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Domenico34 - 1 Pierto 3:18-20 - Esegesi di 1 Pietro

Ultimo Aggiornamento: 04/12/2010 04:07
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L'ESEGESI DI 1 PIETRO 3:18-20




A questo punto crediamo che si debba esaminare il testo di 1 Pietro 3:18﷓20, anche se in questo testo si parla di Cristo e della sua predicazione, per vedere se la suddetta predicazione, ha una certa attinenza con quella di Noè, dato che dai tempi antichissimi fino a noi, non solo il testo in questione è stato oggetto di lunghe discussioni e di svariate interpretazioni, (un commentatore ha finanche scritto che il testo di Pietro è stato "torturato"), ma anche perché c'è una certa tendenza che vede una certa affinità tra l'una e l'altra predicazione. Il tutto ovviamente si è fatto e si fa, per cercare di capire e spiegare il testo, nel miglior modo possibile. Ecco cosa dice:

«perché anche Cristo ha sofferto una volta per i peccati, il giusto per gli ingiusti, per condurci a Dio. Fu messo a morte nella carne, ma vivificato dallo Spirito, nel quale egli andò anche a predicare agli spiriti che erano in carcere, che un tempo furono ribelli, quando la pazienza di Dio aspettava ai giorni di Noè mentre si fabbricava l'arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate attraverso l'acqua» (1 Pietro 3:18﷓20).

L'esegesi di 1 Pietro 3:18﷓20, pone cinque quesiti, secondo G. Friedrich, che sarebbero:

1) Chi sono gli spiriti (gr. pneumata);
2) che cosa significa carcere (gr. fulaké);
3) Quando avvenne l'azione di andare (gr. poreutheis);
4) chi è il predicatore;
5) quale è il contenuto della predicazione.

Prima di addentrarci nell'esegesi così puntualizzata, si impone, a nostro avviso, mettere in evidenza il fatto della morte di Cristo. Pietro è molto specifico e preciso nello stesso tempo, quando afferma che Cristo «fu messo a morte nella carne», vale a dire, la parte del suo essere che subì la morte fu la carne, mentre del suo spirito, vien detto chiaramente: «Padre, nelle tue mani rimetto (o "consegno" (CEI) il mio spirito» (Luca 23:46), quindi, non fu soggetto alla morte. La frase: "vivificato dallo Spirito" (N. Diodati), o: "vivificato quanto allo spirito" (G. Luzzi, S. Garofalo), o: "reso vivo nello spirito" (CEI), o: "reso alla vita quanto allo spirito" (Paideia), o: "vivificato poi per lo Spirito" (A. Martini), o: "vivificato per lo Spirito" (G. Diodati, G. Ricciotti), bisogna vedere a che cosa si riferisca: se alla sua carne o al suo spirito.

Se è assodato che la morte colpì solamente la carne del Cristo, il suo corpo fisico, mentre il suo spirito, (da non confonderlo con lo Spirito di Dio), fu rimesso nelle mani del Padre, sorge spontanea formulare la seguente domanda: In quale stato lo spirito di Cristo fu consegnato nelle mani del Padre? Se si dovesse pensare ed ammettere che Cristo consegnò nelle mani del Padre il suo spirito in uno stato di morte, come essendo in uno stato di impotenza, non sapremmo spiegarci perché mai Cristo fece ciò, e come farla conciliare col testo lucano che afferma che, dopo di aver «detto questo, rese lo spirito», vale a dire morì. Mentre se si pensa e si crede, (come crediamo debba essere compreso e creduto il testo lucano), che lo spirito di Cristo era quella parte vivente del suo essere che si trovava in lui, e del quale non era possibile che gli uomini lo potessero mettere a morte, perché apparteneva appunto a un altro regno della vita, appare chiaro quindi, che non è possibile che, l'azione descritta dal termine greco zóopoiétheis, che significa:

1. Generare essere vivente
2. dare la vita, vivificare
3. conservare la vita
4. ricevere la vita, essere in vita, vivere,

Possa essere applicata al suo spirito; di conseguenza, non restando un'altra alternativa, necessariamente debba riferirsi alla carne, al corpo fisico di Cristo, e questo naturalmente equivale a mettere in risalto la verità della sua risurrezione. D'altra parte, la risurrezione di Cristo ha a che fare con il suo corpo e non col suo spirito; perché del suo corpo è detto chiaramente che morì, ma mai del suo spirito. In conseguenza di questa accertata verità biblica, è insostenibile pensare di rendere: "reso vivo nello spirito" o "reso alla vita quanto allo spirito", senza pensare alla vivificazione dello spirito di Cristo, cosa che non è detta in nessun punto della Scrittura e che gli stessi termini della risurrezione, non siano capovolti. Ma se si pensa, in armonia con l'insegnamento della Scrittura, che la risurrezione di Cristo non avvenne in virtù di una forza o prerogativa umana, ma per la virtù di Dio, va preferita la traduzione: "dallo Spirito" o "per lo Spirito". In tal caso, il concetto di "vivificare" o "rendere alla vita", espresso dal termine greco zóopoiétheis, resta vincolato alla sola carne, al solo corpo fisico di Cristo.

Si potrebbe chiedere: Qual'è l'importanza e il valore di questa puntualizzazione? Questa puntualizzazione l'abbiamo fatta, per far notare, che Cristo non andò a predicare agli «spiriti che erano in carcere», con la sua carne, ma nello stato di essere vivificato, vale a dire in qualità e con le caratteristiche di essere spirituale. Se poi si rispetta l'ordine in cui le tre parole greche, thanatótheis = morte; zóopoiétheis = vivificare e poreutheis = andare, sono state messe nel testo di 1 Pietro 3:18,19, la spiegazione che abbiamo dato appare molto più chiara e convincente nello stesso tempo.

Fatta questa precisazione, che vuole essere anche una valida introduzione per l'esegesi di 1 Pietro 3:18﷓20, si può benissimo affrontare l'esame del testo e prendere in esame le diverse interpretazioni che si sono fatte, dai tempi antichissimi fino all'esegesi moderna. Invece di seguire l'ordine proposto dall'esegesi di cui sopra, preferiamo cominciare dal punto tre.

1. QUANDO CRISTO ANDÒ A PREDICARE AGLI SPIRITI IN CARCERE

Prima di chiedere quando fu che Cristo andò a predicare agli «spiriti che erano in carcere», crediamo sia importante, ai fini di una giusta valutazione e di una equilibrata interpretazione, ricordare che Pietro, in questo passo che stiamo esaminando, e non in un'altro testo, parli chiaramente della morte e della risurrezione di Cristo. Se Cristo non andò con la sua carne, quindi prima della sua morte, ma vi andò in uno stato di essere "vivificato", è insostenibile quell'interpretazione che vorrebbe che «Cristo preesistente tenne, con intime esortazioni, ai contemporanei di Noè, racchiusi nell'ignoranza e nel peccato come in un carcere» (interpretazione sostenuta da Agostino e più tardi lo seguì Tommaso d'Aquino e, ultimamente Wohlenberg).

È anche insostenibile l'altra interpretazione secondo la quale nel tempo che va dalla morte alla risurrezione, Cristo, «col suo spirito», si recò dagli spiriti incarcerati. Pietro non dice che Cristo si recò col suo spirito a predicare agli spiriti incarcerati, e tanto meno che egli lasci presupporre una simile ipotesi. Se ciò fosse vero, nell'enunciato di 1 Pietro 3:19, si dovrebbe parlare che solo una parte di Cristo, cioè il suo spirito, «si separò», (come afferma David H. Wheaton nel suo commentario) e si recò nel carcere, dato che l'altra parte, la sua carne era nel sepolcro.

Mentre se invece, si tiene presente quello che effettivamente dice Pietro, cioè che Cristo, nella sua totalità del suo essere, vale a dire, nello stato di essere "vivificato", si recò agli spiriti in carcere, questo equivale a dire che ciò avvenne dopo la sua risurrezione, e non durante i tre giorni della sua morte, e tanto meno prima della sua incarnazione.

Si fa notare che la particella en hó, che alla lettera significa "mentre" e nella nostra versione viene resa: «nel quale», vale a dire nello stato di essere vivificato, «può essere riferito al pneumati immediatamente precedente, e allora vuol dire che con la parte pneumatica della sua persona, come essere spirituale e incorporeo, Gesù ﷓ dopo la sua morte ﷓ si recò dagli spiriti incarcerati. Ma en hó potrebbe anche significare «nel frattempo», cioè durante gli eventi che stanno tra thanatótheis e zóopoiétheis». (Questo è quello che dice K.H. Schelkle, nel suo commentario teologico al testo di 1 Pietro 3:19﷓20 [Cfr. K. H. Schelkle, Le lettere di Pietro La lettera di Giuda, per tutta l’esegesi di 1 Pietro 3:18-20, pagg. 177-186].

Continueremo il giorno successivo...
[Modificato da Domenico34 30/11/2010 13:45]
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Pace Domenico, ho dato una prima lettura, credo però che ci debba tornare sopra e rileggere nel tentativo che mi sia più chiara l'esposizione, purtroppo ho sempre ritenuto che in certi frangenti si fà fatica a seguire l'esegesi, nel senso che, almeno per quello che riguarda me, ci si può ritrovare in un mare di supposizioni dove non si sà bene quale sia quella giusta.

Ora non sò se questa esposizione è basata tutta sull'esegesi, continuerò comunque a leggerla, devi capirmi io non sono un esegeta e non credo che lo diventerò; ma pensavo che l'approccio era diverso del tipo: Gesù andò a predicare agli spiriti ritenuti in carcere ai tempi di Noè, e quelli dopo Noè no?

Comunque come detto rileggerò, e non è detto che ad altri non interessi questa esposizione così come è presentata, io ho solo esposto che il mio è un approccio diverso [SM=g6818]
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2. CHI SONO GLI "SPIRITI IN CARCERE" AI QUALI CRISTO PREDICÒ

Per quanto riguarda gli spiriti che erano in carcere ai quali Cristo predicò, l'esegesi di questa parte è discordante, nel senso che c'è chi dice una cosa e c'è chi ne dice un'altra. Cercheremo di riferire come stanno le cose, sia per quanto riguarda l'interpretazione antica che quella contemporanea.

Fin dai tempi antichi, si vedeva negli «spiriti in carcere», i giusti dell'Antica Alleanza, vale a dire le anime dei giusti dell'A.T. Questa esegesi fu sostenuta particolarmente da Clemente Alessandrino, Origene, Atanasio fino ad Agostino, il quale dal canto suo, la trovò addirittura una spiegazione originale. Anche Calvino sosteneva che i pneumata fossero i giusti dell'Antico Patto, in particolare i contemporanei di Noè. Sulla scorta dell'interpretazione antica dei Padri, anche oggi viene proposta specialmente dall'esegesi cattolica e in parte anche dalla dogmatica cattolica.

L'interpretazione odierna, a parte che si stacca da quella antica dei Padri, cerca di fare riferimento alla storia delle religioni e propone quindi una diversa esegesi, basandosi come punto di riferimento su Genesi 6:1﷓6. Secondo questa interpretazione, gli «spiriti in carcere», di cui 1 Pietro 3:19﷓20, sarebbero i "figli di Dio", summenzionati nel testo di Genesi 6:1﷓6), che unendosi con i figli degli uomini generarono i giganti. Dato che questa spiegazione fa esplicito riferimento al libro apocrifo di Henoch, se ne deduce, sulla scorta anche di Giuda 6,7 e di 2 Pietro 2:4,9 che anche 1 Pietro 3:19 alluderebbe a questa tradizione.

Quindi, parlando dei pneuamata, si penserebbe agli angeli. Come si vede, l'esegesi moderna, non solo cerca di ribaltare quella antica, ma cerca anche di stabilire un legame con i miti della storia delle religioni, concludendo che il testo di 1 Pietro 3:19 si esprime in veste mitologica.

Facendo il punto sulla situazione interpretativa di 1 Pietro 3:18﷓20, diciamo subito che, né la prima né la seconda, tiene effettivamente conto di quello che Pietro dice; questo vuol dire che non siamo a favore né dell'una né dell'altra spiegazione. Ora, cerchiamo di esaminare le summenzionate interpretazioni, per esprimere le nostre convinzioni, compatibili al testo summenzionato.

Come abbiamo già fatto rilevare, Cristo andò agli «spiriti che erano in carcere», in uno stato di essere "vivificato", e questo esclude in maniera categorica, che si tratti del Cristo preesistente. Questa affermazione non la facciamo perché non crediamo alla preesistenza di Cristo; al contrario la facciamo, perché essenzialmente, lo stato di essere "vivificato", non è compatibile con lo stato eterno in cui Cristo era, prima della sua incarnazione. Dal momento che viene stabilito questo punto fondamentale, che poi non è la nostra interpretazione, ma quello che specificatamente Pietro dice, va da se che, non si può parlare dello spirito di Cristo che va, per mezzo di Noè, perché questo non è detto da Pietro né il testo summenzionato lo lasci presupporre.

Non si può neanche invocare il testo di 1 Pietro 1:10,11, a sostegno di quanto sopra, per il semplice fatto che questo testo fa esplicito riferimento ai profeti e alle loro profezie; mentre il testo di 1 Pietro 3:19﷓20, invece, non è un testo profetico, nel senso che presenta una profezia del passato o dell'avvenire, ma è il racconto di un'opera che Cristo "vivificato" compì, ivi compreso il suo spirito, quando Egli andò agli «spiriti che erano in carcere».

Usare il testo di 1 Pietro 3:19 per parlare della discesa di Cristo nel soggiorno dei morti, con particolare riferimento ai "giusti" dell'A.T., specie quando si fa riferimento ai contemporanei di Noè, ci troviamo in pieno contrasto con le parole di Pietro, che specificatamente afferma che erano spiriti «ribelli, quando la pazienza di Dio aspettava ai giorni di Noè». Né si può pensare ai pii dell'Antico Patto a cui Cristo avrebbe annunziato la liberazione, perché questa è un'idea estranea al testo e inesistente nel suo contesto. Anche lo stesso Catechismo Romano, spiegazione ufficiale del Simbolo, espone la dottrina sul descensus Christi ad inferos senza appellarsi a 1 Pietro 3:19.

Per quanto riguarda l'esegesi moderna che vede negli spiriti in carcere i «figli di Dio» di Genesi 6:1﷓6), = angeli decaduti, avvalendosi principalmente dello scritto Apocrifo di Henoch in cui si fa esplicito riferimento degli angeli ribelli e dell'Apocrifo del Genesi di Qumran, ha perfettamente ragione K.H. Schelkle, quando afferma «che i fatti di Genesi 6:1﷓6 non si svolsero ai tempi di Noè». A nostro avviso, il rilievo summenzionato, basti da solo per far notare quanto sia fantasiosa l'esegesi moderna e come non tenga conto del valore del testo e del suo contesto.

3. IL SIGNIFICATO DELL'ANDARE DI GESÙ AGLI SPIRITI IN CARCERE

Il nocciolo di tutta la faccenda, a nostro avviso, non consiste tanto nel sapere se Cristo andò nell'Ades, prima o dopo la sua risurrezione, quanto nel sapere che cosa significhi la sua andata e che cosa significhi la sua predicazione. Sono infatti quest'ultimi due aspetti della faccenda che possono stabilire se dopo la morte esiste una seconda opportunità di salvezza e se ai morti, non importa se sono conosciuti come ribelli o empi, che vissero in una determinata situazione più o meno corrotta, sia riserbata un'altra opportunità che consenta loro la conversione e il ravvedimento, attraversi i quali ottenere la grazia. Vale quindi la pena, esaminare tutta la problematica di questa faccenda, per le serie implicazioni che ne derivano, sia sul piano religioso e sia soprattutto su quello teologico.

L'andata di Gesù nel "soggiorno dei morti", è bene attestata nel N.T. I seguenti testi ce ne danno la dimostrazione.

Rom. 10:7:
«Ovvero: Chi scenderà nell'abbisso? Questo significa far risalire Cristo dai morti».

Efesini 4:8﷓10:
«Per la qual cosa la Scrittura dice: Essendo salito in alto, egli ha condotto prigioniera la prigionia e ha dato dei doni agli uomini. Or questo: È salito che cosa vuol dire se non che prima era pure disceso nelle parti più basse della terra? Colui che è disceso è lo stesso che è anche salito al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose» (cfr. Sal. 68:18 per la Scrittura citata in questo testo).

Ebrei 13:20:
«Ora il Dio della pace, che in virtù del sangue del patto eterno ha fatto risalire dai morti il Signore nostro Gesù Cristo, il grande Pastore delle pecore».

Di quest'altri passi che seguono, non si può dire con sicurezza se ne facciano allusione.

Matteo 12:40:
«Infatti, come Giona fu tre giorni e tre notti nel ventre del grosso pesce, così starà il Figlio dell'uomo tre giorni e tre notti nel cuore della terra».

Atti 2:24﷓31:
«Ma Dio lo ha risuscitato, avendolo sciolto dalle angosce della morte, poiché non era possibile che fosse da essa trattenuto. Infatti Davide dice di lui: Io ho avuto del continuo il Signore davanti a me, perché egli è alla mia destra, affinché io non sia smosso. Per questo si è rallegrato il cuore mio e ha giubilato la mia lingua, e anche la mia carne dimorerà nella speranza. Poiché tu non lascerai l'anima mia nell'Ades e non permetterai che il tuo Santo veda la corruzione. Tu mi hai fatto conoscere le vie della vita, tu mi riempirai di gioia alla tua presenza. Fratelli, si può ben liberamente dire intorno al patriarca Davide che egli morì e fu sepolto; e il suo sepolcro si trova tra di noi fino al giorno d'oggi. Egli dunque, essendo profeta, sapeva che Dio gli aveva con giuramento promesso che dal frutto dei suoi lombi, secondo la carne, avrebbe suscitato il Cristo per farlo sedere sul suo trono: e, prevedendo le cose a venire, parlò della risurrezione di Cristo, dicendo che l'anima sua non sarebbe stata lasciata nell'Ades e che la sua carne non avrebbe visto la corruzione» (cfr. Sal. 16:10, per la Scrittura citata in questo passo).

Continueremo il giorno successivo...



[Modificato da Domenico34 30/11/2010 13:49]
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Apocalisse 1:17,18:
«... Non temere! Io sono il primo e l'ultimo, e il vivente; io fui morto, ma ecco sono vivente per i secoli dei secoli, amen; e ho le chiavi della morte e dell'Ades».

Per quanto riguarda il testo di 1 Pietro 3:19, si è cercato di sapere che cosa significa fulaké [Per il concetto di fulaké, cfr. G. Bertram, in GLNT, Vol. XV, col. 187-194] dove Cristo andò. Per Calvino si tratta di un «luogo d'osservazione in cui stanno i pii per scorgere la salvezza, o anche se si traduce fulaké con `carcere’, la legge che circonda come un carcere i credenti». Invece, S. Agostino dà a fulaké un senso spirituale: «animae, quae tunc erant in carne atque ignorantiae tenebris velut carcere claudebantur».

Secondo K. Gschwind, dato che il soggiorno degli spiriti non si trova nel mondo sotterraneo, va ricercato nei cieli che si sovrastano l'un l'altro. Secondo G. Bertram, fulaké, nel passo di 1 Pietro 3:19, «ricorre nel significato di prigione quale luogo di custodia degli spiriti segregati» [Cfr. G. Bertram, GLNT, Vol. XV, col. 194]; mentre secondo K. H. Schelkle si tratti «prigione di punizione per una disobbedienza caparbia» [Cfr. K. H. Schelkle, Le lettere di Pietro la lettera di Giuda, pag. 182]. Infine, per G. Friedrich, «è probabile che fulaké indichi uno speciale carcere nell'Ade» [Cfr. G. Friedrich, GLNT, Vol. V, col. 453].

È bene ricordare a questo punto che una cosa è parlare della discesa di Cristo nel soggiorno dei morti, conosciuta da tutti come l'Ades, e usare i summenzionati testi, e fare tutte le relative riflessioni, ivi compresa la parte riguardante i giusti dell'A.T. e un'altra cosa è parlare dell'andata di Cristo "agli spiriti che erano in carcere", dei quali ci stiamo occupando e dei quali 1 Pietro 3:19 parla. Considerando la dovuta specificità che Pietro ne fa, non è fuori logica accogliere quello che G. Friedrich suggerisce circa la «probabilità di una sezione speciale di carcere nell'Ade».

Siccome il nostro scopo non è di parlare della discesa di Cristo nel soggiorno dei morti, perché il testo di 1 Pietro 3:19 non è il passo ideale per parlarne, e dato che il summenzionato testo sta in stretta relazione con i tempi della predicazione di Noè, e siccome ci siamo proposti di esaminare quel periodo, e dato che 1 Pietro 3:19 si riferisce specificatamente a quel tempo, ne parliamo, non solo per valutare la portata della missione che Noè svolse, ma soprattutto per sapere come deve essere inquadrata e valutata l'andata di Gesù a quegli spiriti carcerati.

La parte che maggiormente gioca un ruolo determinante in tutta la faccenda del testo di 1 Pietro 3:19 e dà un peso all'attività di Cristo nel regno dei morti, è senza dubbio la sua presenza e la sua predicazione che ivi fece. Trattandosi di Cristo, Colui che procurò la salvezza all'intera umanità, con la sua morte e risurrezione, e che agli stessi suoi apostoli, prima che ascendesse al cielo, comandò loro di andare per tutto il mondo e predicare l'evangelo, è estremamente importante sapere il senso della sua predicazione nel carcere dove si trovavano gli spiriti ribelli ai giorni di Noè.

Conosciamo già il nome del predicatore di cui 1 Pietro 3:19, ma non conosciamo il messaggio del predicatore, perché Pietro non ce lo fa conoscere, dato che egli stesso, con ogni probabilità, non lo sa. Si potrebbe domandare: che valore ha un predicatore senza il messaggio, o che senso ha una predicazione, senza un messaggio? Qui ovviamente non si tratta di conoscere il modo, la mimica che usa il predicatore; si tratta invece di conoscere quello che deve dire, per giustificare il suo ruolo di proclamatore. Per gli apostoli di Gesù Cristo e per l'intera Sua Chiesa, si sa che il messaggio che doveva essere predicato in tutto il mondo, era il Vangelo, «potenza di Dio per la salvezza di ogn'uno che crede» (Rom. 1:17).

Si sa anche, che la predicazione, è essenzialmente proclamazione di un evento, di un'opera divina, portata a termine per la salvezza dell'uomo.

Di Cristo, nel summenzionato testo di Pietro, è detto che predicò agli spiriti in carcere. Tradurre come fa la CEI: «E in ispirito andò ad annunziare la salvezza», significa capovolgere il testo di Pietro per adattarlo in favore di un dogma della Chiesa Cattolica, qual'è la dottrina del Purgatorio, che insegna che dopo la morte c'è ancora speranza di salvezza. A parte che il termine «salvezza» non si trova nel testo greco, neanche lo stesso concetto di salvezza può essere ravvisato nella parola ekérucsen. Infatti, è saputo con estrema certezza, che kérussó significa:

1. essere araldo, esercitare l'ufficio di araldo.
2. bandire, proclamare, annunziare, notificare.
3. celebrare, encomiare pubblicamente.
4. intimare, ordinare.
5. far vendere all'asta.
6. invocare (gli dèi).
7. predicare [Cfr. per altra documentazione e storia del concetto e il suo relativo sviluppo, G. Friedrich, GLNT, Vol. V, col. 424-482].

Che poi nella predicazione cristiana kérussó significa «proclamare il messaggio della salvezza», non vuol dire affatto che nel testo di 1 Pietro, debba avere lo stesso significato. Se dobbiamo essere coerenti col testo di 1 Pietro 3:19, la proclamazione di questo messaggio (chiamiamolo di salvezza), fu rivolto esclusivamente agli "spiriti che erano in carcere" denominati "ribelli" e circoscritti ai giorni di Noè, precisamente, «mentre si fabbricava l'arca», allo scopo di portare la salvezza a tutti quelli che la volevano (cosi dicevano Giustino, Clemente, Origene, Ippolito, Lattanzio ed altri). Ciò equivaleva, oltre al fatto che il messaggio non era rivolto a tutti gli occupanti dell'Ades, che a tutti gli altri, che vissero in altri tempi e in altre generazioni, non venne dato lo stesso privilegio e la stessa opportunità che venne concessa agli spiriti carcerati.

Questo stato di cose, mette in seria difficoltà la spiegazione dell'imparzialità di Dio. Dal momento che si sà con estrema certezza che non è possibile pensarla in questo modo, perché Dio non tratta gli uomini nella stessa maniera come fanno gli uomini tra di loro, non è scritturale pensare che Dio concede la grazia a uno e la rifiuta a l'altro. Ci vuole forse tanta fatica per scorgere l'assurdità di una simile interpretazione, che è anche in contrasto con Ebrei 9:27 che afferma:

«E come è stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, e dopo ciò viene il giudizio»?

Mentre se il ekérucsen di 1 Pietro 3:19 viene inteso nel senso di "proclamare, annunziare" un'opera compiuta, cioè fare sapere a tutti, anche nelle carceri dell'Ade dove si trovano spiriti ribelli del tipo di quelli della generazione di Noè, che Cristo con la sua morte e con la sua risurrezione ha portato a termine tutta l'opera della redenzione. Se la spiegazione che abbiamo dato, non sembra molto soddisfacente, specialmente per quanto riguarda lo scopo della predicazione di Cristo, e il suo relativo risultato, specie quando si è d'accordo di trovarsi davanti a un testo estremamente difficile per quanto riguarda la sua interpretazione, almeno abbiamo evitato di commettere errori, come: l'incoerenza di far dire al testo una cosa che non dica; di non fare entrare in conflitto una pagina ispirata con un'altra pagina ispirata e insegnare una dottrina a danno di un'altra dottrina rivelata.
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02/12/2010 23:57

Grazie Domenico, ho letto con interesse, ma non ti nascondo che devo rileggerlo. Comunque Grazie
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03/12/2010 00:07

Nota: Come contributo lascio il seguente appunto. Tale nota è presa da www.laparola.net ;preciso che non ho avuto tempo di leggerla ma la inserisco ugualmente in quanto le cose nel sito che ho letto fino adesso le ho sempre condivise e non ho avuto modo di dissentire, spero sia così anche per questa; ecco l'appunto:

1Pietro 3:18-20

18 Le sofferenze di Cristo. 1Pietro 3:18-22

Lo scopo di questo passo non scevro di difficoltà, è di mostrare coll'esempio di Cristo come le sofferenze immeritate che i cristiani possono esser chiamati ad incontrare nel mondo, non siano inutili, ma li rendano più atti a compiere la volontà di Dio, staccandoli dal male. Di Cristo si legge, in Ebrei 2:10: "Per condurre molti figli alla gloria, ben s'addiceva a Colui per cagion del quale e per mezzo del quale son tutte le cose, di render perfetto, per via di sofferenze, il duce della loro salvezza". Pietro presenta anch'egli, qui, le sofferenze come il mezzo col quale Cristo è giunto a compiere la salvazione degli uomini voluta da Dio.


Poichè anche Cristo ha sofferto una volta per i peccati, egli giusto per gl'ingiusti, per condurci a Dio.

Non devono i cristiani trovare strano d'essere chiamati a soffrire facendo il bene, poichè anche Cristo il loro modello perfetto, ha sofferto. Così portano i codd. B, K, L, P ( epaqen ); mentre i codd. alef, A, C colle antiche versioni, leggono apeqanen (morì). Il verso precedente 1Pietro 3:17 che parla del "soffrire" dei cristiani, rende più probabile la prima lezione; ma i versi che seguono mostrano che nelle sofferenze di Cristo è inclusa la sua morte violenta. Cristo ha sofferto una molta sola; con questa espressione l'autore abbraccia in un unico tutto, le svariate sofferenze incontrate da Cristo dalla culla al Golgota, le fonde in un'unica sofferenza di breve durata di fronte all'eternità, sofferenza ormai passata, che non ha da rinnovarsi mai più, e dopo la quale è entrato nella sua g loria. Pietro non mentova questo carattere delle sofferenze di Cristo per metterlo a contrasto, come fa l'Ep. agli Ebrei Ebrei 9:24-28, col continuo ripetersi dei sacrifizi dell'antico Patto; ma piuttosto per far comprendere che, come quelle di Cristo, anche le sofferenze dei cristiani non durano a lungo (cfr. 1Pietro 1:6; 5:10) e saranno presto cosa di un passato che non ritornerà. La loro momentanea, leggera afflizione produrrà uno smisurato peso eterno di gloria 2Corinzi 4:17. Le sofferenze di Cristo, sono quelle del giusto perfetto a favore degli ingiusti e più propriamente per i peccati, ossia per fare l'espiazione dei peccati col sacrificio di sè. La locuzione peri 'amartiwn (per i peccati) è infatti tecnica per designare, nel rituale mosaico, i sacrifici espiatori del peccato (Levitico 5:6 ecc.). Il fine ultimo delle sofferenze di Cristo è di condurre gli uomini a Dio. Il sangue dell'espiazione recato da Colui ch'è ad un tempo sommo sacerdote e vittima apre ai peccatori l'accesso al trono di Dio, divenuto "il trono della grazia" Ebrei 4:16; 6:20; Efesini 2:18; 3:12. "In Cristo Gesù abbiamo la libertà d'accostarci a Dio, con piena fiducia, mediante la fede in lui". Fine più elevato non può darsi. Le sofferenze dei cristiani non possono essere quelle di giusti perfetti, nè possono aver valore espiatorio a favore dei loro simili; ma possono in qualche guisa rassomigliare a quelle del Cristo, quando sono sopportate per la buona causa del regno di Dio, per la difesa o per la propagazione del Vangelo. Paolo scrive: "Compio nella mia carne quel che manca alle afflizioni di Cristo, a pro del corpo di lui ch'è la Chiesa" Colossesi 1:24. Ad ogni modo, il fatto che le sofferenze del giusto sono state sopportate per l'espiazione dei nostri peccati, è atto a far tacere ogni lamento, ogni mormorio. Chi ha trovato nei patimenti di Cristo il proprio perdono, la pace, la vita, chi è stato "ricondotto a Dio" dal sacrificio della croce, può soffrire ed anche morire per il suo Salvatore.


essendo stato messo a morte quanto alla carne, ma, vivificato quanto allo spirito;

La morte di Cristo ha posto fine alla sua esistenza terrena. È stato fatto morire quanto alla carne, cioè quanto al corpo ed alla vita terrena di cui il corpo è l'organo. Ma la, sua morte è stata seguita dalla risurrezione e da un modo d'esistenza superiore in cui Cristo ha continuato e continua con vie maggior efficacia l'opera del condurre a Dio gli uomini per i quali è morto. Egli è stato vivificato quanto allo spirito, richiamato dalla potenza di Dio alla pienezza gloriosa di una vita superiore avente per sede lo spirito e per organo il corpo spirituale. È evidente che i termini "fatto morire" e "vivificato" o fatto rivivere, sono contrapposti l'uno all'altro e se il primo si riferisce alla crocifissione, come tutti riconoscono, il secondo non può riferirsi che alla risurrezione. Parimente i due dativi sarki (quanto alla carne) e pneumati (quanto allo spirito) rispondono l'uno all'altro; non possono quindi tradursi l'uno in e l'altro per come han fatto parecchi; e mentre la carne ha da intendersi dell'elemento esterno, terreno, mortale della persona umana di Cristo, lo spirito non può intendersi dello Spirito di Dio o della divinità, ma si riferisce all'elemento superiore della persona umana di Cristo, all'organo della vita religiosa e divina in lui. Quando spirò, Cristo rimise il suo spirito nelle mani del Padre Luca 23:46; Giovanni 19:30; ma colla risurrezione lo spirito fu riunito ad un corpo non più carnale ma spirituale, per entrare in una nuova e superiore fase di esistenza e di attività. Così le sofferenze dei fedeli colpiscono il corpo e la vita psichica terrena, ma giovano alla vita dello spirito accrescono la fede, la speranza, l'ubbidienza, l'amore e li maturano per la vita e l'attività più perfetta dell'esistenza avvenire. Anch'essi son fatti morire alla vita inferiore psichica e vivificati nello spirito in attesa d'esser ris uscitati col corpo celeste.


19
 e in esso (spirito, Lett. nel quale spir.) andò anche a predicare agli spiriti ritenuti in carcere, i quali un tempo furono ribelli, quando la pazienza di Dio aspettava ai giorni di Noè, mentre si preparava l'arca

Come esempio dell'attività salutare del Cristo dopo la sua morte in croce, nella sua nuova forma d'esistenza, Pietro cita la predicazione del Vangelo fatta da Cristo agli spiriti degli uomini antediluviani, i quali, quando vivevano in carne, ai tempi di Noè, mentre si preparava l'arca, erano stati ribelli agli avvertimenti divini e non avevano messo a profitto il tempo concesso loro dalla pazienza di Dio per ravvedersi. Cristo si è recato nel carcere dell'Hades ov'erano ritenuti, per annunziare ed offrir loro la salvazione da lui compiuta. Vi si è recato nello spirito, cioè nel modo d'esistenza da lui assunto colla risurrezione. Quel che non sarebbe stato in grado di fare mentre era in carne, prima di soffrire, gli fu possibile dopo la sua morte e risurrezione. Potè allora proclamare che "tutto era compiuto" e potè proclamarlo non agli Israeliti soltanto, suoi contemporanei e compaesani, ma agli spiriti dei defunti che non avevano potuto conoscere la grazia di Dio, spiriti innumerevoli, spiriti delle passate età (in 1Pietro 4:6 dice in modo generale che l'evangelo è stato annunziato ai morti) e fra questi anche agli uomini del diluvio che per la loro orgogliosa ed ostinata ribellione agli inviti di Dio, ne parevano meno meritevoli. I vers. 19 e 20 sono stati; fin dall'antichità cristiana, torturati in varie guise dagli interpreti. Così le parole en 'w (nel quale spirito) sono state intese del Cristo preesistente all'incarnazione ossia del Verbo divino, o ancora dello Spirito di Cristo che ispirava i profeti 1Pietro 1:11 e che avrebbe ispirato a Noè, chiamato "predicator di giustizia" in 2Pietro 2:5, gli avvertimenti da dare ai suoi contemporanei. Ma abbiam notato di già che il termine spirito in 1Pietro 3:18, e per conseguenza in 1Pietro 3:19, non si può intendere che dello spirito umano di Cristo, elevato dalla risurrezione ad una nuova potenza e pienezza di vita. È il Cristo risorto che si è recato personalmente a predicare agli spiriti. Si noti non agli antediluviani quand'erano in carne sulla terra; ma agli spiriti disincarnati di quegli uomini che un tempo, in un tempo lontano, erano stati ribelli. Il vedere in questi "spiriti" degli angeli ribelli si riconnette con l'idea barocca di coloro che considerano come angeli "i figliuoli di Dio" che sposarono delle "figliuole degli uomini" secondo Genesi 6:2. Il vedervi gli uomini pii dell'Antico Patto a cui Cristo avrebbe annunziato la liberazione è un'idea estranea al testo ed al contesto.

Il carcere poi è stato spiegato allegoricamente delle tenebre dell'errore e dell'ignoranza in cui sono come rinchiusi gli uomini che non conoscono la verità. Fra quelli che ammettono l'andata del Cristo risorto nel carcere dell'Hades (ossia in quella parte del soggiorno dei morti ove sono confinate le anime che non hanno sperato in Dio e che vi aspettano il giudicio) alcuni hanno dato alla parola predicò un senso inammissibile, cioè annunziò il giudicio di Dio, mentre altrove, nel N.T., il verbo vale: annunziare il Vangelo e questo senso è confermato da 1Pietro 4:6 ove dice esplicitamente: "è stato annunziato l'evangelo ai morti". Che gli spiriti ai quali Cristo predicò si fossero pentiti di già quando la morte li sorprese o di poi, come è stato supposto, il testo non lo dice; come non dice nulla del risultato della predicazione di Cristo. Osserva il Bigg: "Il pensiero che sta alla base delle parole di S. Pietro è che non vi può esser salvezza senza pentimento o che non v'è piena possibilità di pentimento se non si è udito il Vangelo. Coloro che vissero prima della venuta del Signore non poterono udire il Vangelo e perciò la misericordia di Dio non volle condannarli definitivamente prima che avessero udito quell'ultimo appello".


nella quale poche anime, cioè otto, furon salvate tramezzo all'acqua;

L'apostolo aggiunge questi particolari relativi alle poche persone scampate al diluvio perchè ci vede un'analogia tanto col piccol numero dei salvati, al tempo suo, di fronte alle moltitudini estranee al Vangelo, quanto riguardo al mezzo di partecipare alla salvezza. Si è notato anche che l'Autore scrive da Babilonia, nella bassa valle dell'Eufrate, che fu il centro della parte del mondo abitata dagli antediluviani; e si rivolge a dei cristiani abitanti non lungi dalla regione ove si fermò l'arca di Noè. La mente, così dello scrittore, come dei lettori, era per tal modo tratta facilmente a considerare gl'insegnamenti derivanti dal diluvio. La locuzione di' 'udatoV (tramezzo all'acqua) si può tradurre anche: traverso l'acqua o: per mezzo dell'acqua. Nel primo caso il senso è che gli otto, rifugiandosi nell'arca, furon salvati, sebbene fossero circondati dall'acqua da ogni parte: dall'acqua che veniva dal cielo e da quella che saliva dalla terra. Nel secondo caso l'acqua che inghiotti gli altri è considerata come il mezzo di salvezza di Noè e della sua famiglia perchè fece galleggiare l'arca nella quale erano entrati. Quest'ultimo senso ha in suo favore quel che Pietro dice in 1Pietro 3:21 del battesimo che salva anche noi.

[Modificato da Info. 03/12/2010 00:11]
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04/12/2010 03:59



Cristo si è recato nel carcere dell'Hades ov'erano ritenuti, per annunziare ed offrir loro la salvazione da lui compiuta



Il commento su 1Pietro 3:18-20 di www.laparola.net, che è stato riportato, nel suo insieme, è condivisibile. Però, l’affermazione che Cristo “offrì la salvezza”, a quelli che si trovano nel carcere dell’Ades, non la condividiamo, perché secondo noi, è in contrasto con l’insegnamento della Parola di Dio.

Infatti, fare una simile affermazione, equivale a mettere in risalto che, dopo la morte, ci sarà ancora la possibilità di salvezza. Questo non è accettabile, se si tengono presenti questi testi:

perché egli dice: "Io ti ho esaudito nel tempo accettevole e ti ho soccorso nel giorno della salvezza". Ecco ora il tempo accettevole, ecco ora il giorno della salvezza {2 Corinzi 6:2).

Il tempo accettevole e il giorno della salvezza, Paolo lo definisce “ora”, cioè mentre si vive sulla terra, e non dopo la morte.

mentre ci viene detto: «Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori, come nel giorno della ribellione» (Ebrei 3:15).

Inoltre, il testo di Ebrei, precisa che, se “oggi” (e non domani, e il domani include anche dopo la morte) si ode la voce di Dio, che di norma Dio parla all’uomo, per mezzo della Sua Parola, non si deve indurire il cuore.

La predicazione che Cristo fece nel carcere dell’Ades, significa che Egli “proclamò, annunziò” che l’opera di redenzione era stata portata a compimento da Lui stesso, mediante la sua morte e la sua risurrezione. Quest'avvenimento, di portata universale, non doveva conoscerlo solamente chi era vivo, lo dovevano saperlo anche i morti.
[Modificato da Domenico34 04/12/2010 04:07]
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