Domenico34 – Il cammino di un popolo – Dall’Egitto alla terra di Canaan. Sommario, Prefazione ed Introduzione. Capitoli 1-14

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Domenico34
00martedì 24 gennaio 2012 00:38


IL CAMMINO DI UN POPOLO




Dall’Egitto alla terra di Canaan



INDICE DEL VOLUME


Prefazione
Introduzione


PRIMA PARTE



CAPITOLO 1

L’ORDINE DI SCRIVERE: L’ISPIRAZIONE DIVINA

Capitolo 2

Da Ramses a Succot
Ramses
Succot

Capitolo 3

DA SUCCOT A ETAM E AL MAR ROSSO
Etam
Migdol
Il passaggio del Mar Rosso

Capitolo 4

DA ACHIROT A MARA E AD ELIM
Mara
Elim

Capitolo 5

DA ELIM A REFIDIM
La manna
1) L’orario per la raccolta
2) La quantità giornaliera
3) I giorni per la raccolta
4) Non più del quantitativo stabilito
Refidim

Capitolo 6

DA REFIDIM AL DESERTO DEL SINAI
La vittoria sugli Amalechiti
La visita di Ietro
Preparativi per il grande evento
I Dieci Comandamenti

Capitolo 7

DA CHIBROT-ATTAAVA A ASEROT
Una precisa disposizione
Chibrot-Attaava
Aserot

Capitolo 8

NEL DESERTO DI PARAN
Gli esploratori
Il resoconto
Protesta e dietro-front del popolo
Cinque riflessioni

Capitolo 9

IL DESERTO DI SIN E CADES
La profetessa Miriam
La mancanza d’acqua
Il peccato di Mosè e di Aaronne
Considerazioni varie

Capitolo 10

IL MONTE OR E LA MORTE DI AARONNE
Il provvedimento disciplinare
La morte di Aaronne e la successione
Due scopi
Capitolo 11

IL SERPENTE DI RAME
Lo scoraggiamento del popolo
Il popolo mormora nuovamente
I serpenti velenosi
1) Perché i serpenti velenosi non furono allontanati?
2) A che serviva la loro permanenza nel campo?
Il popolo riconosce il proprio peccato
L’insegnamento cristiano

Capitolo 12

BALAC E BALAAM
Vittoria sugli Amorei
Una lezione per tutti
Vittoria su Basan
Balac convoca Balaam
Balac e Balaam
Altri testi su Balaam

Capitolo 13

GIOSUÈ, SUCCESSORE DI MOSÈ
Mosè prega di poter passare il Giordano
Mosè prega per il suo successore
La morte di Mosè
Un insegnamento per noi


SECONDAPARTE



CAPITOLO 14

GIOSUÈ, IL NUOVO CONDUTTORE D’ISRAELE
La chiamata di Dio
Il significato della chiamata di Dio
Il tipo d'insegnamento che Dio volle impartire a Giosuè
Una buona lezione da imparare

CAPITOLO 15

PROMESSE E RACCOMANDAZIONI DIVINE A GIOSUÈ
L’ordine di alzarsi e attraversare il Giordano
Le promesse di Dio fatte a Giosuè
L’esortazione rivolta da Dio a Giosuè

CAPITOLO 16

GIOSUÈ NEL PIENO DEI SUOI POTERI
1. I PRIMI ORDINI DI GIOSUÈ
Il comando che Giosuè impartì agli ufficiali del popolo
Il ricordo di Giosuè ai Rubeniti, ai Gaditi e alla mezza tribù di Manasse
2. GIOSUÈ MANDÒ LE SPIE NELLA CITTÀ DI GERICO
Quello che si può imparare dalla missione dei due esploratori
La missione dei due esploratori
L’attitudine che assunsero nella casa di Raab
La promessa di salvezza per Raab e la sua casa

Capitolo 17

IL PASSAGGIO MIRACOLOSO DEL GIORDANO
Una fermata al Giordano prima di attraversarlo
L’ordine per i portatori dell’arca
L’ordine di prendere le pietre dal Giordano
Una riflessione sul passaggio del fiume Giordano

Capitolo 18

LA CONQUISTA DI GERICO
La fase preparatoria
L’azione degli Israeliti per la conquista di Gerico
Il comportamento degli Israeliti in merito all’ordine ricevuto
Raab con la sua famiglia messa in salvo

Capitolo 19

IL PRIMO PROBLEMA INCONTRATO DA ISRAELE IN CANAAN
I. LA DISFATTA D’ISRAELE AD AI
La disubbidienza di Acan
La tentazione di Acan
Acan nascose il suo peccato
La conseguenza del peccato di Acan
La confessione di Acan
II. LA CITTÀ DI AI CONQUISTATA E DISTRUTTA

Capitolo 20

L’INGANNO DEI GABAONITI
La coalizione di sei re
I Gabaoniti si distaccano dagli altri re

Capitolo 21

LA BATTAGLIA DI GABAON
La minaccia dei Gabaoniti
La richiesta dei Gabaoniti
L’ordine di fermare il sole
Uccisione dei cinque re Amorei
Conquiste nel mezzogiorno

Capitolo 22

LA CONQUISTA DEL SETTENTRIONE
Una coalizione contro Israele
Epilogo delle vittorie

Capitolo 23

ELENCO DI TUTTI I RE SCONFITTI
Le vittorie ai tempi di Mosè
Le conquiste di Canaan
Riflessioni sui re vinti

Capitolo 24

LA SPARTIZIONE DEL PAESE DI CANAAN
La spartizione a sorte
Riflessioni spirituali
1) La parte della nostra eredità
2) L’eredità della vita abbondante
3) La benedizione nei luoghi celesti
4) Seduti nei luoghi celesti

Capitolo 25

L’EREDITÀ DI CALEB
Il ricordo del passato
Il discorso a Giosuè
La richiesta accontentata
Riflessioni su Caleb
1) Onestà e sincerità di Caleb
2) La costanza nell’attendere la promessa divina
3) La fedeltà di Caleb
4) La voglia di combattere

Capitolo 26

LE CITTÀ DI RIFUGIO
Testi biblici
Casi e condizioni particolari
Il significato spirituale
Significato etimologico
1) Chedes significa “santo”
2) Sichem “una spalla”
3) Ebron “comunione”
4) Beser “una fortezza”
5) Ramot “alto” o “esaltato”
6) Golan “gioia” o “esultanza”
Capitolo 27

ULTIMA RADUNANZA A SICHEM
Rassegna delle benedizioni
Enumerazione delle responsabilità
I promemoria della loro promessa

Conclusione generale

Bibliografia



PRESENTAZIONE


Molti lettori della Bibbia conoscono il brano di (1 Corinzi 10:1-13) che esorta a imparare dalle esperienze fatte dagli Israeliti nel corso dell’Esodo, perché:

…queste cose avvennero loro per servire da esempio e sono state scritte per ammonire noi, che ci troviamo nella fase conclusiva delle epoche.

Ma quanti di noi sono andati a leggersi i viaggi del popolo di Dio dall’Egitto alla terra promessa per trarne fuori tutti questi preziosi insegnamenti?
Questo libro vuole aiutare ogni credente a ripercorrere l’avventuroso pellegrinaggio di Israele per poi aiutarlo a meditare sulle prodigiose liberazioni, le grandi battaglie, le lotte di potere, le mormorazioni, le cadute.
Molte critiche e ribellioni dei credenti si potrebbero benissimo evitare imparando da questi esempi.

Molti pastori e leader avrebbero un rapporto migliore con Dio e la chiesa se facessero tesoro di questi insegnamenti.
E tutti ne guadagneremmo in termini di salute (fisica e spiritual, di tempo risparmiato e di frutti.

Il luogo dove scorre il latte e il miele c’è davvero, e solo chi ubbidisce lealmente al supremo Condottiero e osserva fedelmente le Sue leggi vi accederà.

Gli altri, quelli che non metteranno in pratica questi preziosi consigli o che semplicemente li vorranno ignorare, potranno anche sperimentare qualche vittoria e qualche straordinaria liberazione, ma non entreranno mai in possesso della Terra Promessa.

Dunque raccomando vivamente la lettura di questo libro a tutti coloro che hanno iniziato il cammino con Dio (da pochi giorni o da quarant’anni) e non vogliono fermarsi lungo la strada, ma vogliono raggiungere la mèta, per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù (Filippesi 3:14).

Dr. Nuccio Cavone
(Pastore delle “Assemblee di Dio in Italia”. Ha revisionato la prima parte)


PREFAZIONE


L’impresa che l’autore, il Pastore Domenico Barbera, ha voluto assumersi nel redigere quest’opera: Il cammino di un popolo, non è certamente delle più semplici. Infatti, descrivere tutte le fasi attraversate, i combattimenti sostenuti, le sofferenze affrontate, pur di arrivare là dove questo popolo era diretto, tutto questo comporta un bagaglio culturale non indifferente. Fortunatamente, il popolo di cui ne è descritto il cammino, ha una storia documentata.

Non si tratta di un popolo comune, come ve ne sono molti, ma di un popolo che è ancora in cammino. Questo popolo è stato odiato, ha subito la schiavitù, la deportazione, e, un certo tempo, anche la quasi totale distruzione.

Anche oggi, questo popolo subisce le più crudeli angherie da parte di altri popoli, eppure, Dio ama questo popolo perché gli appartiene, è Lui che lo ha fatto sorgere e il profeta Zaccaria non esita ad affermare che chi tocca questo popolo, “tocca le pupille degli occhi di Dio” (2:8).

Dio ha promesso una patria a questo popolo, specificandone anche i confini, eppure le nazioni di oggi sostengono che questo popolo è un invasore e non ha diritto di “occupare” quella terra che, secondo loro non gli appartiene.
Questo popolo pertanto è ancora in cammino. Fortunatamente, il pastore Barbera ne descrive solamente la prima parte e cioé dall’uscita dell’Egitto fino a Canaan.

La descrizione del viaggio, o l’odissea di questo cammino è basata sulle notizie che si hanno per mezzo dei primi libri del Vecchio Testamento e di quello di Giosuè. Quindi, tutto è documentato e ispirato da Dio perché tramite lo “scritto”, ordinato da Lui stesso, se ne conservasse la memoria da tramandare ai pòsteri.

Il pregio però di quest’opera non sta solamente nella stesura di quegli avvenimenti del tempo lontano, ma particolarmente nell’applicazione che l’autore mette in parallelo con la nostra vita spirituale, poiché anche noi siamo un popolo “eletto”, liberato e redento, in cammino verso una terra promessa, non di questo mondo, ma che è nei cieli e di cui noi siamo i cittadini (Filippesi 3:20).

Questo è veramente interessante, poiché, come quel popolo, guidato ed assistito da Dio, è arrivato in Canaan, malgrado peripezie d’ogni genere, anche noi, con l’aiuto di Dio, varcheremo valli e monti e un giorno entreremo in possesso, non della Canaan terrestre, ma di quella celeste, poiché è là che Dio ci attende (Giovanni 3:16).

Possa quest’opera del pastore D. Barbera essere di aiuto e d’incoraggiamento a tutti quelli che l’avranno tra le mani, affinché, mettendo in parallelo il cammino storico di questo popolo di Dio col proprio cammino spirituale, ne abbiano a trarre gli insegnamenti adeguati per perseverare nelle varie fasi della vita che si presenteranno durante questo terrestre pellegrinaggio.

Il condottiero che ha guidato Mosè e Giosuè in quell’èpico cammino verso la patria promessa, è lo stesso che guiderà anche noi, secondo la sua indefettibile promessa (Matteo 28:20).

Nino Tirelli
(Ex sacerdote della chiesa Cattolica Romana. Ha revisionato l’intera opera

INTRODUZIONE

L’opera che ci accingiamo a scrivere, si divide in due parti: nella prima, tracciamo la storia del cammino del popolo d’Israele, “dall’Egitto al Giordano”, mentre nella seconda, trattiamo del: “passaggio dal fiume Giordano alla terra di Canaan”.

In questo modo potremo avere una visione completa di tutto il tragitto di questo popolo e di quello che sarà per i cristiani, quando termineranno il loro terrestre pellegrinaggio.
Questo è l’obbiettivo che intendiamo perseguire nella presente trattazione.

Descrivere la storia del cammino del popolo d’Israele dalla partenza dal paese di Egitto fino alla terra di Canaan, non è impresa che si possa liquidare in poche parole, ma richiede un accurato esame delle varie tappe indicate nella Bibbia, e in particolare nel libro dei Numeri.

Infatti è in questo libro che vengono nominate le località in cui il popolo d’Israele trascorse i suoi quaranta anni di pellegrinaggio, prima di arrivare al Giordano, il fiume che costituiva l’ostacolo naturale per entrare nella terra di Canaan, la terra che Dio aveva ripetutamente promessa ad Abrahamo, Isacco e Giacobbe.

Dunque esamineremo questo periodo storico durante il quale il popolo d’Israele fece svariate esperienze che poi avrebbero lasciato un’impronta per tutta la loro vita.

Il testo principale su cui ci baseremo sarà il capitolo 33 del libro dei Numeri, in cui vengono riassunte tutte le tappe.
Ci sono due verbi che vengono ripetutamente menzionati nei 49 versetti di questo capitolo: partirono (43 volte e si accamparono (42 volte. Le località o soste citate sono 43, e tra le più note vi sono: il Mar Rosso, il deserto di Sin e quello del Sinai. Si parla anche di tre monti: Sefer, Or e Abarim.

Questo volume, però, non ha solo finalità storico-bibliche e non si limiterà alla descrizione delle varie situazioni in cui venne a trovarsi il popolo d’Israele durante il lungo pellegrinaggio dall’Egitto alla terra promessa, ma esporrà anche riflessioni e applicazioni che sicuramente forniranno utili insegnamenti e arricchimento spirituale.

Questo è l’obiettivo primario che ci proponiamo.
Per la seconda parte invece, il testo base che maggiormente useremo, sarà il libro di Giosuè.
Infatti, questo testo biblico, più di ogni altra parte della Bibbia, descrive, non solo l’entrata dei figli d’Israele in Canaan, ma ci fornisce anche notizie dettagliate circa ilpossesso di questo territorio.

Con a capo Giosuè, Israele entra nella terra promessa per prenderne possesso, secondo un’antica promessa divina, che risale ad Abrahamo, Isacco e Giacobbe.

Fu, infatti, a loro, che Dio promise di dare alla loro discendenza, il paese di Canaan. Se questo non si fosse verificato, la promessa di Dio sarebbe rimasta lettera morta, senza nessun valore, sia per gli Israeliti, i diretti interessati, che per tutti quelli che sarebbero venuti in futuro (particolarmente i cristiani).

Nel corso della nostra trattazione, non solo metteremo in risalto l’adempimento della parola del Signore, ma ne trarremo anche degli utili insegnamenti per la vita cristiana. Lo scopo principale, infatti, rimane quello di consolidare la nostra fede in Dio e nella Sua Parola.

La maniera con cui sarà condotta la presente trattazione, non dovrà essere considerata come se volessimo scrivere un commentario sul libro di Giosuè.

Anche se possiamo anticipare che certi elementi del nostro scritto, potrebbero indurre il lettore a considerarlo come tale, non è però tale il nostro scopo, bensì quello di sviluppare il concetto cristiano e di contribuire all’edificazione del popolo di Dio.

Con la speranza che quello che seguirà potrà risultare di benedizione, d'incoraggiamento e di sprone per quanti avranno modo di leggerci, facciamo i migliori e i più sinceri voti che, ognuno che avrà modo di avere fra le mani il presente lavoro, sa ppia con fermezza e determinazione, aggrapparsi alle promesse di Dio e crederle per quelle che sono, per averne il maggiore beneficio per questa vita, e anche per l’eternità.
La versione della Bibbia che sarà usata in questo lavoro, sarà la Nuova Riveduta e quando sarà opportuno rifarci ad altre traduzioni lo specificheremo.

Domenico Barbera

Niagara Falls, Agosto 2004

Si proseguirà il prossimo giorno...
Domenico34
00mercoledì 25 gennaio 2012 00:19
PRIMA PARTE



Capitolo 1



L’ORDINE DI SCRIVERE: L’ISPIRAZIONE DIVINA


Il titolo di questo capitolo con la relativa trattazione, pur non avendo nessuna attinenza col titolo del libro, l’abbiamo scritto, non solamente per mettere in risalto la frase: Mosè mise per iscritto... per ordine del SIGNORE, ma principalmente per affermare che anche per le varie tappe del cammino del popolo del Signore, portano il segno caratteristico della divina ispirazione di quanto è stato scritto a loro riguardo

Queste sono le tappe fatte dai figli d'Israele che uscirono dal paese d'Egitto, divisi in schiere, sotto la guida di Mosè e di Aaronne.Mosè mise per scritto le loro marce, tappa per tappa, per ordine del SIGNORE; e queste sono le tappe che fecero nel loro cammino (Numeri 33:1,2).

Questi due versetti non ci indicano soltanto Mosè ed Aronne come guide del popolo che esce dal paese d’Egitto, ma precisano che la lista delle loro marce e tappe fu redatta per esplicita volontà del Signore e non per desiderio di Mosè.
Viene naturale chiedersi: per quale scopo? Solo per tramandarla ai posteri? Noi crediamo che in quest’ordine divino c’era un preciso piano del Signore, quello di far sapere (prima al suo popolo e poi a tutti quelli che avrebbero letto la Bibbi che le cose scritte in questo Libro, non sono frutto della volontà umana, ma di quella divina.

Materialmente, le Sacre Scritture furono scritte da uomini (tranne i Dieci Comandamenti, scritti direttamente dal dito di Dio, cfr. (Esodo 34:28) e Deuteronomio 9:10); ma sappiamo che questi scrittori, pur mantenendo ciascuno i propri talenti e le proprie caratteristiche, sono stati ispirati dallo Spirito Santo per redigere i 66 libri che compongono la Bibbia.

Per quelli che credono alla divina ispirazione, quindi, la Bibbia non può essere considerata il prodotto del genio e dell’intelligenza umana, ma il risultato dell’opera dello Spirito di Dio che, attraverso strumenti umani, portò a compimento un preciso piano divino a beneficio dell’intera umanità.

Ecco perché l’apostolo Paolo affermò, in maniera dogmatica:
Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona (2 Timoteo 3:16,17).

L’apostolo Pietro affermò la stessa cosa, quando scrisse nella sua epistola:
Nessuna profezia venne mai dalla volontà dell’uomo, ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo (2 Pietro 1:21).

Sono numerosi i versetti in cui Dio ordinò a Mosè di “scrivere”, e servono per farci comprendere l’importanza data dal Signore a certi luoghi e avvenimenti.

1) Esodo17:14: Il SIGNORE disse a Mosè, «Scrivi questo fatto in un libro, perché se ne conservi il ricordo, e fa’ sapere a Giosuè che io cancellerò interamente sotto il cielo la memoria di Amalec».

In questo testo Dio ordina chiaramente a Mosè di scrivere un fatto in un libro, con la chiara motivazione: perché se ne conservi il ricordo. Il fatto da trascrivere era la vittoria che Giosuè aveva riportato sugli Amalechiti.

Questa vittoria fu molto importante per gli Israeliti, non solo perché fu la prima dopo l’uscita dall’Egitto, ma anche per la maniera con cui venne ottenuta.

Trascriverla in un libro serviva a mantenerla inalterata, evitando qualsiasi cambiamento. Le cose affidate alla memoria dell’uomo possono essere facilmente modificate: per pura dimenticanza, per trascuratezza o per malafede; invece, una volta scritte, anche dopo molti secoli, esse rimangono invariate.

Dio non ha affidato le Sue parole alla cosiddetta “tradizione orale”, ma ha ordinato che fossero scritte, così che ogni uomo, a qualsiasi generazione appartenga, possa sapere esattamente come si svolsero le cose dal principio.

2) Esodo34:27: Poi il SIGNORE disse a Mosè, «Scrivi queste parole, perché sul fondamento di queste parole io ho fatto un patto con te e con Israele».

Il contesto di questo versetto si riferisce a quello che il Signore aveva fatto in favore del Suo popolo, sconfiggendo gli Amorei, i Cananei, gli Ittiti, i Perezei, gli Ivvei e i Gebusei.

Poi c’è l’esortazione di Dio al Suo popolo di non stipulare alleanze con gli altri popoli e di non deviare dall’adorazione dell’unico e vero Dio.
Egli prescrive che, per tre volte all'anno, ogni maschio debba comparire davanti al Signore per celebrare la festa degli Azzimi, quella delle Settimane (cioè delle primizie della mietitura del grano) e la festa della raccolta, alla fine dell’anno.

Si proseguirà il prossimo giorno...
Domenico34
00giovedì 26 gennaio 2012 00:18
Dio ordina a Mosè di scrivere tutte queste cose, perché è sul fondamento di queste parole che si basa l’alleanza tra Dio e Israele.

In tal modo le condizioni del patto ordinato da Dio rimanevano inalterate e ogni membro della famiglia d’Israele sapeva esattamente cosa doveva mettere in pratica.

3) Isaia30:8: Ora vieni e traccia queste cose in loro presenza sopra una tavola e scrivile in un libro, perché rimangano per i giorni futuri, per sempre.

Anche in questo brano di Isaia troviamo l’ordine divino di scrivere su una tavoletta e in un libro cose che Dio voleva rimanessero per i giorni avvenire, per sempre. Questo, naturalmente non fa che confermarci che la Parola del Signore è stabile e non è soggetta a nessun cambiamento (cfr. Salmo 119:89).

4) Geremia36:2: Prenditi un rotolo da scrivere e scrivici tutte le parole che ti ho dette contro Israele, contro Giuda e contro tutte le nazioni, dal giorno che cominciai a parlarti, cioè dal tempo di Giosia, fino a oggi.

Se Geremia chiese a Baruc di riscrivere quello che il re Ioiachim aveva bruciato col fuoco, fu perché Dio gli ordinò di farlo.
Il fuoco può momentaneamente distruggere la pergamena o la carta su cui è stata scritta la Parola del Signore, ma non la Parola stessa. Attraverso i secoli, la Bibbia è stata più volte bruciata e chi l’ha fatto ha creduto di distruggerla e di estirparla dal cuore del credente. Ma questo piano non è riuscito, perché Dio ha vigilato sulla Sua Parola.

5) Ezechiele24:2;37:16: Figlio d'uomo, scriviti la data di questo giorno, di quest’oggi! Oggi stesso, il re di Babilonia marcia contro Gerusalemme…
Tu, figlio d'uomo, prenditi un pezzo di legno e
scrivici sopra: "Per Giuda e per i figli d'Israele che gli sono associati". Poi prenditi un altro pezzo di legno e scrivici sopra: "Per Giuseppe, bastone di Efraim e di tutta la casa d'Israele che gli è associata".
Nel primo di questi due testi Dio ordinò ad Ezechiele di scrivere la data dell’assedio del re di Babilonia contro la città di Gerusalemme.
Ovviamente, Ezechiele non scrisse con lo scopo di conservare un dato storico (anche se questo ha la sua importanz ma perché glielo ordinò Dio.
Anche l’ordine di scrivere su un legno: Per Giuda e per i figli d’Israele, e su un altro: Per Giuseppe e per la casa d’Israele, venne direttamente dal Signore
.

6) Abacuc2:2: Il SIGNORE mi rispose e disse: «Scrivi la visione, incidila su tavole, perché si possa leggere con facilità…».

Ecco un altro esempio veterotestamentario dell’ordine di scrivere impartito a un profeta.

Tutti i brani esaminati hanno un denominatore comune: Dio ha ordinato di scrivere!

Anche se non sono tantissimi, sono comunque sufficienti per affermare che è stato il Signore in persona a voler mettere per iscritto la Sua Parola, per lasciare un'efficace e convincente testimonianza.

I vari scrittori della Bibbia non scrissero secondo la loro volontà, il loro genio e la loro erudizione. Fu lo Spirito Santo a guidarli a scrivere storie, avvenimenti e profezie. Nel Nuovo Testamento c’è un solo libro, tra i 27 che lo compongono, in cui ricorre (per cinque volte) l’ordine divino di scrivere: il libro dell’Apocalisse. Ecco, qui di seguito i cinque versetti.

7) Apocalisse1:11: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatiri, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea».

8) Apocalisse1:19: Scrivi dunque le cose che hai viste, quelle che sono e quelle che devono avvenire in seguito.
Il Personaggio che ordina all’apostolo Giovanni di scrivere ciò che sta vedendo e ciò che vedrà in seguito si autodefinisce l’alfa e l’omega
(v. 8), cioè Gesù Cristo.

Lo scopo dell’ordine è di far conoscere le cose che accadranno. Infatti, se non ci fosse l’Apocalisse di Giovanni si saprebbe ben poco degli eventi futuri, sia per la chiesa di Gesù Cristo che per il mondo. Questo libro non è di facile interpretazione, ma il Signore ha voluto che gli eventi mostrati a Giovanni venissero “scritti”.

9) Apocalisse14:13: E udii una voce dal cielo che diceva: «Scrivi: beati i morti che da ora innanzi muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, essi si riposano dalle loro fatiche perché le loro opere li seguono».

L’ordine di scrivere qui riguarda i morti che vengono definiti beati e che si riposano dalle loro fatiche. È chiaro che non tutti i morti rientrano in questa categoria, ma solo quelli che muoiono nel Signore.

10) Apocalisse19:9: E l’angelo mi disse: «Scrivi: “Beati quelli che sono invitati alla cena delle nozze dell'Agnello”». Poi aggiunse: «Queste sono le parole veritiere di Dio».

Qui l’ordine di scrivere, viene a Giovanni da una voce simile al fragore di molte acque e, in vista della celebrazione della cena delle nozze dell’Agnello, gli viene precisato che sono beati solo quelli che sono invitati.

Dunque non tutti parteciperanno a questo banchetto speciale. Per evitare ogni possibile equivoco viene poi ribadito che quello che Giovanni è invitato a scrivere sono le veraci parole di Dio.

11) Apocalisse21:5: E colui che siede sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Poi mi disse: «Scrivi, perché queste parole sono fedeli e veritiere».

L’ultimo ordine di scrivere viene direttamente da Colui che siede sul trono, Colui che fa nuove tutte le cose, e le cui parole sono veraci e veritiere, cioè Dio.
Dunque sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, ricorrono versetti in cui Dio ordina esplicitamente di mettere per iscritto le Sue Parole. La ragione più ovvia è che questo prova l’ispirazione divina delle Scritture.

PS: Se al termine del capitolo 1 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Si proseguirà il prossimo giorno...
Domenico34
00venerdì 27 gennaio 2012 00:08
Capitolo 2



DA RAAMSES A SUCCOT



Partirono da Raamses il primo mese, il quindicesimo giorno di quel mese. Il giorno dopo la Pasqua, i figli d’Israele partirono a testa alta, sotto gli occhi di tutti gli Egiziani,
mentre gli Egiziani seppellivano quelli che il SIGNORE aveva colpito in mezzo a loro, cioè tutti i primogeniti, quando anche i loro dèi erano stati colpiti dal giudizio del SIGNORE.
I figli d’Israele partirono dunque da Raamses e si accamparono a Succot
(Numeri 33: 3-5).

Raamses

Tornare un po’ indietro nel tempo è utile per ricordare il passato e per ricostruire la storia della lunga permanenza dei figli d’Israele nel paese di Egitto, da Raamses alla volta di Succot, la loro prima tappa.

Già al tempo in cui Giuseppe si fece riconoscere dai suoi fratelli e si riconciliò con loro, il messaggio che mandò a suo padre fu:

...Così dice tuo figlio Giuseppe: Dio mi ha stabilito signore di tutto l'Egitto; scendi da me, non tardare; tu abiterai nel paese di Goscen e sarai vicino a me: tu e i tuoi figli, i figli dei tuoi figli, le tue greggi, i tuoi armenti e tutto quello che possiedi (Genesi 45:9-10).

Accertatosi che la sua discesa in Egitto rientrava nel piano e nella volontà di Dio, Giacobbe incontrò suo figlio Giuseppe proprio a Goscen (Genesi 46:28,29).
Lo stesso Giuseppe indusse i suoi fratelli a chiedere al faraone di permettere loro di stabilirsi a Goscen (Genesi 46:34; 47:4).
Il faraone diede loro l’autorizzazione a stabilirsi a Goscen, con tutto quello che avevano portato da Canaan (47:6).
Così Giuseppe sistemò la famiglia di suo padre nella parte migliore del paese, nel territorio di Raamses, come il faraone aveva ordinato (47:11).

Questi due nomi di Goscen e Raamses indicano, rispettivamente, la regione in cui la famiglia di Giacobbe abitò durante il lungo soggiorno di quattrocentotrent’anni in Egitto (Esodo 12:40).

In base ad Esodo 1:11 la città di Raamses venne costruita come città-deposito dal popolo d’Israele e prese il nome dal faraone Raamses II (1290-1223 a.C.) [Cfr. G. Von Rad, Genesi, pag. 550].

Il testo biblico afferma che la regione in cui la famiglia di Giacobbe si stabilì non era solamente una zona fertile, adatta all’allevamento del bestiame minuto e grosso, ma era anche la parte migliore del paese d’Egitto.

In questo territorio la discendenza del patriarca dunque crebbe in modo straordinario, nonostante i soprusi e i violenti maltrattamenti che subirono durante tutto il tempo della loro permanenza in Egitto.

Quando Giacobbe scese in Egitto, il totale della sua famiglia, compreso Giuseppe e i suoi due figli nati in Egitto, ammontava a settanta persone. Quando ne uscì, al termine dei quattrocentotrent’anni, erano diventati seicentomila uomini a piedi, senza contare i fanciulli (Esodo 12:37).

Si calcola che la somma totale si aggirava intorno a due milioni e mezzo di individui. Dio aveva promesso che avrebbe fatto di Abrahamo una grande nazione (Genesi 12:2) e la stessa promessa venne ripetuta a Giacobbe, a Beer-Sceba (Genesi 46:2-3).

Non è possibile che una promessa divina venga neutralizzata e non si avveri.
Non ci sono forze diaboliche che possano impedire l'adempimento di una promessa divina.

I piani divini, sia riguardanti un popolo che una singola persona, possono essere ostacolati e ritardati, ma mai modificati o annullati. Quello che il Signore ha stabilito nella Sua sovranità si avvererà, in accordo con quanto detto dal profeta:

Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare,
così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non ritorna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l'ho mandata
(Isaia 55:10,11).

Raamses, dunque, evocava al popolo d’Israele la fertilità della zona, il meglio del paese di Egitto e il luogo in cui era cresciuto numericamente in maniera sbalorditiva. Ma riportava alla memoria anche le tante lacrime, i soprusi e le crudeli angherie subite da parte degli Egiziani.

Israele sebbene fosse il popolo di Dio, scelto da Lui stesso, dovette affrontare un periodo di travagli e sofferenze senza pari. E questo stato di cose durò per un tempo determinato: ben quattrocentotrent’anni, al termine dei quali poté uscire dalla fornace di ferro (Deuteronomio 4:20).

La dura schiavitù che la discendenza di Giacobbe subì in Egitto fu permessa dal Signore come un perenne monito a non dimenticare la triste situazione da cui Dio li aveva tratti e anche per comprendere le situazioni d'indigenza in cui si sarebbero trovati gli altri (cfr. Deuteronomio 5:15; 15:15; 16:12; 24:17-18,21-22).

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Domenico34
00sabato 28 gennaio 2012 00:30
Infine, Raamses, oltre ad evocare le tante sofferenze fisiche, il pianto straziante di tante mamme nel veder gettati nel Nilo i loro neonati maschi, ricordava loro il modo con cui la mano potente di Dio li aveva liberati dalla schiavitù (Deuteronomio 6:12; 7:19).

Ecco perché il testo sacro (Numeri 33:3) afferma che quando gli Israeliti partirono da Raamses alla volta di Succot, lo fecero a testa alta (pieni di baldanza, N. Diodati; a mano alzata, Diodati e CEI).

L’atteggiamento di un popolo che per tantissimi anni era stato il bersaglio della spietata tirannia degli Egiziani era totalmente cambiato, grazie all’intervento di Dio.

Se il faraone mandò via dal suo paese gli Israeliti non fu perché non erano più di suo gradimento o perché non ricavava più vantaggi dalla loro produttività (come negli anni passati), ma perché fu costretto dalla mano potente del Signore che si era abbattuta su tutti gli Egiziani e aveva fatto morire tutti i loro primogeniti, sia degli uomini che degli animali.

Se Dio non avesse colpito gli Egiziani in quel modo, il faraone non avrebbe mai acconsentito a lasciare partire Israele, e la schiavitù di questo popolo non avrebbe mai avuto fine.

Davanti alla chiara manifestazione della potenza di Dio in loro favore, gli Israeliti che lasciarono l’Egitto avevano tutte le ragioni per uscire a testa alta, pieni di baldanza e a mano alzata.

Questo per dimostrare a tutti, e agli Egiziani in modo particolare, che non stavano lasciando l’Egitto da sconfitti ed umiliati ma come veri trionfatori, grazie al loro Dio onnipotente.

Dalla storia della liberazione del popolo d’Israele, il cristianesimo può ricavare una brillante illustrazione, applicabile alla salvezza di ogni peccatore per opera di Gesù Cristo.

Infatti, chi libera dalla schiavitù del peccato, è solamente il Figlio di Dio, avendo sacrificato la sua vita come prezzo di riscatto (Matteo 20:28).

Una persona o un popolo che viene messo in libertà, ha motivo di alzare la testa, a dimostrazione della riacquistata libertà su chi lo ha tenuto schiavo per tanto tempo e a lode di Colui che lo ha reso veramente libero dal peccato (Giovanni 8:32-36). A Lui la gloria!

Ogni cristiano, nel corso della sua vita, conosce il suo Raamses, il suo luogo di sofferenze e lacrime.
Per alcuni, i dolori e i travagli sono tantissimi e sembrano interminabili, ma bisogna tenere sempre presente quello che lasciò scritto l’apostolo Paolo:

Io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev’essere manifestata a nostro riguardo (Romani 8:18).

Le sofferenze del tempo presente non si possono paragonare alla gloria futura perché, qualitativamente, la differenza è abissale e perché, anche in senso quantitativo, le prime hanno una durata, cioè sono limitate, mentre la seconda è illimitata, cioè abbraccia l’eternità.

Anche se i quattrocentotrent’anni di permanenza in Egitto, sotto il peso schiacciante di soprusi e angherie, furono lunghissimi, arrivò il momento della liberazione. Dal giorno in cui Israele uscì dal paese di Egitto cominciò una nuova era, non solo di libertà, ma anche con la rosea prospettiva di entrare in possesso della terra di Canaan, che Dio aveva promesso ad Abrahamo, Isacco e Giacobbe.

Ogni persona salvata mediante la potenza del vangelo e resa libera dalla schiavitù del peccato comincia una nuova vita (2 Corinzi 5:17), realizza la fedeltà e la bontà di Dio, e ha la certezza di entrare in possesso di una eredità incorruttibile, conservata in cielo (1 Pietro 1:4), che il Signore ha promesso a tutti quelli che Lo amano (1 Corinzi 2:9).

Succot


Il primo accampamento d’Israele dopo la partenza da Raamses fu a Succot.
Questo luogo, che si trova nella valle del Giordano (vicino a Sartan, (1 Re 7:46), ci fa ripensare a Giacobbe e a quello che egli fece in questa stessa località, dopo la riconciliazione con suo fratello Esaù.

Giacobbe partì alla volta di Succot, costruì una casa per sé e fece delle capanne per il suo bestiame; per questo quel luogo fu chiamato Succot (Genesi 33:17).

Visto che la Bibbia non riporta eventi particolari verificatisi durante il primo accampamento di Israele, l’unico elemento di riflessione lo prenderemo proprio dal nome: Succot, che significa “capanne”.

Una capanna, come dice il dizionario, è «una piccola costruzione di pietra, legno, canne, frasche, ecc., usata come rifugio provvisorio (e anche come abitazione o come ricovero per il bestiam dai pastori, dai carbonai, dai contadini o dagli alpinisti. – Per similitudine, casa piccola e povera (specialmente in campagn; tugurio» [S. Battaglia, GDLI, (Grande Dizionario della lingua italiana) Vol. II, pag. 675].

Di solito le capanne erano costruite con frasche o canne ma, anche se fatte con pietre, erano comunque senza fondamenta. Un’abitazione di questo tipo non ha un gran valore perché non è stabile, non resiste alla furia di una bufera, viene facilmente sradicata e quindi non dà nessuna garanzia a chi l’abita.

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Domenico34
00domenica 29 gennaio 2012 00:23
Il Signore ordinò che ogni anno, il popolo d’Israele celebrasse per sette giorni la festa delle Capanne:

Il SIGNORE disse ancora a Mosè: «Parla ai figli d'Israele e di' loro: “Il quindicesimo giorno di questo settimo mese sarà la festa delle Capanne, durerà sette giorni, in onore del SIGNORE.
Il primo giorno vi sarà una santa convocazione; non farete nessun lavoro ordinario. Per sette giorni offrirete al SIGNORE dei sacrifici consumati dal fuoco. L'ottavo giorno avrete una santa convocazione e offrirete al SIGNORE dei sacrifici consumati dal fuoco. È giorno di solenne assemblea; non farete nessun lavoro ordinario.
Queste sono le solennità del SIGNORE che voi proclamerete come sante convocazioni, perché si offrano al SIGNORE sacrifici consumati dal fuoco, olocausti e oblazioni, vittime e libazioni, ogni cosa al giorno stabilito, oltre i sabati del SIGNORE, oltre ai vostri doni oltre a tutti i vostri voti e a tutte le offerte volontarie che presenterete al SIGNORE.
Il quindicesimo giorno del settimo mese, quando avrete raccolto i frutti della terra, celebrerete una festa al SIGNORE per sette giorni; il primo giorno sarà di completo riposo, e l'ottavo di completo riposo.
Il primo giorno coglierete dagli alberi dei frutti di bell’aspetto, dei rami di palma, rami di mortella e rami di salici di torrente, e vi rallegrerete davanti al SIGNORE, Dio vostro, per sette giorni. Celebrerete questa festa in onore del SIGNORE per sette giorni, ogni anno. È una legge perenne, di generazione in generazioni. La celebrerete il settimo mese.
Abiterete in capanne per sette giorni; tutti quelli che saranno nativi d'Israele abiteranno in capanne, affinché i vostri discendenti sappiano che io feci abitare in capanne i figli d'Israele, quando li feci uscire dal paese d'Egitto. Io sono Il SIGNORE, il vostro Dio
(Levitico 23:33-43).

Nel medesimo spirito e con le stesse regole, venne celebrata la festa delle capanne ai tempi di Esdra e di Neemia:

Il secondo giorno, i capi famiglia di tutto il popolo, i sacerdoti e i Leviti si radunarono presso Esdra, lo scriba, per esaminare le parole della legge.
Trovarono scritto nella legge che il SIGNORE aveva data per mezzo di Mosè, che i figli d'Israele dovevano abitare in capanne durante la festa del settimo mese, e che in tutte le loro città e in Gerusalemme si doveva pubblicare questo bando: «Andate al monte, a cercare rami d’olivo, rami d’olivastro, di mirto, di palma e alberi ombrosi, per farne delle capanne, come sta scritto».
Allora il popolo andò fuori, portò i rami, e ciascuno fece la sua capanna sul tetto della propria casa, nel proprio cortile, nei cortili della casa di Dio, sulla piazza davanti alla porta delle Acque, e sulla piazza davanti alla porta di Efraim.
Così tutta l’assemblea di quanti erano tornati dall’esilio si fece delle capanne, e abitò nelle capanne. Dal tempo di Giosué, figlio di Nun, fino a quel giorno, i figli d'Israele, non avevano più fatto così. E vi fu grandissima gioia
(Neemia 8:13-17).

Come si può notare i materiali usati per costruire le capanne erano: rami d’olivastro, di mirto, di palma e di alberi ombrosi. Ovviamente gli Israeliti, al tempo di Neemia, costruirono queste capanne solo per ricordare il passato, in ubbidienza alla Legge di Mosè, e non certo per restarvi alloggiati dopo i giorni della celebrazione.

Invece, al tempo di Mosè, tende e capanne servirono come abitazioni permanenti per tutta la durata del pellegrinaggio di Israele, da Raamses fino al Giordano.

Quale applicazione spirituale si può ricavare da Succot, la prima tappa del popolo d’Israele?

Come abbiamo detto, Succot significa capanne, abitazioni provvisorie, e ciò dovrebbe ricordare al popolo di Dio che durante il suo cammino terreno, non ha una dimora stabile.

In altre parole, anche se abita in questo mondo, il cristiano non appartiene ad esso, è un cittadino del cielo.

In senso figurato è un residente senza cittadinanza, uno che vive solo provvisoriamente su questa terra e nello stesso tempo è proteso verso la dimora permanente celeste, il cui architetto e costruttore è Dio (Ebrei 11:10).
La Parola di Dio ordina a tutti i veri credenti:

Se dunque siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù dove Cristo è seduto alla destra di Dio.
Aspirate alle cose di lassù, non a quelle che sono sulla terra…
Fate dunque morire ciò che in voi è terreno: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e cupidigia, che è idolatria.
Per queste cose viene l'ira di Dio [sui figli ribelli]
(Colossesi 3:1-6).

Non dobbiamo mai dimenticare che i nostri cari, la nostra bella casa, il televisore a 99 pollici, il conto in banca, il nostro bel giardino, l’adorata collezione, ecc. sono tutte cose provvisorie, mentre quelle che non si vedono sono eterne (2 Corinzi 4:18).

PS: Se al termine fel capitolo 2 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura.



Capitolo 3



DA SUCCOT A ETAM E AL MAR ROSSO



Partirono da Succot e si accamparono a Etam, che è all’estremità del deserto.
Partirono da Etam e piegarono verso Pi-Achirot, che è di fronte a Baal-Sefon, e si accamparono davanti a Migdol.
Partirono da davanti ad Achirot, attraversarono il mare in direzione del deserto, fecero tre giornate di marcia nel deserto di Etam e si accamparono a Mara.
Partirono da Mara e andarono a Elim, dove c'erano dodici sorgenti d'acqua e settanta palme. Là si accamparono.
Partirono da Elim e si accamparono presso il mar Rosso
(Numeri 33:6-10; Esodo 13:20; 14:1,2).

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Domenico34
00lunedì 30 gennaio 2012 00:11
Etam

Osservando sulla carta geografica gli spostamenti del popolo d’Israele notiamo che, giunti ad Etam, il Signore avrebbe potuto farli passare subito oltre il Mar Rosso (come avvenne più tardi). Invece, Egli ordinò che tornassero indietro e si accampassero di fronte a Pi-Achirot, fra Migdol e il mare.

Senza il racconto dell’Esodo, non sapremmo come procedeva il popolo e in che modo Dio li guidasse:
Egli non allontanava la colonna di nuvola durante il giorno, né la colonna di fuoco durante la notte, dal cospetto del popolo (Esodo 13:22).

Questa precisazione del testo sacro serve per farci vedere come il Signore, dopo averli fatti uscire del paese d’Egitto, aveva preso saldamente in mano le redini della loro vita e li guidava di giorno e di notte.

La colonna di nuvola che andava davanti a loro serviva per guidarli di giorno e la colonna di fuoco per far luce di notte. Notte e giorno, quindi, Dio era tangibilmente presente in mezzo al Suo popolo.

Questa realtà vale anche per il cristiano di oggi.
Come ci è stato promesso, Gesù è con noi tutti i giorni (Matteo 28:20) e sapere che Egli si prende cura, giorno e notte, dell’esistenza dei Suoi ciò serve a rassicurarci e a infonderci fiducia e coraggio, affinché non ci perdiamo mai d’animo.

Il cammino cristiano infatti non è scevro da avversità e pericoli di ogni genere; ma in qualsiasi evenienza, anche drammatica, in cui potremmo trovarci, possiamo contare sulla presenza e sulla fedeltà di Dio.

Colui che è stato sempre attivo nel condurre il popolo dell’Antico Patto durante il pellegrinaggio nel deserto, continuerà, a maggior ragione, ad assicurare la Sua assistenza ad ogni singolo credente che si è affidato alle Sue mani.

Come conferma un’altra promessa del Nuovo Testamento: Colui che ha cominciato in voi un’opera buona, la condurrà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù (Filippesi 1:6).

Migdol

A proposito delle località di Pi-Achirot, Baal-Sefon e Migdol, dove Israele si accampò dopo la partenza da Etam, facciamo qualche osservazione sul significato etimologico dei loro nomi.

Migdol significa “Torre”. Tenendo presente quello che sta per verificarsi, si può comprendere perché il Signore diede a Mosè l’ordine di far tornare indietro il popolo e di farlo accampare in questa località.

Le torri, anticamente, venivano usate come posti di osservazione.
Essendo strutture sopraelevate, esse consentivano di scorgere in lontananza l’avvicinarsi di un pericolo: per esempio, un nemico in arrivo. In questo caso, le sentinelle davano l’allarme e tutto veniva predisposto per fronteggiare la situazione e non cadere nelle mani dell’avversario.

Dio sapeva che il faraone avrebbe inseguito il popolo d’Israele, con l’intenzione di farlo tornare in Egitto. Migdol era il posto ideale per scorgere in lontananza l’arrivo del faraone, con i suoi seicento carri.

Il significato del nome dell’altra località, cioè Baal-Sefon, è “Signore della vigilanza”, ci aiuta anch’esso a comprendere perché il Signore ordinò di ripiegare e di far accampare il suo popolo in queste zone.

Se c’era Uno che osservava attentamente tutto l’evolversi della situazione, questi era sicuramente il Signore, Colui che andava davanti al popolo, di giorno in una colonna di nuvola e di notte in una colonna di fuoco.

Il Signore aveva assunto la guida del Suo popolo, perciò non poteva ignorare la rabbia e la determinazione del faraone, partito all’inseguimento degli Israeliti in marcia verso il Mar Rosso.

Da un punto di vista spirituale, questo episodio ci può insegnare una preziosa verità che sarà utile ricordare per non cadere mai nella trappola dello scoraggiamento: il Guardiano del popolo di Dio non dorme e non sonnecchia (Salmo 121:4)!

Egli è veramente il “Signore della vigilanza” e vigila costantemente su tutti quegli eventi che potrebbero determinare seri pericoli per i Suoi figli.
Anche se tutto è calmo e sereno, e sembra filare nel verso giusto, ci sono sempre in agguato delle forze nemiche, agguerrite dalla furia dell’inferno, capaci di far impallidire i più valorosi e creare scompiglio e turbamento fra il popolo di Dio.

Ma, tenendo presente che il Signore ha tutto sotto controllo, i credenti possono riposare tranquilli e fiduciosi sulle promesse divine, che ci assicurano: neppure un capello del vostro capo perirà (Luca 21:18).

Il passaggio del Mar Rosso

La sosta a Migdol, servì per preparare l’evento straordinario e miracoloso della traversata del Mar Rosso.

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Domenico34
00martedì 31 gennaio 2012 00:09
Mentre il popolo si trovava accampato presso il Mar Rosso, vicino a Pi-Achirot, di fronte a Baal-Sefon, il faraone con tutto il suo seguito, costituito da centinaia di carri e cavalieri, venne avvistato in lontananza.

Di fronte alla situazione di grave pericolo, che non avevano previsto, i figli d’Israele ebbero una gran paura e gridarono al SIGNORE (Esodo 14:10).

La paura del popolo era più che giustificata, almeno per tre motivi: 1) la brutalità degli Egiziani, che la popolazione aveva già sperimentato sulla propria pelle; 2) la prospettiva di ritornare schiavi in Egitto; 3) il Mar Rosso che sbarrava loro la strada e non permetteva vie di scampo.

Se il popolo non si fosse trovato davanti a una situazione così drammatica, con ogni probabilità non avrebbe gridato a Dio per essere soccorso.
Ciò che suggerisce la Scrittura in questi frangenti è sempre vero e si applica in tutti i casi:
Invocami nel giorno della sventura, io ti salverò e tu mi glorificherai (Salmo 50:15).

Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno (Romani 8:28).

Davanti a queste specifiche promesse di Dio, invece di guardare alle difficoltà, dobbiamo guardare alla potenza divina, che è a nostra disposizione, e crederci.

La vita cristiana è piena di difficoltà di ogni genere e non è affatto vero che tutto è rose e fiori.

Ci sono tanti monti e tante vallate che rappresentano una continua sfida alla nostra fede.
E se per una malaugurata ipotesi non ci fossero, la nostra fede sarebbe debole e non avrebbe alcun valore.

Infatti, la consistenza e il valore della fede vengono derivano e sono rafforzati dai pericoli e dalle difficoltà che incontriamo nel cammino della vita.

Gli Israeliti nel vedere gli Egiziani dietro di loro, ebbero una gran paura e pensarono che fra poco sarebbero stati uccisi. Ecco perché:
…dissero a Mosè: «Mancavano forse tombe in Egitto, per portarci a morire nel deserto? Che cosa hai fatto, facendoci uscire dall'Egitto?
Era appunto questo che ti dicevamo in Egitto: “Lasciaci stare, che serviamo gli Egiziani!” Poiché era meglio per noi servire gli Egiziani che morire nel deserto»
(Esodo 14:11,12).

Nei momenti difficili, per l’uomo che non intravede la via d’uscita e non sa confidare nell’intervento di Dio, spesso si affaccia alla mente il pensiero della sconfitta o della morte. La fede, invece, volge lo sguardo alla provvidenza divina ed è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono (Ebrei 11:1).

Mosè, a differenza del popolo, anche se con i suoi occhi vedeva gli Egiziani e i loro carri come tutti gli altri, si espresse come chi confida in una sicura liberazione e nella soluzione del problema.

Mosè disse al popolo: «Non abbiate paura, state fermi e rivedrete la salvezza che il SIGNORE, compirà oggi per voi; Infatti, gli Egiziani che avete visti quest’oggi, non li vedrete mai più.
Il SIGNORE combatterà per voi, e voi ve ne starete tranquilli».
Il SIGNORE disse a Mosè: «Perché gridi a me? Di' ai figli d'Israele che si mettano in marcia.
Alza il tuo bastone, stendi la tua mano sul mare e dividilo; e i figli d'Israele entreranno in mezzo al mare sulla terra asciutta.
Quanto a me, io indurirò il cuore degli Egiziani e anch’essi entreranno dietro a loro; io sarò glorificato nel faraone e in tutto il suo esercito, nei suoi carri e nei suoi cavalieri.
Gli Egiziani sapranno che io sono il SIGNORE, quando sarò glorificato nel faraone, nei suoi carri e nei suoi cavalieri»
(Esodo 14:13-18).

Per liberare il suo popolo dalle mani degli Egiziani, Dio prima di tutto fermò l’avanzata dei carri del faraone. Ecco perché si legge:

Allora l'Angelo di Dio, che precedeva il campo d'Israele, si spostò e andò a mettersi dietro di loro; anche la colonna di nuvola si spostò dalla loro avanguardia e si fermò dietro a loro,
mettendosi fra il campo dell'Egitto e il campo d'Israele. La nuvola era tenebrosa per gli uni, mentre rischiarava gli altri nella notte. Il campo degli uni non si avvicinò a quello degli altri per tutta la notte
(vv. 19-20).

La notte, con la sua fitta oscurità derivante dalla mancanza della luce del giorno e dalla colonna di nuvola, impedì ai carri del faraone di avvicinarsi all’accampamento d’Israele.

Ma per il popolo d’Israele, quella stessa notte fu radiosa, perché erano illuminati dalla luce divina e perché Dio li fece camminare per l’asciutto, attraverso il Mar Rosso.

Gli Egiziani, con i loro carri, tentarono di inseguire il popolo d’Israele percorrendo la stessa strada che il Signore aveva aperto davanti agli Israeliti.

Ma mentre per gli uni (gli Israeliti) fu un cammino di salvezza e di liberazione, per gli altri (gli Egiziani) significò la distruzione. Le strade che Dio apre per il suo popolo in difficoltà sono sempre salutari per i Suoi figli, ma non per i loro nemici.

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Domenico34
00mercoledì 1 febbraio 2012 00:14
L’evento straordinario e miracoloso che Dio compì dividendo le acque del Mar Rosso, facendo passare il Suo popolo e liberandolo definitivamente dagli Egiziani, è l’emblema della vittoria dell’Onnipotente nei confronti delle potenze diaboliche dell’inferno.

Così, in quel giorno, il SIGNORE salvò Israele dalle mani degli Egiziani, Israele vide gli Egiziani morti sulla riva del mare.
Israele vide la grande potenza con cui il SIGNORE aveva agito contro gli Egiziani. Il popolo perciò ebbe timore del SIGNORE, credette nel SIGNORE e nel suo servo Mosè
(vv. 30-31).

Allo stesso modo ogni cristiano che confida nel Signore Gesù può cantare, con spirito di gratitudine e riconoscenza:
Il SIGNORE è la mia forza e l’oggetto del mio cantico; egli è stato la mia salvezza. Questi è il mio Dio, io lo glorificherò, è il Dio di mio padre, io lo esalterò (Esodo 15:2).

PS: Se al termine del capitolo 3 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura



Capitolo 4




DA ACHIROT A MARA E AD ELIM




Partirono da davanti ad Achirot, attraversarono il mare in direzione del deserto, fecero tre giornate di marcia nel deserto di Etam e si accamparono a Mara.
Partirono da Mara e andarono a Elim; ad Elim dove c'erano dodici sorgenti d'acqua e settanta palme. Là si accamparono
(Numeri 33:8-9);

Poi Mosè fece partire gli Israeliti dal mar Rosso ed essi si diressero verso il deserto di Sur; camminarono tre giorni nel deserto e non trovarono acqua.
Quando giunsero a Mara, non potevano bere l’acque di Mara perché era amara; perciò quel luogo fu chiamato Mara.
Allora il popolo mormorò contro Mosè, dicendo: «Che berremo?».
Egli gridò al SIGNORE; e il SIGNORE gli mostrò un legno. Mosè lo gettò nell’ acqua, e l’acqua divenne dolce. È lì che il SIGNORE diede al popolo una legge e una prescrizione, e lo mise alla prova, dicendo:
«Se tu ascolti attentamente la voce del SIGNORE che è il tuo Dio, e fai ciò che è giusto agli occhi suoi, porgi orecchio ai suoi comandamenti e osservi tutte le sue leggi, io non ti infliggerò nessuna delle infermità che ho inflitte agli Egiziani, perché io sono il SIGNORE, colui che ti guarisce».
Poi giunsero quindi a Elim, dov'erano dodici sorgenti d'acqua e settanta palme; e si accamparono lì presso le acque (Esodo 15:22-27).

Mara

Liberati definitivamente dagli Egiziani e col cuore allegro per il grande miracolo che il Signore aveva fatto al Mar Rosso, su ordine di Mosè, gli Israeliti ripartirono.

Il testo sacro precisa che si diressero verso il deserto di Sur, camminarono tre giorni in quella regione arida e non trovarono acqua.

Si può facilmente intuire il loro disagio durante quelle tre giornate.
Per una moltitudine di persone come gli Israeliti (fra uomini, donne e bambini si calcola possano essere stati sui due milioni e cinquecentomila, senza contare l’abbondante bestiam, camminare in un deserto era una vera prova di resistenza, al limite della sopportazione.

L’acqua è un elemento essenziale per il corpo umano (basti pensare che esso è composto d’acqua al 75%) e la sua mancanza crea situazioni drammatiche.
Eppure, non leggiamo che ci siano state manifestazioni di malcontento in mezzo alla gente.

I mormorii cominciarono a manifestarsi dopo le tre giornate di cammino nel deserto, quando trovarono l’acqua e non la poterono bere, perché era inquinata.

Ecco perché a quella località venne assegnato il nome Mara, che significa: “amaro, amarezza”.

A che serve avere acqua a disposizione (anche abbondant quando non la si può utilizzare, perché avvelenata?

Per togliere ciò che intossicava questo prezioso liquido, Dio fa un miracolo: indica a Mosè un legno che, gettato dentro, purifica le acque da ogni inquinamento e le rende potabili.

L’intervento divino, che fece seguito alla preghiera rivolta da Mosè al Signore, prova che Dio era interessato ai bisogni del Suo popolo e vi provvedeva in prima persona.

A questo punto usciamo dallo stretto ambito storico e facciamo un’applicazione spirituale che riguarda tutti noi.
Qui non c’è solamente il ricordo di un episodio passato a favore di un popolo che visse in altri contesti socio-culturali, ma c’è una preziosa lezione per ogni figlio di Dio.

Dio non è mai indifferente quando si verifica un qualsiasi problema in mezzo ai Suoi figli, anzi, è sempre pronto a intervenire e a venire in soccorso di quanti si rivolgono a Lui.

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Domenico34
00giovedì 2 febbraio 2012 00:14
Il deserto della vita mette a dura prova chiunque, specie quando veniamo da una felice esperienza che ci ha riempito di gioia. Per Israele non fu facile lasciare il Mar Rosso, il luogo in cui Dio aveva manifestato in loro favore la Sua potenza, facendo scaturire dai loro cuori un canto trionfale.

Rimanere accampati in un luogo che evoca continuamente la manifestazione della potenza di Dio, viene naturale.

Nel Nuovo Testamento, dopo aver assistito a una straordinaria trasfigurazione di Gesù (Matteo 17:4), Pietro voleva restare sulla montagna assieme al Signore, a Mosè e a Elia.

Di esperienze spirituali, che arricchiscono in modo straordinario la vita dei credenti, ce ne possono essere tante; e ognuna mette in risalto la bontà di Dio e la premura che Egli ha manifestato nei nostri confronti.
Quindi non fermiamoci alle prime esperienze, ma andiamo avanti.

Mosè era in stretto contatto con Dio e quando impartiva al popolo i suoi ordini, era in piena sintonia con il volere divino.
Dunque, nell’ordine che Mosè diede al popolo di lasciare il Mar Rosso per incamminarsi verso una nuova destinazione, non bisogna vedere solamente la volontà di un capo che vuole perseguire il suo programma, ma anche la volontà divina di farci avanzare per nuove esperienze, e altre vittorie.

Con le tre giornate di cammino nel deserto, Israele fece una nuova esperienza, anche se meno felice di quella del Mar Rosso, che contribuì ad arricchire il loro bagaglio di vita nel servizio di Dio.

Inizialmente, le acque amare portarono gli Israeliti a mormorare contro il servo del Signore Mosè (atteggiamento che non può essere giustificato per nessuna ragion, ma proprio a causa di quella particolare emergenza poterono sperimentare l’intervento del Signore, che cambiò l’amaro in dolce.
Nel corso della vita, a volte i credenti incontrano situazioni che possono essere paragonate a sorgenti amare. Prendiamo come esempio la storia di Naomi.

La sua famiglia a causa di una carestia lasciò Betlemme, in terra di Giuda, e si trasferì nel paese di Moab, in cerca di una migliore sistemazione.

Le cose però non andarono come previsto perché, nel giro di poco tempo, nel paese dove si erano trasferiti venne la morte a portar via il marito e i due figli della povera Naomi.
Quando più tardi ella tornò nella sua terra, i suoi concittadini la riaccolsero con gioia:

...Le donne dicevano: «È proprio Naomi?». E lei rispondeva: «Non chiamatemi Naomi; chiamatemi Mara, poiché l'Onnipotente m’ ha riempita d’ amarezza.
Io partii nell'abbondanza e il SIGNORE mi riconduce spoglia di tutto. Perché chiamarmi Naomi, quando il SIGNORE ha testimoniato contro di me, e l'Onnipotente m’ha resa infelice?»
(Ruth 1:19-21).

Naomi, che significa “mia delizia”, preferì farsi chiamare Mara, per esprimere l’amarezza che sentiva in cuore, dopo la perdita del marito e dei figli.

La perdita di un nostro congiunto (marito, moglie, genitori o figli) produce sempre dolore e tristezza nella vita umana. Anche quando si perde un posto di lavoro o una fortuna acquistata col sudore della fronte o la propria salute, si rimane inevitabilmente amareggiati. È come se “l’acqua” della gioia, del benessere e del godimento, che avevamo trovato nel deserto della vita, diventasse amara, insopportabile.

Queste tragiche esperienze non sono riservate solo ai non-credenti, lontani da Dio e dalla Sua Parola, ma anche ai credenti in Cristo Gesù, che si studiano di camminare nelle Sue vie. Ma come intervenne per il popolo d’Israele ai tempi di Mosè, risolvendo quell’enorme problema, Dio interviene anche oggi per i credenti, liberandoli e manifestando la Sua potenza.

Quello che fu indicato a Mosè era un legno particolare o comune? Non ci viene specificato. Però, quando venne gettato nell’acqua inquinata questa divenne dolce, cioè potabile. Ovviamente, se Mosè non avesse obbedito a Dio non sarebbe successo niente.

Dio ha un rimedio da offrire all’uomo di ogni tempo: Cristo Gesù! Solo Lui può addolcire tutte le amarezze della nostra esistenza, cambiare ogni situazione triste e farla diventare motivo di gioia.
Come disse Gesù alla Samaritana, una donna amareggiata dalle delusioni che la vita offre continuamente:

Chiunque beve di quest'acqua avrà sete di nuovo;
ma chi beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui una fonte d'acqua che scaturisce in vita eterna
(Giovanni 4:13-14).

Elim


La scena che si presenta a Mara è ben diversa da quella che il popolo trovò di fronte ad Elim. Invece dell’acqua amara, ad Elim c’erano ben dodici sorgenti d’acqua e settanta palme.
Accamparsi in un luogo del genere è stato sicuramente molto piacevole per Israele.

Qualcuno ha spiegato che lo scopo dei dodici pozzi era di riservarne uno per ogni tribù per evitare i litigi, già verificatisi nel passato.

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Domenico34
00venerdì 3 febbraio 2012 00:54
La presenza delle palme stava a significare che avevano la possibilità di riposare piacevolmente sotto la loro ombra [Cfr. M. Henry, Commentario Biblico, versione italiana, vol. 1, pag. 433].

Le acque di Elim erano potabili; non contenevano elementi nocivi per la salute del popolo.

Ognuno poteva usarle liberamente, senza alcuna restrizione.
Anche se nel corso della vita i cristiani incontrano situazioni difficili di ogni genere, sia dal punto di vista spirituale che umano, non dobbiamo concludere che sarà sempre così.

Di solito, dopo la tempesta segue la bonaccia.
Se certe esperienze negative hanno lasciato l’amaro in bocca e ferite profonde, quelle positive, che immancabilmente seguiranno, addolciranno le amarezze e guariranno le ferite.

Ora, per meglio comprendere il significato spirituale della palma, nelle Scritture, diamo qualche accenno sulla sua altezza, il suo frutto e la sua durata.

«I Greci ed i Romani consideravano la palma l’albero tipico della Palestina e delle zone vicine. Questo albero si innalzava diritto dai 14 ai 20 metri e può sussistere dai 100 ai 200 anni di vita. I frutti molto abbondanti, annui, si presentano in grappoli numerosi: i datteri sono molto ricercati a causa del loro alto valore nutritivo. I persiani hanno menzionato 360 usi della palma da datteri. I noccioli tritati servono anche di alimento per i cammelli del deserto» [Per la sua trattazione, cfr. René Pache, in Nuovo Dizionario Biblico, pagg. 620, 621].

Gli scrittori sacri hanno dato grande importanza a questo albero, tanto da paragonarlo alla crescita del giusto.

Il giusto fiorirà come la palma, crescerà come il cedro del Libano (Salmo 92:12).

Alla palma si ispiravano alcuni motivi ornamentali del tempio di Salomone.

Egli fece ornare tutte le pareti della casa, tutto intorno, tanto all’interno quanto all’esterno, di sculture di cherubini, di palme e di fiori sbocciati.
Ricoprì d’oro il pavimento della casa, nella parte interna e in quella esterna.
All’ingresso del santuario fece una porta a due battenti, di legno d’olivo; la sua inquadratura, con gli stipiti, occupava la quinta parte della parete.
I due battenti erano di legno d’olivo. Egli vi fece scolpire dei cherubini, delle palme e dei fiori sbocciati, e li ricoprì d’oro, stendendo l’oro sui cherubini e sulle palme.
Fece pure, per la porta del tempio, degli stipiti di legno d’olivo, che occupavano un quarto della larghezza del muro
e due battenti di legno di cipresso; ciascun battente si componeva di due pezzi mobili.
Salomone vi fece scolpire dei cherubini, delle palme e dei fiori sbocciati e li ricoprì d’oro, stendendolo sulle sculture
(1 Re 6:29,32,35).

La palma, è simbolo di vittoria e di pace:
La gran folla... …prese dei rami di palme, uscì a incontrarlo, e gridava: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele!» (Giovanni 12:13).

Dopo queste cose guardai e vidi una folla immensa che nessuno poteva contare, proveniente da tutte le nazioni, tribù, popoli e lingue, che stava in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, vestiti di bianche vesti e con delle palme in mano (Apocalisse 7:9).

Anche i libri storici apòcrifi dei Maccabei parlano della palma in riferimento alla pace e alla vittoria:

“Fecero ingresso in quel luogo il ventitrè del secondo mese dell'anno centosettantuno, con canti di lode e con palme, con suoni di cetre, cembali e arpe e con inni e canti, perché era stato eliminato un grande nemico da Israele” (1 Maccabei 13:51).

“Perciò, tenendo in mano bastoni ornati, rami verdi e palme, innalzavano inni a colui che aveva fatto ben riuscire la purificazione del suo proprio tempio” (2 Maccabei 10:7).

Dunque, anche un solo ramo di palma trasmette questo messaggio; se poi ce ne sono dodici alberi, il messaggio è ancora più chiaro.

La vita cristiana non è costellata solo di sconfitte e delusioni (anche se spesso si incontrano resistenze nemiche che infliggono, o fanno presagire, pesanti sconfitt ma, se ci lasciamo guidare da Dio, Egli sicuramente ci farà sperimentare la vittoria e la pace.

Perciò, in mezzo alle tante prove e difficoltà che incontriamo ogni giorno, possiamo unirci all’apostolo Paolo per cantare il suo inno trionfale:

Che diremo dunque riguardo a queste cose? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?
Colui che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per noi tutti, non ci donerà forse anche tutte le cose con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio è colui che li giustifica.
Chi li condannerà? Cristo Gesù è colui che è morto, e ancor più, è risuscitato, è alla destra di Dio, e anche intercede per noi.
Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Sarà forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?
Com’è scritto: «Per amor di te siamo messi a morte tutto il giorno; siamo stati considerati come pecore da macello». Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori in virtù di colui che ci ha amati
(Romani 8:31-37);

…ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo (1 Corinzi 15:57).

PS: Se al termine del capitolo 4 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


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Domenico34
00sabato 4 febbraio 2012 00:10
Capitolo 5




DA ELIM A REFIDIM




Partirono da Elim e si accamparono presso il mar Rosso.
Partirono dal mar Rosso e si accamparono nel deserto di Sin.
Partirono dal deserto di Sin e si accamparono a Dofca.
Partirono da Dofca e si accamparono ad Alus.
Partirono da Alus e si accamparono a Refidim, dove non c'era acqua da bere per il popolo
(Numeri 33:10-14).

A differenza del libro dei Numeri, che menziona quattro tappe (Mar Rosso, deserto di Sin, Dofca e Alus) prima dell’arrivo del popolo a Refidim, l’Esodo si limita a menzionare solo il deserto di Sin.

Questo deserto, infatti, comprende tutte le località menzionate nel libro dei Numeri e abbraccia anche tutta la Penisola del Sinai.

Ovviamente il fine che si propone questo libro non è tanto di dilungarsi sulle varie località in cui venne a trovarsi il popolo d’Israele nella sua lunga marcia, quanto quello di considerare gli avvenimenti che si verificarono e soprattutto le esperienze fatte dagli Israeliti.
Ogni esperienza, anche cattiva, può insegnarci qualcosa: se non altro a non ripetere gli stessi errori del passato. Cominciamo quindi ad esaminare quello che accadde agli Israeliti nel deserto di Sin.

La manna

Tutta la comunità dei figli d'Israele partì da Elim e giunse al deserto di Sin, che è fra Elim e il Sinai, il quindicesimo giorno del secondo mese dopo la loro partenza dal paese d'Egitto.
Tutta la comunità dei figli d'Israele mormorò contro Mosè e contro Aaronne nel deserto.
I figli d'Israele dissero loro: «Fossimo pur morti per mano del SIGNORE nel paese d'Egitto, quando sedevamo intorno alle pentole piene di carne e mangiavamo pane a sazietà! Voi ci avete condotti in questo deserto perché tutta questa assemblea morisse di fame!»
(Esodo 16:1-3).

La mancanza di cibo, per questa moltitudine di gente in marcia nel deserto, ha costituito un serio problema.
Non sapendo come risolverlo, gli Israeliti mormorarono contro Mosè e contro Aaronne, rimpiangendo addirittura l’Egitto, dove avevano pentole piene di carne e… pane a sazietà.

La mancanza di cibo fece loro rimpiangere il passato e li convinse che sarebbero morti di fame nel deserto.

L’uomo carnale, quando si trova davanti ad un problema, invece di confidare nell’intervento di Dio per una felice soluzione, tende a fissare il suo sguardo su ciò che potrebbe cascargli addosso.

Questo non solo ha una ripercussione negativa sulla sua vita e sulla sua fiducia in Dio, ma spesso lo spinge anche a compiere qualcosa che Dio non gradisce affatto: mormorare nei confronti delle guide spirituali!

Le mormorazioni di questo tipo implicano una critica a Dio stesso che ha scelto i leaders che ci hanno messi in determinate situazioni.
Ogni forma di mormorazione, indipendentemente dall’oggetto verso cui è rivolta, è sempre da riprovare con forza e determinazione ed è condannata da Dio (cfr. 1 Corinzi 10:10; Filippesi 2:14).

Ma il Signore, nella Sua bontà e misericordia, pur disapprovando le mormorazioni del popolo, comunicò al suo servitore Mosè che avrebbe fatto piovere dal cielo del pane.
Dio non tratta mai l’uomo secondo quello che merita, ma sempre secondo le Sue compassioni (Salmo 103:10).

La manna non era mai comparsa prima di allora e doveva essere raccolta secondo il fabbisogno giornaliero.

Questo cibo soprannaturale cadeva dal cielo durante la notte, si depositava sul terreno in cui erano accampati gli Israeliti e al mattino era pronto per essere raccolto.

In vista del lungo pellegrinaggio nel deserto (che si protrasse per quarant’anni) Dio stabilì precise norme relative alla manna:

1) l’orario per la raccolta;
2) la quantità giornaliera (un omer a testa;
3) i giorni in cui era consentita la raccolta: da domenica a venerdì, perché al sabato Dio non la mandava (il venerdì il popolo era autorizzato a raccoglierne due omer a testa;
4) l’ordine di non raccoglierne più del quantitativo stabilito, altrimenti la manna sarebbe imputridita e avrebbe fatto i vermi.

Davanti a queste precise norme, fissate direttamente da Dio, c’è tanto da riflettere ed imparare.

1) L’orario per la raccolta

Allora il SIGNORE disse a Mosè: «Ecco, io farò piovere pane dal cielo per voi; il popolo uscirà e ne raccoglierà ogni giorno il necessario per la giornata; così lo metterò alla prova e vedrò se cammina o no secondo la mia legge.
Così lo raccoglievano tutte le mattine: ciascuno nella misura che bastava al suo nutrimento; e quando il sole diventava caldo, quello si scioglieva
(Esodo 16:4,21).

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Domenico34
00domenica 5 febbraio 2012 00:16
L’orario stabilito per la raccolta della manna era di mattina, prima che il sole scaldasse la terra.
Questo significa che se qualcuno restava addormentato e usciva dalla tenda in ritardo non avrebbe più trovato la manna, perché il calore del sole l’avrebbe fatta sciogliere.

È al mattino che Dio promette di dare pane a sazietà al popolo (v. 8):
Questa sera voi conoscerete che il SIGNORE è colui che vi ha fatto uscire dal paese d'Egitto.
Domattina vedrete la gloria del SIGNORE...
(vv. 6-7).

Si potrebbe pensare che la gloria del Signore, che avrebbero visto in quella circostanza, fosse costituita proprio dal cibo che Dio avrebbe mandato al popolo.

Ma se si considerano altri testi della Sacra Scrittura, si comprende che il suo significato è più profondo.

Per esempio, quando Aaronne parlò al popolo (v. 10), la gloria del Signore che apparve nella nuvola, si riferiva chiaramente alla presenza di Dio stesso.

Infatti, la gloria del Signore non è mai disgiunta dalla Sua presenza; dove c’è Dio, lì si manifesta la Sua gloria (cfr. Esodo 24:17; 40:34; 1 Re 8:11; Ezechiele 3:23; Atti 7:55; 2 Corinzi 3:18).

È all’alba che il Signore mette in rotta gli Egiziani (Esodo 14:24); al mattino Mosè viene chiamato a prepararsi per salire sul monte Sinai e ricevere i Comandamenti (Esodo 34:2,4); di mattina Davide eleva la sua preghiera e il Signore lo ascolta (Salmo 5:3); in riferimento alla città di Dio leggiamo che Dio la soccorrerà al primo chiarore del mattino (Salmo 46:5) e anche se la sera ci accompagna il pianto… la mattina viene la gioia (Salmo 30:5).

Il mattino segna l’inizio di un nuovo giorno, perciò dobbiamo darci da fare per raccogliere il cibo che Dio ci ha provveduto per il nostro sostentamento.
Come il nostro corpo ha bisogno del cibo materiale per sostentarsi e sopravvivere, allo stesso modo l’anima nostra ha necessità di alimentarsi della Parola di Dio, la vera manna che scende dal cielo, che dà forza e vigore per affrontare le varie situazioni della vita di ogni giorno. Come ribadisce Gesù:

Sta scritto: "Non di pane soltanto vivrà l'uomo, ma di ogni parola che proviene dalla bocca di Dio" (Matteo 4:4).

2) La quantità giornaliera


L’omer, era un recipiente per liquidi della capienza di 3,5 litri, quindi della grandezza di un secchiello.

Questa era l’esatta quantità di manna che Dio aveva assegnato a testa e che ogni capofamiglia doveva raccogliere e portare nella propria tenda.

La manna che Dio mandava dal cielo si depositava sul terreno; non entrava direttamente in nessuna tenda, neanche in quelle di Mosè e di Aaronne: tutti dovevano uscire per raccoglierla e portarla nella propria dimora.

Se il calcolo di due milioni e mezzo di Israeliti è esatto, vuol dire che per tutta quella gente occorrevano 8.750.000 litri di manna. Ma questo non era il quantitativo totale mandato da Dio; Egli ne faceva cadere molto di più, che poi si scioglieva quando il sole si levava.

Dio ha sempre provveduto di più del necessario, per il semplice fatto che Egli non è avaro, ma generoso nel donare. La manna fu fornita per tutti i quarant’anni, senza che le scorte divine si esaurissero.

E il fatto di provvederlo ogni giorno ne garantiva la freschezza. Le benedizioni divine non si esauriscono mai e sono sempre fresche e soddisfacenti per i cuori che, ogni mattina, attingono alla Parola, il loro pane spirituale.

3) I giorni per la raccolta

Da domenica a venerdì cadeva dal cielo questa abbondanza di cibo; il solo giorno della settimana in cui Dio non mandava la manna era il sabato.

Questo giorno era considerato sacro dal Signore ed Egli voleva che anche il popolo lo onorasse. La quantità che non scendeva nel giorno di sabato, veniva fornita di venerdì, così il popolo quel giorno era autorizzato a raccoglierne due omer a testa, e cioè il fabbisogno di due giorni. Nonostante Dio avesse detto chiaramente che di sabato non avrebbe mandato manna sulla terra, ci furono quelli che non tennero conto di quanto Dio aveva detto e uscirono ugualmente dalle loro tende in cerca del cibo.

4) Non più del quantitativo stabilito

Dio aveva anche ordinato che non dovevano raccoglierne più di quanto stabilito, altrimenti il cibo si sarebbe imputridito e quindi sarebbe stato inutilizzabile.

Nonostante ciò, ci furono altri che non tennero conto del comando divino.
Questo dimostra ancora una volta la continua disubbidienza del popolo (Esodo 16:20).

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Domenico34
00lunedì 6 febbraio 2012 14:04
Dio vuole essere onorato in quello che (Egli) dice e quando agiamo in contrasto con la Sua Parola, Gli diamo sempre un dispiacere.
La lezione pratica che il popolo cristiano può ricavare da questo racconto biblico è:

Dio provvede sempre ai bisogni dei suoi figli, anche se questi camminano in un deserto, dove manca tutto.

Dio conosce le nostre necessità (sia a livello spirituale che material e la razione che ha deciso di fornirci è più che sufficiente.
Quello che Dio ha ordinato, deve essere pienamente rispettato. Come l’ubbidienza rallegra il cuore di Dio, la disubbidienza lo rattrista.

Refidim


A Refidim il popolo non trovò acqua da bere, né per sé né per il bestiame, quindi riprese a mormorare.

Questa volta però il popolo fece di peggio: protestò contro Mosè.
La storia di questa nuova situazione è descritta nel capitolo 17 del libro dell’Esodo:

Poi tutta la comunità dei figli d'Israele partì dal deserto di Sin, marciando a tappe secondo gli ordini del SIGNORE. Si accampò a Refidim, ma non c'era acqua da bere per il popolo.
Allora il popolo protestò contro Mosè e disse: «Dacci dell'acqua da bere». Mosè rispose loro: «Perché protestate contro di me? Perché tentate il SIGNORE?».
Là il popolo patì la sete e mormorò contro Mosè, dicendo: «Perché ci hai fatti uscire dall'Egitto per morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?».
Mosè gridò al SIGNORE, dicendo: «Che cosa devo fare per questo popolo? Ancora un po’ e mi lapideranno».
Allora il SIGNORE disse a Mosè: «Mettiti di fronte al popolo e prendi con te alcuni degli anziani d'Israele; prendi anche in mano il bastone col quale hai percosso il fiume, e va’.
Ecco, io starò là davanti a te sulla roccia che è in Oreb; tu colpirai la roccia; ne scaturirà dell'acqua e il popolo berrà». Mosè fece così in presenza degli anziani d'Israele,
e a quel luogo mise il nome di Massa e Meriba a causa della protesta dei figli d'Israele, e perché avevano tentato il SIGNORE, dicendo: «Il SIGNORE è in mezzo a noi, sì o no?»
(Esodo 17:1-7).

Anche Mosè si comportò diversamente e, davanti a quella nuova situazione e alla minaccia del popolo di ucciderlo, invocò il Signore per sapere cosa fare.
La cosa migliore da fare, quando ci troviamo davanti a situazioni difficili, è sempre quella di rivolgersi al Signore in preghiera e cercare il Suo aiuto.

Anche questa volta Dio non volle tener conto della contesa e della mormorazione del popolo, e diede a Mosè le necessarie istruzioni.
Egli doveva usare lo stesso bastone che aveva usato per percuotere le acque del fiume in Egitto e doveva percuotere la roccia di Oreb.
Da questa roccia uscì tanta acqua da dissetare gli Israeliti e il loro bestiame.

Più tardi l’apostolo Paolo affermerà che quella roccia, da cui Israele bevve dell’acqua, era Cristo. L’apostolo citò questo brano ai credenti di Corinto per esortarli a non ripetere gli stessi errori commessi in passato dai loro antenati (1 Corinzi 10:4,6-7).

I vari avvenimenti riportati dall’A.T. sono stati scritti per istruirci:
Poiché tutto ciò che fu scritto nel passato, fu scritto per nostra istruzione, affinché mediante la pazienza e la consolazione che ci provengono dalle Scritture, conserviamo la speranza (Romani 15:4).

PS: Se al termine del capitolo 5 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 6




DA REFIDIM AL DESERTO DEL SINAI




Partirono da Refidim e si accamparono nel deserto del Sinai (Numeri 33:15).

Il patto che Dio stipulò con Israele sul Sinai, un evento unico nel suo genere, va considerato con estrema attenzione.
Trattandosi di una manifestazione particolare di Dio, ogni dettaglio ha la sua importanza e il suo valore.

Ma prima è opportuno dare un’occhiata agli avvenimenti che lo precedettero per meglio inquadrare e valutare il modo con cui Dio intervenne a favore del Suo popolo.

La vittoria sugli Amalechiti

Allora venne Amalec per combattere contro Israele a Refidim.
E Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci a combattere contro Amalec; domani io starò sulla vetta del colle con il bastone di Dio in mano»
Giosuè fece come Mosè gli aveva detto e combatté contro Amalec; e Mosè, Aaronne e Cur salirono sulla vetta del colle.
E quando Mosè teneva la mani alzate, Israele vinceva; e quando le abbassava, vinceva Amalec.
Ma le mani di Mosè si facevano pesanti. Allora essi presero una pietra, gliela posero sotto ed egli si sedette; Aaronne e Cur gli tenevano le sue mani alzate, uno da una parte e l'altro dall'altra. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole.
E Giosué sconfisse Amalec e la sua gente passandoli a fil di spada.

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Domenico34
00martedì 7 febbraio 2012 00:16
Il SIGNORE disse a Mosè: «Scrivi questo fatto in un libro, perché se ne conservi il ricordo, e fa’ sapere a Giosuè che io cancellerò interamente sotto il cielo la memoria di Amalec.
Allora Mosè costruì un altare, che chiamò: «Il SIGNORE è la mia bandiera»; e disse:
Una mano s’è alzata contro il trono del SIGNORE, perciò il SIGNORE farà guerra ad Amalec di generazione in generazione»
(Esodo 17:8-16).

Chi erano gli Amalechiti e Amalec il loro capostipite? Troviamo la risposta in Genesi 36:12:

Timna era la concubina di Elifaz, figlio di Esaù; ella partorì Amalec a Elifaz. Questi furono i figli di Ada, moglie di Esaù.

Il nome di Esaù evoca un passato torbido, pieno di odi, rancori e sentimenti ostili che egli manifestò nei confronti del fratello Giacobbe.
Sappiamo che Esaù, per venti anni, alimentò nel proprio cuore un odio crudele e la determinazione di vendicarsi. Una simile attitudine non è generale.

Col trascorrere degli anni spesso i rancori e gli odi, generati da torti subiti (veri o presunti), si affievoliscono e si allontanano dal cuore e dalla mente umana.

Non fu così per Esaù, perché, a distanza di vent’anni, voleva ancora vendicarsi di suo fratello Giacobbe e se questo non si verificò fu solo perché Dio, nella Sua misericordia, intervenne ed evitò lo spargimento di sangue.

Esaù quindi rappresenta l’odio spietato e l’insincerità che, nascondendosi sotto il manto dell’ipocrisia, cerca di far del male al prossimo.

La tattica di Amalec, quella di attaccare la retroguardia del popolo d’Israele prendendo di mira soprattutto i deboli e approfittandosi della loro stanchezza, denota una marcata dose di cattiveria, proprio come quella del loro capostipite Esaù.

La vittoria sugli Amalechiti fu la prima che Israele conseguì sopra i nemici, nella prima battaglia dopo l’uscita dal paese d’Egitto. Non è un particolare privo di significato il fatto che Amalec venne a combattere contro Israele a Refidim.

Sicuramente la ragione fu l’abbondanza di acqua potabile, che l’Eterno stesso aveva provveduto in questa località. Difatti questa fu la causa frequente di molte contese fra i popoli antichi.

Se Amalec non si fosse alzato contro Israele e non l’avesse aggredito, probabilmente non ci sarebbe stato quel combattimento; ma, una volta ricevuta la sfida, gli Israeliti non potevano rimanere indifferenti.

Stando a quello che si legge in Deuternomio 25:17-19:
Ricordati di quel che ti fece Amalec durante il viaggio, quando uscisti dall'Egitto:
Egli ti attaccò per via, piombando da dietro su tutti i deboli che camminavano per ultimi, quando eri già stanco e sfinito e non ebbe alcun timore di Dio.
Quando dunque il SIGNORE, il tuo Dio, ti avrà dato pace liberandoti da tutti i tuoi nemici che ti circondano nel paese che il SIGNORE, il tuo Dio, ti dà come eredità perché tu lo possegga, cancellerai la memoria di Amalec sotto al cielo; non te ne scordare!»


Davanti alle provocazioni di Amalec, che attaccava alle spalle gli ultimi, i deboli e i più stanchi tra il popolo, Israele non poteva rimanere passivo.
Purtroppo non sono pochi coloro che, come gli Amalechiti, non hanno scrupoli nel alzarsi contro chi è sfinito.

Gente che non ha la minima sensibilità verso chi soffre, anzi, approfitta della debolezza altrui per levarsi e manifestare tutta la propria spietata cattiveria.

Nello scenario della battaglia contro Amalec, quattro persone si distinsero, ognuna nel rispettivo ruolo: Mosè, nella veste di capo supremo; Giosuè, come selezionatore dei combattenti e condottiero in battaglia; Aaronne e Cur [In riferimento a Cur, qualcuno pensa che si trattava del cognato di Mosè, marito di sua sorella Miriam (cfr. Il Commentario di M. Henry, Vol. 1, pag. 444] nella funzione di sostenitori di Mosè.

Giosuè ricevette l’ordine di selezionare l’esercito per la guerra e venne subito rassicurato: Mosè non sarebbe rimasto nella sua tenda, anzi, avrebbe seguito le fasi della battaglia dalla vetta del colle col bastone in mano, in compagnia di Aaronne e di Cur.

Mosè fece questa promessa rassicurante a Giosuè non solamente nella sua veste di capo supremo del popolo, ma anche in qualità di guida spirituale.
Non dimentichiamo che il bastone che teneva in mano non era come quello di un comune pecoraio, ma quello che nell’Esodo è definito il bastone di Dio, simbolo dell’autorità ricevuta direttamente da Dio.

Il fatto poi che Mosè si portò in vetta al colle non era solo per seguire l’evolversi del combattimento ma anche e soprattutto perché Giosuè, vedendo Mosè col bastone sollevato, riacquistasse forza e coraggio per sconfiggere Amalec.

Il testo precisa, infatti, che quando Mosè alzava la sua mano, Israele vinceva, quando invece l’abbassava, Amalec vinceva (Esodo 17:11). Il segreto della vittoria erano le mani alzate di Mosè!

Per quanto tempo Mosè tenne le sue mani alzate, non ci è dato di sapere; ma non sorprende leggere che a un certo punto le mani di Mosè si facevano pesanti (v. 12), per l’ovvia stanchezza sopraggiunta.

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Domenico34
00mercoledì 8 febbraio 2012 00:09
A questo punto (senza che Mosè avesse chiesto aiuto) intervennero Aaronne e Cur, che si trovavano vicini a lui ed avevano capito non solo la sua stanchezza ma anche il collegamento diretto tra le sue mani alzate e la vittoria di Giosuè su Amalec.

Presero una pietra, ve lo fecero sedere e gli tennero le mani alzate, uno da una parte e l'altro dall'altra… fino al tramonto del sole. A questo punto il testo specifica che:

Giosuè sconfisse Amalec e la sua gente, passandoli a fil di spada (v. 13).

La vittoria su Amalec, quindi, non è da attribuire ad una sola persona ma alla partecipazione e alla cooperazione di quattro distinti individui, Mosè, Giosuè, Aaronne e Cur, con un solo obiettivo.
Da quest'episodio del passato, i cristiani possono trarre almeno tre insegnamenti di vita pratica:

1) Mosè, il capo supremo del popolo d’Israele, fece quello che rientrava nelle sue competenze, cioè sostenne il bastone di Dio e tenne le mani alzate, finché ebbe la forza di farlo.

Come già detto, il bastone indicava l’autorità divina conferitagli da Dio; le mani alzate simboleggiavano la sua preghiera d’intercessione in favore di Giosuè, che combatteva contro i nemici del popolo di Dio.
Mosè, come servo di Dio, ebbe bisogno di essere sostenuto quando sopraggiunse la stanchezza e non ce la faceva più a tenersi in piedi e a tenere alzate le mani.

I servi di Dio dei nostri giorni e di tutte le epoche (non importa se sono responsabili di grandi o di piccole assemble sono uomini e, avendo le medesime debolezze di ogni essere umano, hanno bisogno di essere sostenuti nelle loro attività ministeriali, soprattutto quando danno cenni di stanchezza.

Mosè ebbe la saggezza e l’umiltà di accettare l’aiuto di Aaronne e Cur, che lo fecero sedere su una pietra e gli sostennero le mani per l’intera giornata.
Se non avesse accettato questo aiuto, avrebbe inesorabilmente compromesso l’esito della vittoria e dimostrato d’essere una persona superba ed arrogante.

I servi di Dio, dunque, devono imparare a non rifiutare mai l’aiuto e il sostegno che viene loro offerto nei momenti difficili della vita.
Non devono mai dire che non ne hanno bisogno perché è proprio in virtù del sostegno altrui che sarà loro accordata la vittoria.

2) Giosuè, l’uomo scelto per guidare le operazioni di combattimento, non si era auto-nominato capo con l’intento di mettere in mostra le sue capacità e il suo coraggio.

Egli seppe accettare con umiltà l’incarico assegnatogli e, senza perdersi d’animo nei momenti in cui il nemico prevaleva su di lui e sui suoi, continuò a combattere con determinazione, fino al compimento della sua missione.

A questo punto si può fare un parallelo tra Mosè e Giosuè e tra Paolo e il giovane Timoteo. Il grande apostolo rivolse a Timoteo la seguente esortazione:

Combatti il buon combattimento della fede, afferra la vita eterna alla quale sei stato chiamato e in vista della quale hai fatto quella bella confessione di fede in presenza di molti testimoni (1 Timoteo 6:12).

Ogni giovane servitore del Signore, chiamato nell’opera del ministero, deve mantenersi fedele all’incarico ricevuto e svolgere il suo mandato con tenacia e perseveranza, senza invadere il campo o il ruolo degli altri.

Se saprà mantenersi umile in tutto quello che farà, alle sue spalle ci sarà sempre qualcuno che terrà le mani alzate verso il cielo (cioè intercederà) per lui, per assicurargli la vittoria.

3) Di Aaronne si sa con certezza che era il fratello carnale di Mosè e che era stato designato da Dio a svolgere il ruolo di sommo sacerdote, mentre di Cur abbiamo poche notizie; ma entrambi seppero valutare obbiettivamente e velocemente il bisogno d’aiuto di Mosè e di Giosuè, che stava combattendo a valle.

Essi prima compresero che la vittoria di Giosuè era strettamente collegata al fatto che le mani di Mosè rimanessero alzate per tutto il giorno; poi, non aspettarono che venisse loro fatta una specifica richiesta e, considerando la gravità del caso, si offrirono spontaneamente, senza calcolare il sacrificio che avrebbero dovuto affrontare.

Mantenere le mani alzate di un servitore di Dio a volte comporta enormi sacrifici e un prezzo alto da pagare.
Ma, quando abbiamo una chiara visione del bene del popolo di Dio, siamo pronti a rinunciare ad ogni interesse egoistico e a dedicare il nostro tempo e la nostra vita per il benessere comune.

Questi insegnamenti, tradotti nella vita pratica, contribuiscono notevolmente al progresso dell’opera di Dio, e possono produrre grandi benefici a chi ha fatto la sua parte (grande o piccol nel servizio del Signore.

Alla fine del combattimento non venne innalzato nessun trofeo in onore di Mosè, Giosuè, Aaronne e Cur, anche se furono loro gli artefici materiali di quella importante vittoria.

Al monumento che venne costruito, cioè un altare, fu assegnato il nome: il Signore è la mia bandiera (Esodo 17:15), proprio per mettere in risalto a Chi spettava tutta la gloria e l’onore. Amen!

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Domenico34
00giovedì 9 febbraio 2012 00:19
La visita di Ietro

Il racconto della visita di Ietro a Mosè e i suoi consigli sono riportati nel capitolo 18 dell’Esodo.

In questo capitolo Mosè raccontò al suocero le opere potenti che Dio aveva fatto per liberare il popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto e per condurlo fino a quel punto, cioè nel deserto di Sin, nelle vicinanze del monte Sinai.

La gioia che Mosè e Ietro provarono, il primo nel raccontare quello che il Signore aveva fatto in favore del Suo popolo e il secondo nell’ascoltare le meraviglie di Dio, spinse Ietro, che era un sacerdote di Madian e quindi estraneo ad Israele, a prendere un olocausto e dei sacrifici per offrirli a Dio (Esodo 18:12).

Stando presso Mosè, Ietro poté vedere quello che il genero faceva ogni giorno, quando amministrava la giustizia a tutto il popolo che veniva da lui, e così gli disse:

...«Che cosa fai con il popolo? Perché siedi solo, e tutto il popolo ti sta attorno dal mattino fino alla sera?»
Mosè rispose a suo suocero: «Perché il popolo viene da me per consultare Dio.
Quando essi hanno qualche questione, vengono da me, e io giudico fra l'uno e l'altro, faccio loro conoscere gli ordini di Dio e le sue leggi».
Ma il suocero di Mosè gli disse: «Quel che fai non va bene. Tu ti esaurirai certamente e stancherai anche questo popolo che è con te; perché questo compito è troppo pesante per te; tu non puoi farcela da solo.
Ascolta la mia voce; io ti darò un consiglio, e Dio sia con te: sii tu il rappresentante del popolo davanti a Dio, e porta a Dio le loro cause.
Insegna loro i decreti e le leggi, mostra loro la via per la quale devono camminare e quello che devono fare;
ma scegli fra tutto il popolo degli uomini capaci e timorati di Dio: degli uomini fidati, che detestino il guadagno illecito; e stabiliscili sul popolo come capi di migliaia, capi di centinaia, capi di cinquantine e capi di decine.
Essi dovranno amministrare la giustizia al popolo in ogni circostanza. Essi riferiscano a te su ogni questione di grande importanza, ma ogni piccolo affare lo decidano loro. Così alleggerirai il tuo carico, ed essi lo porteranno con te.
Se tu fai questo, e se Dio te lo conferma, tu potrai resistere; anche tutto questo popolo arriverà felicemente al luogo che gli è destinato»
(Esodo 18:14-23).

Che il consiglio dato da Ietro a Mosè fosse saggio e giusto lo si deduce dal fatto che Dio non vi si oppose.

I saggi consigli vanno sempre accettati, indipendentemente da dove provengono.

Mosè, persona colta e con tanta esperienza, poteva benissimo credersi all’altezza di quell’immane compito e ignorare che un giorno avrebbe potuto non reggere al logorio delle sue forze fisiche.

La lezione da imparare è estremamente importante sotto qualsiasi aspetto: sia riguardo le cose della vita terrena, sia per quel che concerne l’opera del ministero.

Nessun servitore del Signore deve considerarsi capace di assolvere il mandato senza qualcuno al suo fianco come aiutante.

Considerarsi idoneo a occuparsi di ogni questione, grande o piccola che sia, è manifestazione di orgoglio e di non sapere apprezzare il contributo che altri potrebbero dare, e condurrà inevitabilmente all’esaurimento e alla disfatta.

Invece, avere dei buoni aiutanti nell’opera del ministero, significa avere meno pesi addosso e consente di svolgere il lavoro con più incisività.

Questo contribuirà senza dubbio al benessere e al progresso dell’opera, sia per la gestione degli aspetti spirituali che di quelli amministrativi di ogni comunità, grande o piccola.

Preparativi per il grande evento

Dopo tre mesi dall’uscita dal paese d’Egitto, i figli d’Israele giunsero ai piedi del monte Sinai.

Conoscendo quello che sarebbe successo, Dio diede a Mosè precise istruzioni da comunicare al popolo affinché non accadesse niente di spiacevole in sua assenza.

Nel primo giorno del terzo mese, da quando furono usciti dal paese d'Egitto, i figli d'Israele giunsero al deserto del Sinai.
Partiti da Refidim, giunsero al deserto del Sinai e si accamparono nel deserto; qui Israele si accampò di fronte al monte.
Mosè salì verso Dio; e il SIGNORE lo chiamò dal monte, dicendo: «Parla così alla casa di Giacobbe e annunzia questo ai figli d'Israele:
"Voi avete visto quello che ho fatto agli Egiziani e come vi ho portato sopra ali d'aquila e vi ho condotto a me.
Dunque, se ubbidite davvero alla mia voce e osservate il mio patto, sarete fra tutti i popoli il mio tesoro particolare; poiché tutta la terra è mia;
e mi sarete un regno di sacerdoti, una nazione santa". Queste sono le parole che dirai ai figli d'Israele».
Allora Mosè venne, chiamò gli anziani del popolo, ed espose loro tutte queste parole che il SIGNORE gli aveva ordinato di dire.
Tutto il popolo rispose concordemente e disse: «Noi faremo tutto quello che il SIGNORE ha detto». E Mosè riferì al SIGNORE le parole del popolo.
Il SIGNORE disse a Mosè: «Ecco io verrò a te in una fitta nuvola, affinché il popolo oda quando io parlerò con te, e ti presti fede per sempre». E Mosè riferì al SIGNORE le parole del popolo.
Allora il SIGNORE disse a Mosè: «Va’ dal popolo, santificalo oggi e domani; fa’ che si lavi le vesti.
Siano pronti per il terzo giorno; perché il terzo giorno il SIGNORE scenderà in presenza di tutto il popolo sul monte Sinai.
Tu fisserai tutto intorno dei limiti al popolo, e dirai: Guardatevi dal salire sul monte o dal toccarne i fianchi. Chiunque toccherà il monte sarà messo a morte.
Nessuna mano dovrà toccherà il colpevole: questo sarà lapidato o trafitto con frecce; animale o uomo che sia, non dovrà vivere!” Quando il corno suonerà a distesa allora essi potranno salire sul monte»
(Esodo 19:1-13).

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Domenico34
00venerdì 10 febbraio 2012 00:13
Per prima cosa, il Signore ricorda a Mosè il modo con cui si era preso cura d’Israele: dal giorno dell’uscita dall’Egitto fino al monte Sinai, Egli li aveva trasportati sopra ali d’aquila, avvicinandoli a Lui (v. 4).

Dio perciò invita il popolo a prestare attenzione alla Sua voce e a osservare il Suo patto e, da parte sua, promette di considerarli come un Suo tesoro particolare fra tutti i popoli e di fare di loro un regno di sacerdoti e una nazione santa (vv. 5-6). E ordina che queste Sue parole siano riferite integralmente al popolo.

In secondo luogo, ingiunge a Mosè di preparare e santificare il popolo per due giorni, facendo lavare loro le proprie vesti, perché al terzo giorno Dio sarebbe sceso sul monte Sinai alla presenza di tutti (vv. 10-11).

Infine, pronuncia un severo monito affinché a nessuno (persone o besti sia consentito di salire sul monte o di toccarne i fianchi, pena la morte (vv. 12-13).

Come annunciato, il terzo giorno il fortissimo suon di tromba, i tuoni e i lampi, la densa nube apparsa sul monte fecero chiaramente intendere che il Signore era effettivamente sceso sul monte Sinai. Da saggio e accorto condottiero qual era:

Mosè fece uscire il popolo dall'accampamento per condurlo a incontrare Dio; e si fermarono ai piedi del monte (v. 17).

Il suono della tromba si faceva sempre più forte; Mosè parlava e Dio gli rispondeva con una voce (v. 19).

I Dieci Comandamenti


Finita la preparazione del popolo e osservati gli ordini del Signore, finalmente Dio annuncia ai Suoi i Dieci Comandamenti.

Allora Dio pronunziò tutte queste parole:
«Io sono il SIGNORE, il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù
.

1. Non avere altri dèi oltre a me.

2. Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra.
Non ti prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il SIGNORE, il tuo Dio, sono un Dio geloso; punisco l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano
e uso bontà fino alla millesima generazione, verso quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti
.

3. Non pronunciare il nome del SIGNORE, Dio tuo, invano; perché il SIGNORE non riterrà innocente chi pronuncia il suo nome invano.

4. Ricòrdati del giorno del riposo per santificarlo.
Lavora sei giorni e fa’ tutto il tuo lavoro,
ma il settimo è giorno di riposo, consacrato al SIGNORE Dio tuo; non fare in esso nessun lavoro ordinario, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né lo straniero che abita nella tua città;
poiché in sei giorni il SIGNORE fece i cieli e la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò il SIGNORE ha benedetto il giorno del riposo e lo ha santificato
.

5. Onora tuo padre e tua madre, affinché i tuoi giorni siano prolungati sulla terra che il SIGNORE, il tuo Dio ti dà.

6. Non uccidere.

7. Non commettere adulterio.

8. Non rubare.

9. Non attestare il falso contro il tuo prossimo.

10. Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo» (Esodo 20:1-17).

Tutta la scena era davvero straordinaria e incuteva terrore a tutti, talché il popolo disse a Mosè:

«Parla tu con noi e noi ti ascolteremo; ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo».
Mosè disse al popolo: «Non temete, Dio è venuto per mettervi alla prova, perché ci sia in voi timore di Dio, e così non pecchiate»
(vv. 19-20).

Nel Nuovo Testamento questa scena cambia totalmente per i cristiani, come leggiamo nella lettera agli Ebrei:

Voi non vi siete avvicinati al monte che si poteva toccare con mano, e che era avvolto nel fuoco, né all’oscurità, né alle tenebre, né alla tempesta,
né allo squillo di tromba, né al suono di parole, tale che quanti l’udirono supplicarono che più non fosse loro rivolta altra parola;
perché non potevano sopportare quest’ordine: «Se anche una bestia tocca il monte sia lapidata».
Tanto spaventevole era lo spettacolo, che Mosè disse: «Sono spaventato e tremo».
Voi vi siete invece avvicinati al monte Sion, alla città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste, alla festante riunione delle miriadi angeliche,
all’assemblea dei primogeniti che sono scritti nei cieli, a Dio, il giudice di tutti, agli spiriti dei giusti resi perfetti,
a Gesù, il mediatore del nuovo patto e al sangue dell'aspersione che parla meglio del sangue d’Abele
(Ebrei 12:18-24).

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Domenico34
00sabato 11 febbraio 2012 00:14
Spesso è stato messo in discussione se i Dieci Comandamenti, che Dio ha dato al popolo d’Israele, siano validi anche per i cristiani di ogni tempo.

Alla luce del Nuovo Testamento i Comandamenti non vengono abrogati, tranne quello dell’osservanza del sabato (il giorno dedicato al riposo), che è stato sostituito dall’attuale domenica in onore della resurrezione di Gesù Cristo.

Si sa infatti che, nei primi secoli dell’era cristiana, i polemisti cristiani sostenevano così le loro argomentazioni:

“Voi Giudei celebrate, di sabato, un Signore morto (perché Gesù è rimasto nella tomba da venerdì a domenica); mentre noi cristiani festeggiamo, di domenica, il vivente Signore (perché in questo giorno Egli è risuscitato dai morti)”.

PS: Se al termine del capitolo 6 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura



Capitolo 7




DA CHIBROT-ATTAAVA AD ASEROT




Partirono dal deserto del Sinai e si accamparono a Chibrot-Attaava.
Partirono da Chibrot-Attaava e si accamparono ad Aserot (Numeri 33:16-17).
Nel primo giorno del terzo mese, da quando furono usciti dal paese d'Egitto, i figli d'Israele giunsero al deserto del Sinai.
Partiti da Refidim, giunsero al deserto del Sinai e si accamparono nel deserto; quivi Israele si accampò di fronte al monte
(Esodo 19:1,2).

Da quando lasciarono il deserto del Sinai era trascorso più di un anno:
Il secondo anno, il secondo mese, il ventesimo giorno del mese, la nuvola si alzò sopra il tabernacolo della testimonianza.

I figli d'Israele partirono dal deserto del Sinai, secondo l’ordine fissato per il loro cammino; la nuvola si fermò nel deserto di Paran (Numeri 10:11-12).

Tutto quello che accadde nei pressi del monte Sinai, è descritto minuziosamente nei capitoli 20-40 dell’Esodo, mentre l’evento che si verificò a Chibrot-Attaava è raccontato nel capitolo 11 dei Numeri.

Anche nel capitolo 16 dell’Esodo si parla di quaglie che Dio mandò ad Israele, ma l’episodio diverge in molti aspetti da quello narrato nel libro dei Numeri, per cui qualcuno sostiene che «si riferisce a un’occasione diversa » [Cfr. John D. Hannah, in Investigate le Scritture Antico Testamento, p. 142].

Una precisa disposizione

La partenza dal Sinai avvenne in maniera diversa, rispetto alle altre volte, e segnò l’inizio di un modo nuovo di marciare per Israele.

Il fatto nuovo era costituito dal preciso ordine di marcia che Dio aveva trasmesso a Mosè, sia riguardo al modo di spostamento come al modo di accamparsi.

Quest’ordine di marcia prevedeva quattro grandi raggruppamenti, ciascuno formato da tre tribù, e con una propria bandiera.

Il primo gruppo era formato dalle tribù di Giuda, Issacar e Zabulon, con la loro bandiera, ed erano i primi a mettersi in cammino.

Poi seguiva la bandiera del campo di Ruben, Simeone e Gad. La terza bandiera era quella del campo di Efraim, Manasse e Beniamino, e dovevano muoversi dopo quelli di Ruben.

Infine, seguiva il quarto raggruppamento, formato da Dan, Ascer e Neftali, che costituiva quindi la retroguardia (per i dettagli di questa disposizione divina, (cfr. Numeri 2; 10:11-28).

Per quanto concerne le immagini sugli stendardi dei quattro raggruppamenti, tra gli studiosi non c’è unanimità:

«Alcuni ipotizzano che gli stendardi di una tribù fossero dello stesso colore della pietra preziosa situata nell’efod del sommo sacerdote.
Molti moderni studiosi Ebrei pensano che su ogni stendardo fosse dipinto un qualche stemma che facesse riferimento alla benedizione pronunciata da Giacobbe per quella tribù. Per Giuda c’era un leone, per Dan un serpente, per Neftali una cerva, per Beniamino un lupo, e così via.
Alcuni affermano che i quattro stendardi principali fossero: il leone di Giuda, l’uomo di Ruben, il toro di Giuseppe [e del figlio Efraim] e l’aquila di Dan» [M. Henry, Commentario Biblico, Versione italiana Vol. II, p. 141].

Se questa ipotesi fosse vera, queste bandiere sarebbero in corrispondenza con la visione che ebbe il profeta Ezechiele (1:10) e i quattro esseri viventi dell’Apocalisse di Giovanni (Apocalisse 4:7).

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Domenico34
00domenica 12 febbraio 2012 02:13
Ricordiamo che Giuda significa lode, quindi è importante che nelle marce del popolo di Dio ci sia la lode e la prima a muoversi.

Quando il nome del Signore viene lodato dal Suo popolo, prima e al disopra di ogni altra cosa, non c’è nemico potente che possa fermare la sua avanzata.

E, comunque, alla testa dei quattro raggruppamenti c’è sempre Dio, pronto a guardarli, a proteggerli e a liberarli da ogni minaccia e pericolo.

Chibrot-Attaava


Il capitolo 11 dei Numeri merita particolare attenzione per comprendere quello che successe a Chibrot-Attaava (“sepolcri della concupiscenza”), cioè l’atteggiamento del popolo verso Mosè e quello che fece il Signore.

Il popolo si lamentò e mormorò a causa della mancanza di carne, e rimpianse la varietà dei cibi che mangiava in Egitto, mentre lì nel deserto non c’era altro che la solita manna.

Anche se aveva un buon sapore di focaccia all’olio (v. 8), nondimeno Israele fu preso dalla concupiscenza che lo indusse a reclamare: Chi ci darà da mangiare della carne? (v. 4). In questo modo il popolo non si rendeva conto che stava disprezzando il cibo che il Signore provvedeva loro ogni giorno.

Dunque, in questo atteggiamento non c’era solo lamentela, malcontento e disprezzo, ma anche ingratitudine verso Dio che li aveva fedelmente sostentati fino a quel giorno.

Ogni forma di lamentela e mormorazione dimostra che non siamo grati al Signore per tutto quello che abbiamo o riceviamo.

Dio non ha mai approvato un simile comportamento ribelle, né da parte di Israele in passato, né da parte del popolo cristiano oggi, perché è contrario al Suo volere e ai Suoi piani.

Quando Mosè sentì che tutte le famiglie piagnucolavano, ognuna all’ingresso della propria tenda, e vide che l’ira del Signore stava divampando, egli ne fu fortemente amareggiato.

Mosè disse al SIGNORE: «Perché hai trattato così male il tuo servo? Perché non ho trovato grazia agli occhi tuoi, e mi hai messo addosso il carico di tutto questo popolo?
L’ho forse concepito io tutto questo popolo? L’ho forse dato alla luce io, che tu mi dica: “Portalo sul tuo seno”, come la balia porta il bimbo lattante, fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri?
Dove prenderei della carne da dare a tutto questo popolo? Poiché piagnucola dietro a me, e dice: “Dacci da mangiare della carne!”.
Io non posso, da solo, portare tutto questo popolo; è un peso troppo grave per me.
Se mi vuoi trattare così, uccidimi, ti prego; uccidimi, se ho trovato grazia agli occhi tuoi; che io non veda la mia sventura!»
Il SIGNORE disse a Mosè: «Radunami settanta tra gli anziani d'Israele, conosciuti da te come anziani del popolo e come persone autorevoli; conducili alla tenda di convegno e vi si presentino con te.
Io scenderò e lì parlerò con te; prenderò lo Spirito che è su te e lo metterò su di loro, perché portino con te il carico del popolo e tu non lo porti più da solo
(Numeri 11:11-17).

Dopo lo sfogo di Mosè, per il gran peso costretto a portare da solo, il Signore gli disse di nominare settanta persone come aiutanti, che avrebbero dovuto portare con lui il peso di tutto il popolo.

Ma rimaneva il problema della richiesta di carne e Mosè non sapeva come risolverlo; così il Signore volle rassicurarlo che avrebbe provveduto carne in abbondanza:

Ne mangerete, non per un giorno, non per due giorni, non per cinque giorni, non per dieci giorni, non per venti giorni,
ma per un mese intero, finché vi esca dalle narici e ne proviate nausea, poiché avete respinto il SIGNORE che è in mezzo a voi e avete pianto davanti a lui, dicendo: “Perché mai siamo usciti dall'Egitto?”»
(vv. 19-20).

Davanti a una simile promessa, Mosè fece i conti e vacillò nella fede:

Mosè disse: «Questo popolo, in mezzo al quale mi trovo, conta seicentomila adulti, e tu hai detto: “Io darò loro della carne e ne mangeranno per un mese intero!”.
Scanneranno per loro greggi e armenti in modo che ne abbiano abbastanza? Raduneranno per loro tutto il pesce del mare in modo che ne abbiano abbastanza?»
Il SIGNORE rispose a Mosè: «La mano del SIGNORE è forse accorciata? Ora vedrai se la parola che ti ho detto si adempirà o no»
(vv. 21-23).

Qualcuno si può sorprendere che Mosè abbia potuto parlare in questo modo; lui che conosceva in prima persona le grandi opere che Dio aveva fatto per Israele e sapeva che non c’erano cose impossibili al Signore.

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Domenico34
00martedì 14 febbraio 2012 00:15
Ma dobbiamo tenere presente che Mosè non era un angelo calato dal cielo: era un essere umano come noi, con le sue debolezze, nonostante avesse ricevuto dal Signore una grande responsabilità.

Questo serve a farci comprendere che anche i grandi uomini di Dio possono vacillare e scivolare lungo la china del scetticismo.

L’atteggiamento di Mosè fu meno grave di quello assunto dal popolo d’Israele, tuttavia non può essere giustificato per nessun motivo.
Il popolo mormorava perché non comprendeva chi avrebbe potuto dar loro a mangiare la carne; Mosè invece credeva in Dio, ma non riusciva a spiegarsi come avrebbe fatto a dar da mangiare carne a tutto il popolo, per un mese intero.

Mosè non era solamente il capo del popolo, ma aveva anche una relazione personale con il Signore e conosceva la Sua potenza non “per sentito dire”.

Quindi, le sue parole non solo rivelano mancanza di fede ma anche di discernimento, poiché dipingono Dio come se fosse un essere limitato non sapendo quello che diceva e senza conoscere l’entità numerica degli Israeliti.

Ma Dio, che è grandemente benigno e misericordioso, volle manifestare ancora una volta la Sua divina potenza. Il vento che risolse il problema si levò per ordine Suo:

Un vento si levò, per ordine del SIGNORE, e portò delle quaglie dalla parte del mare e le fece cadere presso l'accampamento sulla distesa di circa una giornata di cammino da un lato e una giornata di cammino dall'altro intorno all'accampamento, e a un'altezza di circa due cubiti sulla superficie del suolo.
Il popolo si alzò e tutto quel giorno e tutta la notte e tutto il giorno seguente raccolse le quaglie. Chi ne raccolse meno ne ebbe dieci omer; e le distesero tutto intorno all'accampamento
(vv. 31,32).

Solo Dio, col Suo potere illimitato, poteva fare una cosa del genere. Le cose impossibili all’uomo sono possibili a Dio e, indirettamente, anche a chi crede in Lui (cfr. Marco 9:23).

L’insegnamento che ogni cristiano dovrebbe ricavare da quest'episodio, riguarda l’atteggiamento che assumiamo davanti a certe situazioni della vita.

Quando non crediamo a quello che Dio può fare, non facciamo che denigrare la Sua onnipotenza e, di conseguenza, rischiamo di perdere la benedizione divina (che costituisce la nostra maggiore ricchezza, cfr. Proverbi 10:22).

Che ognuno di noi sappia “far tesoro” nel proprio cuore, di questa preziosa verità!

Aserot


Da Chibrot-Attaava il popolo partì per Aserot, e a Aserot si fermò (v. 35).

Quello che accadde a Aserot (che significa “accampamenti”), è narrato nel capitolo successivo (Numeri 12), tutto dedicato alle contestazioni fatte a Mosè da Aaronne e Miriam, fratello e sorella di lui.

Sembra incredibile come abbiano potuto assumere un atteggiamento così ostile nei confronti del fratello, e tutta la questione era imperniata sul fatto che Mosè aveva sposato una donna etiope!

L’intervento di Dio in favore del Suo servo Mosè mirava a mettere in risalto la gravità delle parole di Aaronne e Miriam contro Mosè. A volte noi pensiamo che parlare contro i servi di Dio sia lecito e innocuo, al punto che non ci facciamo neppure caso. Non è così davanti a Dio.

Colui che ha scelto Mosè e lo ha investito della Sua autorità prende le sue difese, non tanto per giustificare il secondo matrimonio, quanto per salvaguardare l’importanza e l’onorabilità del ministero.

Le parole usate da Aaronne e Miriam sono abbastanza sfrontate e orgogliose:
«Il SIGNORE ha parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?». E il SIGNORE lo udì (12:2).

Oltre a parlare contro Mosè, essi cercarono di mettere in evidenza la loro rispettabilità e il loro ministero, a discredito del fratello, con lo stesso spirito religioso del fariseo del Vangelo (cfr. Luca 18:10-14).

Spesso, quando si cerca di denigrare l’onorabilità di un altro per mettere in risalto la propria, in realtà si sta disprezzando il dono che Dio ha dato agli altri.

A questo punto, Dio ordina a Mosè, Aaronne e Miriam di comparire davanti a Lui, perché vuol mostrare a tutti, non solo ai due contestatori, chi è il prescelto.

Stabilire la differenza tra il valore di uno o dell’altro non spetta all’uomo (che spesso è tentato di fare delle preferenze, perché schiavo dei suoi pregiudizi), ma a Dio, il conoscitore per eccellenza dei segreti del cuore.

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Domenico34
00mercoledì 15 febbraio 2012 00:08
Questa è la Sua sentenza:
Se vi è tra di voi qualche profeta, io, il SIGNORE, mi faccio conoscere a lui in visione, parlo con lui in sogno.
Non così con il mio servo Mosè, che è fedele in tutta la mia casa.
Con lui io parlo a tu per tu, con chiarezza, e non per via di enigmi; ed egli vede la sembianza del SIGNORE. Perché dunque non avete temuto di parlare contro il mio servo, contro Mosè?
L'ira del SIGNORE si accese contro di loro, ed egli se ne andò,
e la nuvola si ritirò di sopra alla tenda; ed ecco Maria era lebbrosa, bianca come neve; Aaronne guardò Maria, e vide che era lebbrosa
(vv. 7-10).

Vedendo sua sorella Miriam lebbrosa e bianca come neve, Aaronne riconobbe di aver peccato e di aver agito stoltamente, e invocò subito l’intervento di Mosè chiamandolo signor mio, affinché la sorella non rimanesse come un bimbo nato morto, la cui carne è già mezzo consumata quando esce dal grembo materno (v. 12)!

Il racconto si conclude con Mosè che pregò il Signore, perché Miriam venisse guarita. Il Signore esaudì benevolmente quella preghiera, ma Miriam dovette rimanere isolata fuori dell’accampamento per sette giorni, prima d’esservi riammessa (vv. 13-15).

Questa storia c'insegna che anche oggi Dio non approva l’atteggiamento di chi critica i Suoi servi, anzi, lo condanna e lo punisce severamente.

Inoltre, dobbiamo imparare a non vendicarci ma essere compassionevoli e misericordiosi verso tutti (come Mosè), anche verso chi, nascondendosi dietro il paravento della religiosità, diffama e denigra la dignità di un ministro di Dio.

PS: Se al termine del capitolo 7 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura



Capitolo 8




NEL DESERTO DI PARAN




Poi il popolo partì da Aserot e si accampò nel deserto di Paran (Numeri 12:16).

Israele rimase nel deserto di Paran per molto tempo, esattamente trentotto anni:

...finché tutta quella generazione degli uomini d’arma scomparve interamente dall'accampamento, come il SIGNORE aveva loro giurato (Deuteronomio 2:14).

Come già detto nell’Introduzione, il capitolo 33 dei Numeri si limita a nominare tanti luoghi dove il popolo si accampò durante la lunga permanenza nel deserto di Paran, senza specificare quello che vi accadde.

Invece, in altre parti dello stesso libro, sono descritti quegli eventi particolari e significativi che ebbero un peso determinante nel cammino del popolo d’Israele.

Il presente capitolo è dedicato ad alcuni di questi eventi particolari, che ci forniranno anche spunti di riflessione per la vita cristiana.

Gli esploratori

La località da cui partirono gli esploratori per la terra promessa fu Cades-Barnea.

«Poi partimmo da Oreb e attraversammo tutto quel grande e spaventevole deserto che avete visto, dirigendoci verso la regione montuosa degli Amorei, come il SIGNORE, il nostro Dio, ci aveva ordinato di fare, e giungemmo a Cades-Barnea.
Allora vi dissi: «Siete arrivati nella regione montuosa degli Amorei, che il SIGNORE, il nostro Dio, ci dà.
Ecco, il SIGNORE, il tuo Dio, ha messo davanti a te il paese; Sali, prendine possesso, come il SIGNORE, il Dio dei tuoi padri, ti ha detto; non temere e non ti spaventare».
E voi tutti vi avvicinaste a me e diceste: «Mandiamo degli uomini davanti a noi, che ci esplorino il paese, ci riferiscano qualcosa sulla strada che dovremo percorrere e sulle città alle quali dovremo arrivare»
(Deuteronomio 1:19-22).

Guardando il tracciato sulla carta geografica si può chiaramente vedere che Israele, già due anni dopo l’uscita dal paese di Egitto, arrivò quasi al limite della terra promessa. Bastava solo prenderne possesso, come Dio aveva detto.

Ma a questo punto sorse un grosso problema in mezzo al popolo che lo indusse a tornare indietro e a girovagare nel deserto di Paran per ben trentotto anni. I capitoli 13 e 14 dei Numeri ci descrivono con dovizia di particolari come si svolsero le cose.

Stando a quello che afferma il libro dei Numeri, il Signore ordinò a Mosè di mandare degli esploratori nella terra di Canaan, indicandone anche il numero e la provenienza:

Il SIGNORE disse a Mosè:
«Manda degli uomini a esplorare il paese di Canaan che io do ai figli d'Israele. Mandate un uomo per ogni tribù dei loro padri; siano tutti loro capi» (Numeri 13:1-2).

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Domenico34
00giovedì 16 febbraio 2012 00:09
Il nome delle persone che composero la spedizione e gli incarichi di ognuno si trova in Numeri 13:4-16.
Inoltre Mosè, nel mandarli, aggiunse precise istruzioni. Essi dovevano verificare:

1) com'era il paese, se il popolo che l’abitava era forte o debole, esiguo o numeroso;
2) se il territorio era buono o cattivo, com'erano le città e se vivevano in luoghi fortificati;
3) se la terra era grassa o magra e se vi erano alberi;
Infine, gli esploratori furono esortati a comportarsi in modo coraggioso e a tornare con alcuni frutti del paese (vv. 18-20).

Il resoconto


Terminato il giro d’esplorazione, che durò quaranta giorni, gli inviati ritornarono con:

…un grappolo d’uva, che portarono in due con una stanga, e presero anche delle melagrane e dei fichi (13:23).

Il rapporto che fecero davanti a Mosè, Aaronne e a tutta la comunità fu piuttosto negativo, in quanto, pur avendo portato dei buoni frutti da quel paese, riferirono anche elementi scoraggianti:

Fecero il loro racconto, e dissero: «Noi arrivammo nel paese dove tu ci mandasti, ed è davvero un paese dove scorre il latte e il miele, ed ecco alcuni suoi frutti.
Però, il popolo che abita il paese è potente, le città sono fortificate e grandissime, e vi abbiamo anche visto dei figli di Anac.
Gli Amalechiti abitano la parte meridionale del paese; gli Ittiti, i Gebusei e gli Amorei, la regione montuosa; e i Cananei abitano presso il mare e lungo il Giordano».
Caleb calmò il popolo che mormorava contro Mosè, e disse: «Saliamo pure e conquistiamo il paese, perché possiamo riuscirci benissimo».
Ma gli uomini che vi erano andati con lui, dissero: «Noi non siamo capaci di salire contro questo popolo, perché è più forte di noi».
E screditarono presso i figli d'Israele il paese che avevano esplorato, dicendo: «Il paese che abbiamo attraversato per esplorarlo è un paese che divora i suoi abitanti; tutta la gente che vi abbiamo vista, è gente di alta statura;
e vi abbiamo visto i giganti, figli di Anac, della razza dei giganti. Di fronte a loro ci pareva di essere cavallette; e tali sembravamo a loro»
(Numeri 13:27-33).

Il rapporto comincia con l’affermazione che è davvero un paese dove scorre il latte e il miele, ma quello che segue (l’accenno alle città fortificate e grandissime, alla gente più forte di noi e ai giganti) compromette tutto il quadro d’insieme e li porta a concludere addirittura che è un paese che divora i suoi abitanti.

Il detto della Scrittura: ale più la fine di una cosa, che il suo principio; e lo spirito paziente vale più dello spirito altero (Ecclesiaste 7:8) è vero e si può applicare a qualsiasi situazione.

Le belle parole iniziali risultano inutili se il discorso si conclude con ragionamenti opposti e le migliori iniziative, pur condotte con entusiasmo e zelo, perdono tutta la loro efficacia quando poi subentrano incertezza e paure.

Non serve a niente affermare che nella terra di Canaan scorre il latte e il miele, quando poi si vuol dare risalto al pericolo di essere divorati da quello stesso paese.

Le dodici spie che esplorarono il paese di Canaan si dividevano in due gruppi: da una parte dieci uomini e dall’altra due, cioè Giosuè e Caleb. La differenza tra questi due gruppi è notevole.

Tutti videro le stesse cose, ma non le valutarono nella stessa maniera. La gente potente, le città fortificate e i giganti, per i dieci costituivano pericoli seri e insormontabili; al contrario, per Giosuè e Caleb tutto ciò si poteva affrontare e superare.

In che consisteva dunque la differenza?
I primi basavano i loro calcoli sul punto di vista umano, sulle capacità e le forze di cui disponevano; invece i secondi non facevano affidamento su sé stessi, ma valutavano le cose dal punto di vista della fede e confidavano in Dio, l'Alleato ideale per prendere possesso della terra promessa.

La vera fede non si basa sulle possibilità umane, ma su quello che Dio è in grado di fare.

Se considerassimo i nostri problemi con questa prospettiva (che è la sola esatta e sicur, non ci sarebbe motivo di dubitare e temere. Le situazioni difficili, le lotte impossibili e i temibili giganti che si ergono davanti a noi si possono affrontare e vincere solo guardando al Signore e dipendendo da Lui.

Dunque, Giosuè e Caleb fecero le loro valutazioni confidando in Dio e nelle Sue possibilità, e di conseguenza si espressero in maniera ben diversa degli altri.

Protesta e dietro-front del popolo

Dopo aver ascoltato il rapporto dei dieci esploratori, scoppiò una vera sommossa tra il popolo, che cominciò a mormorare contro Mosè ed Aaronne, dichiarando apertamente l’intenzione di ritornare in Egitto.

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Domenico34
00venerdì 17 febbraio 2012 00:10
Allora tutta la comunità gridò di sgomento e alzò la voce; e il popolo pianse tutta quella notte.
Tutti i figli d’Israele mormorarono contro Mosè e contro Aaronne, e tutta la comunità disse loro: «Fossimo pur morti nel paese d’Egitto! O fossimo pur morti in questo deserto!
Perché il SIGNORE ci conduce in quel paese dove cadremo per la spada? Là le nostre mogli e i nostri bambini diventeranno preda del nemico. Non sarebbe meglio per noi ritornare in Egitto?».
E si dissero l’un l’altro: «Nominiamoci un capo, torniamo in Egitto!»
(14:1-4).

In tutte le mormorazioni che gli Israeliti avevano fatto in passato (per la mancanza di acqua, di cibo e di carne, non avevano mai espresso la volontà di ritornare in Egitto, come questa volta.

Da quello che si evince dal capitolo quattordici dei Numeri, possiamo rispondere che erano veramente determinati a farlo.

È in questa ottica che va interpretato il gesto di Mosè e d’Aaronne, i quali si prostrarono a terra davanti a tutta la comunità riunita dei figli d’Israele (v. 5).

L’ira del Signore stava per accendersi contro il popolo per distruggerli, perciò Giosuè e Caleb fecero il possibile per calmare gli animi inaspriti e portare serenità e fiducia in mezzo alla comunità d’Israele (cfr. 13:30; 14:6-9).
Ma questi tentativi non ebbero buon esito, perché la popolazione addirittura parlò di lapidarli (v. 10).

Mosè, uomo di straordinaria sensibilità, rendendosi conto che il Signore voleva davvero distruggere il popolo, innalzò una preghiera speciale al Signore, in loro favore.

E Mosè disse al SIGNORE: «Ma lo verranno a sapere gli abitanti dell’Egitto, da cui tu hai fatto uscire questo popolo per la tua potenza,
e la cosa sarà risaputa dagli abitanti di questo paese. Essi hanno udito che tu, o SIGNORE, sei in mezzo a questo popolo e gli appari faccia a faccia, che la tua nuvola si ferma sopra di loro e che cammini davanti a loro di giorno in una colonna di nuvola, e di notte in una colonna di fuoco.
Ora, se fai perire questo popolo come un sol uomo, le nazioni che hanno udito la tua fama, diranno:
“Il SIGNORE non è stato capace di fare entrare questo popolo nel paese che aveva giurato di dargli, perciò li ha scannati nel deserto”.
Ora si mostri, ti prego, la potenza del SIGNORE nella sua grandezza, come tu hai promesso dicendo:
“Il SIGNORE è lento all’ira e grande in bontà; egli perdona l’iniquità e il peccato, ma non lascia impunito il colpevole e punisce l’iniquità dei padri sui figli, fino alla terza e alla quarta generazione”.
Perdona, ti prego, l’iniquità di questo popolo, secondo la grandezza della tua bontà, come hai perdonato a questo popolo dall’Egitto fin qui»
(vv. 13-19).

Il Signore esaudì la preghiera di Mosè, ma sentenziò la morte di tutta quella generazione e il prolungamento del soggiorno nel deserto.
Così dovettero tornare indietro, seguire un tracciato diverso per arrivare nella terra promessa e morirono tutti nel deserto, tranne Giosuè e Caleb.

Cinque riflessioni


L’episodio appena esaminato ci fornisce vari motivi per una seria e serena riflessione cristiana.

Dio aveva stabilito chiaramente che i componenti della spedizione dovevano essere tutti capi dei figli d'Israele (13:2), quindi non persone comuni.

Si sa che i capi vengono considerati in maniera diversa, rispetto agli altri; ma proprio in virtù della carica che rivestono e della rispettabilità di cui godono, sono legati a precise responsabilità, che non riguardano semplicemente la loro persona, ma tutti coloro che sono ad essi sottoposti. Perciò, il modo di parlare e di operare dei capi ha sempre ripercussioni nella vita di tante persone.
Fatto questo preambolo, entriamo nel vivo delle nostre cinque riflessioni:

1) I capi (soprattutto religiosi) hanno alle spalle un popolo che li segue e, a seconda della direzione che prendono, influenzano positivamente o negativamente questa gente.

Se la comunità d’Israele disprezzò la terra di Canaan e si rivoltò contro Mosè ed Aaronne, al punto di volere addirittura ritornare in Egitto, fu per l’influenza negativa esercitata su di loro dai capi.

Il rapporto di questi capi-esploratori (eccezion fatta per Giosuè e Caleb fu il risultato di un'errata valutazione di quello che videro e del loro netto rifiuto di andare a prendere possesso di Canaan.
Essi non credettero che il Signore li avrebbe aiutati a superare le difficoltà e i giganti che popolavano quella terra e così affermarono:

Noi, ...non siamo capaci di salire contro questo popolo, perché è più forte di noi.
Il paese che abbiamo attraversato per esplorarlo, è una paese che divora i suoi abitanti
(13:31,32).

Se i capi non credono a quello che il Signore dice nella Sua Parola, come potranno incoraggiare il popolo a credere alle promesse di Dio? Se essi valutano le circostanze avverse da un punto di vista carnale, come potranno pretendere che quelli che li seguono le guardino con lo sguardo della fede?

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Domenico34
00sabato 18 febbraio 2012 00:07
Se i capi hanno paura di affrontare le situazioni difficili e pensano di perdere la battaglia, come potranno trasmettere fiducia e forza agli altri?

Sul campo di battaglia i paurosi (soprattutto se sono capi) scoraggiano chi vuol battersi col nemico.

Come consiglia la Parola di Dio è meglio, per loro e per gli altri, che chiunque ha paura e trema se ne torni indietro (cioè “a casa”, Giudici 7:3). Infatti, la loro influenza può facilmente causare sbandamenti pericolosi, sviamenti e mormorazioni contro Dio.

Voglia il Signore che i leaders religiosi diano sempre un buon esempio di fedeltà, ubbidienza, sottomissione al volere divino e soprattutto sappiano mantenere fermezza e fede in Dio e nella Sua Parola.

2) Gli esploratori erano dodici e tutti videro le stesse cose. Come mai, allora, il rapporto non fu unanime? Perché dalle loro affermazioni emerge la loro interpretazione diversa di ciò che avevano visto.
I dieci (la stragrande maggioranza rispetto alla minoranza di solo 2) nel vedere le città fortificate, la gente forte e soprattutto i giganti, si sentivano come minuscole cavallette (13:33).

Essi si limitarono a paragonare gli ostacoli con sé stessi e con le limitate possibilità degli Israeliti, e si persuasero che non era consigliabile tentare quell’impresa, ai loro occhi essa era già fallita in partenza.

La loro valutazione dei fatti rispondeva a verità, umanamente parlando? Gli Israeliti maschi non erano 600.000? Anche senza prendere in considerazione la potenza di Dio, perché tanta paura e tanta esitazione?

Invece Giosuè e Caleb, pur tenendo presente gli stessi problemi, vedevano nella fede in Dio e nel Suo potere la chiave di volta per l’esito positivo di tutta la faccenda. Le loro parole: Saliamo pure e conquistiamo il paese, perché possiamo riuscirci benissimo (13:30), non furono dettate da fanatismo o da cieca esaltazione, ma dalla certezza che con Dio tutto sarebbe andato per il meglio. Infatti, leggiamo che:

Giosuè, figlio di Nun, e Caleb, figlio di Gefunne, che erano tra quelli che avevano esplorato il paese, si stracciarono le vesti
e parlarono così a tutta la comunità dei figli d’Israele dicendo: «Il paese che abbiamo attraversato per esplorarlo è un paese buono, molto buono.
Se il SIGNORE ci è favorevole, ci farà entrare in quel paese e ce lo darà: è un paese dove scorre il latte e il miele.
Soltanto, non vi ribellate al SIGNORE e non abbiate paura del popolo di quel paese, poiché ne faremo nostro pascolo; l’ombra che li proteggeva si è ritirata, e il SIGNORE è con noi; non li temete»
(14:6-9).

Dal loro modo d’esprimersi appare chiaro che non erano animati da irrazionale fanatismo, ma da sincera fede in Dio, fede che li portava a fare una valutazione diversa di tutto il problema.

Spesso si guardano i problemi della vita con una lente d'ingrandimento che li fa apparire più grandi di quanto non siano.

Se invece li guardassimo con gli occhi della fede, ci accorgeremmo che non sono affatto insormontabili, ma che possono essere facilmente superati.
Ricordiamoci che se i problemi sono grandi per le nostre capacità, non saranno mai abbastanza grandi per il nostro Dio onnipotente.

I dieci esploratori simboleggiano tutti quelli che guardano le cose dal punto di vista della carne e li misurano col metro della logica umana; mentre Giosuè e Caleb rappresentano tutti quelli che hanno fede in Dio e ne hanno fatto il vero punto di riferimento per ogni problema.

Questi ultimi non si muovono solo sulla base di ciò che vedono, ma si confidano in Colui che chiama le cose che non sono come se fossero (Romani 4:17, N.Diodati).

Prima essi affermano, sicuri di non essere smentiti, che con Dio si è sempre vittoriosi e poi sperimentano la veridicità della Parola di Dio.

3) Il nostro modo di parlare rivela quasi sempre la valutazione che abbiamo di una cosa o di una persona. I dieci esploratori, nel rapporto che fecero a Mosè e alla comunità d’Israele, usarono parole che rivelavano cosa pensavano del paese di Canaan.

Un parlare dubbioso, composto di frasi come: “Forse le cose andranno così... Chissà se ci riusciremo... Non è detto che ce la faremo...”, rivela incertezze che, nel regno dello Spirito, costituiscono autentiche barriere che vanno a frapporsi tra l’uomo e Dio.

Quanto è diverso invece il linguaggio della fede:
Dio è per noi un rifugio ed una forza, un aiuto sempre pronto nelle difficoltà (Salmo 46:1);

So che Dio è per me (Salmo 56:9);

...so in chi ho creduto, e sono convinto che egli ha il potere di custodire il mio deposito fino a quel giorno (2 Timoteo 1:12).

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Domenico34
00domenica 19 febbraio 2012 00:07
Le parole dei dieci esploratori (…non possiamo salire contro questo popolo v. 31) instillarono nella gente che li ascoltava lo scontento, l’incertezza e la paura.

Dobbiamo fare molta attenzione al nostro modo di parlare, altrimenti possiamo danneggiare la vita degli altri e precludere la via di accesso alle benedizioni divine.

4) Nella terra di Canaan scorreva il latte e il miele e c’era abbondanza di frutti deliziosi di prima qualità, a dimostrazione del fatto che effettivamente era un paese buono, molto buono (Numeri 14:7), vedi anche Numeri 13:23,27.

Ma c’erano anche città fortificate e giganti che, al solo vederli, incutevano paura.
Che cosa vuol dire tutto questo? È una pura coincidenza? Crediamo di no e questo ci dà lo spunto per un’altra riflessione.

Fin dai tempi di Abrahamo e poi d'Isacco e di Giacobbe, a varie riprese, Dio promise di concedere in eredità alla loro discendenza il paese di Canaan.

Quando fece loro questa promessa non specificò che in quel paese ci sarebbe stato il latte e il miele.
Lo rivelò solo tempo dopo, a Mosè, quando gli apparve a Oreb nel roveto ardente per affidargli la missione di liberazione:

Il SIGNORE disse: «Ho visto, l’afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il suo grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni.
Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Perezei, gli Ivvei e i Gebusei
(Esodo 3:7-8, promessa ripetuta in 33:3).

Quindi Mosè sapeva, prima ancora di inviare gli esploratori in Canaan, che vi avrebbero trovato latte e miele, e la conferma venne dal loro resoconto.

Il latte e il miele sono due sostanze alimentari di alto contenuto nutritivo, adatte a tutte le persone, dai primi attimi di vita fino alla vecchiaia.

L’apostolo Paolo parla del latte come un alimento prevalentemente per i bambini (mentre chi è più cresciuto spiritualmente si nutre di cibo solido, (1 Corinzi 3:1-2); ma, come spiega l’apostolo Pietro, è per mezzo del latte che si cresce (1 Pietro 2:2).

Il miele, invece, viene usato come condimento per addolcire e ci parla della bontà del Signore, che addolcisce le amarezze dell’anima (Proverbi 16:24)

L’espressione verbale usata nel testo biblico (scorre, e non “gocciola” o “stilla”) denota abbondanza. Nella terra promessa da Dio c’è abbondanza di cibo che ci fa crescere e di miele che ci addolcisce.

Canaan è figura del cielo, di un luogo spazioso e di eterna felicità; inoltre, essendo collocata al termine del lungo deserto e dopo il passaggio del fiume Giordano, è simbolo della fine del terrestre pellegrinaggio; infine, è simbolo delle ricchezze, delle benedizioni divine e di tutte le gioie dello Spirito Santo che Dio dona al credente durante la sua vita terrena.

Potrebbe sembrare strano che là dove scorre il latte e il miele ci siano anche fortezze e giganti che incutono paura.

Ma, quando in mezzo alle benedizioni divine e alle gioie dello Spirito Santo ci sono ostacoli e nemici, questo serve a spronare la nostra fede a confidare e sperare nel nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo.

Nessuna fortezza sarà abbattuta e nessun gigante verrà sconfitto se non esercitiamo la fede nell’Iddio onnipotente.

Quindi, nella terra di Canaan, oltre a dolcezze e benedizioni ci sono potenti nemici che servono a farci sperimentare il potere divino, per poi cantare l’inno trionfale della vittoria in Cristo Gesù. A Lui la gloria!

5) L’ultima considerazione si riferisce al fatto che i dieci esploratori che fecero un rapporto negativo sulla terra di Canaan perirono nel deserto e perciò videro la terra promessa ma non la possedettero.

La stessa sorte toccò a tutti quelli che credettero a loro anziché a Dio.
L’incredulità e le mormorazioni contro Dio, possono escludere anche noi dalle promesse di Dio, e sono un monito severo per chiunque si incammina sullo stesso sentiero.

Al contrario, Giosuè e Caleb credettero a quello che Dio aveva promesso, entrarono e si impossessarono del paese di Canaan.

Il primo perché si mise con coraggio alla testa di quel popolo, che secondo i dieci esploratori doveva essere divorato dagli abitanti di Canaan, e lo portò alla vittoria.

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Domenico34
00martedì 21 febbraio 2012 00:46
E il secondo perché, come testimonia Dio stesso: …è stato animato da un altro spirito e mi ha seguito pienamente (Numeri 14:24).

Imitiamo l’esempio di Giosuè e Caleb e saremo sicuramente premiati da Colui che sa dare sempre le giuste ricompense (cfr. Ebrei 11:6). Amen!

PS: Se al termine del capitolo 8 ci sono domande da fare, fatele liberamente e saremo felici di rispondere


Capitolo 9




IL DESERTO DI SIN E CADES




Il racconto relativo alla sosta a Cades (che significa “consacrato”), nel deserto di Sin, si trova nel capitolo venti dei Numeri.
In questo luogo i figli d’Israele arrivarono nel primo mese e qui morì e fu seppellita Miriam, sorella di Aaronne (v. 1).

La profetessa Miriam

Di Miriam si parla in Esodo 15:20-21, in occasione del canto trionfale innalzato da Israele, dopo la traversata del Mar Rosso.
In quella circostanza Miriam non solo viene presentata come una donna che ne guida altre nel canto e nella danza, al suono dei tamburelli, ma viene anche indicata col titolo di profetessa.
Di questo suo ministero non sappiamo nulla perché il sacro testo non ce ne parla. Miriam è la prima donna che nella Bibbia viene presentata col titolo di profetessa.

Per comprendere se Miriam aveva gli stessi compiti che generalmente si attribuiscono ai profeti maschi, sarà opportuno esaminare i testi successivi della Bibbia in cui si parla di donne che hanno lo stesso titolo.
Dall’esame di questi testi riteniamo che emerga una notevole differenza.

Le donne che nella Bibbia vengono chiamate ‘profetesse’, sono: Debora (Giudici 4:4), Culda (2 Re 22:14; 2 Cronache 34:22), Noadia (Nehemia 6:14) e la moglie d'Isaia (Isaia 8:3).

A proposito di quest’ultima, qualcuno pensa che sia stata chiamata profetessa: «…o perché era sposata con un profeta o perché aveva la capacità, data da Dio, di profetizzare. Quest’ultima ipotesi sembra più probabile» [John Hannah, Investigate le Scritture Antico Testamento, p.104].

Infine nel N.T. troviamo Anna, figlia di Fanuel (Luca 2:36), e poi si accenna a una certa Iezabel che si dice profetessa, ma che in effetti non lo era (Apocalisse 2:20).

Di tutte queste donne, solo a Miriam non vengono attribuite profezie o messaggi divini.

Come già visto, sappiamo solo che fu la guida di altre donne nel canto e nella danza, dopo la grande liberazione che il Signore aveva dato ad Israele.

Questa sua iniziativa, che più tardi verrà imitata da altre donne in Israele (1 Samuele 18:6), sicuramente fu ispirata dallo Spirito del Signore.

Questo è il solo elemento che giustifica il titolo di profetessa e, d’altronde, “profeta” significa semplicemente persona che parla da parte di Dio e non necessariamente “predicatore” della Parola del Signore.

Secondo Noth:
«…con questo termine (profetess presumibilmente si vuole indicare come ”estatica”; infatti, estasi e canto (cultual erano strettamente uniti nell’antico Israele (cfr. 1 Samuele 10:5,6) » [Martin Noth, Esodo, p. 152].

«Poiché Mosè, ai tempi dell’Esodo (Esodo 7:7), aveva ottanta anni ed Aaronne ottantatrè, Miriam ne aveva probamente novanta, dato che era una ragazzina quando Mosè nacque (2:4,7-9) » [John Hannah, InInvestigate le Scritture Antico Testamento, p. 141].

Invece, di Anna, la figlia di Fanuel del Nuovo Testamento, ci viene detto chiaramente che quando Maria e Giuseppe portarono nel tempio il bambino Gesù:

…lodava Dio e parlava di quel bambino a tutti quelli che aspettavano la redenzione in Gerusalemme (Luca 2:38).

Di uomini che hanno il titolo di profeta, ma che non hanno mai propriamente “profetizzato”, nel senso che non sono stati messaggeri o interpreti della Parola del Signore, abbiamo: Abrahamo (Genesi 20:7) ed Aaronne (Esodo 7:1).

Abrahamo viene chiamato profeta sicuramente a proposito dell'intercessione che fece per il re Abimelec.

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Domenico34
00mercoledì 22 febbraio 2012 00:11
Per quanto riguarda Aaronne, il titolo di profeta si riferiva al fatto che è stato l'interprete di tutto quello che Dio ha detto a Mosè, suo fratello, davanti al popolo d’Israele soprattutto davanti al faraone.

Infine, anche Noè potrebbe essere considerato un profeta, se gli applichiamo l’affermazione di Amos 3:7: Poiché, il Signore, Dio, non fa nulla senza rivelare il suo segreto ai suoi servi, i profeti.

Ma non esistono testi espliciti nella Bibbia che ci consentano di includere quest'antico patriarca nel novero dei profeti.

La mancanza d’acqua


Ancora una volta il popolo si lamenta con Mosè per la mancanza di acqua. La contesa nasce tra gli Israeliti, da una parte, e da Aaronne e Mosè, dall’altra, e porta i primi a formulare una pesante accusa nei confronti dei secondi.

A sentir loro, sarebbe stato meglio che i figli d’Israele fossero morti assieme ai loro fratelli anziché morire nel deserto per mancanza di acqua.
E se la comunità si trovava a vivere nel deserto la colpa era di Aaronne e Mosè, che avevano deciso di condurli là.

Affermare una cosa simile equivaleva a ignorare completamente che era stato Dio a guidare gli Israeliti ed equivaleva a considerarlo estraneo a tutta la faccenda, per addossare ogni responsabilità su Aaronne e Mosè.

Se erano nel deserto non era per una scelta umana ma perché Dio, nella Sua sovranità, l’aveva deciso in risposta all’incredulità del popolo, quando si era rifiutato di salire nel paese di Canaan.

Tante volte è duro accettare le pesanti conseguenze di errate scelte e decisioni: è molto più facile scaricare su altri la responsabilità e la colpa, cercando di apparire come innocenti.

Inoltre, affermare che erano stati Mosè ed Aaronne a far salire dall’Egitto la comunità d’Israele (v. 5) equivaleva anche a disprezzare l’evidente intervento dell’Onnipotente, visto che era stato il Suo braccio steso a tirarli fuori da quella fornace ardente.

Aggravati dalle aspre critiche del popolo e dalla situazione imbarazzante in cui si erano venuti a trovare, Mosè ed Aaronne si allontanarono dalla folla, si recarono all’ingresso della tenda di convegno e, prostrandosi faccia a terra, cercarono l’aiuto del Signore.

Il peccato di Mosè e di Aaronne

Dio risponde sempre a chi si rivolge a Lui in cerca di aiuto.
Il SIGNORE disse a Mosè:
«Prendi il bastone; tu e tuo fratello Aaronne convocate la comunità e parlate a quella roccia, in loro presenza, ed essa darà la sua acqua; tu farai sgorgare per loro acqua dalla roccia e darai da bere alla comunità e al suo bestiame»
(Numeri 20:7-8).

L’ordine dato da Dio è preciso e circostanziato:
1) Mosè doveva prendere il suo bastone,
2) lui ed Aaronne dovevano convocare la comunità,
3) davanti a tutti dovevano parlare alla roccia, e ne sarebbe uscita l’acqua per loro e il loro bestiame.

Un comando divino non può essere modificato in nessuna delle sue componenti, se non si vuole rischiare di perdere la sua efficacia e di rendersi colpevoli di trasgressione della Parola di Dio.Si adatta bene a questo contesto il versetto biblico: Tu hai dato i tuoi precetti perché siano osservati con cura (Salmo 119:4).

Inoltre, questo comando rappresentava la risposta alla richiesta di aiuto che essi stessi avevano avanzato al Signore per il problema della mancanza di acqua.

Per quanto riguardava i primi due punti, questi vennero messi in pratica con grande scrupolo: Mosè ed Aaronne presero il bastone e convocarono il popolo in un’assemblea straordinaria, esattamente come il Signore aveva ordinato.

Non possiamo però affermare lo stesso del terzo comando divino, che venne arbitrariamente disatteso.

Dio non aveva ordinato di parlare al popolo, ma alla roccia, e non aveva autorizzato Mosè a definirli ribelli (v. 10), anche se lo avrebbero meritato.
Da ciò si deduce che Mosè, in questa circostanza, non riuscì a controllarsi e non si comportò con mansuetudine, come altre volte e come lo richiedeva la sua responsabilità.

Quest'elemento dev’essere preso in seria considerazione da quelli che occupano posizioni di responsabilità, e costituisce un serio richiamo all’autocontrollo. Più è elevata una carica, maggiore è la responsabilità che essa comporta, e maggiore è il rischio che, davanti a certe situazioni, il leader perda il controllo davanti a critiche e reazioni negative, per cadere nell’ira e nell’intolleranza.

Mosè, era stato scelto da Dio stesso per l’importante carica di conduttore di un popolo così numeroso e aveva un rapporto di particolare intimità con il Signore, ma si lasciò ugualmente vincere da un impulso carnale, che lo portò a dire, davanti a tutti: faremo uscire per voi acqua da questa roccia? (v. 10).

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Domenico34
00giovedì 23 febbraio 2012 00:07
Non aveva detto il Signore che i suoi due servitori dovevano solo parlare alla roccia e da lei sarebbe uscita dell’acqua?

Dal modo con cui si espresse si deduce che Mosè non era calmo e sereno, anzi, si era fortemente stizzito per l’affronto subito quando la comunità l’aveva voluto contestare.

Il bastone che Dio gli aveva ordinato di prendere non avrebbe dovuto percuotere la roccia; era solo un segno dell’autorità che il Signore aveva messo nella sua mano. In altre parole, Mosè non avrebbe dovuto agire con la sua autorità, ma con quella divina che Dio stesso gli aveva conferito.

Dio gli aveva ordinato solo di tenere il bastone in mano e di parlare alla roccia, e ne sarebbe scaturita l’acqua necessaria a soddisfare il bisogno della comunità e del bestiame.

Perché Mosè, invece di parlare alla roccia, preferì percuoterla per ben due volte?

Probabilmente si era ricordato di Refidim, dove aveva percosso la roccia e ne era uscita dell’acqua. Ma a Refidim era stato il Signore a ordinare di farlo; invece a Cades (anche se il bisogno era identico) Dio comandò di agire diversamente.

Gli ordini divini vanno eseguiti esattamente come Lui li dà, di volta in volta, senza appellarsi alla logica umana e senza fare riferimento ad esperienze, anche positive, del passato.

Fu Dio stesso a rivelare quale fu il grave motivo di fondo che aveva indotto Mosè a percuotere la roccia:

Poi il SIGNORE disse a Mosè e ad Aaronne: «Siccome non avete avuto fiducia in me per dare gloria al mio santo nome agli occhi dei figli d’Israele, voi non condurrete questa assemblea nel paese che io le do» (v. 12).

Queste parole ci dicono chiaramente che Mosè ed Aaronne non credevano che con il semplice parlare alla roccia sarebbe scaturita dell’acqua.
Naturalmente, Dio non chiede perché non hanno creduto alle Sue parole: Egli non ha bisogno di spiegazioni (come noi uomini) per conoscere le ragioni e le motivazioni di ogni nostra azione.

Perciò, per il peccato di disubbidienza e d'incredulità, e per non aver dato gloria a Dio davanti agli occhi dei figli d’Israele, Mosè ed Aaronne non ebbero l’onore di entrare nel paese di Canaan e di introdurvi il popolo d’Israele.

Un’altra domanda che si potrebbe fare è: Come mai dalla roccia uscì ugualmente dell’acqua, dal momento che Mosè ed Aaronne non seguirono alla lettera i comandi di Dio?

A rigor di legge, il Signore non era tenuto ad onorare la richiesta dei suoi servitori, visto che non si erano comportati secondo l’ordine ricevuto.
Ma il fatto è che se in quel giorno non fosse sgorgata l’acqua dalla roccia, la dignità e l’onore di Mosè e Aaronne sarebbero stati seriamente danneggiati, con conseguenze disastrose sia per loro che per tutto il popolo.

Se Mosè, in qualità di capo del popolo, ed Aaronne, come sommo sacerdote, occupavano queste cariche elevate, non era perché le avevano meritate o procacciate, ma perché erano state conferite loro dall’Alto.

Quindi, non c’era da salvaguardare solo la persona di questi due servitori del Signore, ma anche il ministero divino che Dio aveva loro affidato e che non doveva assolutamente essere messo in ridicolo davanti all’intero popolo d’Israele.

Davanti alla comunità Dio onorò Mosè ed Aaronne, ma in separata sede li punì come meritavano, cioè non consentì loro di entrare in Canaan e di introdurvi il popolo d’Israele.

Considerazioni varie


L’episodio di Cades ci fornisce vari motivi di riflessione e lezioni di vita pratica, sia per tutto il popolo del Signore che per i conduttori, cioè le guide spirituali.

Le mormorazioni e le contestazioni, che a volte emergono in maniera spietata e da parte di persone insospettabili, vanno sempre respinte energicamente, anche se apparentemente contengono elementi atti a giustificarle.

Un popolo che sa di avere sopra di sé la mano divina che dirige e controlla le varie situazioni (anche il mangiare e il ber, non può assumere un atteggiamento così ostile, perché è l’invisibile conduttore, cioè Dio, a risultarne disprezzato ed insultato. C’è un principio divino, di portata universale, che afferma:

tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno (Romani 8:28).

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Domenico34
00venerdì 24 febbraio 2012 00:08
Questo principio costituisce il segreto per preservare il credente da ogni tipo di lamentela contro Dio e contro i Suoi servitori, specie quando le cose non vanno come vorremmo noi.

I servitori del Signore, a loro volta, devono fare molta attenzione ad attenersi scrupolosamente a quello che Dio ordina, in modo particolare attraverso la Sua Parola scritta che deve essere sempre la loro norma di vita e di condotta.

Non devono mai cambiarla o modificarla a proprio piacimento, secondo le loro vedute personali: se Dio afferma una cosa, sotto forma di un preciso comando, bisogna eseguirla così come Lui l’ha comunicata.
Ogni modifica a un comando divino costituisce una trasgressione alla Sua Parola e un'offesa alla Sua persona. Ricordiamoci, con santo timore, che Mosè ed Aaronne non entrarono nella terra promessa proprio perché non ubbidirono a quello che Dio aveva chiaramente ordinato loro.

L’esclusione dalla terra promessa non costituisce la prova che Mosè ed Aaronne persero la loro salvezza (Mosè apparve insieme ad Elia con Gesù sul monte della trasfigurazione, Matteo 17:3); ma è certo che la loro incredulità li privò di una grande benedizione, che avrebbero potuto godere assieme a tutto il popolo: l’accesso alla terra promessa, dove stillava il latte e il miele!

A questo punto, è interessante prendere in considerazione il significato spirituale che l’apostolo Paolo dà alla roccia di Cades, quando afferma che gli Israeliti:

… bevvero tutti la stessa bevanda spirituale, perché bevevano alla roccia spirituale che li seguiva; e questa roccia era Cristo (1 Corinzi 10:4).

Secondo questo sorprendente versetto, la roccia era Cristo. Dunque il significato simbolico dei colpi che Mosè inferse alla roccia si potrebbe applicare anche al sacrificio di Cristo.

Quando Mosè percosse la roccia a Refidim, ciò rientrava nei piani divini perché Dio l’aveva ordinato e anche perché, profeticamente parlando, si trovava in accordo con la profezia d'Isaia che prevedeva che il Messia, Gesù Cristo, sarebbe appunto colpito (Isaia 53:4,8).

È evidente che Gesù fu colpito una sola volta, alla croce, e fu proprio in virtù di quello che Egli soffrì in croce che si aprirono per l’intera umanità le porte della salvezza. Ora che Gesù è stato colpito a causa dei [nostri] peccati, non resta che credere nel valore eterno di questo unico sacrificio:

Gesù, dopo aver offerto un unico sacrificio per i peccati, e per sempre, si è seduto alla destra di Dio,
e aspetta soltanto che i suoi nemici siano posti come sgabello dei suoi piedi.
Infatti con un'unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che sono santificati.
Anche lo Spirito Santo ce ne rende testimonianza.Infatti, dopo aver detto:
«Questo è il patto che farò con loro dopo quei giorni, dice il Signore, metterò le mie leggi nei loro cuori e le scriverò nelle loro menti», egli aggiunge:
«Non mi ricorderò più dei loro peccati e delle loro iniquità».
Ora, dove c'è perdono di queste cose, non c'è più bisogno di offerta per il peccato
(Ebrei 10:12-18).

Alla luce di questi chiari versetti non servono “due colpi”, anzi non serve nient’altro.

Il sacrificio di Gesù è perfetto e non dobbiamo aggiungere altro da parte nostra: né ulteriori sacrifici, né riti, né buone opere, né presunti meriti.
L’unica cosa che Dio ci chiede è di accettare questo unico sacrificio rivolgendoci a Lui per mezzo della fede, che è certezza di cose che si sperano e dimostrazione di realtà che non si vedono (Ebrei 11:1).

Infatti, nel linguaggio biblico, credere in Dio non significa solo dimostrare fiducia nella Sua onnipotenza e provvidenza, ma anche confessare e proclamare l’attendibilità Sua e delle Sue promesse:

… questa è la parola della fede che noi annunziamo;
perché, se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato;
infatti con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa confessione per essere salvati
(Romani 10:8-10).

L’atto di credere e parlare (confessar lo devono fare tutti i credenti e, nel nostro testo di Numeri 20:7, questo era stato specificamente richiesto a Mosè e ad Aaronne.

Solo con l’ubbidienza noi onoriamo e glorifichiamo il Suo Nome, al quale va tutta la nostra lode e riconoscenza. Amen!

PS: Se al termine del capitolo 9 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Si proseguirà il prossimo giorno...
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