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Domenico34 – Il comportamento dell’uomo in conformità a quel che crede – Sommario, Presentazione, Introduzione. Capitoli 1-10

Ultimo Aggiornamento: 25/04/2012 00:54
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31/03/2012 00:03

Ma l’altro non volle; anzi andò e lo fece imprigionare, finché avesse pagato il debito.
I suoi conservi, veduto il fatto, ne furono molto rattristati e andarono a riferire al loro signore tutto l’accaduto.
Allora il suo signore lo chiamò a sé e gli disse: "Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito, perché tu me ne supplicasti;
non dovevi anche tu aver pietà del tuo conservo, come io ho avuto pietà di te?"
E il suo signore, adirato, lo diede in mano degli aguzzini fino a quando non avesse pagato tutto quello che gli doveva.
Così vi farà anche il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello» (Matteo 18:15-35).

L’evangelista Luca, dal canto suo aggiunge: se ha peccato contro di te sette volte al giorno, e sette volte torna da te e ti dice: "Mi pento", perdonalo» (Luca 17:4).

L’unica condizione che non permette di “perdonare”, è il mancato “pentimento” da parte di chi ha fatto l’offesa. Se questo, però c’è, (non importa se il “fratello pecca sette volte al giorno”); l’altro fratello, è tenuto, per comando del Signore, a perdonare; perché, se non lo farà, neanche il Padre celeste, perdonerà i suoi peccati. Come si può ben notare, l’argomento è molto serio e impegna da vicino, tutti i discepoli di Gesù, a qualsiasi livello appartengono.

A questo punto, fare una domanda che riguarda il “tipo” di peccati da perdonare, s’impone d’obbligo. Quali sono i peccati che si possono perdonare e quelli per i quali non è previsto nessun atto di clemenza?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo innanzi tutto tener presente il detto dell’apostolo Paolo:

Voi, che eravate morti nei peccati e nella incirconcisione della vostra carne, voi, dico, Dio ha vivificati con lui, perdonandoci tutti i nostri peccati (Colossesi 2:13).

Dal momento che questo testo stabilisce, in forma dogmatica, che Dio ci ha perdonati TUTTI i nostri peccati, va da sé che anche noi, quali imitatori di Dio (Efesini 5:1), dobbiamo perdonare tutti i peccati dei nostri fratelli. Se poi il suddetto testo viene messo a confronto con un altro testo paolino, cioè Efesini 4:32, che invita la fratellanza a perdonarsi reciprocamente, la parte terminale del testo, come anche Dio vi ha perdonati in Cristo, deve essere l’unità di misura e il modello da seguire.

La parabola del creditore spietato che abbiamo riportato, è abbastanza eloquente da farci vedere come dobbiamo agire nei confronti dei nostri simili. L’enorme debito di “diecimila talenti” che il servo aveva con il suo padrone, a parte che, umanamente parlando, per tutta la durata della sua vita, non gli sarebbe stato facile saldare, nostro Signore, non ha ricordato quella parabola, con lo scopo di farci fare i calcoli, per conoscere l’ammontare della somma. Questo non era sicuramente il suo scopo, ma per mostrarci che il nostro peccato davanti a Dio, era talmente grande che, solo un atto della clemenza divina, avrebbe potuto cancellare. Il debito che aveva, invece, il suo conservo, confrontato con quello che egli aveva col suo padrone, era quasi insignificante, perché appunto si trattava di soli “cento denari”, anche se a quei tempi, equivaleva a cento giornate lavorative.

Però, dal punto di vista umano e secondo una certa logica, non sarebbe stato impossibile pagare, un po’ alla volta, s’intende. Con la decisione che il servo prende, maltrattando atrocemente il creditore, fino al punto di farlo mettere in prigione, l’agire crudele e privo di compassione di quell’uomo, si palesa in tutta la sua gravità. Quando non si tiene conto di quanto si riceve da Dio, si finisce con l'essere spietato e senza compassione, verso gli altri. Questo è il nocciolo dell’insegnamento della parabola che Gesù volle insegnare ai Suoi in quel tempo, e vuole insegnare a noi oggi.

PS: Se al termine del capitolo 2 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura




Capitolo 3




SO IN CHI HO CREDUTO




È anche per questo motivo che soffro queste cose; ma non me ne vergogno, perché so in chi ho creduto, e sono convinto che egli ha il potere di custodire il mio deposito fino a quel giorno[/C[ (2 Timoteo 1:12).

La certezza di sapere in chi ha creduto, porta l’apostolo Paolo a non vergognarsi per quello che sta soffrendo.

Si sa, infatti, che al tempo in cui è stata scritta la seconda lettera a Timoteo, Paolo si trovava in carcere, nell'attesa che la condanna a morte che gli era stata inflitta, venisse eseguita. Sapendo anche che la carcerazione e la condanna, non gli erano state inflitte, per essersi macchiato di qualche crimine, ma unicamente per l’evangelo di Gesù Cristo, l’apostolo, giustamente, non aveva da vergognarsi, per non trovarsi nella condizione di un libero cittadino.

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01/04/2012 00:48

Se la condizione in cui si trova l’apostolo, fosse derivata da una condotta dissoluta e depravata; da un comportamento anarchico e disprezzante le autorità costituite, avrebbe poco da gioire. Egli sa, infatti, che le catene che porta addosso, la prigione in cui è stato rinchiuso e la condanna a morte che gli è stata inflitta, non sono quelle di un malfattore incallito. Non sono quelle di un criminale che si fa beffe della severità della giustizia terrena, ma sono invece quelle di un’innocente; di uno che non ha commesso nessun crimine, o che si sia ribellato contro il potere dello Stato.

Davanti ad una simile prospettiva, (che umanamente parlando avrebbe dovuto portare l’apostolo ad apparire disgustato, a dir poco) lungi dall’apparire esasperato, abbattuto, distrutto e disperato, soprattutto per l’ingiustizia subita, egli trova la forza e il modo di pensare ad altri. Egli sa, infatti, che c’è il giovane Timoteo, che ha bisogno di essere incoraggiato, perciò non esita a rivolgergli la sua paterna esortazione:

Non aver dunque vergogna della testimonianza del nostro Signore, né di me, suo carcerato; ma soffri anche tu per il vangelo, sorretto dalla potenza di Dio (2 Timoteo 1:8).

Che questo coraggio e franchezza gli venisse, non solo dalla consapevolezza di sapere in chi aveva creduto, ma anche dalla certezza che il suo Signore, che lo aveva chiamato al Suo servizio, aveva il potere di custodire il suo deposito fino a quel giorno, ciò appariva come un baluardo nella sua vita.

Quello che l’apostolo scrive, non è solamente un modo di parlare e di esprimersi; ma mette soprattutto in evidenza, il suo comportamento, fermo, tranquillo e sereno, davanti ad una particolare situazione in cui si trova. Egli, infatti, sa molto bene che, se si trova carcerato, con una condanna a morte a suo carico, non è stato per aver sostenuto un ideale politico, un movimento eversivo, con atti di ribellioni contro il potere dello Stato, ma semplicemente per essere stato ubbidiente alla visione celeste (Atti 26:19) e fedele all’incarico affidategli da Gesù Cristo, suo Signore (2 Timoteo 1:11).

a) Ricordi di un passato


Pensando poi a quelli dell’Asia, specialmente a Figello ed Ermogene, che lo avevano abbandonato, (v. 15) egli avrebbe avuto motivo di sentirsi abbattuto e scoraggiato. Siccome l’apostolo non guarda agli uomini, né a quelli che un tempo gli erano stati vicini con il loro affetto e la loro simpatia, ma a Colui in cui ha creduto, (Gesù Cristo) egli trova conforto e sollievo in quell’ora tragica della sua vita.

b) Il motivo perché Paolo non si vergogna

Perché, dunque, Paolo, dovrebbe vergognarsi per la condizione in cui si trova? Non c’è nessuna ragione valida, per lasciarsi trascinare dallo sconforto e dalla solitudine. Anche se sa che molti lo hanno abbandonato, però, sa anche che, il suo Signore gli è stato vicino (4:17). Sapendo, infatti, che l’evangelo è la potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede (Romani 1:16), potrà continuare a perseverare nelle vie del Signore, avendo la certezza di ricevere, dal suo Signore e Salvatore, Gesù Cristo, la giusta ricompensa.

Con questa chiara prospettiva davanti a sé, e, soprattutto, pensando alla sua imminente “partenza” (cioè la sua morte, non come conseguenza di una condanna, ma come offerta in libazione), è pronto per alzare la vela del suo naviglio per raggiungere la destinazione finale. Ecco, in quale maniera si preparò, per questo suo ultimo viaggio.

L’INNO TRIONFALE

Quanto a me, io sto per essere offerto in libazione, e il tempo della mia partenza è giunto.
Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede.
Ormai mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi assegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti quelli che avranno amato la sua apparizione
(2 Timoteo 4:6-8).

Davanti a queste parole, Paolo fa conoscere se stesso: il suo comportamento, il suo agire e la sua fede nel Signore e Salvatore, Gesù Cristo.

a) Ho combattuto il buon combattimento

La prima cosa che va notata, e accreditata all’apostolo Paolo, in quest'inno trionfale, è il coraggio e la costanza, che non lo hanno mai abbandonato nel combattere, il buon combattimento. Questo, naturalmente lo ha fatto, nel corso della sua esistenza terrena, principalmente dopo la sua conversione al cristianesimo, cioè da quando ha dato tutta la sua vita, a Gesù Cristo.

Ora che si trova sulla pista di partenza, sul terminale della sua carriera, non lo vediamo come un perdente, con la testa china, in segno di vergogna per le sconfitte subite, ma come un vero trionfatore; come uno che sta per spiccare il volo, per la destinazione finale. Si può vedere Paolo che, tenendo la sua testa alzata, pronto per specificare con tutta chiarezza, il motivo del suo finale comportamento, affermare: Posso ogni cosa in colui che mi fortifica (Filippesi 4:13).

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02/04/2012 00:17

b) Ho finito la corsa

Paolo considera tutta la sua vita, come una corsa, (naturalmente, in senso figurativo). Si sa che quest’uomo, in tutto il tempo del suo ministero, in modo particolare, ha incontrato tanti ostacoli nel suo cammino, che potevano fermarlo nella sua corsa. Egli però, da bravo atleta che era, non si perde d’animo, non si fermò; non alzò le sue mani in segno di arresa, come per dire: non ce la faccio più; non avverto in me le forze necessarie per continuare, conviene fermarmi nella mia corsa. No! Egli non si arrende; non si ferma, davanti al tracciato del suo percorso, ma continua a correre fino alla fine.

Ecco perché ora può affermare: Ho finito la corsa. Non sono stati gli altri che hanno portato a termine la corsa; anche se ci sono stati tanti, prima di lui, che l’hanno fatto e portata a termine, ma è stato lui. La sua affermazione non ha il senso di sentirsi meglio degli altri; più abile e fortunato, ma vuole esprimere la sua tenace e persistente resistenza, davanti a tutto ciò che ha incontrato nella sua vita. E, pensare che l’apostolo, durante tutto l’arco del suo pellegrinaggio, ha dovuto fare fronte a dure persecuzioni, maltrattamenti, battiture; esposto a vari pericoli (anche quello di trovarsi tra falsi fratelli) (cfr. 2 Corinzi 11:16-26). Ma nonostante ciò, non si è mai arreso; non si è fermato, ma ha continuato fino alla fine della corsa.

c) Ho conservato la fede

La fede, non in se stesso o in altri, ma quella in Cristo Gesù, era per l’apostolo Paolo, l’elemento primario e fondamentale di tutta la sua esistenza. Egli ben sapeva, che la sua salvezza, aveva le sue radici, in Cristo Gesù, e per la fede in Lui (Efesini 2:8).

Le varie imprese che aveva portato a termine, nel suo ministero apostolico, le aveva compite per la grazia di Dio (1 Corinzi 15:10). Non aveva seguito l’esempio di certuni ...che avevano fatto naufragio quanto alla fede (1 Timoteo 1:19). Neanche era andato dietro a coloro che si erano sviati, come Dema, per avere amato il mondo (2 Timoteo 4:10). Non aveva considerato la fede, come qualcosa di poco valore, da lasciarla e buttarla via, ma la valutava come un gioello di gran valore, da meritare di essere conservata.

In vista di queste precise considerazioni, e, valutando il tracciato che aveva percorso e la sua perseveranza nel combattere il buon combattimento, nel terminare la corsa e nel conservare la fede, può ora volgere il suo sguardo verso il suo Signore, che è anche il giusto giudice, dal quale riceverà la corona di giustizia, (a dispetto di tutte le ingiustizie che ha subito nella sua vita), e non solo lui, ma anche tutti quelli che avranno amato la sua apparizione (v. 8).

Non c’è espressione più significativa, che chiuda la storia della vita di un sant'uomo di Dio, quale era Paolo, nella situazione di quello che abbiamo detto, di sentirgli dire, scandendo bene le parole: A Lui sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen! (4:18).

PS: Se al termine del capitolo 3 ci sono domande da fare, fateleliberamente e risponderemo con premura




Capitolo 4




PAOLO APOSTOLO DI GESÙ CRISTO



Il ministero apostolico di Paolo, è ben documentato nel Nuovo Testamento. Anche se la forma è varia, non cambia però il significato. In questo capitolo, esamineremo i diversi elementi che lo compongono.

a) Il significato etimologico del termine apostolo


Il significato del termine apostolo (gr. apostolos) significa “inviato”.
«Nel N.T. non designa mai l’atto dell’inviare o, in senso traslato, l’oggetto dell’invio, ma è la designazione di un uomo che è inviato e precisamente di un plenipotenziario» [Per conoscere la storia del concetto di apostolo, il suo sviluppo e la sua possibile derivazione, cfr. K.H. Rengstorf, GLNT, Vol. I, col. 1088-1192; J.A. Bühner, Dizionario Esegetico del N.T., Vol 1, col. 379-388. Cfr. particolarmente D. Müller, in Dizionario dei concetti del Nuovo Testamento, pagg. 127-136, per conoscere le varie spiegazioni che gli studiosi hanno dato all’argomento].

Dei dodici, con la qualifica di apostoli, che vengono nominati nel Nuovo Testamento (Matteo 10:2), solo Pietro si presenta col titolo di “apostolo di Gesù Cristo”, nelle sue due epistole (1 Pietro 1:1; 2 Pietro 1:1). Gli altri apostoli-scrittori: Giacomo, Giovanni e Giuda, non si presentano con questo titolo, non perché non lo siano, ma perché hanno preferito presentarsi come servo di Dio e di Gesù Cristo (Giacomo 1:1); servo di Gesù Cristo (Giuda 1), mentre Giovanni non usa nessuna forma di presentazione per farsi riconoscere; lo si riconosce dallo stile e dal frasario che egli adopera. Poiché Giovanni viene abitualmente definito l’apostolo dell’amore, e tenuto conto che nelle tre epistole che portano il suo nome, i termini: “Amore”, “amare”, vengono spesso ripetuti, da questo si deduce che chi ha scritto queste tre lettere, è Giovanni, l’apostolo, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo (Matteo 4:21).

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03/04/2012 00:13

Ora il nostro scopo è di parlare dell’apostolato di Paolo, — non perché il suo apostolato sia più importante o diverso degli altri — ma semplicemente perché ci aiuta meglio a capire e sviluppare il nostro tema: “L'uomo si comporta ed agisce in conformità a quello che crede”.

b) La forma linguistica che viene adoperata


1. Apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio

Paolo, con riferimento al suo apostolato, ci tiene a precisare che egli è un apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio (cfr. 1 Corinzi 1:1; 2 Corinzi 1:1; Efesini 1:1; Colossesi 1:1; 2 Timoteo 1:1).

Se egli si presenta in questo modo, non è solamente per difendersi da coloro che gli contestavano il suo apostolato, ma principalmente per mettere in risalto la sua provenienza. Specificando che egli è apostolo per volontà di Dio, i destinatari delle sue epistole, dovevano escludere, in maniera categorica che, il suo apostolato, non gli era stato conferito da qualche autorità umana.

Questa sua affermazione, specialmente per i contestatari, poteva suonare come un’esaltazione personale. Per Paolo, però, che non teneva conto cosa pensassero i suoi oppositori, era la maniera più concisa, semplice e ferma nello stesso tempo, per far conoscere a chiunque, la volontà di Dio per la sua vita. Che in lui ci fosse la certezza di essere un apostolo di Gesù Cristo, non perché lui l’avesse scelto o desiderato, ma semplicemente per avere accettato “la volontà di Dio”, era abbastanza evidente. Era, infatti, questa sua consapevolezza, che nella vita pratica si trasformava in una ferma convinzione, che gli dava forza e coraggio, per superare i tanti ostacoli che si presentavano nel suo cammino. Il suo comportamento e il suo agire, nel mandato del suo apostolato, affondavano le sue radici e lo motivavano, proprio in conformità a ciò che egli credeva.

Se Paolo, per un'assurda ipotesi, non avesse avuto la certezza che il suo apostolato era per la volontà di Dio, al primo ostacolo, o alla prima contestazione, egli si sarebbe arreso, fermato e ritornato indietro.

Questo è vero anche per i nostri giorni e per tutti i servitori del Signore! Gli ostacoli, gli impedimenti, le contestazioni, ci sono stati sempre e sempre ci saranno! È necessario, per superare ogni forma d'impedimento che, la persona che svolge un’attività ministeriale, abbia la certezza di trovarsi nella volontà di Dio. Sarà, infatti, in conformità a questa certezza, che il nostro comportamento e il nostro agire, avranno piena validità e giustificazione.

2. Servo di Dio e apostolo di Gesù Cristo

Nell’epistola a Tito, viene affermato che Paolo è un servo di Dio e apostolo di Gesù Cristo (Tito 1:1). In questa presentazione, l’elemento principale che viene messo in risalto, è la dipendenza di Paolo. I servi erano persone dipendenti, cioè al servizio dei loro padroni. Di conseguenza, non potevano agire di propria volontà e ignorare l’autorità che stava sopra di loro. Tutto quello che compivano, era sempre subordinato all’approvazione dei loro signori. Se qualcuno li contestava in ciò che compivano, potevano rispondere con fermezza: nel nostro comportamento e nel nostro agire, stiamo facendo quello che ci ha detto il nostro padrone. Quello che contava, non era tanto quello che altri potevano pretendere da loro, quanto piuttosto quello che esigevano i loro signori.

Con la qualifica di servo di Dio, non solo Paolo dichiarava la sua dipendenza, ma metteva anche in risalto che quello che egli stava compiendo, nel proclamare l’evangelo di Gesù Cristo, in effetti, era un “servizio” che compiva al suo padrone che lo aveva chiamato a sé, per svolgere quel lavoro. Egli, infatti, si sentiva obbligato di ringraziare il suo Signore, per la consapevolezza che aveva che Gesù Cristo, gli aveva accordato la sua fiducia.

Io ringrazio colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù, nostro Signore, per avermi stimato degno della sua fiducia, ponendo al suo servizio me 1 Timoteo 1:12).

Questo naturalmente, lo spingeva nel suo comportamento e nel suo agire, ad essere fedele all’incarico ricevuto.

3. Paolo si presenta come servo di Cristo Gesù

Paolo, ai credenti di Roma, si presenta come servo di Cristo Gesù, chiamato ad essere apostolo, messo a parte per il vangelo di Dio (Romani 1:1). Lui è consapevole che il suo apostolato, cioè l’essere stato inviato, è una chiamata divina; e se Dio lo ha messo a parte, lo ha fatto esclusivamente per il Suo vangelo. Ecco, perché, in un altro passaggio, afferma:

se evangelizzo, non devo vantarmi, poiché necessità me n’è imposta; e guai a me, se non evangelizzo! (1 Corinzi 9:16).

Quando era prigioniero a Roma, scrivendo la sua epistola ai Filippesi, così si esprime:

Desidero che voi sappiate, fratelli, che quanto mi è accaduto ha piuttosto contribuito al progresso del vangelo;

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04/04/2012 00:06

al punto che a tutti quelli del pretorio e a tutti gli altri è divenuto noto che sono in catene per Cristo;
e la maggioranza dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, hanno avuto più ardire nell’annunciare senza paura la parola di Dio.
Vero è che alcuni predicano Cristo anche per invidia e per rivalità; ma ce ne sono anche altri che lo predicano di buon animo.
Questi lo fanno per amore, sapendo che sono incaricato della difesa del vangelo;
ma quelli annunziano Cristo con spirito di rivalità, non sinceramente, pensando di provocarmi qualche afflizione nelle mie catene.
Che importa? Comunque sia, con ipocrisia o con sincerità, Cristo è annunziato; di questo mi rallegro, e mi rallegrerò ancora (Filippesi 1”12-18).

Quello che Paolo afferma, rispecchia la certezza che egli ha, per essere stato incaricato della difesa del vangelo.

4. Paolo sa che il suo apostolato è per gli stranieri


Parlo a voi, stranieri; (cioè gentili) in quanto sono apostolo degli stranieri faccio onore al mio ministero (Roma 11:13;

colui che aveva operato in Pietro per farlo apostolo dei circoncisi aveva anche operato in me per farmi apostolo degli stranieri) (cioè gentili) (Galati 2:8).

Se Paolo svolgeva il suo mandato apostolico presso i gentili, non era solamente per l’accordo che aveva raggiunto con i fratelli di Gerusalemme, [C[essi ai circoncisi e noi agli stranieri (v.9), ma essenzialmente perché sapeva che Dio lo aveva inviato ai gentili. Questo egli lo conosceva fin dalla sua conversione (cfr. Atti 9:15; 22:14-15,21; 26:16-18).

Infine, scrivendo ai Corinzi, poteva esprimersi nel seguente modo:
Se per altri non sono apostolo, lo sono almeno per voi; perché il sigillo del mio apostolato siete voi, nel Signore (1 Corinzi 9:2).

5. Paolo sa di essere stato chiamato ad essere apostolo di Gesù Cristo

I seguenti testi lo dimostrano:

— [CPaolo, chiamato ad essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sostene (1 Corinzi 1:1).

Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Timoteo, alla chiesa di Dio che è in Corinto, con tutti i santi che sono in tutta l’Acaia (2 Corinzi 1:11).

Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, ai santi che sono in Efeso e ai fedeli in Cristo Gesù (Efesini 1:1).

Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Timoteo (Colossesi 1:1).

Paolo, apostolo di Cristo Gesù per ordine di Dio, nostro Salvatore, e di Cristo Gesù, nostra speranza (1 Timoteo 1:1).

6. Paolo conosce bene il suo apostolato

Paolo sa, infatti, che se egli è un apostolo, lo è per mezzo di Gesù Cristo, e per ordine di Dio, e di Cristo Gesù

Paolo, apostolo non da parte di uomini né per mezzo di un uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti (Galati 1:1);

Paolo, apostolo di Cristo Gesù per ordine di Dio, nostro Salvatore, e di Cristo Gesù, nostra speranza (1 Timoteo 1:1).

Davanti a questa presentazione, Paolo, non solo sa di essere un apostolo di Gesù Cristo, per la volontà di Dio; un servo di Dio e di Gesù; di essergli stata accordata la fiducia dal suo Signore, per predicare il Suo vangelo; di essere stato chiamato, a tale scopo; di sapere di non essere stato costituito apostolo da parte di uomini o per mezzo di essi; ma anche e soprattutto di essere stato “inviato” come apostolo, per ordine di Dio e di Gesù Cristo.

In quale altra maniera, l’apostolo Paolo avrebbe potuto esprimersi, per meglio far comprendere, sia alle chiese, cui indirizzò le sue epistole e a quelli che gli contestavano il suo apostolato, che il suo ministero apostolico era di origine divina? E se durante la sua vita, in mezzo ai tanti ostacoli e impedimenti che incontrò, non venne meno di obbedire alla celeste visione (Atti 26:19), il suo comportamento ed il suo agire, erano fortemente motivati, affondavano le sue radici su ciò che egli credeva. Questo è valido per tutti i servitori del Signore, che sono stati chiamati a compiere un qualsiasi ministero, di ogni tempo!

PS: Se al termine del capitolo 4 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura

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05/04/2012 02:18

Capitolo 5




DANIELE E I SUOI TRE COMPAGNI




Il terzo anno del regno di Ioiachim re di Giuda, Nabucodonosor, re di Babilonia, marciò contro Gerusalemme e l’assediò.
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Il Signore gli diede nelle mani Ioiachim, re di Giuda, e una parte degli arredi della casa di Dio. Nabucodonosor portò gli arredi nel paese di Scinear, nella casa del suo dio, e li mise nella casa del tesoro del suo dio.
Il re disse ad Aspenaz, capo dei suoi eunuchi, di condurgli dei figli d’Israele, di stirpe reale o di famiglie nobili.
Dovevano essere ragazzi senza difetti fisici, di bell’aspetto, dotati di ogni saggezza, istruiti e intelligenti, capaci di stare nel palazzo reale per apprendere la scrittura e la lingua dei Caldei.
Il re assegnò loro una razione giornaliera dei cibi della sua tavola e dei vini che egli beveva; e ordinò di istruirli per tre anni dopo i quali sarebbero passati al servizio del re.
Tra di loro c’erano dei figli di Giuda: Daniele, Anania, Misael e Azaria;
il capo degli eunuchi diede loro altri nomi: a Daniele pose nome Baltazzar; ad Anania, Sadrac; a Misael, Mesac e ad Azaria Abed-Nego.
Daniele prese in cuor suo la decisione di non contaminarsi con i cibi del re e con il vino che il re beveva; e chiese al capo degli eunuchi di non obbligarlo a contaminarsi;
Dio fece trovare a Daniele grazia e compassione presso il capo degli eunuchi.
Questi disse a Daniele: «Io temo il re, mio signore, che ha stabilito quello che dovete mangiare e bere; se egli vedesse le vostre facce più magre di quelle dei giovani della vostra stessa età, voi mettereste in pericolo la mia testa presso il re».
Allora Daniele disse al maggiordomo, al quale il capo degli eunuchi aveva affidato la cura di Daniele, di Anania, di Misael e di Azaria:
«Ti prego, metti i tuoi servi alla prova per dieci giorni; dacci da mangiare legumi e da bere acqua;
in seguito confronterai il nostro aspetto con quello dei giovani che mangiano i cibi del re e ti regolerai su ciò che dovrai fare».
Il maggiordomo accordò loro quanto domandavano e li mise alla prova per dieci giorni.
Alla fine dei dieci giorni, essi avevano miglior aspetto ed erano più prosperosi di tutti i giovani che avevano mangiato i cibi del re.
Così il maggiordomo portò via il cibo e il vino che erano loro destinati, e diede loro legumi.
A questi quattro giovani Dio diede di conoscere e comprendere ogni scrittura e ogni saggezza. Daniele aveva il dono di interpretare ogni specie di visioni e di sogni.
Giunto il momento della loro presentazione, il capo degli eunuchi condusse i giovani da Nabucodonosor.
Il re parlò con loro; ma fra tutti quei giovani non se ne trovò nessuno che fosse pari a Daniele, Anania, Misael e Azaria, i quali furono ammessi al servizio del re.
Su tutti i punti che richiedevano saggezza e intelletto, sui quali il re li interrogasse, li trovava dieci volte superiori a tutti i magi e astrologi che erano in tutto il suo regno.
Daniele continuò così fino al primo anno del re Ciro
(Daniele 1:1-21).

Nota introduttiva


Da Daniele, il nobile funzionario statale e profeta del Signore nello stesso tempo, abbiamo tanto da imparare, sia dal punto di vista umano relativamente per ciò che riguarda le responsabilità amministrative ad alto livello, e sia per quanto concerne la sua vita devozionale con Dio. Per quanto riguarda, la qualifica di profeta del Signore, anche se il libro che porta il suo nome, non gli attribuisce questo titolo, basta però rifarsi all’affermazione di Gesù, per riconoscerlo come un vero profeta del Signore.

«Quando dunque vedrete l’abominazione della desolazione, della quale ha parlato il profeta Daniele, posta in luogo santo (chi legge faccia attenzione!) (Matteo 24:15).

Lo scopo di questo capitolo, non è di parlare di Daniele come un profeta del Signore. Quest’aspetto dell’argomento, lo sorvoliamo; visto che non rientra in previsione di questo libro. Non prenderemo neanche in esame, la discussione che si è fatta, circa il riconoscimento e la posizione che gli Ebrei diedero al libro che porta il suo nome, nel canone Ebraico, dei libri sacri dell’Antico Testamento.

Lo scopo che ci proponiamo nel parlare di Daniele e dei suoi tre compagni, è quello di esaminare la loro vita, così come il libro ce li presenta, per vedere se il loro comportamento e il loro agire, erano in conformità a quello che credevano. Con questa premessa, esccludiamo ogni altra considerazione che non rientra nel tema del nostro libro. Per chi, invece, volesse approfondire la conoscenza sull’argomento riguardante la natura, lo stile dello scritto di Daniele, e come venne considerato da chi compilò il canone dei libri ispirati dell’Antico Testamento, possiamo rimandarlo alle varie introduzioni di diversi autori che hanno scritto sul libro di Daniele [Cfr. Norman W. Porteous, Antico Testamento, Daniele, pagg. 15-26; Gleason L. Archer, La parola del Signore, Vol. 1, pagg. 454-479; J. Dwight Pentecost, Investigate le Scritture, Antico Testamento, pagg. 1387-1391; Edward J. Young, Commentario Biblico, Vol. 2, pagg. 362-364].

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06/04/2012 00:15

a) La giovinezza di Daniele e dei suoi tre compagni

Il testo che abbiamo riportato, ci parla di Daniele e dei suoi tre compagni, che vengono come proveniente da stirpe reale o da famiglie nobili. Le caratteristiche somatiche erano eccellenti:

senza difetti fisici, di bell’aspetto, dotati di ogni saggezza, istruiti e intelligenti, capaci di stare nel palazzo reale per apprendere la scrittura e la lingua dei Caldei (1:4).

Se Daniele e i suoi tre compagni non avessero avuto le caratteristiche summenzionate, non sarebbero stati selezionati, poiché era stato Nabucodonosor, re di Babilonia, ad esigere tali caratteristiche per ogni giovane che sarebbe stato selezionato, tra tutti i giovani deportati d’Israele.

Il testo sacro non ci fa conoscere il numero dei giovani Israeleti che sono stati deportati a Babilonia e selezionati, secondo la volontà del re. Senza dubbio, erano in tanti; ma solamente quattro di loro, vengono presentati con i loro nomi, cioè: Daniele, Anania, Misael e Azaria. Perché i nomi degli altri non vengono nominati, non possiamo dirlo, e, neanche possiamo indicare le ragioni. Sarà stato il significato etimologico dei loro nomi, che spinse l’autore del libro a nominarli? Probabilmente! Però, non possiamo affermarlo.

Daniele significa: «Dio ha giudicato»; Anania, «Jahvè ha mostrato grazia»; Misael, «chi è ciò che Dio è?» e Azaria «Jahvè ha soccorso» [Norman W. Porteous, Antico Testamento, Daniele, pag. 22].

Aspenaz, l’incaricato del re, ricevette l’ordine dal sovrano di mettere a disposizione dei selezionati, una razione giornaliera dei cibi della tavola del monarca e il vino del suo bere. Istruirli per un periodo di tre anni dopo i quali sarebbero passati al servizio del re.

b) La decisione che i quattro presero

A questo punto entra in scena Daniele, e, a nome dei tre compagni, chiese ad Aspenaz di dar loro a mangiare dei legumi e bere semplicemente acqua. In conseguenza di ciò, il testo afferma che Dio fece trovare a Daniele grazia e compassione presso il capo degli eunuchi (v. 9).

Perché Daniele prese quest'iniziativa? È detto chiaramente: Per non contaminarsi con i cibi del re e con il vino del suo bere. Visto che si trovava in Babilonia, in terra straniera e lontano dalla sua patria, tenuto conto che il re, che aveva ordinato il cibo da mangiare, era un pagano, quel cibo che veniva dalla sua tavola, facilmente era contaminato, nel senso che ciò che veniva preparato, non era consentito agli Ebrei di mangiarlo. Questo naturalmente, in virtù del divieto della loro legge divina. Anche se non tutti i cibi che il monarca offriva, erano contaminati, c’erano senza dubbio quelli che la legge proibiva. Per evitare di essere considerati trasgressori della legge di Dio, Daniele decise di agire in quel modo.

Pur essendo stato Daniele a prendere quella decisione, sicuramente l’avrà presa con l’approvazione e il consenso dei suoi tre compagni. Sono, infatti, tutti e quattro che aderiscono a quell'iniziativa, di cibarsi di legumi e di bere acqua. Superata la prova di dieci giorni, e tenuto conto del risultato che il “maggiordomo” vide con i suoi occhi, cioè:

Alla fine dei dieci giorni, essi avevano miglior aspetto ed erano più prosperosi di tutti i giovani che avevano mangiato i cibi del re (v. 15), fu concesso loro di mangiare legumi e di bere acqua, fino al termine dei tre anni.

A questi quattro giovani Dio diede di conoscere e comprendere ogni scrittura e ogni saggezza. Daniele aveva il dono di interpretare ogni specie di visioni e di sogni (v. 17).

Quando poi, al termine fissato dal re, Daniele, Anania, Misael e Azaria comparvero davanti a Nabucodonosor, il sacro testo precisa che, tra tutti i selezionati, non si trovò nessuno pari a loro, aggiungendo anche che, Su tutti i punti che richiedevano saggezza e intelletto, sui quali il re li interrogasse, li trovava dieci volte superiori a tutti i magi e astrologi che erano in tutto il suo regno (v. 20).

c) La ricompensa che Daniele, Anania, Misael e Azaria ricevettero

Poiché l’esame fu brillantemente superato, il punteggio ottenuto superiore del previsto, Nabucodonosor, soddisfatto di tutte le risposte che ottenne alle sue domande, Daniele, Anania, Misael e Azaria, furono ammessi al servizio del re. Anche se la promozione a quel rango elevato, fu assegnato dal re Nabucodonosor, tuttavia, rappresentava la ricompensa che il loro Dio volle dar loro, come risposta alla loro fedeltà alla Sua legge. C’è un detto nella Scrittura che afferma:

così dice il SIGNORE, il Dio d’Israele: "Io avevo dichiarato che la tua casa e la casa di tuo padre sarebbero state al mio servizio per sempre"; ma ora il SIGNORE dice: "Lungi da me tale cosa! Poiché io onoro quelli che mi onorano, e quelli che mi disprezzano saranno disprezzati (1 Samuele 2:30).

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07/04/2012 00:06

Il migliore modo per onorare Dio, consiste nell’obbedirlo in quello che Egli dice nella Sua Parola. Questo vale, sia per le persone dell’antichità e sia per noi che viviamo nel ventunesimo secolo.

LA LEZIONE CHE SI IMPARA DA QUESTA STORIA

Gli ammaestramenti che possiamo ricavare da quello che viene narrato nel primo capitolo di Daniele, sono diversi, possono essere sintetizzati nel seguente modo:

1) In Babilonia, nella terra straniera, lontani dalla loro patria, Daniele, Anania, Misael e Azaria, seppero mantenere la loro fede in Dio e nella Sua Parola, professandola con fermezza, senza venir meno nella loro fedeltà al loro Signore. Questa loro fedeltà acquista più valore, quando si tiene conto della loro giovanissima età. Quando si è giovani, si può facilmente venir meno, soprattutto quando si pensa a quello che altri potrebbero dire di noi, specialmente quando non si tiene conto dell’evoluzione dei tempi, cioè quando non c’è un certo conformismo con l’ambiente che ci circonda.

2) La decisione che Daniele prese di non contaminarsi, non è stata presa avventatamente, cioè senza riflettere; fu certamente presa a seguito di una ponderata valutazione di quello che si presentava davanti a sé. Egli doveva fare una sceltà: o rimanere fedele alla legge del suo Signore, con tutte le conseguenze del caso, oppure conformarsi a quello che facevano gli altri, senza tener conto della Parola dell’Eterno, così da evitare critiche, biasimi, o peggio ancora, essere considerato un bigotto, un fanatico.

Egli preferì affrontare in pieno il problema con ferma determinazione, senza preoccuparsi di quello che gli sarebbe potuto accadere. Siccome egli credeva fermamente in ciò che professava, la sua professione di fede non poteva rimanere sulle sole parole, era necessario che venisse accompagnata da un’azione ben determinata e visibile.

Probabilmente, all’inizio, avrà pensato solamente a se stesso; ma parlandone con i suoi compagni, se ne accorse che, la sua determinazione ad agire nella maniera voluta, ebbe un impatto buono, ed esercitò un’influenza nella vita dei suoi amici. Nel giro di poco tempo, tutti tre si trovarono d’accordo, nel seguire l’esempio di Daniele. Infatti, tutti e quattro, decisero di non contaminarsi, rimanendo così fedeli al loro Dio e alla Sua legge.

Le buone scelte che si fanno, specialmente quando si vuole rimanere fedeli al Signore, avranno senza dubbio, ripercussioni nella vita degli altri, specie in chi vive vicino a noi.

3) La fermezza che i quattro giovani manifestarono, nel rifiutare le vivande succulenti che il re offriva loro e scegliere come cibo i legumi e acqua semplice per bere, fu motivata dalla ferma volontà di vivere la loro vita, coerentemente con quello che credevano. Il comportamento e l’agire dell’uomo, (giovane o vecchio che sia) è sempre in conformità a ciò che si crede.

La fermezza di Daniele, di Anania, di Misael e di Azaria, non fu per un certo numero di giorni, ma per tutto il tempo della loro preparazione, cioè tre anni. È ammirevole che in tutto questo tempo, la loro determinazione non vacillò, ma seppero perseverare fino alla fine. La prova di dieci giorni che offrirono al capo degli eunuchi, agì come un potente propulsore nella loro vita, e rese più forte la loro fede.

Con la forza di perseverare nelle nostre determinazioni, specie quando si ha la certezza che si agisce secondo la volontà di Dio, viene da quello che noi crediamo.

4) La buona riuscita che, Daniele, Anania, Misael ed Azaria ebbero, non fu solamente per la loro ferma determinazione a non “contaminarsi”, ma anche e soprattutto perché il loro Dio, li onorò, poiché loro onorarono Lui.
Se viviamo la nostra vita coerentemente con quello che crediamo, sia in privato che in pubblico, la nostra testimonianza che daremo, oltre ad essere a lode e gloria di Dio, sarà anche efficace nella vita degli altri.

PS: Se al termine del capitolo 5 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 6




I TRE COMPAGNI DI DANIELE NELLA FORNACE




Il re Nabucodonosor fece una statua d’oro, alta sessanta cubiti e larga sei cubiti, e la collocò nella pianura di Dura, nella provincia di Babilonia.
Poi il re Nabucodonosor fece convocare i satrapi, i prefetti, i governatori, i consiglieri, i tesorieri, i giureconsulti, i magistrati e tutte le autorità delle provincie perché venissero all’inaugurazione della statua che egli aveva fatto erigere.

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08/04/2012 00:24

Allora i satrapi, i prefetti e i governatori, i consiglieri, i tesorieri, i giureconsulti, i magistrati e tutte le autorità delle provincie vennero all’inaugurazione della statua che il re Nabucodonosor aveva fatto erigere. Tutti stavano in piedi davanti alla statua eretta da Nabucodonosor.
Allora l’araldo gridò forte: «A voi, gente di ogni popolo, nazione e lingua, si ordina quanto segue:
nel momento in cui udrete il suono del corno, del flauto, della cetra, della lira, del saltèrio, della zampogna e di ogni specie di strumenti, vi inchinerete e adorerete la statua d’oro che il re Nabucodonosor ha fatto erigere.
Chi non si inchina per adorare, sarà immediatamente gettato in una fornace ardente».
Non appena tutti i popoli ebbero udito il suono del corno, del flauto, della cetra, della lira, del saltèrio e di ogni specie di strumenti, gli uomini di ogni popolo, nazione e lingua si inchinarono e adorarono la statua d’oro che il re Nabucodonosor aveva fatto erigere.
In quello stesso momento, alcuni Caldei si fecero avanti e accusarono i Giudei,
dicendo al re Nabucodonosor: «O re, possa tu vivere per sempre!
Tu hai decretato, o re, che chiunque ha udito il suono del corno, del flauto, della cetra, della lira, del saltèrio, della zampogna e di ogni specie di strumenti deve inchinarsi per adorare la statua d’oro.
Chiunque non s’inchina e non adora deve essere gettato in una fornace ardente.
Ora ci sono dei Giudei, ai quali tu hai affidato l’amministrazione della provincia di Babilonia, cioè Sadrac, Mesac e Abed-Nego, che non ti danno ascolto, non adorano i tuoi dèi e non s’inchinano alla statua d’oro che tu hai fatto erigere».
Allora Nabucodonosor, irritato e furioso, ordinò che gli portassero Sadrac, Mesac e Abed-Nego; questi furono condotti alla presenza del re.
Nabucodonosor disse loro: «Sadrac, Mesac, Abed-Nego, è vero che non adorate i miei dèi e non vi inchinate davanti alla statua d’oro che io ho fatto erigere?
Ora, appena udrete il suono del corno, del flauto, della cetra, della lira, del saltèrio, della zampogna e di ogni specie di strumenti, siate pronti a inchinarvi per adorare la statua che io ho fatta; ma se non la adorerete, sarete immediatamente gettati in una fornace ardente; e quale Dio potrà liberarvi dalla mia mano?»
Sadrac, Mesac e Abed-Nego risposero al re: «O Nabucodonosor, noi non abbiamo bisogno di darti risposta su questo punto.
Ma il nostro Dio, che noi serviamo, ha il potere di salvarci e ci libererà dal fuoco della fornace ardente e dalla tua mano, o re.
Anche se questo non accadesse, sappi, o re, che comunque noi non serviremo i tuoi dèi e non adoreremo la statua d’oro che tu hai fatto erigere».

Allora Nabucodonosor s’infuriò e l’espressione del suo viso mutò completamente nei riguardi di Sadrac, Mesac e Abed-Nego. Egli ordinò che si arroventasse la fornace sette volte più del solito;
poi ordinò agli uomini più vigorosi del suo esercito di legare Sadrac, Mesac e Abed-Nego, e di gettarli nella fornace ardente.
Allora i tre uomini furono legati con le loro tuniche, le loro vesti, i loro mantelli e tutti i loro indumenti e furono gettati in mezzo alla fornace ardente.
Poiché l’ordine del re era perentorio e la fornace era arroventata, il calore uccise gli uomini che avevano gettato Sadrac, Mesac e Abed-Nego nel fuoco.
E questi tre uomini, Sadrac, Mesac e Abed-Nego, caddero legati in mezzo alla fornace ardente.
Allora il re Nabucodonosor fu spaventato e andò in gran fretta a dire ai suoi consiglieri: «Non erano tre, gli uomini che abbiamo legati e gettati in mezzo al fuoco ardente?» Quelli risposero e dissero al re: «Certo, o re!»
«Eppure», disse ancora il re, «io vedo quattro uomini, sciolti, che camminano in mezzo al fuoco, senza avere sofferto nessun danno; e l’aspetto del quarto è simile a quello di un figlio degli dèi.
Nabucodonosor si avvicinò alla bocca della fornace ardente e disse: «Sadrac, Mesac, Abed-Nego, servi del Dio altissimo, venite fuori!» E Sadrac, Mesac e Abed-Nego uscirono dal fuoco.
I satrapi, i prefetti, i governatori e i consiglieri del re si radunarono, osservarono quegli uomini e videro che sopra i loro corpi il fuoco non aveva avuto nessun potere e che neppure un capello del loro capo era stato bruciato, che le loro tuniche non erano alterate e che essi non avevano neppure odore di fuoco.
Nabucodonosor prese a dire: «Benedetto sia il Dio di Sadrac, di Mesac, e di Abed-Nego, il quale ha mandato il suo angelo e ha liberato i suoi servi che hanno confidato in lui, hanno trasgredito l’ordine del re, hanno esposto i loro corpi per non servire né adorare alcun altro Dio che il loro.
Perciò ordino quanto segue: Chiunque, a qualsiasi popolo, nazione o lingua appartenga, dirà male del Dio di Sadrac, Mesac e Abed-Nego, sia fatto a pezzi e la sua casa ridotta in un letamaio; perché non c’è nessun altro dio che possa salvare in questo modo».
Allora il re fece prosperare Sadrac, Mesac e Abed-Nego nella provincia di Babilonia (Daniele 3:1-30).

a) I tre giovani Ebrei, amministratori della provincia di Babilonia


Nel primo capitolo di Daniele, i tre giovani Ebrei, vengono presentati con i loro nomi ebraici di Anania, Misael e Azaria. Il capo degli eunuchi Aspenaz, gli mise altri nomi: ad Anania, Sadrac,

«probabilmente dalla forma saduraku di un verbo accadico che significa «io temo (un dio)».; a Misael, Mesac, «che probabilmente derivava dal verbo accadico che significa «io sono sprezzato, spregevole, umiliato (davanti al mio dio)» e ad Azaria Abed-Nego, «servo di Nebo» (Nebo è una variazione ebraica del nome babilonese del dio Nebo). Nebo (cfr. Is. 46:1), figlio di Bel, era la divinità babilonese della scrittura e della vegetazione. Era anche conosciuto come Nabu.
Così il capo degli eunuchi (Aspenaz, v. 3) sembrava determinato a cancellare ogni testimonianza dell’Iddio d’Israele dalla corte babilonese. I nomi che egli diede ai tre ragazzi significavano che essi sarebbero stati sottomessi agli dei di Babilonia» [J. Dwight Pentecost, Investigate le Scritture, Antico Testamento, pag. 1394].

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09/04/2012 00:06

Se questa era veramente l’intenzione di Aspenaz, la storia del capitolo tre di Daniele, dimostra il contrario. Sì, è vero che ai tre giovani Ebrei (Daniele, per ragioni che non sappiamo spiegare, esce dalla scena) fu affidata l’amministrazione della provincia di Babilonia, in seguito alla richiesta che fece Daniele al re, (v. 2:49) con l’incarico di curare gli interessi del regno babilonese, ma questo non vuol dire che essi erano stati disposti a rinnegare la fede nell’Iddio d’Israele, per sottomettersi agli dèi babilonesi. L’esame che condurremo su di loro nel terzo capitolo di Daniele, metterà in evidenza tutti gli elementi della fermezza e della costanza, di Sadrac, Mesac e Abed-Nego, nel rimanere fedeli alla legge del loro Dio.

b) Nabucodonosor costruì una statua d’oro


Il progetto del re di Babilonia nel fare costruire una grande statua d’oro nella pianura di Dura, non era sicuramente stato ideato per costringere i tre amministratori Ebrei, all’adorazione di quella statua. Senza dubbio mirava a mettere in risalto la grandezza del monarca e la sottomissione alla sua volontà, di tutti gli abitanti del suo regno, compresi i tre giovani Ebrei, naturalmente. Quando si pensa che quella statua d’oro, era alta 28,8 m. e l’arga 2,88 m. si può, con ragione, valutare il costo di quell’opera (e solamente un impero come quello babilonese poteva sostenerlo) tutto questo parla eloquentemente dello sfarzo che venne messo in atto, in quel progetto per realizzarlo.

Dal punto di vista della “collettività”, (pensando che l’invito venne rivolto a tutti i funzionari del regno babilonese), Sadrac, Mesac e Abed-Nego, amministratori della provincia di Babilonia, non potevano essere esclusi, dall’essere invitati dal monarca ad assistere a quell’evento. La faccenda della loro fede Ebraica, non li esonerava dall'essere presenti a quella manifestazione pubblica.

Il fatto stesso che all’inaugurazione della statua d’oro siano presenti i satrapi, i prefetti, i governatori, i consiglieri, i tesorieri, i giureconsulti, i magistrati e tutte le autorità delle provincie (v. 2), ci porta a pensare che, anche i tre giovani Ebrei, vi partecipino. È forse una strana ipotesi, se si pensa alla loro presenza? La loro presenza, infatti, non deve essere considerata come un sinonimo di aderire e sottomettersi all’adorazione di quella statua, soprattutto se si tiene presente che l’invito era stato fatto per inaugurare la statua d’oro che era stata eretta. Che poi nella mente del monarca vi fosse la volontà di farla adorare, (com'è chiaramente affermato nel testo), è cosa che venne rivelato dopo.

Se Sadrac, Mesac ed Abed-Nego, non avessero aderito all’invito del re di trovarsi nella pianura di Dura, ciò sarebbe stato difficile, in quello stesso giorno, affermare che i tre funzionari Ebrei, non tenevano conto della parola del regnante. Mentre se si pensa alla loro presenza, in mezzo a tantissimi altri funzionari del regno, questo non diventa un problema, inquadrare nel contesto della narrazione, il momento in cui il re ordinò di inchinarsi e adorare la statua d’oro.

c) L’ordine di adorare la statua d’oro

Lo scopo principale di Nabucodonosor, nel fare erigere la grande statua d’oro, era solamente per fare sfoggio della ricchezza dell’impero babilonese, o nascondeva qualche altra cosa? L’idea di fare adorare la statua, il re l’aveva fin dall’inizio dei lavori, o gli venne ad opera compiuta? Non è facile rispondere a queste due domande! Leggendo il testo attentamente, si può intuire che, davanti al fasto di quell’opera mastodontica, e, vedendo tutti i suoi funzionari in piedi davanti alla statua eretta, non è strano pensare che al re venne l’idea di farla adorare.

L’invito rivolto a tutti i funzionari del regno, era quello di assistere all’inaugurazione della grande statua. Forse i partecipanti non pensavano che, mentre loro erano in piedi, sarebbe seguito un perentorio ordine imperiale di inchinarsi e adorare quella statua.

L’araldo a voce forte gridò:
«A voi, gente di ogni popolo, nazione e lingua, si ordina quanto segue:
nel momento in cui udrete il suono del corno, del flauto, della cetra, della lira, del saltèrio, della zampogna e di ogni specie di strumenti, vi inchinerete e adorerete la statua d’oro che il re Nabucodonosor ha fatto erigere.
Chi non si inchina per adorare, sarà immediatamente gettato in una fornace ardente»
(vv. 4-6).

Ora, ai presenti, non viene solamente ordinato di inchinarsi e adorare la statua d’oro che sta davanti a loro, ma viene anche fatto conoscere la punizione che andrà incontro, colui che non ubbidirà all’ordine del regnante, cioè verrà gettato in una fornace di fuoco. Inoltre, l’ordine di inchinarsi e adorare la statua d’oro, non è solamente per i presenti, ma si estende alla gente di ogni popolo, nazione e lingua. Al suono dei vari strumenti musicali, tutti dovranno obbedire all’ordine del monarca. È a questo punto che i tre giovani Ebrei vengono accusati d'infedeltà e fatti comparire alla presenza del re.

Come mai i tre giovani Ebrei, vengono subito accusati di essere stati disubbidienti all’ordine del monarca? Per il semplice fatto che, fra tutti i presenti che dovevano inchianarsi e adorare la statua che Nabucodonosor aveva fatto erigere, solamente Sadrac, Mesac ed Abed-Nego, erano rimasti in piedi e non avevano ubbidito all’ordine imperiale.

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10/04/2012 00:04

d) I tre giovani Ebrei accusati davanti al re

Poiché i tre giovani Ebrei non si sono inchinati per adorare la statua d’oro, non fu difficile per i “Caldei”, presentarsi davanti a Nabucodonosor per accusare Sadrac, Mesac ed Abed-Nego d’infedeltà davanti al regnante. Il re che, certamente stimava i tre giovani Ebrei, per la straordinaria sapienza e saggezza che dimostravano nel condurre brillantemente gli affari della provincia di Babilonia, stentò, in un primo momento a credere che, quei suoi bravi amministratori, avessero osato mettere in discussione i suoi ordini.

L’interrogazione che il re rivolge ai tre giovani Ebrei: È vero che non adorate i miei dèi e non vi inchinate davanti alla statua d’oro che io ho fatto erigere? (v.14), rivela proprio questo. Siccome il monarca deve far valere la sua autorità, non esita ad aggiungere: Ma se non la adorerete, sarete immediatamente gettati in una fornace ardente; e quale Dio potrà liberarvi dalla mia mano?» ( v. 15).

Le parole del re, non solo mettono in evidenza la sua autorità e la fermezza della sua decisione, ma suonano anche come una sfida al Dio di Sadrac, Mesac ed Abed-Nego. Come significato, si rassomigliano alle parole che Rabsaché, l’inviato del re d’Assiria, pronunciò davanti ai servitori del re Ezechia:

fra tutti gli dèi di quei paesi quali sono quelli che hanno liberato il loro paese dalla mia mano? Il SIGNORE potrà forse liberare Gerusalemme dalla mia mano?» (2 Re 18:35).

e) La risposta dei tre giovani Ebrei e il suo epilogo

Lungi dall’essere intimoriti dall’autorità di Nabucodonosor e dalla sua sprezzante arroganza, Sadrac, Mesac ed Abed-Nego, con voce ferma e determinata, risposero:

...«O Nabucodonosor, noi non abbiamo bisogno di darti risposta su questo punto.
Ma il nostro Dio, che noi serviamo, ha il potere di salvarci e ci libererà dal fuoco della fornace ardente e dalla tua mano, o re.
Anche se questo non accadesse, sappi, o re, che comunque noi non serviremo i tuoi dèi e non adoreremo la statua d’oro che tu hai fatto erigere»
(vv. 16-16).

Era pertanto naturale che, davanti ad una simile risposta, il re s’infuriasse e mutasse completamente l’espressione del suo viso nei confronti di Sadrac, Mesac ed Abed-Nego. Probabilmente, Nabucodonosor, durante il tempo del suo governo, non aveva mai incontrato persone del suo regno che, con tanta audacia, osavano sfidare la sua autorità. Siccome la sfida riguardava la persona del re e metteva in discussione la validità dei suoi ordini, il monarca non esitò a ordinare di arroventare la fornace sette volte più del solito, e gettarvi dentro i tre giovani Ebrei.

Gli uomini più vigorosi del suo esercito, vennero incaricati di legare Sadrac, Mesac ed Abed-Nego con i loro abiti e di gettarli nella fornace del fuoco ardente.

Il Porteous, nel suo commento al libro di Daniele, scrive:

«Montgomery è certamente nel giusto quando dice che la fornace in questione è «simile ai nostri comuni forni da calce con in alto un pozzo perpendicolare per l’alimentazione e un’apertura in fondo per estrarre la calce fusa». Una struttura del genere spiegherebbe sia il modo in cui le vittime vengono gettate nella fornace sia il fatto che il re potesse osservare ciò che succedeva all’interno» [Norman W. Porteous, Antico Testamento, Daniele, pag. 70].

Davanti alla scena che si è presentata agli occhi di Nabucodonosor, il monarca che credeva di vedere consumati dal fuoco i tre giovani ribelli, ha dovuto ammettere che ciò non si era verificato. Infatti, i tre giovani Ebrei che furono gettati legati, nella fornace, ora li vede sciolti dai legami camminano in mezzo ad essa. Non solo questo, ma si trovano in compagnia con una quarta persona, che è simile a quello di un figlio degli dèi.

Davanti a questa constatazione, il prepotente ed orgoglioso Nabucudonosor, tutto spaventato, è stato costretto a riconoscere, davanti ai suoi funzionari che, Sadrac, Mesac ed Abed-Nego, sono servi del Dio Altissimo. E, senza perdere tempo, chiama i tre giovani Ebrei ad uscire subito dalla fornace. Usciti, Sadrac, Mesac ed Abed-Nego vennero esaminati e si costatò che il fuoco non aveva avuto nessun potere sui loro corpi, i capelli non erano stati bruciati, gli indumenti che aveva addosso, non erano stati alterati e neanche l’odore del fuoco si era attaccato su di loro. L’unica cosa che il fuoco consumò, furono i “legami” che gli uomini incaricati dal re, misero addosso ai tre giovani Ebrei. Se questi legami sono stati consumati dal fuoco, è stato essenzialmente perché non facevano parte dei loro indumenti.

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11/04/2012 00:15

Ora il monarca, davanti a quell'evidenza, afferma ed ordina nello stesso tempo:

«Benedetto sia il Dio di Sadrac, di Mesac, e di Abed-Nego, il quale ha mandato il suo angelo e ha liberato i suoi servi che hanno confidato in lui, hanno trasgredito l’ordine del re, hanno esposto i loro corpi per non servire né adorare alcun altro Dio che il loro.
Perciò ordino quanto segue: chiunque, a qualsiasi popolo, nazione o lingua appartenga, dirà male del Dio di Sadrac, Mesac e Abed-Nego, sia fatto a pezzi e la sua casa ridotta in un letamaio; perché non c’è nessun altro dio che possa salvare in questo modo»
(vv. 28-29).

RIFLESSIONI

Davanti al racconto biblico, alcune riflessioni si impongono, per dare forza al tema del nostro libro: L’uomo si comporta ed agisce in conformità a ciò che crede.

1. La fermezza e la costanza dei tre giovani Ebrei, per ciò che riguardava la loro fede in Dio e la fedeltà alla Sua legge, è stata dimostrata nei momenti più difficili della loro esistenza. Parlare di credere in Dio e alla Sua Parola, quando tutto è calmo e le cose attorno a noi vanno nel giusto verso, è una cosa, mentre sostenerli davanti ad una prova di fuoco, è tutto diverso. Sadrac, Mesac ed Abed-Nego, non erano dei credenti superficiali, pronti a sbandierare la loro credenza in Dio, quando erano soli nelle loro case e quando si trovavano nei loro posti di lavoro. Erano veri credenti, nel senso che, non avevano nessuna difficoltà a rivelare pubblicamente, e davanti a chiunque, quello che essi credevano. Se avessero potuto esprimersi nella stessa maniera come ha fatto l’apostolo Paolo: So in chi ho creduto (2 Timoteo 1:12), l’avrebbero fatto con piena cognizione di causa, ripetendo le stesse parole.
Un vero credente, non ha paura delle minacce che potrebbe subire a motivo della sua fede in Cristo; ma sarà pronto a subire qualsiasi disprezzo, privazioni e finanche la confisca dei suoi beni, pur di rimanere fedele al suo Signore e Salvatore, Gesù Cristo.

2. La fedeltà di una persona alla legge divina, sarà messa alla prova, non con le sole parole, ma con azioni ferme e decise che tutti possono vedere. Un credente che vuole piacere a chi lo ha salvato, non cercherà di attirarsi la simpatia e l’approvazione di chi gli sta vicino; sarà cordiale ed amichevole con tutti, ma terrà in debita considerazione, la volontà del suo Signore. Si possono benissimo applicare le parole di Gesù:

Non chiunque mi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli (Matteo 7:21).

Davanti ad una minaccia che imponeva di non parlare a nessuno del nome di Gesù, Pietro e Giovanni risposero:

«Giudicate voi se è giusto, davanti a Dio, ubbidire a voi anziché a Dio.
Quanto a noi, non possiamo non parlare delle cose che abbiamo viste e udite»
(Atti 4:19-20).

3. La Bibbia afferma che Dio onora quelli che l’onorano (1 Samuele 2:30). La migliore maniera di onorarlo, è quando si mette in pratica la Sua Parola. I tre giovani Ebrei si ricordarono sicuramente, del divieto divino, di servire e adorare altri dèi (Esodo 20:3-5; Deuteronomio 6:13-14). In conseguenza di ciò, si rifiutarono di servire e adorare gli dèi babilonesi. Ogni forma d'idolatria, è abominevole al Signore; i veri credenti sanno ben guardarsi da essa (1 Giovanni 5:21) e adoreranno solo Dio in spirito e verità (Giovanni 4:24).

4. La fermezza e la determinazione di affrontare l’autorità di Nabucodonosor e sfidare la morte, per i tre giovani Ebrei, ciò derivava dalla loro fedeltà alla Parola del Signore e dalla certezza, che il loro Dio, aveva il potere di salvarli e di liberarli dal fuoco della fornace ardente e dalla mano del re di Babilonia. Quando la nostra fede è ferma e non traballa, sia davanti alle minacce e sia davanti alla morte, sarà da essa che si ricaveranno le forze necessarie, per sfidare ogni potenza diabolica, e uscirne vittoriosi.

Il fuoco della fornace ardente potrebbe essere una serie di prove particolari, che tocca gli interessi economici di una nostra attività commerciale; una sofferenza fisica prolungata nel tempo, derivata da malattie; difficoltà di ogni genere nella nostra vita di famiglia; scarsezza economica e mancanza di risorse materiali, necessarie alla nostra sopravvivenza. Qualunque nome si dia al fuoco ardente della fornace, se si crede che il nostro Dio ha il potere di salvarci e liberarci da essa, il fuoco di questa fornace, consumerà solamente i “legami” che altri ci hanno messo addosso. Tutto ciò che appartiene a noi, cioè che fa parte della nostra vita, della nostra esperienza cristiana: la fede in Cristo, la certezza che Egli è con noi, il potere divino a nostro favore, la giustizia di Cristo che ci copre e ci adorna, il fuoco della prova, della malattia, della difficoltà di ogni genere, non potrà distruggerci. Dio stesso che a volte permette di essere gettati in questa fornace, sarà Colui che ci farà uscire da essa, non come sconfitti e distrutti, ma come veri trionfatori, a lode e gloria del Suo Nome.

Nessuno si alluda: ognuno di noi si comporterà ed agirà, sempre in conformità a ciò che si crede. Dio è fedele in tutto ciò che promette:

Quando dovrai attraversare le acque, io sarò con te; quando attraverserai i fiumi, essi non ti sommergeranno; quando camminerai nel fuoco non sarai bruciato e la fiamma non ti consumerà (Isaia 43:2),

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12/04/2012 00:08

Egli non è venuto mai meno, e sarà sempre eternamente fedele. A Lui l’onore e la gloria!

PS: Se al termine del capitolo 6 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 7




DANIELE MESSO ALLA PROVA




Parve bene a Dario di affidare l’amministrazione del suo regno a centoventi satrapi distribuiti in tutte le province del regno.
Sopra di loro nominò tre capi, uno dei quali era Daniele, perché i satrapi rendessero conto a loro e il re non dovesse soffrire alcun danno.
Questo Daniele si distingueva tra i capi e i satrapi, perché c’era in lui uno spirito straordinario; il re pensava di stabilirlo sopra tutto il suo regno.
Allora i capi e i satrapi cercarono di trovare un’occasione per accusare Daniele circa l’amministrazione del regno, ma non potevano trovare alcuna occasione né alcun motivo di riprensione, perché egli era fedele e non c’era in lui alcuna mancanza da potergli rimproverare.
Quegli uomini dissero dunque: «Noi non avremo nessun pretesto per accusare questo Daniele, se non lo troviamo in quello che concerne la legge del suo Dio».
Allora capi e satrapi vennero tumultuosamente presso il re e gli dissero: «Vivi in eterno, o re Dario!
Tutti i capi del regno, i prefetti e i satrapi, i consiglieri e i governatori si sono accordati perché il re promulghi un decreto e imponga un severo divieto: chiunque, per un periodo di trenta giorni, rivolgerà una richiesta a qualsiasi dio o uomo tranne che a te, o re, sia gettato nella fossa dei leoni.
Ora, o re, promulga il divieto e firma il decreto, perché sia immutabile conformemente alla legge dei Medi e dei Persiani, che è irrevocabile».
Il re Dario quindi firmò il decreto e il divieto.
Quando Daniele seppe che il decreto era firmato, andò a casa sua; e, tenendo le finestre della sua camera superiore aperte verso Gerusalemme, tre volte al giorno si metteva in ginocchio, pregava e ringraziava il suo Dio come era solito fare anche prima.
Allora quegli uomini accorsero in fretta e trovarono Daniele che pregava e invocava il suo Dio.
Poi si recarono dal re e gli ricordarono il divieto reale: «Non hai tu decretato che chiunque per un periodo di trenta giorni farà una richiesta a qualsiasi dio o uomo tranne che a te, o re, sia gettato nella fossa dei leoni?» Il re rispose e disse: «Così ho stabilito secondo la legge dei Medi e dei Persiani, che è irrevocabile».
Allora quelli ripresero la parola e dissero al re: «Daniele, uno dei deportati dalla Giudea, non tiene in nessun conto né te, né il divieto che tu hai firmato, o re, ma prega il suo Dio tre volte al giorno».
Udito questo, il re ne fu molto addolorato; si mise in animo di liberare Daniele e fino al tramonto del sole fece di tutto per salvarlo.
Ma quegli uomini vennero tumultuosamente dal re e gli dissero: «Sappi, o re, che la legge dei Medi e dei Persiani vuole che nessun divieto o decreto promulgato dal re venga mutato».
Allora il re ordinò che Daniele fosse preso e gettato nella fossa dei leoni. E il re parlò a Daniele e gli disse: «Il tuo Dio, che tu servi con perseveranza, sarà lui a liberarti».
Poi fu portata una pietra e fu messa sull’apertura della fossa; il re la sigillò con il suo anello e con l’anello dei suoi grandi, perché nulla fosse mutato riguardo a Daniele.
Allora il re ritornò al suo palazzo e digiunò tutta la notte; non fece venire nessuna delle concubine e non riuscì a dormire.
La mattina il re si alzò molto presto, appena fu giorno, e si recò in fretta alla fossa dei leoni.
Quando fu vicino alla fossa, chiamò Daniele con voce angosciata e gli disse: «Daniele, servo del Dio vivente! Il tuo Dio, che tu servi con perseveranza, ha potuto liberarti dai leoni?»
Daniele rispose al re: «Vivi per sempre o re!
Il mio Dio ha mandato il suo angelo che ha chiuso la bocca dei leoni; essi non mi hanno fatto nessun male perché sono stato trovato innocente davanti a lui; e anche davanti a te, o re, non ho fatto niente di male».
Allora il re fu molto contento e ordinò che Daniele fosse tirato fuori dalla fossa; Daniele fu tirato fuori dalla fossa e non si trovò su di lui nessuna ferita, perché aveva avuto fiducia nel suo Dio.
Per ordine del re, gli uomini che avevano accusato Daniele furono presi e gettati nella fossa dei leoni con i loro figli e le loro mogli. Non erano ancora giunti in fondo alla fossa, che i leoni si lanciarono su di loro e stritolarono tutte le loro ossa.
Allora il re Dario scrisse alle genti di ogni popolo, nazione e lingua che abitavano su tutta la terra: «Pace e prosperità vi siano date in abbondanza!
Io decreto che in tutto il territorio del mio regno si tema e si rispetti il Dio di Daniele, perché è il Dio vivente che dura in eterno; il suo regno non sarà mai distrutto e il suo dominio durerà sino alla fine.
Egli libera e salva, fa segni e prodigi in cielo e in terra. lui che ha liberato Daniele dalle zampe dei leoni».
Daniele prosperò durante il regno di Dario e durante il regno di Ciro, il Persiano
(Daniele 6:1-28).

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13/04/2012 00:04

a) Daniele al servizio del re Dario

Al tempo dei fatti narrati in questo capitolo sei, Daniele aveva più di ottanta anni. Ne aveva circa sedici quando è stato deportato sessantasei anni prima (605 a.C). Così a causa dell’età, aveva molta esperienza maturata sotto Nabucodonosor (2:48) per circa trentanove anni [Cfr. J. Dwight Pentecost, Investigate le Scritture, Antico Testamento, pagg. 1412-1413), per conoscere anche le quattro spiegazioni che sono state date, in risposta ai critici che hanno a lungo discusso sulla storicità di Daniele].

Lasciando da parte quello che hanno discusso i critici sulla storicità di Daniele, concentriamo la nostra attenzione su quello che narra il testo biblico su quest'illustre servitore del Signore e alto funzionario statale, qual è stato appunto Daniele. La sua straordinaria intelligenza e saggezza, l’abbiamo notata fin dalla sua giovinezza, narrata nel capitolo uno. Che poi si è sviluppata nel corso degli anni, lo dimostrano i capitoli 1,2,4,5 e 6.

È stato in virtù della sua saggezza, nel sapere bene amministrare gli affari pubblici che, Dario, dopo la morte di Baldassar, prendendo in mano il regno, elevò ad un rango superire Daniele, costituendolo uno dei tre capi del suo regno. Tenuto conto della correttezza e della fedeltà, e, soprattutto del fatto che in Daniele c’era uno spirito straordinario, Dario pensava addirittura di stabilirlo sopra tutto il suo regno.

Una simile posizione e un simile prestigio, causò l’invidia dei suoi colleghi. Eppure Daniele non era un personaggio invidioso della posizione che altri avevano raggiunto; ma gli altri lo erano nei suoi confronti. Poiché i colleghi di Daniele non potevano vederlo di buon occhio, questi fecero del tutto per indagare sul suo comportamento, nella speranza di trovare qualche difetto di cattiva amministrazione, per poi accusarlo davanti al re Dario.

Sappiamo però, nonostante che quei due colleghi avessero svolto un lavoro meticoloso di controllo nei confronti del lavoro di Daniele, che essi non trovarono nessun difetto di cattiva amministrazione, come loro speravano, perché appunto Daniele era fedele e non c’era in lui alcuna mancanza da potergli rimproverare.

Pensando al fattore religioso (Daniele senza dubbio avrà parlato con i suoi colleghi della sua fede e della legge del suo Dio, e anche della sua abitudine di pregare tre volte al giorno) pensarono di colpirlo, nella parte ispirata a devozione della sua vita religiosa, nella speranza di riuscirvi. Ma come fare per riuscire nella loro impresa? Potevano farlo desistere dal parlare del suo Dio, e impedirgli nella sua attività giornaliera di pregare? Non era facile raggiungere il loro scopo. D’altra parte, Daniele non era un ragazzino da lasciarsi convincere facilmente a desistere da quella sua attività religiosa. Era un uomo maturo con tanti anni sulle sue spalle, possibilmente di età più avanzata dei suoi colleghi. Come fare allora per centrare il bersaglio? Ecco l’idea che balenò nella loro testa.

b) Il decreto di proibizione che il re Dario firmò

Con ogni probabilità, gli invidiosi di Daniele, non erano i satrapi, i prefetti, i consiglieri e i governatori, ma quelli di pari grado a lui, cioè gli altri due capi. Per dare credito e autorità alla loro parola, quando questi due capi si presentarono davanti a Dario, affermarono che

tutti i capi del regno (quindi inclusero anche Daniele), i prefetti, i satrapi, i consiglieri e i governatori si sono accordati perché il re promulghi un decreto e imponga un severo divieto: chiunque, per un periodo di trenta giorni, rivolgerà una richiesta a qualsiasi dio o uomo tranne che a te, o re, sia gettato nella fossa dei leoni (v. 7).

La proposta formulata in quella maniera, non dava il minimo sospetto al monarca, che la cosa non fosse come quei due capi gliela avevano presentata. Il fatto poi che la persona di Dario veniva elevata al rango di un dio, attirò l’approvazione del regnante, il quale non esitò a firmare il decreto propostogli. Certo, se egli avesse intuito che quel decreto era stato concepito per colpire Daniele, egli non l’avrebbe mai firmato, soprattutto per la fiducia e la stima che aveva nei suoi confronti.

c) Una prova seria per Daniele

Che una copia del decreto che il re aveva firmato di recente, fosse arrivata sulla scrivania di Daniele, è cosa certa, soprattutto se si pensa alla carica che egli rivestiva. Daniele avrebbe potuto contestare quel decreto, rivelando al re che egli non era stato consultato per quella faccenda, e non era affatto vero che per quel divieto, ci fosse stata l’unanimità di tutti i funzionari del regno. Se Daniele avesse fatto una simile mossa, non solo avrebbe svelata la trama dei suoi colleghi, ma il re stesso, avrebbe creduto più a Daniele che a tutti gli altri funzionari del suo regno. Però, questo, Daniele non lo fece. Perché? Egli, non avendo uno spirito vendicativo, non volle mostrare i suoi sentimenti e il suo giudizio intorno a quel decreto; preferì mettere tutta quella faccenda nelle mani del suo Signore, con la certezza che il suo Dio, si sarebbe occupato di quella situazione e avrebbe messo al riparo la vita del suo servitore.

Conosciuto il testo del decreto, e, tenendo conto che quel divieto era stato concepito per colpire lui, fece finta di ignorarlo. Infatti, senza apportare modifiche alla sua usanza, continuò a pregare, tre volte al giorno il suo Dio, tenendo aperte le finestre della sua camera superiore verso Gerusalemme.

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14/04/2012 00:10

Se egli avesse chiuso le finestre, avrebbe dato l’impressione di temere il decreto del re; ma tenendole aperte, dimostrò il suo coraggio e la ferma determinazione a continuare la sua vita ispirata a devozione con il suo Dio, come aveva fatto per tanti anni, senza farsi intimorire dai suoi avversari.

Quel suo atteggiamento fermo e deciso, non gli veniva certamente dalla carica che rivestiva e dai buoni rapporti che c’erano tra lui e il re, ma dalla fede nel suo Dio. Poiché egli credeva fermamente ai principi di fedeltà e di obbedienza alla legge del suo Signore, il suo comportamento e il suo agire era in coerenza con la sua fede.

Il termine dei 30 giorni che, quei due capi avevano fatto inserire nel decreto, era una forma per eludere il tranello che concepivano contro Daniele. Essi, infatti, sapevano che, non sarebbe occorso tutto quel tempo, per trovare Daniele impegnato nella sua attività giornaliera di pregare il suo Dio. Sarebbe bastato un solo giorno, per accusare Daniele davanti a Dario, come persona che non teneva conto dell’autorità del monarca. Ma se loro avessero concepito il divieto in quel modo, cioè con la scadenza di un solo giorno, facilmente la loro insincerità sarebbe venuta a galla, e il re, avrebbe chiesto spiegazioni e chiarimenti, prima di apporre la sua firma. Mentre con la durata di trenta giorni, la proposta nella sua forma, non appariva viziata, il piano rimaneva bene camuffato e il regnante non avrebbe avuto motivi di esitare a firmare il documento.

Tenuto conto che gli avversari di Daniele conoscevano bene la sua usanza di pregare tre volte al giorno il suo Dio, non hanno avuto bisogno di predisporre servizi informativi segreti, tendenti ad assicurarsi se Daniele era rimasto fermo nelle sue pratiche religiose. Avranno agito subito dopo che il decreto del re entrò in vigore, per mettere sotto accusa Daniele? Crediamo che avranno atteso alcuni giorni, prima di presentarsi davanti al re, per accusare Daniele d’infedeltà nei suoi confronti. Se gli avversari di Daniele avessero agito subito, avrebbero data la possibilità al monarca di sospettare un complotto nei confronti di Daniele. Mentre, tardando alcuni giorni, (sempre entro i limiti dei trenta giorni previsti dal decreto), tutto sarebbe apparso normale.

L’accusa non poteva essere presentata al regnante sulla base del “sentito dire”; ci doveva essere una prova diretta, cioè di prima mano. Ecco perché il testo precisa:

Allora quegli uomini accorsero in fretta e trovarono Daniele che pregava e invocava il suo Dio (v. 11).

Avuta la prova in mano, gli accusatori di Daniele, possono subito correre dal re, per annunciargli che Daniele si rendeva colpevole. Pur essendo quello lo scopo di correre in fretta dal monarca, non fecero subito il nome dall’accusato, ma vollero accertarsi, se il regnante teneva in mente il decreto del divieto che aveva firmato.

Poi si recarono dal re e gli ricordarono il divieto reale: «Non hai tu decretato che chiunque per un periodo di trenta giorni farà una richiesta a qualsiasi dio o uomo tranne che a te, o re, sia gettato nella fossa dei leoni?» Il re rispose e disse: «Così ho stabilito secondo la legge dei Medi e dei Persiani, che è irrevocabile» (v. 12).

Avuta la certezza che non è avvenuto alcun ripensamento da parte del re, circa il divieto, gli accusatori di Daniele, possono parlare liberamente e fare il nome del trasgressore. A sentire che Daniele aveva trasgredito il divieto, Dario che non aveva avuto il minimo sospetto che il decreto propostogli, mirava a colpire il suo stimato ed apprezzato funzionario, in un primo momento sì addolorò, e in secondo tempo si mise in animo di liberare Daniele e fino al tramonto del sole fece di tutto per salvarlo. Però, visto che il suo tentativo non andò in porto, per l’incalzare deciso e insistente degli accusatori, Dario, a malincuore, fu costretto ad ordinare che Daniele venisse gettato nella fossa dei leoni.

d) Daniele nella fossa dei leoni e la sua liberazione


Prima che Daniele venisse consegnato nelle mani di chi l’avrebbe gettato nella fossa dei leoni, il re parlò a Daniele e gli disse: «Il tuo Dio, che tu servi con perseveranza, sarà lui a liberarti».

La pietra che venne messa sull’apertura della fossa e il sigillo reale che venne apposto, erano la garanzia, che nulla fosse mutato riguardo a Daniele.
Poiché Dario era profondamente addolorato per la sorte che era toccata a Daniele, ritornando nel suo palazzo, digiunò tutta la nottata; non fece venire nessuna delle sue concubine e non riuscì a dormire.

La mattina quando si alzò, invece di pensare ad altre cose, corse alla fossa dei leoni, per vedere se l’Iddio di Daniele, l’aveva salvato dai leoni. Nonostante che la sera prima avesse detto a Daniele che il suo Dio avrebbe pensato a liberarlo, appena si trova nelle vicinanze della fossa, a gran voce chiamò Daniele, per sapere se veramente il suo Dio lo aveva liberato dai leoni. È importante mettere in risalto che, prima ancora che il re avesse detto altre parole, definì Daniele servo del Dio vivente!

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