbisogno per le necessità della vita.

Gesù, con queste sue parole, non ha voluto insegnare che il missionario non deve avere tutto ciò che è necessario per la sua missione. Egli ha voluto soltanto sottolineare, con la sua affermazione, che l'operaio è degno del suo nutrimento, che il missionario non deve più pensare ai bisogni, come al mangiare e al vestire, ma piuttosto alla sua missione alla qual è stato chiamato. In altre parole, Gesù ha voluto ammonire i suoi discepoli, che non bisogna pensare al cosiddetto rifornimento, per avere assicurato il domani, perché ciò non entra nella logica di una persona e di una missione che dipende da Dio. Il divino Signore, ha tutto sotto controllo.

Quando il missionario vuole sapere, prima di iniziare la sua missione, in che misura sarà il suo salario, o che un'organizzazione missionaria non manda un missionario, se prima non c'è in cassa quanto si è preventivato per quella missione, è qcolui che si rivela l'infondatezza di quell'approvvigionamento, di cui parla specificatamente Gesù.

Se un missionario (non importa che tipo di missione svolge, se in pico o in grand, che deve portare agli uomini la parola di Dio, la parola della fede, ha lui stesso dei dubbi, circa il suo sostentamento, che tipo d'insegnamento porterà agli uomini, e su che cosa inviterà ad aver fede? Un missionario che dovesse manifestare un simile atteggiamento, rivelerebbe non solo la sua mancanza di fede, ma metterebbe in seria diffità il suo mandato, se questo è venuto veramente da Dio o se è stato invece affidato da un uomo. Parlare che Dio prende cura dei nostri bisogni, non solo quelli spirituali, ma anche quelli materiali, è la cosa più semplice e più facile a dire, ma non lo è altrettanto sul piano pratico.

Gesù, per il suo discepolo che Egli manda, ha previsto un'assistenza generale per tutte le evenienze che andrà incontro. Bisogna credere che la parola di Gesù, sia stabile in eterno. Quindi, niente paura; niente apprensioni, niente sollecitudini; tutto è sotto il controllo del divino direttore, e quando sembra che la situazione peggiora, interviene lo Spirito Santo, per prendere le difese (Matteo 10:20).

Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Anticamente, l'Eterno, per mezzo d'Isaia, aveva rivolto quest'invito a tutti i popoli:

O voi tutti che siete assetati, venite alle acque, e voi che non avete denaro venite... comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte (Isaia 55:1).

Tutti i beni della grazia, Dio li offre e li dona gratuitamente. Tutto è stato pagato, e chi ha pagato il prezzo di tutti i beni, è stato Gesù, con la sua stessa vita che offrì, soprattutto quando è morto sulla croce del Calvario. L'unica cosa che l'uomo deve fare, è di accettare il dono che gli viene offerto gratuitamente, che corrisponde al comprare senza denaro d'Isaia. Dal momento che il discepolo di Gesù, che viene mandato in missione, sa di aver ricevuto gratuitamente, deve tener presente, che deve altrettanto dare gratuitamente. Il discepolo di Gesù non ha una merce da vendere in cambio del denaro.

La sua missione non consiste in un affare commerciale; non è un certo convincere l'astatore per comprare il suo prodotto; lo scopo della sua missione non è quello di raccogliere denaro (e certe volte si fa in un modo disonesto e scandaloso), ma di predicare e dire: il regno dei cieli è vicino. Come non denunciare certi imperi economici, che vengono costituiti con il pretesto che il Gesù Signor ha dato di fare quel dato lavoro, di svolgere quel tipo di missione! Certi cristiani, così chiamati, con i loro inganni e con la loro sete di denaro, hanno messo l'opera del Signore in ridio e in cattiva fama e di procurare più scandali, di tutti gli atei e i materialisti messi insieme. Non è difficile, ai giorni nostri, specie in terra americana sentire dire:

«Se hai un bisogno, di qualsiasi genere, e hai necessità che si preghi per te, più denaro sarà inviato a questa missione, più presto sarà esaudita la tua preghiera, e più presto riceverai quello che chiedi».

Si vuole assicurare l'esaurimento della preghiera e il ricevere di una grazia, a suon di dollari. Questa è pura disonestà e simonia! Non ha niente a che vedere con un'attività missionaria, tendente a portare agli uomini la parola di Dio, l'Evangelo di Gesù Cristo. Coloro che si comportano in questa maniera, non solo sono operai fraudolenti, persone che

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Domenico34
00venerdì 19 agosto 2011 00:19
fanno professione di conoscere Iddio; ma lo rinnegano con le loro opere ( Tito 1:16), si può anche dire di loro che il loro Dio è il ventre (Filippesi 3:19).

23. UNA PRECISA DISPOSIZIONE PER QUANTO RIGUARDA L'AMORE PER LA FAMIGLIA

Chi ama padre e madre più di me, non è degno di me; e chi ama figliolo o figliola più di me, non è degno di me (Matt 10:37).

La famiglia, costituita generalmente da genitori e figli (salvo eccezioni quando non ci sono figl, è l'organismo che Dio stesso ha costituito, dichiarandolo sacro, agli occhi suoi (Ebrei 13:4). Il quinto comandamento stabilisce di Onorare padre e madre (Esodo 20:12). Gesù, ai suoi giorni ribadì questo comandamento quando disse:

Mosè infatti ha detto: Onora tuo padre e tua madre (Marco 7:10),
e poi aggiunse:
Chi maledice padre o madre sia punito di morte (Marco 7:10); Levitico 21:17).

Più tardi l'apostolo Paolo darà dettagliate spiegazioni per quanto riguarda l'intera famiglia, in modo che ogni componente, sappia come deve comportarsi, intorno a questa norma divina (cfr. Efesini 6:1-4; Colossesi 3:20,21. Da questi testi appare chiaro in che posizione Dio abbia messo i genitori nell'ambito della famiglia. Ignorare questa precisa norma, significa non tener conto della parola di Dio e dell'importanza che Dio ha dato ai genitori nell'ambito della famiglia. Gesù conosceva molto bene quello che Dio aveva stabilito, tramite Mosè, per quanto riguarda l'onore che si deve al padre e alla madre.

Nonostante ciò, stabilì un ordine nuovo per quanto riguarda l'amore che si deve manifestare nei confronti dei genitori, amore che i figli devono confrontare con l'amore che si deve nei confronti di Gesù. Gesù vuole essere amato nella stessa maniera come lo vuole Dio Padre. Ma l'amore per lui, non può essere nella stessa misura come quello che i figli hanno verso i propri genitori. Un simile amore manifestato in questa proporzione, è un amore che Gesù non accetta e di cui non è interessato.

Amare Gesù nella stessa misura come si amano il padre e la madre, significa in ultima analisi, mettere i genitori alla pari del Figlio di Dio, come se fossero anche loro essere divini. Perciò, Gesù afferma chiaramente: Chi ama padre e madre più di me non è degno di me. Quanto grande possa essere l'amore di un figlio verso il proprio genitore, non deve mai superare quello per Gesù. Dal momento che questo amore filiale supera, nella sua manifestazione, quello del Signore, la persona che si comporta in questa maniera, non è degna di Lui.

Ci viene da domandare perché mai Gesù dà questa precisa e categorica disposizione?

1) Egli non vuole affatto insinuare che i genitori non si devono onorare. Una simile conclusione, è senza dubbio in contrasto con quello che Gesù insegnò, durante il tempo della sua permanenza in mezzo agli uomini, e interpretare la sua parola in questo senso, significa errare enormemente, con le tragiche conseguenze che ne derivano.

2) I genitori, quantunque meritino un amore partiare, genuino e profondo, non devono mai essere considerati come divinità incarnata. Non si deve mai dimenticare che tra il divino e l'umano, c'è un abisso che li separa. I genitori non possono pretendere, in nessun modo, il posto della divinità, (questo è il caso di Gesù) anche se Dio li abbia messi in una nobile posizione ed abbia ordinato per quanto riguarda loro.

3) Se Gesù viene considerato diverso dai genitori, non solo dal punto di vista personale, ma soprattutto per quanto riguarda la sua posizione di essere divino, ne deriva che l'amore per lui deve essere un amore diverso, non soltanto per quanto riguarda la qualità, ma anche e soprattutto per quanto concerne la quantità. Lo stesso discorso con le medesime considerazioni va fatto per quanto riguarda l'amore dei genitori nei confronti dei figli.

Non ha alcun'importanza stabilire se l'amore dei figli verso i genitori, è differente per qualità e quantità, dall'affetto dei padri per i ragazzi. La parola di Gesù è ferma e categorica: chi ama figliolo o figliola più di me, non è degno di me. Non si tratta quindi di porre come pietra di paragone i figli da una parte e i genitori dall'altra; si tratta invece di confrontarsi con Gesù. È lui la pietra di paragone: È lui la misura con cui misurarsi, e quando ciò è tenuto in debito conto, non è possibile che i figli da una parte e i genitori dall'altra, abbiano a manifestare un amore quantitativo e qualificativo come quello per Gesù.

24. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A PRENDERE LA CROCE E SEGUIRE GESÙ

Chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per cagione mia, la troverà (Matteo 10:38,39; 16:24,25; Marco 8:34-38; Luca 9:23-27).

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Domenico34
00sabato 20 agosto 2011 00:11
La condizione preliminare di seguire Gesù, è di rinunciare a se stessi. Se quest'azione preliminare non viene assolta, non sarà facile, prendere la croce, e tanto meno seguire Gesù. È bene dunque, considerare la parola di Gesù, non solo per capirla, ma soprattutto per trarne il maggior vantaggio possibile. La prima cosa che dobbiamo mettere in risalto è che nessuna rinuncia sarà fatta, se non si è disposti a seguire Gesù. Il volere seguire Gesù (e questo è sempre un atto libero della volontà dell'uomo), porterà inesorabilmente alla rinuncia di se stesso. Ogni rinuncia ha con se un motivo partiare come obbiettivo da raggiungere; in mancanza di questo, tutte le iniziative tese verso una certa direzione, saranno destinate al fallimento.

L'obbiettivo o la meta da raggiungere, agisce nella vita dell'uomo, convogliando anche la sua volontà, come un mordente ed un eccitante, atti a dare forza, coraggio e determinazione per raggiungere lo scopo. Nessuna rinuncia approderà a buon fine, se questa non è spontanea, personale e libera da imposizioni. In altre parole: è l'uomo che deve decidere cosa vorrà fare nella sua vita, nella sua carriera, non spinto da una forza esterna, bensì da un'energia interna. Solo quando l'uomo avrà agito con un atto spontaneo della sua volontà, interverrà lo Spirito Santo che lo aiuterà a raggiungere quelle mete e quei traguardi che si è prefisso. Seguire Gesù nel senso evangelico, implica la determinazione di pagarne il prezzo. Solo quando sì e pronti a pagarne il prezzo, allora si potrà pensare alla croce.

Perché portare la propria croce. Portare la propria croce, è un requisito per essere un discepolo di Gesù.

E chi non porta la sua croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo (Luca 14: 27).

Di solito, il discepolo rassomiglia al suo maestro, cerca di imitarlo, assorbendone l'esempio e tutto l'insegnamento. Gesù disse:

Un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo signore. Basti al discepolo di essere come il suo maestro (Matteo 10:24,25).

Un discepolo non deve seguire il maestro solo in quella parte di vita dove ci sono travagli e dolori; lo deve seguire anche là dove si realizzano le conquiste, si godono le più svariate allegrezze.

In verità, in verità vi ricordo che voi piangerete e farete cordoglio, e il mondo si rallegrerà. Voi sarete contristati, ma la vostra tristezza sarà mutata in letizia. La donna, quando partorisce, è in dolore, perché è venuta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell'angoscia, per l'allegrezza che sia nata al mondo una creatura umana. E così anche voi siete ora nel dolore; ma io vi vedrò di nuovo, e il vostro cuore si rallegrerà, e nessuno vi toglierà la vostra allegrezza (Giovanni 16:20-22).

Quando si parla di prendere la croce, spesso si pensa e si crede che sia Gesù stesso che l'addossa all'uomo. Non c'è niente di vero in tutto questo. Non si possono citare parole e versi della Scrittura per provare questa convinzione. Al contrario, dalle parole di Gesù: chi non prende la sua croce, appare in tutta la sua evidenza, che è l'uomo che deve prendere la sua croce. Questo significa, in ultima analisi, che l'uomo ha la fatà di evitare o rifiutare di prendere la sua croce. A questo punto la parola di Gesù, oltre ad essere illuminante, risulta determinante ai fini di essere un suo discepolo. Non esiste discepolo di Gesù, degno di questo nome, che possa seguire il Maestro senza portare la sua croce. Anche se la croce è comune a tutti i discepoli del Cristo, non è fatta della stessa misura per tutti. Ognuno deve portare la propria e non si deve pensare alla croce di un altro.

Si racconta di un tale che si lamentava perché la sua croce era troppo lunga, di conseguenza risultava più pesante delle altre. Un giorno decise di tagliarne un pezzo al solo scopo di alleggerirla. La sua decisione però risultò fatale, allorquando, trovandosi di fronte ad un burrone, e non sapendo come fare per attraversarlo perché mancava una passerella, pensò che la sua croce poteva risolvere il problema. Quando però, la sua croce venne adagiata, l'uomo fece un'amara constatazione: non era abbastanza lunga, mancava proprio di quel pezzo che in precedenza era stato tagliato.

A questo punto siamo interessati di sapere che cosa significa esattamente la croce. Ci sono errate convinzioni, che si tramandano di generazione in generazione, che è assolutamente necessaria correggere. Un tale che soffre a causa di una certa malattia, e se questa si prolunga nel tempo, specie quando viene a mancare la certezza di una guarigione, si fa presto a concludere:

«Questa è la mia croce che devo portare, oppure: questa è la volontà di Dio, bisogna rassegnarsi ed andare avanti nel cammino della vita».

Una persona che non sa niente del vangelo e dell'opera di Gesù Cristo che venne a compiere per l'intera umanità, potrebbe essere giustificata, se dovesse parlare in questa maniera; ma non lo sarebbe un discepolo di Gesù, perché si presuppone che egli conosca l'evangelo e sappia che cosa venne a fare Gesù su questa terra. Isaia, 750 anni prima della venuta di Gesù, aveva scritto a proposito del Messia:

Erano le nostre malattie ch'egli portava, erano i nostri dolori quelli di cui s'era caricato (Isaia 53:4).

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Domenico34
00domenica 21 agosto 2011 00:09
Quando Gesù, esercitando il suo ministero di guarigione, all'occhio di Matteo appariva come una schiacciante prova dell'adempimento della profezia d’Isaia (Matteo 8:17). Se Gesù ha portato su di sé le nostre malattie e i nostri dolori, conseguenza specifica del peccato dell'uomo, nella stessa maniera come Egli ha portato i nostri peccati (1 Pietro 2:24), ciò l'ha fatto per liberare l'uomo dal suo peccato e dalle sue conseguenze, una volta e per sempre. È chiaro che a questo punto deve intervenire la fede, in virtù della quale l'uomo può appropriarsi l'opera compiuta da Cristo. In mancanza di questa fede, non solo l'uomo penserà ai suoi peccati, alle sue malattie e ai suoi dolori, ma si priverà del beneficio della morte di Cristo, per ciò che riguarda specificatamente le sue malattie. Pietro espone chiaramente questa verità, quando afferma: Mediante le cui lividure siete stati sanati (1 Pietro 2:24). Si noti bene che Pietro non dice: sarete sanati, ma siete stati sanati.

La guarigione dalla malattia e la liberazione dai dolori, fa parte integrale dell'opera di Cristo. Ignorare questa verità, significa svalutare il sacrificio di Cristo e rendere vano quello che Egli ha fatto per l'uomo. Allora, che cos'è esattamente la croce?

1) L'apostolo Paolo, più di ogni altro scrittore del N.T. comprese il significato del portare la croce, e con parole chiare, spiega cosa significa. (2 Timoteo 3:12) dice:

E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati.

Gesù aveva detto, nel corso della sua vita terrena cosa avrebbe ricevuto, nel tempo presente, chi per amor di lui e dell'evangelo avrebbe lasciato:

Casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figlioli, o campi;
avrebbe ricevuto
cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figlioli, campi, insieme a persecuzioni
(Marco 10:29,30).

Già Gesù, per il primo, e poi Paolo, affermano che non è possibile andare dietro a Gesù, senza essere perseguitati. La persecuzione fa parte del comune bagaglio di chi vuole vivere piamente in Cristo. Questa è la croce che deve portare come prova e segno che vuole seguire Gesù Cristo.

Nella (2 Corinzi 4:10,11), Paolo afferma:
Portiamo sempre nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo; poiché noi che viviamo, siamo sempre esposti al decesso per amor di Gesù, onde anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale.

2) L'epistola agli Ebrei, con parole abbastanza chiare dice:
Usciamo quindi fuori del campo e andiamo a lui, portando il suo vituperio (Ebrei 13:13).

Essere perseguitati, portare il vituperio di Cristo, essere esposti del continuo alla morte, questa è vera croce e si deve portare, poiché è un segno richiesto; è una distinzione di chi, dopo aver rinunciato a se stesso, ha deciso, pagandone il prezzo, di seguire Gesù.

25. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A PERDONARE AGLI UOMINI

Perché se voi perdonate agli uomini i loro falli, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi (Matteo 6:14; Marco 11:25; Luca 6:37).

Tra il detto di Matteo e quello di Marco e di Luca, c'è una certa differenza, non tanto nel suo contenuto, quanto per la specificazione che ne fa principalmente Matteo. Parlare di perdonare nell'ambito della fratellanza, come corrispondenza al perdono ricevuto da Dio (Efesini 4:32), è una cosa (anche se viene ordinato di fare questo), e parlare di perdonare agli uomini, è un'altra cosa. Il perdono in se stesso a chiunque si applichi, non ha un diverso significato e una diversa importanza; è la sfera in cui viene praticato che fa la differenza.

Gesù, in questo detto di Matteo, ordina ai suoi di perdonare agli uomini. Sono gli uomini (e per uomini, qui bisogna intendere, le persone che sono fuori della fede, della cerchia dei discepoli di Gesù), che hanno recato delle offese al discepolo di Gesù. Qui non si discute se l'offesa è stata causata, e come tale si potrebbe giustificare, e tanto meno si fa cenno alla gravità o meno dell'offesa.

Qualunque sia l'offesa che il discepolo di Gesù riceve dagli uomini, essa deve essere perdonata. Si noti bene che non fossero gli uomini ad aver l'iniziativa in questa faccenda del perdono, ma il discepolo di Gesù. Si potrebbe domandare, perché? Gli uomini non sono stati perdonati dai loro peccati; non hanno una coscienza sensibile che li spinga ad azioni come queste.

Mentre il discepolo di Gesù che conosce, per esperienza, il perdono dei suoi peccati, si trova in una diversa posizione rispetto a quella degli uomini del mondo, che gli permette una maggiore libertà d'azione. Nell'azione di perdonare, non è richiesto agli uomini il loro consenso, come per dire: io, in qualità di discepolo di Gesù ti voglio perdonare delle offese che mi hai fatto, solo ti voglio chiedere se tu accetti di essere perdonato. Niente di tutto questo è previsto nell'ordine di Gesù. La parola di Gesù è perentoria:

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Domenico34
00lunedì 22 agosto 2011 00:17
Se voi perdonate agli uomini i loro falli, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi.

Il discepolo di Gesù deve essere tale, non solamente nella sua professione di fede, lo deve essere principalmente nella sua vita pratica, modo di vivere che lo mette a confronto con quella degli uomini, tra quali dovrà svolgere la sua missione. La luce deve risplendere nelle tenebre, nel cospetto degli uomini (Matteo 5:16). Il discepolo di Gesù è stato fatto luce e sale della terra (Matteo 5:13,14). Non esiste una migliore manifestazione della verità che Cristo insegnò intorno al perdono, se non quella di agire in conformità alla sua parola.

Non è solo per il perdono che si riceve dal Padre celeste, che il discepolo di Gesù deve perdonare agli uomini; esiste un'altra maggiore ragione, non meno importante della prima, che deve essere tenuta in considerazione, cioè: tra il discepolo di Gesù e gli uomini, c'è una certa differenza, non tanto sul piano ipotetico, quanto su quello pratico. Gesù, parlando ai suoi diceva:
Voi mi chiamate Signore e Maestro; e dite bene, perché lo sono. Se sapete queste cose, siete beati se le fate (Giovanni 13:13,17).

Il comando di perdonare agli uomini viene dato al discepolo di Gesù; questi ha il privilegio di conoscere la volontà del suo Signore, e se la metterà in pratica, sarà responsabile davanti a Dio e davanti agli uomini per il quale il comando venne dato. Come farebbe il discepolo di Gesù ad insegnare agli altri quello che Gesù ha ordinato di osservare, quando questi non mettesse in pratica quello che Cristo comandò? Il migliore insegnamento che un discepolo di Gesù può dare, non è tanto costituito dalla semplice parola, quanto quello che può dare con un esempio pratico.

26. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A RENDERE A CESARE LE COSE CHE APPARTENGONO A CESARE

Gli risposero: di Cesare. Allora egli disse loro: Rendete dunque a Cesare quel ch'è di Cesare, e a Dio quel ch'è di Dio (Matteo 22:21).

Il detto di Gesù riguardante, le cose che appartengono a Cesare, è diventato proverbiale in tutto il mondo, ed ognuno lo usa, precisandone le parole, a seconda del caso. Non si deve dimenticare il proposito dei Farisei, di cogliere in fallo Gesù, nelle sue parole (Matteo 22:15), proposito che li spinse a mandare i loro discepoli con gli Erodiani da Gesù. Il tranello che i Farisei cercarono di tendere a Gesù in quel giorno, era talmente perioso, che se Cristo non avesse avuto la saggezza e il discernimento di Dio, vi sarebbe cascato dentro.

Con il pretesto che Gesù era verace e che insegnava la via di Dio secondo verità, gli venne chiesto se era lecito di pagare il tributo o no a Cesare. In quel tempo, tutta la Palestina, era sotto il dominio dell'Impero Romaniano. Se Gesù rispondeva con un secco no, con ogni probabilità le stesse persone che non vedevano di buon occhio il dominio di Romania, l'avrebbero consegnato alle autorità Romaniane, con l'accusa di essere un ribelle, e quindi passibile di pena capitale. Se invece Gesù avesse detto sì, senza nessuna specificazione, sarebbe stato accusato come un traditore della sua patria. Gesù conoscendo la loro malizia, precisa Matteo, e chiamandoli ipocriti, chiese perché mai lo tentassero. Mostratemi la moneta del tributo, disse Gesù; e, quando questa venne nelle sue mani, chiese loro:

Di chi è quest'effigie e quest'iscrizione? Gli risposero di Cesare. Allora egli disse loro: rendete dunque a Cesare quel che è di cesare, e a Dio quel che appartiene a Dio.

La conclusione che fa Matteo:
Ed essi, udito ciò, si meravigliarono, e, lasciatolo, se ne andarono,
è significativa, perché ci fa vedere che quelle persone non si aspettavano una simile risposta in quella maniera. Eppure Gesù aveva affermato chiaramente che bisognava pagare il tributo a Cesare, tassa che gli Ebrei non avrebbero voluto pagare. La risposta di Gesù è chiara per farci vedere che esiste una chiara distinzione tra le cose che appartengono a Cesare e quelle che appartengono a Dio.

Non ha tanta importanza stabilire quali sono le cose che appartengono a Cesare e quelle che appartengono a Dio. La cosa da tenere presente è che a Cesare, (figura dell'autorità politic, non bisogna sottrarre nulla di ciò che gli è dovuto (cfr. Romaniani 13:7; 1 Pietro 2:17). Se le tasse che vengono richieste dall'autorità politica, sono una legittima richiesta, i cristiani, seguaci di Gesù Cristo, le devono pagare senza opporre resistenza. Il rispetto alle sue leggi e la sottomissione alla sua autorità, sono esigenze legittime, senza le quali nessuna autorità politica potrebbe sopravvivere. L'unica cosa che il cristiano potrà opporre all'autorità politica, è quando questa pretende obbedienza a danno della fede (Atti 4:19,20).

27. UNA PRECISA DISPOSIZIONE AD AVERE FEDE IN DIO

E Gesù rispondendo, disse loro: Abbiate fede in Dio (Marco 11:22).

Le parole del nostro testo, vengono riferite dal solo evangelista Marco, nonostante che Matteo si occupi pure dell'episodio del fico seccato. La frase, così come la riporta Marco, è unica in tutto il N.T. e non si può negare l'importanza che riveste, soprattutto per quanto riguarda la vita del discepolo di Gesù.

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Domenico34
00martedì 23 agosto 2011 00:13
Quest'espressione di fede, presentata nella forma di un comando, fu rivolta ai discepoli di Gesù, preciso scopo di insegnare loro la via della fede. Dare un insegnamento sulla fede con le sole parole, non risulta tanto efficace; ma darlo sotto il profilo di un'evidente manifestazione visibile, farà più effetto di quanta possa farsi con le sole parole. Fu proprio quel che Gesù cercò di fare in questo partiare momento della sua vita, quando poté dimostrare ciò che significa: avere fede in Dio. Secondo noi, non è un puro caso che Marco lochi questa frase di fede, quasi al centro del suo evangelo, come per dirci, che la fede non deve essere considerata come qualcosa di marginale, di secondario; ma deve essere considerata piuttosto come il centro sul quale ruota la vita cristiana.

A dire il vero, è impossibile concepire l'esistenza cristiana, al di fuori della fede. Quello che caratterizza e valorizza il cristianesimo, è appunto la fede in Dio; quella fede che nasce da Gesù (Ebrei 12:2) e conduce a lui e per la quale Dio esprime il suo compiacimento (Ebrei 11:6).
Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me (Giovanni 14:1).

È impossibile mettere da parte la fede, come qualcosa d'inutile e superato, poiché è scritto che il giusto vivrà per fede (Romani 1:17). Se dal punto di vista biblico non c'è vita senza la fede, come farà il discepolo di Gesù ad assolvere la sua missione di testimonio (Atti 1:8), senza avere fede in Dio?

Prendiamo in esame tutto il contesto nel quale appare la nostra espressione di fede, per cercare di capire, perché mai Gesù disse fermamente: Abbiate fede in Dio?

Si discute se la fame [L. Goppelt. GLNT, IX, (Grande Lessico del Nuovo Testamento), 1406] che Gesù aveva in quel giorno era vera o simbolica, se interpretarla nel senso DEL FRUTTO DELLA GIUSTIZIA, come vorrebbe L. Goppelt e metterla quindi in parallelo con (Matteo 5:6) Beati quelli che sono affamati della giustizia. Si noti inoltre che Gesù veniva da Betania, dove aveva ricevuto ospitalità, e quindi diventa quasi impensabile che avesse fame lasciando la città [W. Grundman, Mk, 228; H. Bartsch 257; W. Schenk 159], (così la pensano: W. Grundman, Mk. 228 H. W. Bartsch 257; W. Schenk 159). Si vorrebbe inoltre che si tratti di un'aggiunta secondaria [E. Schweizer, Mk. 132], così vorrebbe E. Schweizer, Mk. 132 e H. Gissen 104 interpreta la fame [H. Giesen, 104] in senso simbolico.

Anche se al detto di F. Nötscher, in palestina i pasti si consumavano generalmente di mattino e di sera [R. Pesch, Marco III, pag. 293], ed il pranzo principale è quello del tramonto, come giustamente osserva R. Pesch in Marco II, 293, manca l'indicazione dell'ora del giorno. Altri infine pensa che Gesù non sia passato la notte nella casa di Lazzaro, bensì all'aria aperta, pregando; così in questo caso, si ponesse subito in cammino, digiuno com'era. La supposizione è plausibile, ma non c'è nessuna prova per affermare se ciò è vero o no. Tutte queste argomentazioni si sono fatte, non solo per spiegare la fame che aveva Gesù in quel giorno, ma soprattutto per la diffità che si incontra, circa l'atteggiamento che Gesù assunse in quel dì, nel maledire quel fico.

Se si pensa alla vera natura umana che Gesù aveva, e come tale, ebbe più di una volta fame (cfr. Matteo 4:2), non sarà difficile inquadrare in questa prospettiva l'affermazione relativa alla sua fame, di cui (Marco 11:12). D'altra parte, se si spiritualizza la fame di Gesù, e si prende il fico come un simbolo del popolo d'Israele, tutta la narrazione che Marco fa nei (Marco 11:12-14), diventa una specie d'immaginazione, qualcosa che non ha niente di reale. Questa conclusione non fa certo onore, né a Marco, e tanto meno a quello che viene specificato, soprattutto quando tutto viene messo in rapporto con la conoscenza che gli Ebrei avevano circa la racta dei fichi.

Il maggior ostao di questo paragrafo, a nostro avviso, non è certo costituito dalla fame di Gesù, né dalla sua maledizione al fico, ma dalla specificazione che Marco fa, quando afferma che non era la stagione dei frutti. Considerando quest'affermazione realisticamente, perché si dà molto peso a questa frase, i critici non se ne accorgono però che mettono in evidenza la realtà storica di quest'episodio.

Tutto diventa chiaro e sostenibile se si capisce bene la parola del Vangelo. Marco precisa che Gesù vide da lontano un fico che aveva del fogliame. Il fatto che il fico ha delle foglie, è una prova che si trova in primavera, la stagione in cui i fichi germogliano e mettono i frutti. Che l'albero visto da Gesù, anche se era lontano, come si legge in questo racconto, anche se si possono citare altri passi dell'evangelo di Marco, come 14:54; 15:40 e 5:6; 8:3, non deve essere inteso per indicare un'enorme distanza, per asserire che Gesù «non riconobbe quell'albero dal fogliame» idem. Se quell'albero veniva identificato come un albero di fico, non era certo per i frutti che si potevano scorgere, bensì dal suo folto fogliame.

La frase da lontano, pertanto, non deve essere intesa tanto per individuare l'albero, quanto per sapere se era possibile scorgere i frutti. Fu soltanto quando Gesù s'avvicinò che poté vedere che quell'albero di fico non aveva alcun frutto. Si sa con estrema certezza che il fico produce i suoi frutti, conosciuti come primi e secondi fichi. Il racto quindi, non si ha una sola volta.

Il Talmud sostiene che una particolare specie, poteva avere nei suoi rami i frutti di 3 stagioni allo stesso tempo. L'albero del fico mette i suoi frutti, prima delle foglie. Ovviamente questi sono i frutti primaticci. Dal momento che l'albero del fico aveva del fogliame, è forse fuori logica, fuori stagione, se Gesù vi ha cercato del frutto? Sorge pertanto spontanea la domanda: a quale tempo si riferiva Marco, quando specifica che non era la stagione dei frutti? Con ogni probabilità a quella della seconda racta, e non sicuramente al frutto primaticcio, per i motivi suesposti.

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Domenico34
00mercoledì 24 agosto 2011 00:09
Se il sacro testo specificasse che il fico non aveva fogliame, e Gesù vi cercava del frutto, anche se si potesse trovare nei rami vecchi, ma in questo caso e per il tempo specificato da Marco, il frutto non era mangiabile, allora la ricerca del frutto sarebbe inopportuna e l'azione di maledire il fico ingiustificato. Se il fico venne maledetto, non fu perché Cristo venne spinto da un sentimento vendicativo, com'empiamente alcuni hanno affermato, ma per la totale assenza d'ogni frutto. Si sa che il N.T. non ha altri casi di maledizione di alberi e tanto meno che Gesù abbia agito in qualche altra circostanza, ammenoché non si faccia riferimento agli apocrifi. Davanti al seccamento del fico, si parla di un intervento miracoloso che venne compiuto da parte di Gesù, anche se questo tipo di miracolo, si precisa, fu l'unico.

Una maledizione, anche se è spettaare, è sempre una condanna e a rigore non si potrebbe classificare nel numero dei mirai, senza svalutare la natura stessa dell'evento soprannaturale.

Se si riconosce che il fico si seccò fin dalle radici, anche se a produrlo fu la parola di Gesù, ciò si produsse perché venne maledetto. La maledizione suggerisce più l'idea della punizione che del miracolo. Si discute inoltre se il fico maledetto, non debba essere interpretato in senso simbolico, per quanto riguarda la distruzione del tempio e la maledizione su tutto il popolo d'Israele.

L'idea del simbolismo, forse adatta in altre circostanze e con maggiore senso parabolico (cfr. Luca 13:6﷓8), non si addice al nostro caso, senza mettere in seria diffità la storicità del nostro racconto. Il fatto poi che Gesù incita alla fede, attraverso la quale il discepolo può spostare le montagne, e fare, non soltanto quello che è stato fatto al fico ( Matteo 21:21), costituisce, a nostro avviso, la prova che non c'era niente di simbolico in quell'azione. Ha perfettamente ragione R. Pesch quando scrive:

«Non essendo moralmente sostenibile, l'interpretazione simbolica della maledizione da parte di Gesù dovrebbe venire abbandonata tanto più che essa loca nel N.T. tendenze antigiudaiche dalle quali la teologia cristiana ha più che mai l'obbligo di distaccarsi» [R. Pesch, Marco II, pag. 297].

Il comando di Gesù: abbiate fede in Dio, nasce dalla parola (forse di sorpresa e di meraviglia, perché inaspettat che Pietro rivolse al Maestro, ecco, il fico che tu maledicesti è seccato. Fu questa parola di Pietro che fornì a Gesù l'occasione di dare un insegnamento partiare sulla fede e sul potere che ha la fede in Dio, specie quando viene messa in relazione con i problemi e le diffità che la vita offre ogni giorno.

Si fa osservare che Gesù non diede nessuna spiegazione, circa la maledizione del fico. Questo prova che Gesù non si meravigliò, come Pietro, che il fico si fosse seccato, come se Egli non conoscesse la potenza della Sua parola. A questo punto Gesù ha davanti a sé una splendida occasione di impartire un ammaestramento ai suoi discepoli, circa la potenza della parola e la natura della vera fede. Crediamo che quest'insegnamento (per quanto riguarda la potenza della parola e la natura della fed non solo non debba essere dissociato, ma è valido anche ai nostri tempi. La promessa contenuta nel v. 23, è una parola data che, uscendo dei confini degli apostoli, abbraccia chiunque avrà detto. È insostenibile, quando si afferma che

«l'età dei mirai fisici è passata, e Dio non da più la fede che si richiede ad operarli» [R. G. Stewart, L’evangelo secondo Matteo e Marco, pag. 370].

Se questo fosse vero, anzitutto, (Marco 11:23) non sarebbe una promessa che riguarda la vita dei cristiani di ogni epoca, ma limitata solamente all'esistenza degli apostoli. Se questa fosse stata l'intenzione di Gesù, Egli non avrebbe mancato di fare una precisazione in tal senso; al contrario, usando il verbo dire al futuro, e il pronome relativo di persona, maschile e femminile chi, confuta questa assurda affermazione. Inoltre, che valore avrebbe la promessa di Gesù contenuta in (Giovanni 14:12) Chi crede in me, e (Marco 16:17) Or questi sono i segni che accompagneranno coloro che avranno creduto, se queste promesse sono state fatte solamente per gli apostoli e per il loro tempo e relegare l'ora dei mirai fisici?

Tutti coloro che dopo gli apostoli fino a noi, hanno creduto in Cristo, forse che il loro credere è stato diverso da quello dei discepoli di Cristo? La fede in Dio è l'unico elemento valido per vedere il miracolo. Non crediamo come si possa dimostrare che, la fede in Dio di oggi, non sia adatta per compiere un miracolo fisico, come quello degli apostoli. Più analizziamo le Scritture, più ci convinciamo che il tempo dei mirai non è ancora terminato. Credo che il comando di Gesù: Abbiate fede in Dio, non riguarda la fede per ottenere la salvezza, dato che questa è un dono di Dio (Efesini 2:8), ma quella fede che ha a che fare miracolo.

Il miracolo in se stesso è l'evidenza della manifestazione del potere di Dio, potere che si manifesta, non soltanto per divina volontà, ma anche come risposta alla fede. Gesù non dice che la fede per operare il miracolo si trova in Dio, ma dice chiaramente che dovrà trovarsi nell'uomo. Solo quando l'uomo ha fede in Dio per ciò che riguarda la manifestazione del potere di Dio, avviene allora il miracolo. Il miracolo perciò, non è una manifestazione unilaterale, ma l'unione del divino con l'umano. Questa nostra affermazione trova la conferma nelle parole di Gesù:

Chi avrà detto a questo monte: togliti di la e gettati nel mare; e non avrà dubitato nel cuor suo, anzi avrà creduto che ciò che egli dice avverrà; ciò che egli avrà detto gli sarà fatto.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00giovedì 25 agosto 2011 00:30
Non è tanto importante stabilire, ai fini di questa discussione, se il monte, (nel caso di Marco e di Matteo), (e il sicomoro secondo (Luca 17:6), deve essere interpretato nel senso d'impedimenti morali. Quello che dobbiamo costatare è:

1) Il miracolo avviene dopo di aver parlato (e qui ovviamente non è Dio che dovrà parlare, bensì l'uomo)

2) Ha seguito di non aver dubitato nel cuore;

3) Dopo aver creduto che quello che si sarà detto, avverrà. Parlare, non aver dubbio nel cuore e credere, ecco l'indispensabile per vedere il miracolo.

«Il dubbioso ritiene possibile che non si attui ciò che egli dice, cioè che l'onnipotenza divina si sottragga alla propria fiducia. Il credente affida totalmente a Dio la sua fiducia, e nella sua persona (in cuor suo) è intero, sano e potente: egli rende possibile l'impossibile (Matteo 17:20)» [R, Pesch, Marco II, pag. 311].

Oggi più che mai si cerca di incanalare la fede e spiegare il miracolo, per vedere se c'è qualche utilità razionale. Ma che utilità possa avere la ragione, quando questa, spesse volte, non è compatibile con la fede e con la potenza miracolosa, anzi addirittura si oppone, affermando: non è possibile? Le cose impossibili alla ragione, diventino possibili alla fede, secondo ch'è scritto: Tutto è possibile a chi crede (Marco 9:23).

Onde dare una maggiore delucidazione alla potenza della fede, Gesù, aggiunge:

Perciò io vi dico: tutto ciò che domandate e chiedete credete d'averlo ottenuto e vi sarà fatto.

L'insegnamento di questo testo è talmente importante che ci obblighi di esaminarlo frase per frase. L'invito alla preghiera o il detto dell'orazione, acquista più significato, perché esprime il desiderio e la volontà del divino Maestro. È Gesù che invita alla preghiera; è Lui che vuol far capire ai suoi discepoli l'importanza dell'invocazione. La preghiera non è solamente un pio esercizio religioso che ci permette di elevarci e di comunicare divino; è anche un'esercitazione di fede, attraverso la quale si può incontrare ed esperimentare la fedeltà di Dio per ciò che riguarda le sue promesse.

Tutto quello che Dio promette nelle Sacre Scritture, è per l'uomo, e l'essere umano può fare esperienza per mezzo della preghiera e della fede. Gesù, che conosce le ricchezze delle promesse divine, ci sprona a domandare e chiedere. È vero che Dio conosce il tutto di noi e il tutto dei nostri bisogni. Tanti presentando ricorso a questa divina conoscenza, finiscono concludere che non ci sia nessun bisogno che domandiamo e chiediamo a Dio le cose, perché Egli li conosce e non ha urgenza di fargliene parola. Gesù, con queste sue parole vuole insegnare ai suoi discepoli l'utilità del domandare e del chiedere.

Domandare e chiedere, che cosa? Secondo la parola del Maestro: tutto ciò che domandate e chiedete, non c'è niente che possa essere escluso. Se Gesù avesse voluto insegnare una certa scelta nel domandare e nel chiedere, non avrebbe sicuramente mancato di farne una chiara specificazione. Le cose più impensate, e più insignificanti (dal punto di vista umano), possono essere chieste e domandate in preghiera.

Non c'è neanche da pensare che nell'esercizio di domandare e di chiedere, bisogna avere il pensiero solo alle cose spirituali, a tutte quelle cose che contribuiscono all'accrescimento dello zelo, del servizio e della consacrazione a Dio. Nel tutto di (Marco 11:24) è incluso ogni bisogno ed ogni cosa per quanto riguarda la vita spirituale e l'esistenza umana in ordine ad ogni necessità e situazione in cui ci si può trovare. Per il discepolo di Gesù, diventa gioia incomparabile, esperienza inconfondibile, quando sa che può domandare e chiedere tutto al suo Signore. D'altra parte non possiamo dimenticare la parola di Gesù, quando insegnava a pregare: Dacci oggi il nostro pane quotidiano (Matteo 6:11). Anche se Gesù esortava a cercare prima il regno e la giustizia di Dio (Matteo 6:33), pur nondimeno possiamo contare sulla fedeltà del nostro Padre celeste che ha cura di noi per ogni cosa.

È un buon esercizio quando impariamo a domandare e chiedere tutto al Signore. Già quest'attitudine, ideale e mirabile davanti a Dio, ci fa vedere quanto sia importante dipendere totalmente dal Signore. Al suo domandare e chiedere, deve unirsi, nella vita del discepolo, un'indispensabile attitudine di credere: credete d'averlo ottenuto. È a questo punto che deve intervenire la fede con tutta la sua potenzialità. Tutto ciò che si domanda e si chiede, non serve a nulla se non si può avere. Il ricevere, non dipende solamente dalla possibilità e dalla volontà del Signore, ma soprattutto dal credere d'averlo ottenuto, da parte dell'uomo. Credere che il Signore darà quello che gli viene domandato, specie quando è secondo la Sua volontà, è una cosa, e credere d'aver ottenuto, prima di riceverlo, è tutt'altro.

Le cose chieste e domandate in preghiera, si ottengono solamente quando si crede d'averle ottenute. Qui consiste il segreto e qui è la spiegazione delle tante cose che non si ricevono, pur avendole chieste e domandate. La fede in Dio non consiste nelle cose che noi uomini possiamo fare, ma in quello che Dio può fare. Inoltre, la fede, per essere premiata, non si deve muovere sul terreno della razionalità, ma sulla superficie della fedeltà di Dio e della Sua parola.

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Domenico34
00giovedì 25 agosto 2011 00:30
Non è tanto importante stabilire, ai fini di questa discussione, se il monte, (nel caso di Marco e di Matteo), (e il sicomoro secondo (Luca 17:6), deve essere interpretato nel senso d'impedimenti morali. Quello che dobbiamo costatare è:

1) Il miracolo avviene dopo di aver parlato (e qui ovviamente non è Dio che dovrà parlare, bensì l'uomo)

2) Ha seguito di non aver dubitato nel cuore;

3) Dopo aver creduto che quello che si sarà detto, avverrà. Parlare, non aver dubbio nel cuore e credere, ecco l'indispensabile per vedere il miracolo.

«Il dubbioso ritiene possibile che non si attui ciò che egli dice, cioè che l'onnipotenza divina si sottragga alla propria fiducia. Il credente affida totalmente a Dio la sua fiducia, e nella sua persona (in cuor suo) è intero, sano e potente: egli rende possibile l'impossibile (Matteo 17:20)» [R, Pesch, Marco II, pag. 311].

Oggi più che mai si cerca di incanalare la fede e spiegare il miracolo, per vedere se c'è qualche utilità razionale. Ma che utilità possa avere la ragione, quando questa, spesse volte, non è compatibile con la fede e con la potenza miracolosa, anzi addirittura si oppone, affermando: non è possibile? Le cose impossibili alla ragione, diventino possibili alla fede, secondo ch'è scritto: Tutto è possibile a chi crede (Marco 9:23).

Onde dare una maggiore delucidazione alla potenza della fede, Gesù, aggiunge:

Perciò io vi dico: tutto ciò che domandate e chiedete credete d'averlo ottenuto e vi sarà fatto.

L'insegnamento di questo testo è talmente importante che ci obblighi di esaminarlo frase per frase. L'invito alla preghiera o il detto dell'orazione, acquista più significato, perché esprime il desiderio e la volontà del divino Maestro. È Gesù che invita alla preghiera; è Lui che vuol far capire ai suoi discepoli l'importanza dell'invocazione. La preghiera non è solamente un pio esercizio religioso che ci permette di elevarci e di comunicare divino; è anche un'esercitazione di fede, attraverso la quale si può incontrare ed esperimentare la fedeltà di Dio per ciò che riguarda le sue promesse.

Tutto quello che Dio promette nelle Sacre Scritture, è per l'uomo, e l'essere umano può fare esperienza per mezzo della preghiera e della fede. Gesù, che conosce le ricchezze delle promesse divine, ci sprona a domandare e chiedere. È vero che Dio conosce il tutto di noi e il tutto dei nostri bisogni. Tanti presentando ricorso a questa divina conoscenza, finiscono concludere che non ci sia nessun bisogno che domandiamo e chiediamo a Dio le cose, perché Egli li conosce e non ha urgenza di fargliene parola. Gesù, con queste sue parole vuole insegnare ai suoi discepoli l'utilità del domandare e del chiedere.

Domandare e chiedere, che cosa? Secondo la parola del Maestro: tutto ciò che domandate e chiedete, non c'è niente che possa essere escluso. Se Gesù avesse voluto insegnare una certa scelta nel domandare e nel chiedere, non avrebbe sicuramente mancato di farne una chiara specificazione. Le cose più impensate, e più insignificanti (dal punto di vista umano), possono essere chieste e domandate in preghiera.

Non c'è neanche da pensare che nell'esercizio di domandare e di chiedere, bisogna avere il pensiero solo alle cose spirituali, a tutte quelle cose che contribuiscono all'accrescimento dello zelo, del servizio e della consacrazione a Dio. Nel tutto di (Marco 11:24) è incluso ogni bisogno ed ogni cosa per quanto riguarda la vita spirituale e l'esistenza umana in ordine ad ogni necessità e situazione in cui ci si può trovare. Per il discepolo di Gesù, diventa gioia incomparabile, esperienza inconfondibile, quando sa che può domandare e chiedere tutto al suo Signore. D'altra parte non possiamo dimenticare la parola di Gesù, quando insegnava a pregare: Dacci oggi il nostro pane quotidiano (Matteo 6:11). Anche se Gesù esortava a cercare prima il regno e la giustizia di Dio (Matteo 6:33), pur nondimeno possiamo contare sulla fedeltà del nostro Padre celeste che ha cura di noi per ogni cosa.

È un buon esercizio quando impariamo a domandare e chiedere tutto al Signore. Già quest'attitudine, ideale e mirabile davanti a Dio, ci fa vedere quanto sia importante dipendere totalmente dal Signore. Al suo domandare e chiedere, deve unirsi, nella vita del discepolo, un'indispensabile attitudine di credere: credete d'averlo ottenuto. È a questo punto che deve intervenire la fede con tutta la sua potenzialità. Tutto ciò che si domanda e si chiede, non serve a nulla se non si può avere. Il ricevere, non dipende solamente dalla possibilità e dalla volontà del Signore, ma soprattutto dal credere d'averlo ottenuto, da parte dell'uomo. Credere che il Signore darà quello che gli viene domandato, specie quando è secondo la Sua volontà, è una cosa, e credere d'aver ottenuto, prima di riceverlo, è tutt'altro.

Le cose chieste e domandate in preghiera, si ottengono solamente quando si crede d'averle ottenute. Qui consiste il segreto e qui è la spiegazione delle tante cose che non si ricevono, pur avendole chieste e domandate. La fede in Dio non consiste nelle cose che noi uomini possiamo fare, ma in quello che Dio può fare. Inoltre, la fede, per essere premiata, non si deve muovere sul terreno della razionalità, ma sulla superficie della fedeltà di Dio e della Sua parola.

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Domenico34
00venerdì 26 agosto 2011 01:01
L'uomo di solito crede ad una cosa, solo quando c'è l'ha tra le mani. Questo tipo di credere, non è quello che Gesù volle insegnare ai suoi discepoli. Non è il credere della razionalità, ma quello della fede in Dio. La vera fede in Dio, l'unica per la quale Dio esprime il suo compiacimento (Ebrei 11:6), è audace, sa appropriarsi tutte quelle ricchezze che Dio ha messo davanti nel suo cammino, prima ancora che diventino palesi. È a questo livello di fede che Gesù volle condurre i suoi, esperienza necessaria per insegnare le cose che Gesù comandò d'osservare. Quando si crede che si hanno le cose domandate e richieste, allora Gesù può assicurare: L'otterrete. Ottenere in senso visibile le cose richieste e domandate, ciò è il risultato di averle prima credute. Non è fuori posto o della logica di Dio, se una cosa domandata e richiesta, ritarda nella sua attuazione visibile, ad essere nelle mani di colui che l'ha richiesta e domandata.

Chi ha domandato una cosa e ha creduto di averla già ricevuta, non si pone il problema se ha quella cosa, perché già sul piano della fede quella cosa l'ha già ottenuta (anche se su un piano visibile, nel senso che altri possono vedere non c'è), ma aspetterà solamente che la cosa invisibile diventi visibile, perché altri possano vedere le cose che Dio ha date, in risposta a quello che si è creduto d'avere ottenuto.

A questo punto non deve sembrare un paradosso, se la cosa ottenuta sul piano della fede, si fa attendere in un tempo piuttosto prolungato, prima che diventi verificabile da parte degli altri. L'esempio classico di Abramo potrebbe ulteriormente illustrare quest'aspetto della fede. Dio fece una promessa ad Abramo e gli disse chiaramente che la sua progenie sarebbe stata come le stelle del cielo. In quello stesso giorno Abramo credette a Dio, ci dice il testo sacro (Genesi 15: 5,6). Da un punto di vista di Dio, Abramo aveva già una progenie e dal punto della percezione della fede, Abramo poteva vedere la sua progenie guardando alle stelle del cielo. Da un punto di vista pratico, però, Abramo dovette aspettare 25 anni, prima che quella progenie, veduta solamente da lui, potesse essere vista anche dagli altri. Tutto quello che la fede mantiene nella sua fermezza su un piano invisibile, diventerà visibile ed altri potranno vedere le cose che, pregando, si crede di averle ottenute.

28. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A PREGARE ED A VEGLIARE

Vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione; ben è lo spirito pronto, ma la carne è debole (Marco 14: 38).

L'episodio riguardante, il Getsemani, è narrato da tutti e quattro gli evangelisti. Il solo che si distacca dai Sinottici è Giovanni, che aggiunge dei partiari che danno un significato speciale, allo scopo per questo Giovanni scriveva il suo evangelo. Matteo e Marco riportano la frase: vegliate e pregate, mentre Luca parla solamente di pregare. Tutte e tre i Sinottici, sono concordi nel mettere in risalto la tentazione che minaccia la vita dei discepoli, allettamento che può essere superato con la preghiera. Il momento che Gesù sia passato in quella notte nel Getsemani, non è facile poterlo descrivere con parole umane.

Anche se il linguaggio che gli evangelisti adoperano è umano e risponde esattamente alla loro natura. Per Gesù, invece, che era Dio fatto uomo, esprimere i sentimenti interiori e soprattutto esternare tutto ciò che sentiva e provava in vista dell'ora finale, ciò rischia di non essere ben capito o addirittura si può fraintendere quella situazione partiare in cui venne a trovarsi, in vista del coronamento della sua missione per la quale era stato mandato dal Padre. Pensare di interpretare la scena del Getsemani da un punto di vista spirituale, equivale a spogliare il racconto evangelico di tutti quegli elementi comprovanti l'umanità di Gesù e ridurlo in un ammasso di leggenda, privo di attendibilità storica. Ha perfettamente ragione R. Pesch quando afferma:

«Lo sconvolgimento di Gesù durante l'attesa della sua morte è un'espressione inoppugnabile della sua umanità» [R. Pesch, Marco II, pag. 311].

Ai suoi tre fidati apostoli: Pietro, Giacomo e Giovanni, Gesù aveva detto chiaramente:

L'anima mia è oppressa da tristezza mortale, rimanete qui e vegliate (Marco 14:34).

Perché Gesù entrando nel Getsemani cominciò ad essere spaventato, angosciato e oppresso da tristezza mortale? Notate che queste parole Gesù non li pronunciò durante i tre anni circa della sua missione terrena, pur avendo incontrato tanti ostai, tanta opposizione, tanta incredulità, ma nulla poteva essere paragonata all'esperienza del Getsemani. Gesù sapeva, fin troppo bene, che era venuto sulla terra per fare la volontà del Padre, e la volere del Padre era che Egli andasse a morire sulla croce.

Perché mai tutto questo sconvolgimento, dal momento che Egli sa di trovarsi nella piena volontà del Padre? Solo tenendo presente il fattore umano, cioè la vera umanità che Gesù aveva assunto volontariamente, possiamo capire le sue parole pronunciate al Getsemani, che suonano come un grido disperato, come uno che vuole sfuggire ad una tremenda realtà che lo attende. Non c'è da stupirsi e neanche da gridare allo scandalo, se Gesù, pregando il Padre, gli diceva: se era possibile che quell'ora passasse oltre da lui. Marco riporta una parola che gli altri evangelisti non ricordano:

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Domenico34
00sabato 27 agosto 2011 00:07
Abba Padre, ogni cosa ti è possibile; allontana via da me questo calice.

Dal canto suo Matteo aggiunge:
Se non è possibile che questo calice passi oltre da me, senza che io lo beva, la tua volontà sia fatta (Matteo 26:42).

Le parole di Marco sono una proclamazione dell'onnipotenza di Dio, verità che Gesù affermò in una forma dogmatica; mentre quelle di Matteo, ci fanno vedere Gesù che vuole evitare di bere il calice. Com'è possibile pensare in questi termini, dirà qualcuno, quando si sa con certezza che Gesù era venuto in terra per morire per la salvezza dell'umanità? Poteva Gesù rifiutarsi di bere il calice della sua inspiegabile sofferenza, che culminò in croce, senza che il piano di Dio per la redenzione dell'intera umanità venisse infranto? Non esiste in tutto il N.T. una pagina migliore, che mette in chiaro risalto, nella sua larghezza, nella sua profondità e nella sua totalità, l'umanità di Gesù, come quella in cui viene narrato l'episodio del Getsemani.

Sì è vero che nel N.T. possiamo leggere della sete di Gesù, della sua fame, della sua stanchezza, del suo sonno, della sua fatica eccessiva, dello sviluppo fisico e mentale, caratteristiche abbastanza eloquenti, che parlano che Gesù era un vero uomo. Ma la profondità e la completezza che il Getsemani mette in evidenza, sono di una rarità eccezionale, basterebbe soltanto questo testo, per provare inconfutabilmente la reale umanità di Gesù. Solo la sua reale esperienza, vissuta nel Getsemani, porta Gesù a parlare, e parlare in termini di comando, quando indirizzando la Sua parola ai suoi discepoli, dice loro: vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione.

È spontaneo chiedere perché Gesù diede quel comando? Non era l'esperienza del Getsemani, qualcosa che lo riguardava personalmente e che i suoi discepoli non avevano niente a che vedere con quella circostanza? Se Gesù parlò di tentazione con i suoi seguaci, ne parlò per l'esperienza che egli stesso fece in quel giorno, quando la sua umanità voleva rifiutare di bere il calice. Aveva ragione lo scrittore agli Ebrei quando, parlando di quello che Gesù sofferse, disse:

Poiché, in quanto egli stesso ha sofferto essendo tentato, può soccorrere quelli che son tentati (Ebrei 2:18).

Gesù non conobbe solamente la sofferenza della tentazione, conobbe soprattutto la vittoria sulla sollecitazione al peccato, e questa gli venne tramite la preghiera. Vegliare e pregare, ecco la certezza, non solo per non soccombere, ma per avere una vita vittoriosa. Non c'è vittoria più grande e più significativa che mettere in risalto la Suprema volontà di Dio e di sottomettersi a lei. Questo è il messaggio che ci viene dal Getsemani; questo è il significato del comando di Gesù: vegliate e pregate.

Accogliamolo e facciamolo nostro. Non come io voglio, ma come tu vuoi, o Signore!

29. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A BENEDIRE COLORO CHE MALEDICONO

Benedite quelli che maledicono, pregate per quelli che v'oltraggiano (Luca 6:28).

Il comando di Gesù di benedire chi maledice, dimostra quanto sia diverso lasciarsi guidare dalla divina parola di Gesù, anziché seguire un'attitudine congenita all'uomo, che consiste nel rispondere nella stessa maniera come si è trattati. Conoscere chi è il seguace di Gesù, non sarà difficile, soprattutto quando viene messo in evidenza il suo comportamento nei confronti degli altri. La norma di Gesù di benedire chi maledice, non solo mette in evidenza i seguaci di Gesù, ma soprattutto rivela l'esistenza dell'odio e del rancore nel cuore dell'uomo, specie quando l'essere umano non è dominato da Cristo. Se Gesù diede questo comando ai suoi discepoli di benedire quelli che maledicono, lo diede per mettere il suo seguace in una condizione diversa rispetto a quelli che non lo sono, a come condurre la propria vita nei confronti degli uomini. Il discepolo di Gesù non può seguire ad una direttiva sospinta dall'odio e dal rancore; deve seguire la norma dell'amore e della tolleranza, che è quella che Gesù ha voluto insegnare quando parlò di benedire chi maledice. Benedire significa: augurare, sollecitare la grazia divina sulle persone e sulle cose.

È un atteggiamento di un vero amico, di uno che veramente ama, di uno che si interessa al bene degli altri. Se Gesù avesse comandato di trattare gli uomini in genere in questo modo, avrebbe ordinato, ma il fatto che Egli ha voluto specificatamente dire chi sono quelli che devono essere benedetti, mette il suo comando al disopra di ogni umana considerazione, e di ogni etica sociale, e di ogni forma di sana convivenza. L'uomo si lascia facilmente dominare dal suo egoismo, e tante volte quel suo amor di sé lo acceca e non gli fa vedere le cose nella giusta dimensione e nella giusta realtà. Per meglio capire l'importanza e la portata del comando di Gesù circa l'ordine di benedire chi maledice, specifichiamo che cosa significa maledire. Da un punto di vista prettamente linguistico, maledire significa:

«Augurare del male a qualcuno, esecrare (per una pa commessa, per un errore compiuto, per un comportamento offensivo od ostile ecc. ed esprime una reazione violenta, esasperata, ciecamente iros. Lanciare l'anatema contro di qualcuno. Imprecare il nome di Dio; sfogare contro il nome di Dio la rabbia, il risentimento, il livore; bestemmiare. Far oggetto di odio, avversione, risentimento, disappunto o disprezzo o della propria condanna morale in modo perentorio e definitivo; biasimare duramente, vituperare, deprecare. Disapprovare deplorare, criticare duramente, condannare. Insultare, ingiuriare, accusare, rimproverare violentemente».

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Domenico34
00domenica 28 agosto 2011 00:15
È ad una persona di questo genere che il discepolo di Gesù deve augurare ogni bene, senza farne nessuna discriminazione. L'apostolo Paolo aveva perfettamente ragione quando affermava: Vinci il male con il bene (Romani 12:21). Anche l'apostolo Pietro capì perfettamente le parole di Gesù, quando scrisse:

Infine, siate tutti concordi, compassionevoli, pieni d'amor fraterno, pietosi, umili, non rendendo male per male, od oltraggio per oltraggio, ma al contrario benedicendo; poiché a questo siete stati chiamati onde ereditiate la benedizione (1 Pietro 3:8,9).

Qualcuno ha detto: la benedizione che diamo agli altri, prima che arrivi alla persona alla qual è indirizzata, arriva a noi che abbiamo pronunciato le parole di benedizione. Parafrasando, Pietro affermava: Vuoi ereditare la benedizione? Devi benedire, perché non solo i seguaci di Gesù sono stati chiamati a benedire, ma affinché ereditino la benedizione.

Insegnare di osservare questo comando di Gesù, significa liberare la vita dell'uomo da tutti i mali che lo circondano e lo dominano, aprirgli gli occhi alla verità del vangelo, indirizzarlo ad una vita di amore, di pace, di concordia e di compassione, permettere che il potere benevolo di Dio prenda il controllo e si manifesti nella sua duplice azione di liberazione e di benedizione. Questo è quello che Gesù voleva dire quando comandò di benedire coloro che ci maledicono.

30. UNA PRECISA DISPOSIZIONE A SOPPORTARE

A chi ti percuote su una guancia, porgigli anche l'altra e a chi ti toglie il mantello non impedire di prenderti anche la tunicaP.C] (Luca 6:29).

Il detto di Gesù per quanto riguarda chi percuote su una guancia, viene da Matteo specificato con la volto destro, come se volesse dire, che la sopportazione è raccomandata solamente se uno viene percosso sulla guancia destra e non su quella sinistra. Luca evita questo tipo di puntualizzazione e non menziona né la guancia destra né quella sinistra.

Davanti a questo partiare gli studiosi si sono chiesti: Qual'è la forma originale, quella di Matteo o quella di Luca? Andare dietro a questo tipo di considerazione, anche se può giovare ai fini dell'individuazione del detto di Gesù, non cambia minimamente l'insegnamento che Gesù vuol dare ai suoi discepoli. Per Luca non c'è nessuna differenza se uno viene percosso sul lato destro o su quello sinistro della guancia. Quello che il discepolo deve tenere presente è la percossa in se stessa. Appare chiaramente dal suo contesto che la percossa che si riceve, non è il risultato di una rissa o di una luttazione, ma di un indebito scherno e vituperio, da parte di persone che non sono seguaci di Gesù.

Il discepolo di Gesù non può essere una persona di rissa. Questo specifico atteggiamento non è consono alla natura di discepolo, dato che il maestro può insegnare suo esempio come Lui si è comportato nel tempo della sua permanenza tra gli uomini. Isaia aveva previsto nella sua profezia del servo dell'Eterno, che egli sarebbe stato percosso e che la sua barba sarebbe stata strappata dalle sue guance (Isaia 50:6). Questa profezia trovò il suo pieno adempimento quando Gesù fu condotto davanti al Sinedrio per essere condannato (Matteo 26:67; Marco 14:65; Giovanni 18:22). In tutta la storia evangelica che tratta del processo di Gesù, non viene mai detto che Gesù abbia risposto dando pugni e schiaffi a coloro che lo avevano trattato in quella maniera. I pugni e gli schiaffi che i Giudei dettero a Gesù, furono il risultato della loro rabbia e della loro indignazione, perché non condividevano né credevano a quello che Gesù aveva insegnato e a tutto quello che Egli aveva fatto, soprattutto per quanto riguardava i suoi mirai.
Dalla norma che Gesù dà:

Un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo signore. Basti al discepolo di essere come il suo maestro, e al servo di essere come il suo signore (Matteo 10:24,25),

ogni discepolo di Gesù deve, non solo ricordarsi di ciò, ma soprattutto conformare a ciò la propria vita.

Le percosse e gli schiaffi che Gesù ricevette, furono a causa della sua missione, come inviato di Dio, mentre quello che riceve il discepolo di Gesù, sarebbero stati a causa della loro fede in Cristo. In questo caso specifico (perché a questo vuole riferirsi Luc, il discepolo non ha niente da reagire o ricambiare, se veramente vuole seguire il Maestro. Non è possibile che il discepolo di Gesù sia benvoluto dal mondo quando il Maestro è stato odiato. Gesù aveva detto chiaramente: Chi asta voi asta me; chi sprezza voi sprezza me (Luca 10:16).

Ecco perché Gesù dice: A chi ti percuote su di una guancia, porgigli anche l'altra. Non è con la cosiddetta legge del taglione, occhio per occhio e dente per dente, che l'uomo può seguire Gesù, e tanto meno vincere il male, secondo la parola di Paolo (Romani 12:21). La condotta del discepolo del Cristo, per quanto riguarda la relazione con le persone estranee alla fede, deve rispecchiare ed imitare la vita e l'insegnamento di Cristo. Solo questa maniera risulterà efficace, quando si insegnerà di osservare tutto quello che Cristo ha comandato di osservare.

A chi ti toglie il mantello non impedire di prenderti anche la tunica.
Matteo, dal canto suo, dice:
Ed a chi vuol litigar teco e toglierti la tunica, lasciagli anche il mantello (Matteo 5:40).

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Domenico34
00lunedì 29 agosto 2011 00:14
Dalla parola litigare che Matteo adopera, gli esegeti pensano alla forma relativa al pegno, così come viene presentata in (Esodo 22:26,27 e Deuteronomio 24:10﷓13) e concludono che con ogni probabilità, Gesù faceva riferimento a quella situazione, che facilmente poteva degenerare in un vero e proprio litigio, tra colui che aveva ricevuto come pegno un capo di vestiario e colui che non aveva altro per coprirsi. È possibile che la parola di Gesù faccia riferimento a quella partiare situazione descritta dai due testi citati. La cosa che maggiormente urgeva a Gesù era quello di far capire ai suoi discepoli che un qualsiasi litigio, anche sulla base della cosiddetta ragione, è sempre da evitare, perché non ha nessuna corrispondenza ed affinità con la legge dell'amore, che sopporta ogni cosa (1 Corinzi 13:7).

In vista di un male più grande, bisogna scegliere sempre quello più pico. Questa norma di Gesù, investe tutta la vita nei suoi vari settori, sia per quanto riguarda la vita comunitaria nell'ambito della fratellanza, sia per quanto riguarda la vita per ciò che concerne le relazioni con ogni persona che vive al di fuori degli insegnamenti di Cristo. Questa precisa disposizione a sopportare, oltre ad essere l'insegnamento che Cristo volle dare ai suoi tempi, è una norma che non deve essere considerata superata. L'apostolo Paolo più tardi ribadirà lo stesso insegnamento di Gesù, quando scriverà:

Certo è già in ogni modo un vostro difetto l'aver fra voi dei processi. Perché non patite piuttosto qualche torto? Perché non patite piuttosto qualche danno? (1 Corinzi 6:7,8).

Il discepolo di Gesù deve essere pronto e disposto non solo a sopportare un'ingiuria, un disprezzo, per quanto riguarda la sua fede, ma deve essere anche pronto e disposto a non far valere i suoi diritti, se questi dovevano degenerare in una rissa e in un litigio.

31. UNA PRECISA DISPOSIZIONE PER QUANTO RIGUARDA IL PRESTITO

Ma amate i vostri nemici, e fate bene e prestate senza sperare alcun che, e il vostro premio sarà grande e sarete figlioli dell'Altissimo (Luca 6: 35).

In conseguenza del prestito che il testo di Luca specifica chiaramente, rispetto a Matteo 5:44﷓47, i critici pensano che Matteo sia più originario di Luca ed aggiungono che Luca 6:35 sia una aggiunta secondaria [H. Schürmann, Luca, I, pag. 579].

Non siamo tanto interessati a queste precisazioni che i critici fanno, perché spessissimo con le loro argomentazioni, fanno perdere la fede nella Parola di Dio. Giustamente Luca prima di parlare del prestito, afferma di amare. L'amore è troppo essenziale per escluderlo dalla vita normale, in ciò che riguarda l'aspetto economico e non solo per quanto riguarda i nemici. Nessun bene, compreso il prestito, può essere effettuato, se viene a mancare l'amore. L'amore è quello che spinge a immedesimarsi in un bisogno altrui; l'amore spinge ad essere compassionevoli e benigni; l'amore spingi al sacrificio e alla donazione. Se non c'è amore, un'azione di bene, può essere considerata vana (1 Corinzi 13). La parola relativa al prestito acquista più importanza quando viene letta e capita alla luce del v. 34 che afferma:

Se prestate a quelli dai quali sperate ricevere, qual grazia ne avrete? Anche i peccatori prestano ai trasgressori per riceverne altrettanto

L'insegnamento di Gesù riguardante, il prestito, è che i suoi discepoli, non agiscano nella stessa maniera dei peccatori. Qualcuno ha detto:

«Prestare con la speranza di riavere è umano; prestare senza tale aspettativa è cristiano».

La norma di Gesù in relazione al prestito, non solo è diversa da quello che la legge di Mosè prescriveva, prestando al popolo e al povero, senza applicare una quota di interessi (Esodo 22:25; Deuteronomio 23:19), ma in nessun caso era previsto che si potesse concedere un prestito senza la speranza di riaverlo. La benevolenza alla quale Gesù chiama i suoi seguaci, è di gran lunga superiore alla prescrizione mosaica.

Per l'ebreo che astava la parola di Gesù relativamente al prestito, anche se Cristo non accennava ad una qualsiasi quota di interessi, né se si doveva richiederlo, non rappresentava un paradosso, un'indesiderabile richiesta, ma lo era quando si precisava, che non bisognava sperare di riavere il prestito. Anche per i cristiani di oggi potrebbe apparire un paradosso l'insegnamento di Gesù. Ma per coloro che hanno l'amore nel cuore, non lo è, perché sanno che se uno chiede un prestito (e qui non si tratta di un prestito a scopo commerciale, bensì per un partiare bisogno, legato alla povertà), non pensano di riavere o di essere ricompensati, perché sanno di aspettare un grande premio dal Padre celeste, dato che sono considerati figlioli dell'Altissimo.

32. UNA PRECISA DISPOSIZIONE AD ESSERE MISERICORDIOSI

Siate misericordiosi com'è misericordioso il vostro Padre (Luca 6: 36).

Il comando di essere misericordiosi, ha come punto di riferimento il Padre celeste, ui al quale la Bibbia rende ampia testimonianza della sua misericordia. In questo caso Gesù addita il Padre celeste come esempio da imitare, nella vita dei suoi discepoli. Gesù, fece spesse volte riferimento al Padre celeste come la persona da imitare, ponendolo davanti ai suoi discepoli come modello al quale ispirarsi.

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00martedì 30 agosto 2011 00:43
Voi dunque siate perfetti, com'è perfetto il Padre vostro celeste (Matteo 5:48).

C'è una partiare beatitudine per chi mette in pratica il comando di Gesù.
Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta (Matteo 5:7).

Davanti a questa precisa parola di Gesù, il suo comando di essere misericordiosi, acquista più importanza, perché si viene a sapere che è soltanto a chi è misericordioso che sarà fatta misericordia. C'è, infatti, una certa corrispondenza tra quello che noi facciamo agli altri e quello che Dio fa a noi. Non si può ottenere il perdono dei propri peccati da parte di Dio, se non si è disposti a perdonare agli uomini i loro falli (Matteo 6:14). Davanti alla parola di Paolo, che dice:

Siate dunque imitatori di Dio come figlioli suoi diletti (Efesini 5:1),
non c'è tanto spazio per certe argomentazioni umane tendenti a far risaltare com'è impossibile allinearsi a quello che Dio fa continuamente. Se non si può imitare Dio, nell'opera di misericordia, si imiterà inevitabilmente il risentimento, la crudeltà e l'odio, che è ispirato ed alimentato dal principe delle tenebre: il diavolo. Che significa misericordia, dal punto di vista linguistico?

«Virtù morale, tenuta in partiare considerazione dall'etica cristiana, che dispone l'animo ad aprirsi a sentimenti di compassione per le sventure altrui e ad operare per il bene del prossimo, perdonandone le offese, comprendendone gli errori e indulgendo alle sue debolezze».

Il comando di Gesù ad essere misericordiosi non è ristretto al solo ambiente cristiano, o come si direbbe più precisamente nell'ambito della fratellanza della stessa fede. Dare una simile interpretazione alla parola di Gesù, significa spogliarla della sua portata universale. Se i discepoli di Gesù devono ammaestrare tutti i popoli intorno a tutto ciò che Gesù ha ordinato di osservare, (e questi destinatari sono estranei alla fed, va da se che l'azione di misericordia, debba essere estesa a tutte le persone che il discepolo di Gesù incontra nel cammino della sua vita. Essere misericordioso significa portare il segno distintivo del Padre celeste, al quale si è legati da un legame di figliolanza, ed essere nello stesso tempo grato per quello che il Padre ha fatto verso di noi.

Nella parabola del creditore, secondo (Matteo 18:23-35), abbiamo un bell'esempio pratico come deve essere intesa e praticata la misericordia. A quell'uomo che non poté pagare il suo enorme debito di 10.000 talenti (pari a 3.000 miliardi di lire, paragonando la moneta di allora alla paga di un operaio ai nostri giorn, il signore di quel servitore, mosso da compassione, condonò il debito, lasciandolo andare libero. Quello stesso uomo enormemente beneficato, aveva un suo conservo che gli doveva appena 100 denari (pari a 5 milioni di lir, e nonostante che quel conservo abbia usate le stesse sue parole, non ci viene detto però che quell'uomo fu mosso a compassione, anzi lo cacciò in prigione.

In questo uomo così duro e crudele, non solo non c'era misericordia e gratitudine per quello che aveva ricevuto dal suo signore, quando venne mandato libero dal suo enorme debito, ma non c'era neanche quella disposizione d'animo ad aprirsi a sentimenti di compassione per le sventure di quel suo conservo. Il severo giudizio che il signore di quella parabola emise nei confronti di quell'uomo, chiamandolo malvagio, esprime tutta la gravità della mancanza di misericordia in quella persona.

Perdonare le offese ricevute (non importa se siano gravi ed abbondanti, pari a settanta volte sette, o sette volte il giorno), fa parte dell'indole della misericordia. Quando Paolo scrive: Perdonandovi a vicenda, come anche Dio vi ha perdonati in Cristo (Efesini 4:32), questa correlazione di uguaglianza che viene messa in risalto, è troppo importante per ignorarla. Tante volte ci stanchiamo davanti alle ripetute offese o alla gravità di esse, che siamo portati a dire: Ed ora basta, è troppo, non posso perdonare. Come farà un discepolo di Gesù ad ammaestrare gli altri ad osservare il comando di Gesù a perdonare, quando egli stesso non lo mette in pratica, o se lo pratica, lo pratica a corrente alternata? Aveva ragione Giacomo quando scriveva: Parlate e operate come dovendo esser giudicati da una legge di libertà (Giacomo 2:12).

Il comando di Gesù ad essere misericordiosi, non solo apre la strada alla benedizione di Dio e al suo potere miracoloso, ma permette verso le persone alle quali si pratica, di esperimentare tutta l'efficacia della grazia e della salvezza. Non c'è bene più grande per una qualsiasi persona di ricevere nella propria vita quello che Dio è capace di fare, allorquando, sciogliendo dai vari legami, dà riposo e tranquillità; riempie di grazia e di pace, la vita dell'essere umano. Essere misericordiosi significa in ultima analisi, vivere una vita libera, nel senso pieno di questo termine, senza quei risentimenti di rancore e di odio, che tengono legato l'uomo in una situazione di inquietezza e di travaglio; in quello stato dove non c'è un vero godimento, vera gioia, vera pace. Vale quindi la pena, astare la parola di Gesù.

33. UNA PRECISA DISPOSIZIONE PER QUANTO RIGUARDA IL DARE

Date, e vi sarà dato; vi sarà versato in seno buona misura, pigiata, scossa, traboccante; perché con la misura onde misurate, sarà rimisurato a voi (Luca 6: 38).

Si continuerà il prossimo giorno...
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