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Domenico34 – Le parabole di Gesù – Capitolo 21. DUE SIMILITUDINI

Ultimo Aggiornamento: 15/05/2011 00:05
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13/05/2011 00:18


Capitolo 21




DUE SIMILITUDINI




Il testo

A lui apre il portinaio, e le pecore ascoltano la sua voce, ed egli chiama le proprie pecore per nome e le conduce fuori.
Ma un estraneo non lo seguiranno; anzi, fuggiranno via da lui perché non conoscono la voce degli estranei».
Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono quali fossero le cose che diceva loro.
Perciò Gesù di nuovo disse loro: «In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore.
Tutti quelli che sono venuti prima di me, sono stati ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati.
Io sono la porta; se uno entra per me, sarà salvato, entrerà e uscirà, e troverà pastura.
Il ladro non viene se non per rubare, ammazzare e distruggere; io son venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.
Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la sua vita per le pecore.
Il mercenario, che non è pastore, a cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e si dà alla fuga, e il lupo le rapisce e disperde.
Il mercenario si dà alla fuga perché è mercenario e non si cura delle pecore.
Io sono il buon pastore, e conosco le mie, e le mie conoscono me,
come il Padre mi conosce e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore.
Ho anche altre pecore, che non sono di quest’ovile; anche quelle devo raccogliere ed esse ascolteranno la mia voce, e vi sarà un solo gregge, un solo pastore.
Per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita per riprenderla poi.
Nessuno me la toglie, ma io la depongo da me. Ho il potere di deporla e ho il potere di riprenderla. Quest’ordine ho ricevuto dal Padre mio».
Nacque di nuovo un dissenso tra i Giudei per queste parole.
Molti di loro dicevano: «Ha un demonio ed è fuori di sé; perché lo ascoltate?»
Altri dicevano: «Queste non sono parole di un indemoniato. Può un demonio aprire gli occhi ai ciechi?»
(Giovanni 10:1-21).

Nota preliminare

A differenza dei Sinottici, Giovanni nel suo vangelo non si occupa delle parabole di Gesù, ma riporta solamente due similitudini: quella del pastore e delle pecore e quella della vite e i tralci.
Nei vv. 1-6, Gesù descrive la similitudine usando termini precisi come pastore, porta dell’ovile, ovile, pecore, ladro, brigante, portinaio. Le pecore ascoltano la voce del pastore e lo seguono, ma non fanno lo stesso per lo straniero, visto che non ne conoscono la voce. Il pastore chiama per nome le sue pecore, le conduce fuori dell’ovile e si mette alla loro testa per condurle al pascolo. A cominciare dal v. 7 fino al 30, Gesù spiega perché Egli è il pastore, anzi il buon pastore.

Se Gesù narrò la similitudine del pastore non fu solamente per rifarsi all’ambiente palestinese, visto che il Suo discorso rispecchiava l’agire del pastore verso il proprio gregge, ma principalmente per insegnare che Egli stesso era il pastore delle Sue pecore. Questo significa che Lui non è il pastore di pecore che non Gli appartengano.

La figura del pastore era abbastanza familiare agli ascoltatori di Gesù, specialmente ai capi religiosi, i quali sapevano che Dio stesso, nelle Scritture dell’A.T., s’identificava con un pastore. Lo provano i seguenti testi:

Benedisse Giuseppe e disse: «Il Dio alla cui presenza camminarono i miei padri Abraamo e Isacco, il Dio che è stato il mio pastore da quando esisto fino a questo giorno (Genesi 48:15).

Ma il suo arco è rimasto saldo; le sue braccia e le sue mani sono state rinforzate dalle mani del Potente di Giacobbe, da colui che è il pastore e la roccia d’Israele (Genesi 49:24).

Il SIGNORE è il mio pastore: nulla mi manca (Salmi 23:1).

Porgi orecchio, o pastore d’Israele, che guidi Giuseppe come un gregge; o tu che siedi sopra i cherubini, fa’ risplendere la tua gloria! (Salmi 80:1).

Come un pastore, egli pascerà il suo gregge: raccoglierà gli agnelli in braccio, li porterà sul petto, condurrà le pecore che allattano (Isaia 40:11).

Essi sapevano anche che gli scritti dell’A.T. paragonavano i profeti, i regnanti e i capi religiosi ai pastori. Lo dimostrano alcuni testi:

Che esca davanti a loro ed entri davanti a loro e li faccia uscire e li faccia entrare, affinché la comunità del SIGNORE non sia come un gregge senza pastore (Numeri 27:17).

Già in passato, quando Saul regnava su di noi, eri tu che facevi uscire e ritornare Israele; il SIGNORE ti ha detto: Tu sarai pastore del mio popolo, Israele, tu sarai il principe d’Israele (2 Samuele 5:2).

Io dico di Ciro: Egli è il mio pastore; egli adempirà tutta la mia volontà, dicendo a Gerusalemme: «Sarai ricostruita!» E al tempio: «Le tue fondamenta saranno gettate!» (Isaia 44:28).

Quanto a me, io non mi sono rifiutato di essere loro pastore agli ordini tuoi, né ho desiderato il giorno funesto, tu lo sai; quanto è uscito dalle mie labbra è stato manifesto davanti a te (Geremia 17:16).

Esse, per mancanza di pastore, si sono disperse, sono diventate pasto di tutte le bestie dei campi, e si sono disperse (Ezechiele 34:5).

Porrò sopra di esse un solo pastore che le pascolerà: il mio servo Davide; egli le pascolerà, egli sarà il loro pastore (Ezechiele 34:23).

Il mio servo Davide sarà re sopra di loro ed essi avranno tutti un medesimo pastore; cammineranno secondo le mie prescrizioni, osserveranno le mie leggi, le metteranno in pratica (Ezechiele 37:24).

Perché, ecco, io susciterò nel paese un pastore che non si curerà delle pecore che periscono, non cercherà le disperse, non guarirà le ferite, non nutrirà quelle che stanno in piedi, ma mangerà la carne delle grasse e strapperà loro perfino le unghie.
Guai al pastore stolto che abbandona il gregge! La spada gli colpirà il braccio e l’occhio destro. Il braccio gli si seccherà del tutto e l’occhio destro gli si spegnerà completamente
(Zaccaria 11:16,17) [Per tutta la parte introduttiva della similitudine, che è stata definita «un discorso enigmatico», nonché quello che hanno detto i vari studiosi e commentatori che sono intervenuti, cfr. R. Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni, Parte seconda, pagg. 466-470].

Esame della similitudine

Sebbene il v. 6 affermi: Ma essi non capirono quali fossero le cose che diceva loro, si tratta di un chiaro riferimento ai capi religiosi, visto che erano stati i farisei ad esprimere un severo giudizio nei confronti di Gesù, classificandoLo come un uomo che non è da Dio (Giovanni 9:16).

Quando però Gli sentirono affermare che Egli era il pastore, anzi il buon pastore, essi sapevano che cosa volesse intendere con quell’autodefinizione. Non capirono la similitudine, perché in quella descrizione Gesù non si definiva pastore. Quando lo fece specificatamente, la loro reazione non fu benevola, per il semplice motivo che essi non accettavano che Gesù avesse prerogative divine, dal momento che non aveva alcun rispetto per il sabato, giorno sacro per gli Ebrei.

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14/05/2011 01:48

Quando raccontò la parabola della pecora smarrita, Gesù aveva fatto comprendere ai Suoi ascoltatori qual fosse il vero atteggiamento di un pastore-guida nei confronti del proprio gregge. Non certo quello di scacciare una pecora, bensì di cercarla se si smarrisce e caricarsela sulle spalle se è stanca, abbattuta e prive di forze.

Il fatto che i farisei avessero scacciato dalla sinagoga l’uomo nato cieco che Gesù aveva guarito (Giovanni 9:22,35) aveva dimostrato che queste persone, che Gesù definiva guide cieche (Matteo 23:16), non erano dei veri pastori che si prendevano cura delle pecore, mentre Gesù, nell’interessarsi a quell’uomo che era stato cacciato fuori (Giovanni 9:35), dimostrò di avere le qualità di un vero pastore.

Fu in quell’occasione che Gesù fece quella solenne affermazione: «Io sono venuto in questo mondo per fare un giudizio, affinché quelli che non vedono vedano, e quelli che vedono diventino ciechi» (Giovanni 9:39). Al che, alcuni dei farisei, sentendo quelle parole Gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?»
Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane» (Giovanni 9:40-41).

Tenendo presente questo contesto, si può comprendere meglio il ragionamento di Gesù quando Egli passò a spiegare la similitudine. In questo capitolo dieci del vangelo di Giovanni, ricorre la famosa frase egō eimi = io sono: Io sono la porta delle pecore; Io sono la porta; Io sono il buon pastore. Con questa Sua autodefinizione, Gesù mise, in effetti, in evidenza le prerogative divine che riguardavano la persona del Cristo, il Messia, quale Egli era.

Ci meravigliamo come questi autori abbiano potuto dare quel significato alle parole di Gesù, visto che Egli li applicò a Se stesso in maniera specifica e definitiva. Quando si cerca di spiritualizzare troppo la Scrittura, con il pretesto di scavare a fondo, si finisce con l’affermare quello che Il testo sacro non intende dire.

Che cos’è l’ovile? Un luogo dove le pecore venivano radunate e messe al sicuro, la sera, durante la notte. In questo recinto c’era una porta attraverso la quale passavano le pecore. Il guardiano era una persona incaricata di guardare e custodire le pecore da eventuali assalti dei briganti e dei lupi, che facevano di tutto per impadronirsi del bestiame. È molto significativo che Gesù non definisca se stesso il guardiano; questo sta a significare che tale funzione era svolta da qualcun altro. Schnackenburg considera il guardiano «una figura accessoria, della quale però si è impadronita l’esegesi allegorica» [Ibidem, pag. 472, nota 14. Per Crisostomo, era Mosè; per Agostino, Teodoro d’Eraclea, Teofilatto. Per Rupert v. Deutz e altri, lo Spirito Santo. Altri ancora pensavano a Giovanni Battista (ad es. Zahn), a Dio stesso (Calvino, Maldonado) o ancora a Cristo (Agostino, Cirillo Alessandrino). A. J. Simonis, teso alla ricerca di un fondamento storico, riferisce il guardiano a persone che hanno una funzione nel tempio (155), forse Caiafa (157) o tutti i gran sacerdoti insieme coi Farisei (158). Essi dovevano aprire a Gesù la porta d’Israele, ma non (1) l’hanno fatto (159)].

Tenuto conto che Gesù si è definito, con un linguaggio fermo e deciso, la porta delle pecore, il pastore, poi fa un’affermazione ardita: Tutti quelli che sono arrivati prima di me, sono stati ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati (v. 8). Ma chi sono costoro a cui Gesù si riferisce? Certamente non si può pensare ai profeti e ai re come Mosè, Elia, Davide, perché questi sono considerati da Giovanni uomini di Dio (Giovanni 1:17; 5:39). Non si può neanche parlare di Giovanni Battista, testimone di Gesù (Giovanni 1:19) e amico dello sposo (Giovanni 3:29). Perciò si deve trattare di uomini che hanno avanzato una falsa pretesa messianica. I padri della chiesa pensavano a Giuda il Galileo e Teuda. Il fatto, però, che Gesù li bolli come ladri e brigani fa pensare più esattamente a un gruppo composto dai falsi pretendenti messianici e dai capi politici e spirituali del popolo. I più, infatti (e noi siamo nel numero di costoro), pensano che si tratti dei Farisei quali capi cattivi d’Israele, ma voi non credete, perché non siete delle mie pecore (Giovanni 10:25-26).

Ci resta da fare un’ultima considerazione: chi è il mercenario, visto che non si comporta come il pastore? È una persona presa a pagamento, secondo l’usanza di quei tempi, che svolge il compito di guidare un gregge e condurlo al pascolo. Non è il proprietario delle pecore; è uno che tiene più al denaro che percepisce anziché prendersi cura veramente delle pecore. Infatti, viene precisato che, se questi vede arrivare il lupo, invece di rimanere in mezzo al gregge per difenderlo, lo lascia e fugge. Perché fa questo? Perché appunto non è il proprietario delle pecore. Gesù, il buon pastore, proprietario delle pecore, sacrifica la Sua vita per loro: le difende, le protegge e si cura veramente di ognuna di loro, dimostrando interesse e premura affettuosa.
Di mercenari, nell’opera di Dio, ce ne sono tanti. Sono quelli che hanno fatto del denaro il loro Dio o, come afferma Paolo, il cui dio è il ventre (Filippesi 3:19) [Per l’esegesi di tutto il brano, che abbiamo riportato all’inizio, cioè 10:1-21, rimandiamo a R. Schnackenburg, Il Vangelo di Giovanni, parte seconda, pagg. 466-505].

Il testo

«Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiuolo.
Ogni tralcio che in me non dà frutto, lo toglie via; e ogni tralcio che dà frutto, lo pota affinché ne dia di più.
Io sono la vite, voi siete i tralci. Colui che dimora in me e nel quale io dimoro, porta molto frutto; perché senza di me non potete far nulla.
Se uno non dimora in me, è gettato via come il tralcio, e si secca; questi tralci si raccolgono, si gettano nel fuoco e si bruciano.
In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto, così sarete miei discepoli
(Giovanni 15:1-8).

NOTA INTRODUTTIVA

I capitoli 14, 15 e 16 di Giovanni sono considerati i discorsi d’addio che Gesù pronunciò prima della Sua morte. I discorsi in questione sono indirizzati ai discepoli di Gesù e mirano a dare loro precise istruzioni e incoraggiamento per i momenti critici che attraverseranno. Le promesse che vengono fatte hanno lo scopo di rafforzare la fede dei discepoli di Gesù, con la prospettiva del loro sviluppo e della loro crescita spirituale. La venuta dello Spirito Santo — o del Consolatore, secondo come Gesù predilige esprimersi — e la Sua attività vengono ampiamente illustrate, tanto da non lasciare alcuna incertezza nella mente e nel cuore dei seguaci di Gesù.

Lo scopo principale della similitudine della vite e dei tralci è di far vedere l’opera del Padre, come vignaiuolo, nel togliere via quei tralci che non portano frutto, mentre quelli che lo portano vengono potati in modo che ne diano di più. Infine, il segreto per portare frutto abbondante non consiste solamente nella potatura che fa il Padre, ma anche e soprattutto nel dimorare in Gesù. In conclusione, c’è una bella promessa che attende i credenti: Se dimorate in me e le mie parole dimorano in voi, domandate quello che volete e vi sarà fatto.

«Col maiestatico egō eimi ha inizio il discorso figurato della vera vite e dei tralci. L’espressione “discorso figurato” ci sembra preferibile, perché esso non è né una pura allegoria né un “discorso vero e proprio”» [R. Schnackenburg, Il Vangelo di Giovanni, parte terza, pag. 158].

È certo che Gesù, come vera vite, non possa essere paragonato alla vite descritta nel profeta Ezechiele, da cui mettiamo in rilievo i seguenti passi:

Figlio d’uomo, il legno della vite che cos’è più di qualunque altro legno? Che cos’è il tralcio che è fra gli alberi della foresta?
Esso crebbe e diventò una vite estesa, di pianta bassa, in modo da avere i suoi tralci rivolti verso l’aquila, e le sue radici sotto di lei. Così diventò una vite che fece dei pampini e mise dei rami
.

I primi due passi vengono applicati ad Israele infedele; gli altri, in forma parabolica, alla casa ribelle d’Israele e al re di Babilonia che è giunto a Gerusalemme, ha preso il re e i capi e li ha condotti con sé a Babilonia (Ezechiele 17:12).

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15/05/2011 00:05

È singolare che il Padre venga definito vignaiuolo. Il motivo per cui Gesù Lo definisce così consiste nel fatto che Egli toglie via ogni tralcio che non porta frutto, mentre quelli che lo portano vengono potati in modo che ne diano di più. Bisogna subito notale che chi vede che il tralcio non porta frutto è il Padre. Questo ci fa comprendere che il vedere del Padre è ben diverso dal comune vedere degli uomini.

Un’altra cosa da mettere in evidenza è questa: il tralcio che non porta frutto è attaccato alla vite. Gesù ha definito i Suoi discepoli dei tralci. La domanda che sorge spontanea è la seguente: come mai un tralcio che è attaccato alla vite non porta frutto? Se il tralcio tagliato dalla vite è destinato a seccarsi e ad essere gettato nel fuoco, perché non ha portato frutto? Perché quello che vi rimane non porta frutto? Gesù precisa che il segreto per portare frutto è il seguente: Dimorate in me, e io dimorerò in voi. Come il tralcio non può da sé dar frutto se non rimane nella vite, così neppure voi, se non dimorate in me (v. 4).

Mettendo in risalto l’affermazione di Gesù, si evince che non tutti i tralci-discepoli, che sono attaccati a Gesù, vera vite, portano frutto. Il motivo sta nel fatto che non tutti dimorano il Lui e non in tutti dimorano le Sue parole. Il dimorare in Gesù e delle Sue parole in noi è più di una semplice aderenza religiosa: denota una fusione tra Gesù e il discepolo in cui le Sue parole non sono passeggere, ma stabili, radicate nella vita del credente, tanto da farlo diventare, nella sua esistenza, una stessa cosa con Cristo.

Inoltre, non si può negare che, nella cristianità di tutti i tempi, per alcuni aderenti c’è solamente l’apparenza religiosa, la forma esteriore. A questo punto, calza a pennello l’affermazione dell’epistola a Timoteo: Aventi l’apparenza della pietà, mentre ne hanno rinnegato la potenza. Anche da costoro allontanati! (2 Timoteo 3:5).

Oltretutto, la specificazione che fa Gesù: In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto, così sarete miei discepoli (v. 8) serve non solo a mettere in risalto che un seguace di Gesù che non porta frutto non glorifica effettivamente il Padre, ma che non è neanche un Suo vero discepolo. I discepoli di Gesù non sono alberi sterili, che cioè non producono frutto, ma piante che recano delizia quando l’amico scende nel suo giardino per raccoglierne il frutto:

Sorgi, vento del nord, e vieni, vento del sud! Soffiate sul mio giardino, perché se ne spandano gli aromi! Venga l’amico mio nel suo giardino e ne mangi i frutti deliziosi! (Cantico dei Cantici 4:16).
Infine, c’è la meravigliosa promessa: Se dimorate in me e le mie parole abitano in voi, domandate quello che volete e vi sarà fatto (v. 7). Con queste parole, Gesù apre una prospettiva grandiosa per i Suoi discepoli, in quanto le ricchezze divine vengono messe a disposizione dei Suoi discepoli [Per tutta l’esegesi di Giovanni 15:1-8, cfr. R. Schnackenburg, Il Vangelo di Giovanni, parte terza, pagg. 157-168].

PS: Se ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo prontamente
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